La strage dei giornalisti: le storie di Hajjii e Shamel

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venerdì 30 settembre 2016, 15:30
La strage dei giornalisti: le storie di Hajjii e Shamel
Un 2016 ancora tragico per i reporter in tutto il mondo. Ecco due racconti particolari
di Pino Scaccia
Alla fine del nono mese dell’anno, è già stata superata quota cento. Una nuova strage. Sono saliti infatti a 101 i
reporter morti nel 2016. I Paesi più pericolosi al momento risultano Iraq, Siria e Messico con undici vittime,
seguiti dall’Afghanistan con dieci e poi da Yemen (otto), Pakistan, India e Guatemala (sei), Turchia (cinque) e
Brasile (quattro). Tutti i continenti sono rappresentati, segno che i testimoni danno fastidio, in tutto il mondo, come annoto
dolorosamente in un dossier, aggiornato in tempo reale. Fra le storie da raccontare oggi ne ho scelte due, una di una guerra
dimenticata come la Somalia, e l‘altra ancora in prima pagina com’è quella in Siria. A Mogadiscio è stato ucciso pochi giorni
fa Abdulaziz Mohamed Ali. Tutti lo chiamavano Hajji: «Era la voce dei senza voce, a cominciare dagli sfollati, che serviva
con il suo lavoro e il suo talento», così lo hanno ricordato i colleghi, affranti. Si trovava in un bar, al centro. A ucciderlo un
commando di due persone, in motocicletta. La Somalia sta provando a risollevarsi dopo un conflitto civile che dura da più di
vent’anni, ma Al Shabaab, gruppo islamista in lotta contro il governo e i peacekeeper dell’Unione Africana, non vuole la
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/la-strage-dei-giornalisti-le-storie-di-hajjii-e-shamel/
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pace, ma solo sangue. Hajjii è il tredicesimo giornalista di 'Radio Shabelle' assassinato. Anni fa ho visitato quella
radio, ho visto i loro studi, ho parlato a lungo con i direttori. Erano onorati di ricevere ospiti italiani (ancora voglia d’Italia). Gli
ho chiesto come si può fare il giornalista a Mogadiscio. Hanno risposto sicuri, tracciando programmi e progetti. Poi ho chiesto
ancora: ma si può essere liberi di fare i giornalisti in Somalia? Non hanno capito la domanda, e mi hanno offerto Coca Cola.
Forse c’era anche lui. Shamel Al Ahmad era invece un fotografo siriano, il 2 settembre è morto ad Aleppo, la sua città. «A
volte sono depresso e deluso, e altre volte perdo la speranza. Trascorro del tempo con i miei amici e fratelli rivoluzionari che
sono la mia speranza e la fonte della mia forza. Mesi fa mi hanno proposto di partecipare a un viaggio in barca verso
l'Europa. Ne abbiamo parlato molte volte e stavo per accettare, ma alla fine ho detto di no. La Siria è il mio Paese e la mia
causa», aveva scritto in una lettera pubblicata ora da 'Human of Aleppo'. Shamel aveva 35 anni, alto e robusto era un
fotografo molto conosciuto, un giornalista e attivista che ha deciso di rimanere e usare il suo talento per
combattere sia contro il regime di Assad che contro l’Isis. Due settimane fa è in casa con la moglie. Una bomba, una
delle solite e tante sganciate senza badare a spese, e l’abitazione prende fuoco. Feriti, i due vengono accompagnati in uno
degli ospedali che il regime non ha ancora distrutto. Lei entra in coma. Pochi giorni dopo da alla luce la bambina che porta in
grembo e muore. Stremato e ignaro della morte dell'amata, Shamel abbandona questa vita quattro giorni dopo. A quella
bambina viene dato il nome di Tala ma né il padre né la madre l’hanno mai conosciuta. Nasce orfana, insieme ai due
fratellini, due e cinque anni, in un mondo in rovina. «Non è possibile rischiare la vita dei miei figli in un momento così fatale,
loro sono tutto quello che ho in questo mondo», aveva anche scritto. Il suo testamento.
di Pino Scaccia
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