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Il peso degli Stati Uniti in Siria | 1
mercoledì 30 novembre 2016, 18:00
Possibili sviluppi in Medio Oriente
Il peso degli Stati Uniti in Siria
Cosa potrebbe accadere in caso di una rinuncia americana al teatro siriano
di Luigi A. Ottoni
Il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha un idea nettamente diversa dal suo predecessore
Barack Obama circa il ruolo del Paese nordamericano in Medio Oriente e questo il neoeletto alla Casa Bianca non manca
mai di farlo notare all’opinione pubblica. Se anche per l’irriducibile avversaria nelle scorse elezioni, Hillary Clinton, la
priorità statunitense in Asia era quella di abbattere definitivamente il regime siriano di Assad, il miliardario
repubblicano non sembra voler adottare una politica così aggressiva nei confronti della fazione sciita
filogovernativa e filorussa. È al momento davvero difficile prevedere le future mosse degli Stati Uniti nel Medio
Oriente, in quanto se da una parte Trump si avvicina ad un pensiero politico isolazionista e anti iraniano, dall’altra parte
i suoi discorsi sono tesi a creare una certa distensione con i principali alleati dello stesso Iran (Russia e Siria). Sembra
difficile immaginare un possibile, futuro scenario siriano nel quale Stati Uniti e Russia combattono fianco a fianco contro i
ribelli: in passato gli USA si sono difatti troppo esposti in favore dei miliziani anti-Assad, tra i quali spiccano anche
i Curdi, che esercitano una certa influenza politica anche nel vicino Iraq. In un tale contesto, l’America dovrebbe
impegnarsi a riscrivere pressoché da capo la propria politica estera. L’ipotesi più probabile potrebbe essere allora
quella che vedrebbe gli Stati Uniti e la Russia raggiungere un accordo che delimiti le aree di influenza americana
e quelle di influenza russa: una tale zona, già delineata nel corso delle trattative estive, parrebbe essere demarcata dal
fiume Eufrate, che potrebbe dividere l’area di operazione russa da quella della Casa Bianca. In seguito alle ultime vicende
politiche, si fa strada una ulteriore ipotesi, la quale, sebbene non sia la più probabile, potrebbe sempre verificarsi: gli
Stati Uniti potrebbero rinunciare alle attività militari in Siria per concentrarsi esclusivamente sul teatro
iracheno, che coinvolge di più le forze di Washington. Se gli Stati Uniti lasciassero il Paese, logicamente Assad avrebbe
molte più possibilità di ultimare la riunificazione siriana sotto il suo governo, tuttavia, anche in questo caso, non sarebbe
comunque facile per la fazione sciita siriana sconfiggere definitivamente le parti rivali. Assad, sebbene disponga
di un certo numero di mezzi corazzati, sia appoggiato dalle forze aeronavali di Mosca, nonché sia affiancato da combattenti
iraniani e libanesi (Hezbollah) ben equipaggiati, non possiede ancora il pieno controllo di vastissimi territori, dove la
guerriglia colpisce e indebolisce le forze governative, impegnandole in scaramucce e in servizi di controllo sul terreno.
Questa emorragia di forze causerebbe il consequenziale rallentamento delle operazioni di conquista del
territorio da parte delle forze siriane, che si ritroverebbero ancora una volta impantanate in ogni singola città presieduta dai
ribelli. Da questo punto di vista, la guerriglia rivela il suo lato più insidioso (e vantaggioso per chi la pratica): l’enorme
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/peso-degli-stati-uniti-siria/
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potere di ammortizzare e fiaccare anche forze sensibilmente superiori numericamente e tecnologicamente. Se
gli Stati Uniti decidessero di far venir meno il proprio sostegno ai ribelli siriani, poi sarebbe comunque difficile per Assad
convincere la Turchia a rispettare la sovranità del regime sul territorio; i Turchi, infatti, tentano di sostituire il
leader siriano con un Governo più disponibile nei confronti dei desideri di Ankara. La Turchia, per Assad, si rivelerebbe
un ostacolo davvero arduo da superare. Non basta più al dittatore siriano poter brindare ad una possibile, prossima
vittoria ad Aleppo, poiché davanti ai carri siriani sono ancora schierate decine di milizie, supportate dalla Turchia, dai Curdi e
(per il momento) ancora dagli Stati Uniti. Con forze inferiori numericamente, il regime di Damasco non riuscirà
certo rapidamente a conseguire un definitivo successo strategico in Siria. Le oggettive difficoltà di riunificare il
Paese sotto la bandiera damascena, d’altra parte, non significano che il possibile abbandono statunitense del teatro siriano
non modificherà in alcun modo gli attuali equilibri; al contrario, ogni singolo attore del conflitto si ritroverebbe a
dover rivalutare i propri obiettivi, le proprie speranze e le proprie strategie. I ribelli che fin’ora hanno goduto
della protezione, della formazione e del supporto statunitense non potranno più sperare in una vittoria militare
contro le preponderanti forze del regime: per tale motivo, l’unica speranza di sopravvivenza di queste milizie sarebbe quella
di raggiungere le regioni più remote del Paese, per poi riunirsi in piccole alleanze che tentino di minare l’avanzata di Assad
al fine di ottenere un accordo con il leader siriano. La Turchia avrebbe ormai terreno libero per avanzare ai danni dei Curdi,
che si ritroverebbero schiacciati tra l’incudine di Assad e il maglio di Ankara. L’appartenenza alla NATO e la
disponibilità a contrattare con i Russi, garantirebbe alla Turchia un ruolo importante negli equilibri di tutto il
Medio Oriente. In una tale prospettiva, realizzabile solo se gli Stati Uniti non coltivassero più interessi in Siria, gli ordini e
le alleanze andrebbero a rimescolarsi in modo quasi caotico. Del resto il Presidente Donald Trump non ha ancora
espresso una chiara intenzione sugli sviluppi nello scenario siriano. Il tempo rivelerà quanti dei progetti della Casa
Bianca siano basati su attente valutazioni e quante siano frutto della retorica americana.
di Luigi A. Ottoni
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