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12 gennaio 2017 delle ore 00:12
Un enigma, e un talento, di nome Artemisia
Anna de Fazio Siciliano
Palazzo Braschi dedica una retrospettiva a questa artista le cui vicende personali hanno messo in
ombra l’abilità pittorica. Che sia l’occasione per dare onore al merito?
Nonostante nell’arco di quasi trent’anni
(1606-35) Artemisia Gentileschi abbia conquistato
gli spazi delle élite di tutta Italia, l’importanza
della sua pittura dotata di grande capacità
espressiva, appariva fino a poco tempo fa
ancora a tratti ridimensionata e il suo ruolo
relegato a caravaggista o semplice alter ego del
padre pittore Orazio. La mostra "Artemisia
Gentileschi e il suo tempo”, scientificamente
impeccabile, nasce con l’ambizione di
dimostrare come superando i pregiudizi storici
e i cliché maschilisti sulla sua biografia, nulla,
neppure una passata lettura troppo femminista
è riuscita a incrinare il suo prestigio
internazionale di artista libera (viaggia, scrive
lettere al suo amante, stringe amicizie notevoli
come Galilei). La vasta retrospettiva riporta a
Roma, dopo la doppia col padre del 2001 e dopo
quella fiorentina, la grande pittura di Artemisia
Gentileschi e vede la pittrice protagonista
assoluta dell’arte del suo tempo.
Tra le sale di Palazzo Braschi fino al 7 maggio,
sono esposti oltre novanta tra i maggiori
capolavori del tempo con lo scopo di
evidenziare tramite decine di paralleli con le
opere dei colleghi, quanto l’influenza della
Gentileschi sia stata radicale nell’arte del ‘600
e viceversa. Tant’è che il raggio d’azione del
suo genio si estende in tutto il territorio italiano:
Roma, Firenze, Napoli, in parte Venezia e anche
Londra. Curata da Nicola Spinosa per la sezione
napoletana, da Francesca Baldassari per la
sezione fiorentina e da Judith Mann per quella
romana, l’esposizione riaccende i riflettori sulla
pittura di una donna forse considerata ancora
troppo scomoda, perché la sua presenza apre
temi oggi tanto scottanti come i pregiudizi
sessisti e la violenza di genere. Artemisia risulta
quindi ancora un personaggio oltremodo
controverso della storia dell’arte, nonostante sia
stata la prima donna nella storia ad essere
accolta nella prestigiosa Accademia del
disegno. Se è per l’appartenenza al gentil sesso
o per il peso eccessivo attribuito al fatto che ha
segnato la sua vita, non è dato saperlo ma
senz’altro il taglio di prospettiva finora
assegnato, ha ridotto la sua pittura a pura
appendice, dando eccessivo rilievo alla
violenza subita. In parte è anche colpa dei
romanzi che ne hanno esasperato il lato
femminile, colorando la sua biografia. Anche
se Longhi già nel 1919 aveva tentato di
recuperarne il talento come artista, Artemisia è
ancora conosciuta al grande pubblico non per
la sua pittura vigorosa ma per le tumultuose
vicissitudini personali. Nulla è valso a scalfire
finora la sua immagine di donna vendicatrice,
femme fatale, neppure il resoconto morbosamente
dettagliato del processo intentato dal padre al
suo tracotante collaboratore, Agostino Tassi.
Oggi finalmente, anche alla luce di una rilettura
più attenta delle fonti e della maggiore
vicinanza al tema femminile, si è operata una
revisione storica all’interno della quale il ruolo
di Artemisia è stato ricollocato tra i grandi che
fecero grande la pittura del XVII secolo. Allora
ecco le ragioni per cui la mostra romana si
presenta davvero stupefacente. Sia per il
numero di prestiti che sul piano dei confronti,
benché manchi il parallelo con l’opera
proveniente da Capodimonte la Giuditta che
taglia la testa a Oloferne di Caravaggio (rifiuto
che ha sollevato giustamente qualche polemica)
sono però presenti Susanna e i Vecchioni da
Pommersfelden, la Danae dal Saint Louis Art
Museum (è ancora incerta l’attribuzione), Ester
e Assuero del Metropolitan Museum di New
York, l’Autoritratto come suonatrice di liuto dal
Connecticut, circa una trentina di opere firmate
(non sempre di altissima qualità) da Artemisia
accanto a quelle di Guido Cagnacci, Simon
Vouet, Giovanni Baglione, fonti di ispirazione
per la pittrice, ma anche la Giuditta di
Cristofano Allori della Galleria Palatina di
Palazzo Pitti, oltre a splendidi Ribera,
Caracciolo, Saraceni, Cigoli.
Il viaggio di Artemisia tramite mirabili
confronti, suddiviso in tre fasi, dagli esordi
romani alla fase napoletana passando per la
permanenza fiorentina, racconta la lunga
parabola artistica di una donna la cui vita anche
quella artistica non fu certamente semplice. Il
momento storico in cui visse, l’Europa del
Seicento, non era il contesto più adatto per fare
emergere la sua personalità. Tuttavia, a dispetto
di tutto ciò, è riuscita a dominarne in modo
esemplare la scena artistica. Senza avere dalla
sua parte un uomo, le nozze "riparatrici” con
Antonio Stiattesi non durarono a lungo, il
viaggio si conclude a Napoli dove morirà sola
nel 1653, come sola in fondo aveva vissuto. Ma
il suo faro non smette di brillare, così come la
sua traccia luminosa ha lasciato perfino a un
asteroide e a un cratere il suo indimenticabile
nome. Un nome che per certi versi resta ancora
enigmatico, conteso com’è per la "maternità”
di alcuni quadri.
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