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Introduzione de: “Il Mondo secondo Trump”
di Paolo Magri
Dal 20 gennaio Donald Trump è il 45° presidente degli Stati Uniti.
È successo ciò che nessuno aveva previsto. Ma soprattutto nessuno sa prevedere cosa
succederà nei prossimi anni, che direzione prenderà la principale potenza mondiale. Con il
rischio reale che le incertezze e le insicurezze che hanno spinto milioni di americani a votare
per il miliardario outsider diventino ora l'elemento caratterizzante delle relazioni
internazionali di un mondo dove già da tempo prevalgono fattori di disordine.
L'incertezza nella transizione fra due presidenze non è certo una novità: dopo ogni elezione ci
interroghiamo su quanta e quale parte del fiume di parole speso nelle primarie e nei dibattiti
presidenziali troverà effettivo spazio nell'agenda di governo; su quali collaboratori – al di là
dei loro ruoli formali – influiranno maggiormente sulle decisioni del presidente eletto; sulle
correzioni di linea che verranno imposte dal Congresso, dalle varie lobby, dagli apparati dello
stato. Nelle precedenti transizioni l’incertezza per il cambio al vertice era però certamente più
contenuta, grazie ad alcuni fattori che venivano in nostro soccorso permettendo di limitare
dubbi e incertezze: ciò che il neo eletto aveva fatto in precedenti incarichi (governatore,
senatore, ecc.); le direttrici storiche del partito di appartenenza; la conoscenza dei profili e
delle posizioni, sui vari temi, del cerchio dei collaboratori più vicini e ascoltati.
Nessuno di questi elementi ci è invece d’aiuto in questa transizione: Trump non ha mai
ricoperto un incarico elettivo; ha sfidato apertamente buona parte dei pilastri dell’ortodossia
repubblicana e si è circondato di un limitato manipolo di fedelissimi i cui profili, soprattutto
in politica estera, non sono affatto utili per tentare di comporre una visione coerente di ciò
che potrebbe avvenire.
Da qui l’incertezza, da qui l’oscillare confuso fra due scenari estremi: quello che attribuisce
alla Presidenza Trump un ruolo di rottura radicale e quello che prevede invece semplici
aggiustamenti di tiro rispetto a una traiettoria peraltro già tracciata negli ultimi anni.
Secondo il primo scenario Trump, forte del controllo repubblicano sia della Camera che del
Senato, sarà in grado di attuare una parte significativa della sua piattaforma elettorale,
mettendo in discussione i principali pilastri dell’ordine liberale delineatosi dopo la seconda
guerra mondiale: il sostegno al libero commercio (con la cancellazione di accordi esistenti e il
blocco di quelli in corso di negoziazione) e un sistema di relazioni internazionali incentrato
sulla presenza e l’impegno USA in Europa, Asia e Medio Oriente (con un ridimensionamento
del ruolo della NATO e maggiori spazi di manovra per la Russia e alcune potenze regionali).
Lo scenario alternativo accredita invece un "Trump-presidente" significativamente diverso
dal "Trump-candidato" non tanto per la gravitas connessa con l’assunzione di ruolo, ma
soprattutto in virtù dei condizionamenti degli organi e degli apparati del sistema democratico
americano: le pressioni delle lobby, del Pentagono, della CIA e soprattutto del Congresso,
controllato sì dai repubblicani, ma da repubblicani non necessariamente allineati sulle
posizioni di un presidente che in molti ambiti sfida apertamente la linea storica del partito.
Nessuna rivoluzione dunque, per il prevalere di quelle che Fareed Zakaria definisce le "forze
d’inerzia" del sistema americano che “normalizzeranno anche Trump” e si tradurranno in
meno sanzioni alla Russia (magari con qualche alleanza tattica e di breve durata in chiave
anti Isis), qualche dazio in più ai prodotti cinesi (ma senza drastiche rotture con la seconda
potenza economica mondiale), qualche riluttanza in più a pagare i conti della NATO e una
prosecuzione in Medio Oriente del "leading from behind" inaugurato da Obama in Libia.
*****
Partendo da questi due scenari estremi i capitoli che compongono il volume cercano di
tratteggiare le traiettorie più probabili della Presidenza Trump negli ambiti di maggior
rilevanza: l'agenda interna; i rapporti con l’Europa, la Russia, l'Asia, l'America Latina e il
Medio Oriente; il commercio internazionale e il multilateralismo. Lo fanno iniziando dagli
slogan della campagna e dai tweet, dalla valutazione delle resistenze interne che talune
proposte potranno incontrare, dal profilo e dalle posizioni note dei nominati nelle prime file
dell’amministrazione e, infine, dalle possibili reazioni dei principali attori del sistema
internazionale alle nuove politiche USA.
Quale quadro è possibile delineare? A quali conclusioni possiamo giungere in questa fase
preliminare dove prevalgono ancora elementi d’incertezza?
 L’enfasi primaria sarà sull'agenda interna ("America first"), soprattutto sulla difesa dei
posti di lavoro degli americani. Sono quindi altamente probabili: misure per contrastare
l'afflusso o la permanenza di lavoratori irregolari; politiche di contrasto alla
delocalizzazione produttiva; la rinegoziazione di accordi commerciali (nei termini descritti
da Lucia Tajoli e Matteo Villa nel capitolo sul multilateralismo); un allentamento delle
normative sulla tutela ambientale, già evidente con la nomina di Scott Pruitt, convinto
negazionista del cambiamento climatico, a capo dell’agenzia di protezione ambientale.
