La Ue nel 2016: annus horribilis, ma molte le opportunità

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venerdì 30 dicembre 2016, 16:30
La Ue nel 2016: annus horribilis, ma molte le
opportunità
Beatrice Covassi ci parla delle nuove sfide per l'Ue: immigrazione, Brexit, terrorismo internazionale
di Massimiliano Nespola
Il 2016 è stato un annus horribilis per l'Europa, in quanto travagliato, intenso e ricco di momenti difficili. Sul tavolo,
infatti, vi sono stati molti aspetti di problematicità, ma al contempo numerose opportunità: dall'immigrazione al
terrorismo, dalla crescente presenza dell'Europa in politica estera alla Brexit, ecco qui in rassegna tutta una serie di elementi
di riflessione che possono dare un quadro esauriente, aggiornato ad oggi e delineare il futuro. A fornire un orientamento è il
nuovo capo della rappresentanza in Italia per la Commissione europea, la dott.ssa Beatrice Covassi, con cui abbiamo
discusso dell'agenda europea che si chiude adesso e di cosa ci aspetta per il 2017. Il 2016 per l'Europa si chiude in
maniera intensa: prima gli accordi contrastati con la Turchia, poi la Brexit, nel contesto della crisi che porta a
tassi di crescita tutto sommato modesti, considerati i 27 Stati membri. Come si può sintetizzare quest'anno? Il
2016 è stato un annus horribilis per l'Europa, perché, anche prima di arrivare alla Brexit, abbiamo avuto una forte ondata
terroristica, caratterizzata da attacchi, come a Bruxelles, Nizza, senza precedenti, quindi una escalation per quanto riguarda
il terrorismo internazionale. C'è stato comunque un forte impatto dell'immigrazione - non con numeri altissimi, per l'Italia si
parla di 170.000 nuovi ingressi, un incremento di poco rispetto all'anno passato, però con forti drammaticità - e poi
chiaramente la Brexit, uno dei dati più dirompenti per la politica europea, perché ci siamo ritrovati in un territorio
sconosciuto, non mappato ancora, di fronte al primo Stato membro che ha deciso di uscire dall'Unione. Da lì quindi si è
aperto un processo politico ancora in corso, quello di Bratislava, a 27, e al tempo stesso si è aperto un periodo di incertezza
in cui ci troviamo tuttora, perché la famosa notifica ai sensi dell'articolo 50 del Trattato sull'Unione europea non è arrivata e
quindi stiamo aspettando ancora di lanciare i negoziati. Quindi un anno di sicuro molto impegnativo, in cui l'Europa si è
trovata di fronte a delle sfide nuove, diverse da quelle degli anni passati. Quale potrebbe essere l'evoluzione futura
della questione immigrazione, fortemente connessa al conflitto siriano? Per quanto riguarda l'immigrazione, il dato
che riguarda la Siria è scatenante, ma non c'è solo la Siria: in Italia, la maggior parte dei profughi non sono siriani, la Siria ha
avuto un impatto, più che sulla rotta mediterranea, su quella greco-balcanica. Sull'immigrazione il discorso è più complesso
e purtroppo non si è comunicato abbastanza quanto l'Europa abbia cercato di mettere dei tasselli politici che mancavano.
