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I kamikaze del lavoro | 1
giovedì 26 gennaio 2017, 18:30
In ufficio fino alla fine
I kamikaze del lavoro
Produrre fino a morire nel Giappone di oggi
di Damiano Crestani
Morire sul posto di lavoro: Karōshi. È questa la parola che in Giappone, a partire dagli anni Ottanta, si trova al centro di
polemiche, dibattiti politici e sociali, nonché protagonista ordinario di notiziari e programmi di attualità. Non si tratta di una
morte bianca, poiché con gli incidenti non ha nulla a che fare: karōshi è la cosiddetta ‘morte da troppo lavoro’. Il
mondo lavorativo giapponese è complesso e spesso incomprensibile agli occhi degli occidentali. Esso presenta diverse
peculiarità, in particolare la rigidissima gerarchia, la devozione dei dipendenti nei confronti dell’azienda e gli straordinari.
Sono proprio questi ultimi a costituire la causa principale della morte da troppo lavoro: nei casi più estremi arrivano a
superare le 100 ore settimanali. Troppo lavoro straordinario (a volte nemmeno pagato) porta il fisico dell’impiegato ad
un collasso totale, spesso improvviso, che termina con la cessazione del battito cardiaco direttamente in ufficio, di
fronte ai propri colleghi. Da questo tipo di decesso va invece distinto il ‘suicidio da troppo lavoro’, quello che viene
definito Karōjisatsu. In una Nazione che ogni giorno vede circa una settantina dei suoi cittadini togliersi la vita,
quello causato dal troppo lavoro è l’unico che fa notizia e scuote la società giapponese (lo scorso 2015 i suicidi
sono scesi sotto la soglia dei 25.000 per la prima volta dopo 18 anni). Sotto accusa ricadono le aziende stesse, che
raggiungono, così, il top nelle classifiche delle Black Corporations: così vengono comunemente chiamate le società dove si
lavora a ritmi disumani. Ma cosa spinge gli impiegati ad andare incontro alla morte lavorando fino alla fine? Le cause sono
principalmente di ragione sociale, se non morale: in Giappone vige la cosiddetta ‘cultura della vergogna’, una
peculiarità di alcuni paesi estremo-orientali che consiste, appunto, nel senso di vergogna che l’individuo prova nei suoi stessi
confronti dinanzi alla comunità. Applicando ciò al contesto lavorativo, se alcuni colleghi (specialmente nel caso si tratti di
superiori) rimangono a svolgere del lavoro straordinario oltre l’orario di chiusura, lasciare l’ufficio per primi risulterà
estremamente imbarazzante. Non si parla di apparire menefreghisti agli occhi degli altri, quanto di un sentimento
completamente rivolto verso se stessi, quasi un rimprovero verso la propria debolezza. Nel Giappone moderno, dove
ogni concetto è codificato e standardizzato, quello di ‘mettercela tutta’ è un vero e proprio mantra quotidiano:
piuttosto che augurare una dose di fortuna come è uso in Occidente, si incita il prossimo ad impegnarsi ed a fare del proprio
meglio. L’impegno e la forza di volontà sono parte fondamentale dei valori dell’impiegato giapponese. Arrendersi è,
quindi, inconcepibile e in questo caso ancora peggio che morire. Rivisitato dalla società nazionalista degli anni ’30 e
’40 dello scorso secolo, questo antico principio samurai permise al Giappone di resistere alle più sviluppate potenze coloniali
europee, riuscendo così ad evitare il destino toccato ad alcuni dei suoi vicini (pensiamo alle Filippine sotto il dominio
spagnolo, o alle guerre dell’oppio scatenate dall’Impero Britannico nell’attuale Cina). Durante il secondo conflitto mondiale,
questo senso di sforzo estremo in campo economico e militare permise al piccolo arcipelago di compensare la scarsità di
risorse naturali e di sollevarsi al di sopra degli altri Paesi asiatici, arrivando a dare del filo da torcere persino agli Stati Uniti.
Lo sforzo produttivo sopravvisse al conflitto e sfociò nel boom dell’economia nipponica degli anni Sessanta e Settanta,
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/kamikaze-del-lavoro/
L'Indro è un quotidiano registrato al Tribunale di Torino, n° 11 del 02.03.2012, edito da L'Indro S.r.l.