Tutti temi affrontati anche da Mario Del Pero nel primo capitolo che si interroga fra l'altro
su cosa rimarrà dell'eredità di Obama in settori quali la sanità, i diritti civili, la
regolamentazione dell’immigrazione.
 In politica estera tenderà a prevalere un approccio jacksoniano, ovvero di un mondo visto
più come "arena di minacce" da contenere (terrorismo, immigrazione, conflitti) che come
"arena di opportunità" per diffondere l'ordine economico o i valori americani. Fra le
minacce, il contrasto al terrorismo giocherà probabilmente un ruolo di primo piano e
rischia di costituire il principale prisma di lettura di tutta la politica mediorientale,
abbandonando sia le velleità di diffusione della democrazia di George W. Bush sia quelle
di ricostruire un ordine regionale di Obama.
 Al concetto di pace onusiano – incentrato sulla legittimità del diritto – subentrerà in modo
marcato quello di “peace through strength”, già reso esplicito dalle numerose nomine
nell'Amministrazione di generali interventisti, dalle proposte d’incremento delle spese
militari, dall’annunciata disponibilità ad alleanze tattiche con paesi (Russia, Egitto,
Turchia) disponibili a contribuire con la loro forza a portare la pace e dalla simmetrica
insofferenza nei confronti di paesi (Europa in primis) restii a condividere i costi della
sicurezza.
 Sempre in politica estera prevarranno approcci tattici e "transactional" rispetto a tentativi
di elaborare politiche orientate a un sistema di valori o che aspirino a comporre una
strategia d'insieme coerente. Con decisioni dettate in taluni casi dal pragmatismo del
Trump "uomo d'affari”, in altri frutto dell’oggettiva inesperienza in politica estera del
presidente e del suo team che rende plausibile la previsione di un primo anno ricco di
imprevedibilità e passi falsi.
Con la Russia – di cui tratta Giancarlo Aragona nel suo contributo – Trump sarà il terzo
presidente a sperimentare il reset. Lo farà partendo da presupposti nuovi, ovvero dando
meno ascolto alle preoccupazioni dell'est europeo e facendo invece perno sulle comuni
visioni sul contrasto al terrorismo. Non potrà però prescindere dalle radicate diffidenze
antirusse di parte del suo partito e del Pentagono né sottovalutare il rischio di vedersi
assegnare da Putin un ruolo da junior partner in Europa e, soprattutto, in Medio Oriente.
La Cina – trattata da Alessandro Pio e Filippo Fasulo nel capitolo 4 – sarà il bersaglio
primario della retorica commerciale a sostegno dell’agenda interna. Le dure reazioni di
Pechino alle ripetute minacce d’introdurre pesanti dazi e alla telefonata post elezione tra
Trump e la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, lasciano intendere con chiarezza la
postura che adotterà la seconda economia mondiale e condizioneranno in modo
significativo le politiche americane nella regione dove si giocheranno i veri grandi giochi
dei prossimi anni.
In America Latina la campagna elettorale abrasiva di Trump (con insulti sprezzanti ai
latinos, provocazioni razziste e minacce di protezionismo commerciale) ha già
ricompattato in un fronte anti-Trump leader appartenenti a famiglie politiche agli antipodi
(dai populisti bolivariani agli ultrà liberisti). Ci sono tutte le premesse per un rigurgito di
antiamericanismo, peraltro mai sopito, che – come argomenta Loris Zanatta nel suo
capitolo – metterebbe in difficoltà proprio i governi meno ostili verso gli USA e che
tentano a fatica di chiudere l'epoca dei populismi, sostituendola con una incentrata sui
principi della democrazia liberale. L'importanza dell’America Latina per le imprese e la
finanza USA (e i timori per la crescente presenza cinese) lasciano però aperto uno scenario
dove i toni aspri delle dichiarazioni di Trump potrebbero servire soprattutto a celare i
limiti dei suoi spazi di manovra effettivi nel ridisegnare, sulla base della sua piattaforma
elettorale, i rapporti con la regione.
Lo scenario dove maggiormente i tatticismi, l'inesperienza e l'imprevedibilità verranno
messi a dura prova è però quello del Medio Oriente – oggetto del contributo di Armando
Sanguini e Annalisa Perteghella –, una regione dove i pochi frammenti di ordine degli
ultimi decenni poggiavano proprio sulla “prevedibilità” della politica statunitense e del suo
sistema di alleanze (peraltro già incrinate con la presidenza Obama). Una regione dove,
ancor più che in altri scacchieri, le conseguenze dirette o indirette di ogni decisione USA
(dall'abbandono dell'accordo iraniano, al riavvicinamento a Israele o all'Egitto di al-Sisi)
possono generare complessi effetti domino.
Come ha commentato in condizioni di anonimato un diplomatico inglese il giorno della
vittoria di Trump "il Medio Oriente è nel caos. Ha forse bisogno che qualcuno rimescoli
ulteriormente le acque?".