Penso soprattutto al sistema degli hotspot: qui a Roma, ci sono quattro colleghi della DG HOME che fanno parte del sistema
hotspot Italia. Pochi lo sanno: è stata data una risposta ai bisogni del primo arrivo. Quest'anno sono stati messe sul tavolo le
proposte per la riforma di Dublino, il tassello dei Migration Compact con i paesi africani. Si tratta di tasselli rispetto alla
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politica migratoria che prima non esistevano, per avere un quadro più olistico, comprensivo delle diverse politiche interne ed
esterne, voglio citare anche il Fondo interno di piani di investimento in Africa, che è l'altra faccia del Piano Juncker, del piano
di investimenti strategici interno. Si tratta quindi di un quadro che prima non esisteva: a prescindere dalle critiche che vanno
spesso sulle prime pagine dei giornali, e il fallimento del sistema delle quote e del ricollocamento, ci sono tanti altri fattori
che indicano un movimento in avanti. Sempre circa la Siria, la UE, proprio nei giorni scorsi, ha ufficializzato la sua
intenzione di non partecipare alla ricostruzione della Siria se Mosca e Damasco non troveranno un dialogo con
l’opposizione, non crede che questo significhi l’uscita della UE dai tavoli che contano sul futuro del Medio
Oriente? Non sarà fortemente costoso in termini di prestanza e autorevolezza politica per la UE? Se l'Europa
non riesce a prendere una posizione forte rispetto alla Siria, cosa c'è da aspettarsi? Per quanto riguarda la Siria,
abbiamo tutti sotto gli occhi le immagini drammatiche di questi giorni, soprattutto la situazione di Aleppo est e anche qui c'è
stata una determinazione dell'Ue, in particolare dell'Alto rappresentante Mogherini, che veramente ha sempre agito in
stretto coordinamento con l'inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura. C'è stata una determinazione a tenere
aperto il dialogo con tutte le parti politiche. Quello che l'Europa fa e sta facendo sono due cose: da un lato, fin dall'inizio
della crisi, siamo i principali donatori di aiuti umanitari, con più di 9 miliardi, diamo il pieno appoggio alla popolazione siriana;
dall'altro, dal punto di vista diplomatico, siamo gli unici interlocutori con cui tutti parlano. Federica Mogherini ha lanciato e
sta portando avanti con molti sforzi un dialogo costante con tutti gli attori regionali, quindi Iran, Arabia Saudita, Turchia,
Egitto, Giordania, Libano, fino agli Emirati, per trovare dei punti di contatto, delle possibili soluzioni per il futuro. Continua a
mantenere i contatti inoltre con tutte le componenti dell'opposizione siriana, della società civile, o di quello che ne resta
almeno ... Chiaramente, è una sfida enorme: parlare di pace in un momento del genere sembra quasi una contraddizione in
termini, un ossimoro. Ma così facendo, si apre una porta del dialogo, una porta per la costruzione di futuro che senza
l'intervento dell'Ue sarebbe chiusa. Per noi, l'impegno alla ricostruzione sarà legato all'avvio di una reale transizione politica
in Siria, che possa condurre il Paese verso la pace, ma per il momento siamo stati accusati di essere un soft power, ma in
realtà mi sembra che questo doppio sforzo, da un lato degli aiuti umanitari, dall'altro del dialogo con tutti, perché a
differenza di altri, siamo un interlocutore percepito come credibile dalle varie parti interessate, forse l'unico, sia uno sforzo
che forse non fa vedere subito i suoi frutti ma che pagherà in futuro. I media, probabilmente, nella rincorsa alla
notizia, dimenticano qualcosa. Va comunque considerato che la Siria è una ecatombe, un dramma secondo solo alla
seconda guerra mondiale, un dramma umano che coinvolge tutti e in questo contesto l'Europa sta cercando di fare il
massimo nella cornice dei poteri e delle possibilità che ha. Il ruolo giocato con molta determinazione da Federica Mogherini è
molto recente, molto nuovo, anche perché in Europa non abbiamo mai avuto un ministro degli Esteri, quindi lo sforzo
diplomatico va ad inserirsi là dove hanno fallito molte iniziative multilaterali e ancora una volta la Commissione sta facendo
una politica pionieristica. Criticare è facile, per tutto quello che non è stato fatto, ma bisogna ricordarsi sempre da dove
partiamo, cioè da una situazione in cui le competenze in politica estera sono limitate, da sviluppare, dove non c'è una
formula diversa o una possibilità di intervenire al di là di quello che già stiamo facendo. Insomma, l'Europa si deve volta
per volta guadagnare sul campo la sua legittimità. Su questi fronti sì, su terrorismo, migrazione, globalizzazione, crisi
economica, si tratta di sfide che si sono presentate in tempi recenti con una virulenza, un impatto molto forte rispetto al
passato e in campi in cui le competenze dell'Ue e della Commissione europea ancor di più sono limitate. Quindi con
pazienza, determinazione , costanza, bisogna guadagnarsi una competenza a volte nuova in relazione a sfide globali enormi
per tutti, non solo per l'Europa. Secondo lei, dato quello che lei stessa definisce un annus horribilis, l'Europa, che
sia per colpa di come ne parlano i media o per difficoltà della politica, sta vivendo anche una crisi di identità?