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portando una nazione occupata e in ginocchio a divenire la seconda potenza economica mondiale in breve tempo. In poche
parole, l’enorme produttività di questa nazione scarsa di materie prime è data dall’ingente quantità di lavoro
straordinario che, per un forte senso di impegno collettivo, va svolto fino alla fine. Il problema nasce quando, prima del
lavoro, a finire è proprio la vita dell’impiegato: una questione che non vede come protagonista solo il Giappone ma
anche i vicini Taiwan e Corea del Sud, diventati indipendenti dall’Impero del Sol Levante con la fine della guerra. Questi
hanno preso come modello per la propria crescita economica proprio la vecchia potenza occupante e si trovano oggi a fare i
conti con la medesima situazione, anche se con numeri leggermente minori (circa 80 casi annui a Taiwan, 84 in Corea del
Sud). In risposta alla problematica, i governi di queste nazioni hanno varato di recente alcuni emendamenti secondo cui le
aziende sono da ora costrette a garantire i due giorni di riposo settimanali. Sono poi stati regolati i giorni di ferie che
spettano a ciascun impiegato, con particolare attenzione al rapporto tra questi e la propria presenza in azienda in ordine di
anni. Le aziende che non rispettano tali regolamentazioni sono soggette a sovvenzioni da parte dello Stato. Il Giappone non
è da meno: lo scorso 2014 il governo di Shinzō Abe ha emanato una legge per la compilazione annuale di un
documento in cui rendere pubblici i nomi delle aziende dove si lavora troppo. A far scattare la denuncia è il numero
di ore di lavoro straordinario, soglia scesa da 100 a 80 ore nel 2016. Grazie alla nuova legge i dipendenti si impegnano a
rispettare maggiormente l’orario d’ufficio, cercando di non far finire il nome della propria compagnia nella lista del governo
per non abbassarne l’onore. Questo, infatti, il punto su cui la legge fa pressione, valore ancora di massima importanza nel
Giappone odierno. Il documento del governo comprende anche il numero ufficiale di Karōshi: nel 2014 sono stati 93 i casi
di collasso fisico e 96 i suicidi, anche se nel caso di questi ultimi sono stati più di 2000 quelli da ricondurre a pressioni in
campo lavorativo. Il documento mostra, inoltre, che le vittime da fatica estrema sono in genere lavoratori di mezza età. A
scegliere il suicidio sono invece i più giovani, di età compresa tra i 20 e i 40 anni. È stata proprio una ventiquattrenne
l’ultima vittima degli eccessivi ritmi di lavoro a scuotere di netto l’opinione pubblica: Matsuri Takahashi era da nove mesi
impiegata presso una grande agenzia pubblicitaria nipponica, ora sotto richiesta di risarcimento da parte della famiglia della
vittima. Se le politiche di Abe hanno portato a una discreta diminuzione della quantità di lavoro straordinario tra le aziende
giapponesi, nessun dato di miglioramento è ancora stato percepito per quanto riguarda le morti da troppo
lavoro. Resta quindi da chiedersi se la situazione è destinata ad evolvere o meno: mettendo da parte manovre politiche e
sociali, ciò a cui si assiste oggi è un lento ma costante cambio di direzione nel pensiero giovanile. In una società sempre più
globalizzata, i giovani giapponesi stanno adottando con frequenza sempre maggiore i principi dell’Occidente
individualista, mentre tralasciano gradualmente il senso di comunità che contraddistingue molti popoli asiatici come il loro.
Un segno del cambiamento è dato dalla crescente attenzione che i laureandi in cerca di lavoro danno al numero di giorni di
ferie pagate e alla quantità di lavoro straordinario. Non stupisce, infatti, che moltissimi annunci sui siti di impiego
contengano informazioni a riguardo già nel titolo. Inoltre, se la propensione della generazione precedente è quella di
rimanere nella stessa azienda fino alla pensione, i giovani di oggi tendono ad gettare la spugna entro i primi due
anni di lavoro, qualora non si sentano a proprio agio professionalmente. Grazie a questo cambiamento sociale in
atto viene naturale pensare che il numero dei giovani nelle statistiche dei suicidi sia destinato a calare. Ciò nonostante è
probabile che Abe e le amministrazioni future si muoveranno ulteriormente al fine di eliminare, o quanto meno per arginare,
il problema.
di Damiano Crestani
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