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commentary Commentary, 21 febbraio 2017 IL NO DI TRUMP AL TPP, UNA TATTICA SENZA STRATEGIA ALESSIA AMIGHINI C ome se i tavoli delle negoziazioni sui trattati di libero scambio e investimento non fossero già da tempo abbastanza affollati e confusi, il risultato delle presidenziali americane ha nuovamente scompaginato le carte. Ritirata senza indugi da Trump l’adesione al Tpp (Partenariato Trans-Pacifico), la cui formalizzazione aveva richiesto dieci anni d'impegno politico della stessa amministrazione statunitense per raggiungere un accordo ambizioso, senza pari né precedenti nella storia del multilateralismo, tra 12 paesi affacciati sul Pacifico, pari al 40% del Pil mondiale. Criticato il Nafta (Accordo nordamericano per il libero scambio), che dal 1994 ha tolto i dazi e favorito una crescente integrazione economica tra Stati Uniti, Canada e Messico, a favore dei grandi agricoltori latifondisti, generosamente sussidiati dall’accordo, e delle grandi multinazionali statunitensi e canadesi che hanno beneficiato per oltre 20 anni della conveniente maquiladora messicana. Messa in discussione la partecipazione stessa degli Stati Uniti all’attuale sistema multilaterale degli scambi. ©ISPI2017 In tutto ciò, la percezione e la posizione statunitense nei confronti della Cina – considerata la principale origine dei mali (monetari e commerciali) statunitensi – sono tutt’altro che chiare. A circa un decennio dal suo ingresso nell’Omc, il Tpp aveva già sparigliato i mazzi concretizzando la strategia di Obama del contenimento della crescita cinese in modo strutturato e dirompente. Infatti, esso escludeva la Cina da un accordo che si prefiggeva d'innalzare gli standard qualitativi dei commerci dell’area del Pacifico, oggi centro di gravità del commercio internazionale (che rappresenta oltre il 50% degli scambi globali), escludendone però la Cina che di tali commerci rappresenta poco meno di un terzo (precisamente il 27,4% nel 2015). Il Tpp avrebbe davvero messo la Cina in una posizione difficile, tant’è che aveva ispirato la strategia cinese a progettare in pompa magna la costruzione delle cosiddette Nuove Vie della Seta (One-Belt-One-Road), annunciate nel 2013 come tentativo d'intensificare i legami economici e politici con l’Asia centrale e meridionale e con l’Europa. Inoltre, il Tpp era riuscito per primo a ottenere molte concessioni, in termini di miglioramento dell’accesso al suo mercato interno, dal Giappone, allettato dalla funzione cuscinetto anti-cinese dell’accordo. Oggi, il ritiro dal Tpp, venduto agli americani come la prova che il loro presidente mantiene le promesse elettorali, apre invece davvero le porte alla dominanza economica della Cina nel Pacifico, mentre la minaccia di ridurre gli scambi con la Cina non è economicamente credibile né politicamente sostenibile, Alessia Amighini, ISPI Senior Associate Research Fellow e Università del Piemonte Orientale 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI. Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. commentary poiché dalle importazioni convenienti di beni cinesi dipende il consumo nei grandi magazzini di molte famiglie americane. menti e della domanda. Rimettersi oggi a produrre abbigliamento ed elettrodomestici come prima degli anni Novanta per creare opportunità di impiego per i disoccupati statunitensi poco qualificati non è di certo una via efficiente. Potrebbe invece essere una semplice tattica mediatica per riaffermare internamente e a livello internazionale il ruolo centrale degli Stati Uniti nell’economia mondiale, ma in tal caso non terrebbe conto delle conseguenze concrete di una reazione cinese, che invece dispone di potenti mezzi finanziari nella misura di migliaia di miliardi di titoli del debito pubblico statunitense, che Pechino potrebbe decidere di vendere in parte, facendo salire il costo del debito per Washington. È questo lo scenario più preoccupante, quello di una tattica senza strategia, che equivale, nelle famose parole del filosofo e stratega militare cinese Sun Tzu, alla confusione prima della sconfitta. ©ISPI2017 Quale logica possa esserci in questa ritirata affrettata dalla globalizzazione non è chiaro. Se fosse una strategia ordinata e determinata di ripensamento della posizione statunitense nella divisione internazionale del lavoro, a favore di un crescente rientro in casa della manifattura e dei posti di lavoro nelle fasi a minor valore aggiunto delle filiere (che la globalizzazione ha portato nei paesi con abbondanza di lavoro poco qualificato e quindi poco remunerato), allora Trump metterebbe in atto una visione della sua "America First" che rinnega alcuni dei motori principali della crescita americana degli ultimi 30 anni: forte specializzazione nei settori high-tech, nell’innovazione e nella conoscenza, con un aumento della produttività, dei profitti, dei salari, degli investi- 2