Indubbiamente sì, lo ha riconosciuto anche il presidente Juncker, nel suo discorso sullo stato dell'Unione, il 14 settembre:
l'Europa sta attraversando una forte crisi di identità perché non è più scontato che stare in Europa sia un fattore positivo, per
la gente, lo abbiamo visto con Brexit, e si stenta a trovare ancora una risposta a quella che sarà l'Europa del futuro. Stiamo
attraversando un momento molto delicato, a mio avvso, della fase dell'integrazione europea, ma non solo di essa, quanto
proprio della storia geopolitica del Continente europeo: da un lato c'è una rinascita sotto gli occhi di tutti dei nazionalismi dei
vari Stati membri, un grande rilancio dell'euroscetticismo, e al tempo stesso un tentativo di ritrovare, riaffermare una
identità europea più forte nei campi che menzionavo, che però richiederà ancora del tempo e che quindi ha bisogno di
leadership, tempo, visione, maturità politica e volontà politica per affermarsi. Soffermiamoci un attimo sulla Brexit:
l'Inghilterra ha fatto una scelta che la porta in crisi con se stessa, al punto che molti cittadini inglesi
vorrebbero poter ritornare sui propri passi. Ma se si è arrivati a questo esito, quali sono le principali
responsabilità politiche? Non ci si può limitare a considerare solo ruolo di Cameron nell'indizione del
referendum... Di sicuro c'è stata una grossa responsabilità negli anni, dei media, perché se il discorso che si fa sui giornali
è sempre negativo nei confronti dell'Unione, per cui tutti i mali vengono da Bruxelles, quando il cittadino va a votare è chiaro
che dopo di negatività legata all'Europa, non potrà che votare contro di essa, in mancanza di una informazione corretta e
completa ... Al tempo stesso, ci sono anche responsabilità dei governi - lo ha ribadito il presidente Juncker dicendo che
dobbiamo smetterla di attribuire tutti i successi ai governi nazionali e tutti gli insuccessi all'Europa, perché così facendo ci
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diamo la zappa sui piedi. I governi europei devono essere richiamati a un senso di responsabilità, perché sono loro i primi
protagonisti nel Consiglio, delle politiche europee, sono colegislatori col Parlamento europeo, quindi danno l'input politico nei
Consigli, nei summit! Non dimentichiamoci che i governi hanno un ruolo fondamentale nella costruzione europea e quindi
non sono qualcosa di diverso da Bruxelles, sono parte di essa! Questo purtroppo non viene messo in luce, per cui l'Europa è
vittima di interessi elettorali spesso di corto termine, dove però il gioco rischia di farsi pesante e nel medio e lungo termine
si rischia veramente di mandare tutto allo sfascio, là dove invece c'è una co-responsabilità di tutti gli attori. Quindi, secondo
me non solo la politica deve riprendere il suo ruolo di leadership, di visione del futuro, ma c'è una grossa responsabilità dei
media e di tutti coloro che fanno comunicazione. Nel caso della Brexit, mi ha molto colpito il fatto che ci fossero una serie di
attori che il giorno prima si sono dichiarati pronti ad uscire e il giorno dopo hanno dichiarato di voler continuare a beneficiare
dei contributi comunitari! Nessuno gli aveva spiegato che le due cose viaggiano insieme. Molti giovani inoltre erano per il
remain; evidentemente una serie di circostanze ha portato molti votanti a chiedersi cosa sia l'Unione il giorno dopo il voto e
non il giorno prima... Un fattore aggregante, per l'Europa futura, potrebbe essere quello della difesa: le recenti
decisioni in materia sembrano andare verso una cooperazione organizzata rigettando l’esercito comune. Ma la
questione della difesa europea, che poi è uno dei pilastri anche per le politiche dell'Unione, può essere
affrontata solo attraverso uno sforzo comune che richiede anche una determinazione complessa da
