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Russia, gli hacker e i timori dell’Europa | 1
venerdì 13 gennaio 2017, 18:30
Russia, gli hacker e i timori dell’Europa
Una vicenda che incide sull'avvio della presidenza Trump e sui rapporti già deteriorati con Mosca
di Gianluca Pastori
La vicenda dell’‘hackergate’ statunitense e le ricadute che essa sta avendo sul sistema politico, nel mondo dei
media e sulla comunità dell’intelligence, il tutto a pochi giorni dall’insediamento del nuovo inquilino della Casa Bianca,
mette in luce in modo chiaro la vulnerabilità di fondo dei sistemi informativi di molti Paesi occidentali e
l’efficacia che può avere una strategia capace di sfruttare tale vulnerabilità. Al di là degli esiti che ha avuto
l’indagine promossa dall’amministrazione Obama sulle presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali dello scorso
anno (indagine cui sono state mosse varie critiche), il sospetto di ingerenze esterne nel processo elettorale
rappresenta un nuovo, pesante handicap per un Presidente che già gode di scarso favore sia presso la stampa,
sia presso l’opinione pubblica, sia presso quello che, teoricamente, dovrebbe essere il suo partito di
riferimento al Congresso. Le implicazioni di questo stato di cose sono di non poco momento e potrebbero influire
negativamente su quel ‘reset’ dei rapporti con la Russia che della politica estera dell’incipiente amministrazione Trump
rappresenta – sinora – il vero ‘pezzo pregiato’. Già altre volte, nel passato, il governo di Mosca è stato indicato
come il responsabile di attacchi informatici, in particolare in Paesi del c.d. ‘estero vicino’, quali Estonia (2007), Georgia
(2008, in occasione della crisi in Abkhazia e in Ossezia meridionale) e Ucraina (2014). Responsabilità russe sono state
ipotizzate anche nel caso degli attacchi avvenuti contro i sistemi statunitensi fra il 2015 e il 2016. La Russia è stata indicata
da Berlino e da Parigi come la mente dietro gli attacchi subiti alla fine dello scorso anno dalla missione di monitoraggio
dell’OSCE operante in Ucraina dal marzo 2014. Il governo tedesco ha inoltre ipotizzato attività di hackeraggio russo a danno
del Bundestag e da più parti sono state espresse preoccupazioni per possibili ingerenza nelle elezioni federali del prossimo
anno. Anche in seguito all’indagine statunitense, gli ultimi tempi hanno visto crescere in tutta Europa il timore
della possibile influenza di Mosca sui processi decisionali interni. Da ultima la Svezia (Paese neutrale ma che nel
corso del 2016 si è avvicinata parecchio all’Alleanza Atlantica) ha attribuito alla Russia l’intenzione di condurre ‘una
campagna coordinata per influenzare l’opinione pubblica e il processo decisionale … a pochi mesi dalle [elezioni] legislative’.
Accertare le concrete responsabilità della Russia nelle attività che le sono imputate risulta, tuttavia,
problematico e proprio questo fatto costituisce il punto di forza della strategia portata avanti dal Cremlino.
Come osservato in diverse sedi, Mosca ha sviluppato, negli anni, un’efficace strategia di comunicazione e di influenza,
basata anche sulla capacità di valorizzare le molte ‘zone grigie’ della sua azione internazionale. Questa strategia si articola
su vari elementi, che spaziano dalla tradizionale public diplomacy, condotta da una lunga serie di testate e siti Internet più o
meno organici alla leadership del Paese, a quelli che le autorità svedesi hanno indicato (con un’espressione ripresa dalla
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/russia-gli-hacker-e-i-timori-delleuropa/
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‘vecchia’ terminologia del KGB) come ‘metodi attivi’, tesi a influire in maniera diretta o indiretta sulla vita pubblica del
Paese-bersaglio. Da questo punto di vista, l’attività di hacking si colloca all’interno di un continuum che dalla
propaganda più o meno esplicita conduce alla disinformazione e alla diffusione ‘controllata’ di indiscrezioni e/o
false notizie, al sostegno offerto alle forze politiche e agli influencer che più appaiono adatte a portare avanti
l’agenda russa. Il ricorso a questo insieme di strumenti non rappresenta, in sé, una novità; né si tratta di una
peculiarità dell’attuale politica russa. Negli anni passati, l’amministrazione Obama si è trovata in più occasioni
coinvolta in vicende di hackeraggio, a partire dal ‘datagate’ del 2013; egualmente, le letteratura ha ampiamente
evidenziato i legami esistenti fra le strategie oggi utilizzate dalla Russia e gli strumenti messi a punto negli anni della guerra
fredda dalle autorità sovietiche. Nemmeno la scala su cui questa strategia si esprime è, in sé, nuova o peculiare. Ciò che
appare significativo è, piuttosto, la sua efficacia, oltre ai limiti che l’‘Occidente’ sembra incontrare
nell’elaborare risposte egualmente efficaci. Il fatto che, secondo alcuni osservatori, si stia assistendo a uno
spostamento dell’azione russa dalla sfera della public diplomacy (per quanto ‘spinta’) a quella dei ‘metodi attivi’ è un altro
elemento degno di nota. Anche in questo campo, i timori maggiori sono stati espressi dai Paesi più prossimi alla sfera
d’interesse di Mosca, in particolare in Europa centro-settentrionale. Un fatto, questo, che insieme alla crescente
militarizzazione della regione e all’avvicinamento alla NATO dei Paesi scandinavi, rischia di tradursi in nuovi e preoccupanti
motivi di tensione.
di Gianluca Pastori
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