raggiungere? Cosa ne pensa? La difesa, se vogliamo, è legata anche al discorso Brexit, perché è uno di quei dossier
rispetto al quale tale evento può creare nuove opportunità per andare avanti più uniti che in passato. Il Regno Unito si è
sempre opposto alla difesa europea, ma adesso si stanno registrando dei passi in avanti. Abbiamo infatti varato in tempo
breve la nostra proposta sulla ricerca nel settore della difesa: questo non va sottovalutato, secondo me è un primo passo
molto importante, perché il costo della "non Europa" nel settore della difesa raggiungeva punte altissime, fino ai 100 miliardi
l'anno, quindi avere la possibilità di fare appalti in comune, di mettere insieme tecnologie, know how, promuovere soluzioni
e fare ricerche innovative, è molto importante, anche perché le ricerche che si compiono in tale ambito, come avviene
spesso negli USA, possono avere ricadute positive in tanti altri settori civili. Quindi già è stato fatto un passo in avanti in
questo senso, c'è una determinazione e una finestra di opportunità politiche che prima non c'erano e adesso si tratterà di
vedere che tipo di progresso verrà fatto nei 27 Stati membri, da qui al prossimo anno. Mettere subito sul tavolo un esercito
europeo probabilmente è un errore, perché va costruita piano piano una prospettiva di difesa comune che passi attraverso
una cooperazione comune, comunque sempre nel contesto in cui rimaniamo di cooperazione con la NATO e con un dialogo
costante tra tutti i 27. Anche questo è un cantiere per cui ci vorrà tempo, ma siamo sulla buona strada, perché questa è una
novità positiva che prima non esisteva. Le priorità per il 2017 in Europa sembrano essere fortemente legate
all'evoluzione delle questioni di cui sopra. In più sul tavolo c'è la questione dei rapporti con Mosca, molto
delicati. Qual è lo scenario dei prossimi mesi in tale ambito, visto che sia su questioni economiche come il gas
e l'agroalimentare, sia sull'atteggiamento verso la Siria, la Russia e l'Europa devono poter dialogare, per
quanto con molti sforzi? È un dialogo difficile, complesso, cerchiamo però chiaramente di lasciare i canali aperti. Il fatto
che abbiamo reso delle decisioni su questo, c'è abbastanza consenso tra tutti gli stati membri sul fatto che il comportamento
della Russia in Siria, soprattutto ad Aleppo, è di una brutalità inaccettabile, ma detto questo dobbiamo tenere un canale
politico aperto. Quindi sulla Siria c'è il mandato politico e dell'Alto Rappresentante Mogherini, che continuerà anche con
Mosca ad avere dei contatti e delle conversazioni. Sulla parte di maggiore tensione, cioè sulle campagne di disinformazione,
gli attacchi cibernetici, e altri dossier più delicati, la nostra posizione è più difensiva; come ha anche detto recentemente il
presidente del Consiglio Tusk, noi reagiamo a dei passi in avanti che fa Mosca. Ma di sicuro è nel nostro interesse avere un
canale diplomatico sempre aperto con la Russia. Veniamo al capitolo sanzioni: oggi si va alla riconferma, mentre
Trump è al lavoro per il superamento. La posizione della UE non rischia di lasciarla in una posizione di
solitudine che non farà altro che penalizzarla ulteriormente sia in termini politici che economici? Trump intanto
non è ancora stato insediato come presidente degli Stati Uniti, quindi mi sembrerebbe un po' prematuro. Non abbiamo
ancora definito complessivamente quali saranno i nuovi ruoli, la situazione transatlantica nell'era di Trump. Quindi, questo è
un discorso molto più ampio che ripartirà da gennaio. Detto questo, l'Europa non dipende strettamente dagli Stati Uniti, per
quanto vi sia una relazione profonda, importantissima, ma la nostra politica estera viene definita in maniera indipendente.
Qui voglio sottolineare anche l'aspetto opportunità: ogni crisi ha opportunità quindi, come nella Brexit, forse il fatto che
Trump faccia una politica più di rottura - è ancora da vedersi - nei confronti dell'Europa, ci darà l'opportunità di crescere, di
diventare attori più maturi e più autonomi per quanto riguarda la politica estera. Ma nel frattempo che succederà?
Stiamo ancora aspettando di sentire e sapere in che modo Trump vede ufficialmente le relazioni con l'Ue, cosa che ancora
non è stata definita, o quantomeno palesata. Anche rispetto all'Africa, le politiche europee stanno tentando un
nuovo approccio. I fondi stanziati per i progetti di cooperazione con i Paesi africani vogliono essere all'insegna
del motto "aiutiamoli a casa loro", là dove in passato si sono commessi errori. A suo avviso le decisioni prese
in questi ultimi mesi possono segnare una svolta su questo asse? Sì. Credo molto in questa politica dei compact, nel
fatto che finalmente mettiamo l'accento su ciò che forse avremmo dovuto fare anche prima, cioè creare degli accordi e delle
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situazioni di opportunità di sviluppo nel continente africano e incentivare soprattutto i Paesi cruciali per la migrazione a
trovare delle soluzioni a casa propria: questa è una politica che funziona, iniziamo a vedere qualche risultato concreto, già
da adesso. Per esempio, se prendiamo il caso del Niger, Paese di transito tipico dei migranti che poi passano dalla Libia, a
maggio dell'anno scorso erano stati registrati più o meno 70000 migranti, invece a novembre di quest'anno i passaggi sono
passati a più o meno 1500. Quindi, grazie al compact, a progetti mirati che prevedono anche rimpatri volontari e sistemi di
supporto a ciò, penso che questa sia la strada giusta da percorrere per limitare in futuro il più possibile l'impatto migratorio e
anche aiutare lo sviluppo. Quello che vorrei sottolineare su questo, è che il nuovo approccio che stiamo cercando di fare
passare è basato su due constatazioni che possono sembrare banali ma sono un rovesciamento di prospettiva: il fatto che lo
sviluppo sostenibile inizia dall'Europa e il fatto che aiutare i vicini chiaramente aiuta anche l'Europa. Basandosi su questi due
concetti, abbiamo quindi tutta una serie di proposte che riguardano lo sviluppo sostenibile, legate chiaramente agli obiettivi
delle Nazioni Unite del 2030, che però marcano un po' il passo, quindi creano un nuovo contesto di questa politica. L'Europa
ormai si è allargata e ciò lo si deve a ragioni prettamente economiche. Volendo vedere la questione in termini
politici, il dilemma è: allargamento oppure approfondimento delle relazioni interne. Soprattutto con
riferimento ai Balcani e ai Paesi dell'Est, quale atteggiamento avrà l'Europa dal 2017 in avanti? Sull'allargamento
il presidente Juncker ha preso una posizione molto chiara fin dall'inizio, sulla sua Commissione, cioè che nel suo svolgimento
ci sarà un approfondimento del mercato interno, quindi un consolidamento di tutte le politiche acquisite, dell'Unione quindi,
ma non si prevedono nuove adesioni nel termine del suo mandato. Al tempo stesso, chiaramente però continuiamo a
negoziare, a parlare con i Paesi candidati, quindi questo in prospettiva è un lavoro che avrà più importanza dopo il mandato
Juncker, che per noi è essenziale. Avere la zona dei Balcani stabile è fondamentale per il benessere dell'Unione europea,
quindi nel nostro interesse rimane una strategia chiave, rimaniamo impegnati e determinati nello sviluppo e nella
trasformazione di tutta la regione, quindi Montenegro, Serbia, Macedonia, Albania, Bosnia Erzegovina e Kosovo. Lo scenario
politico per l'Europa: ad oggi lo status dell'Unione è quello di una organizzazione internazionale di Stati che,
grazie ad accordi intergovernativi, si muove a piccoli passi guidati dalla necessità di cooperare su questioni
per lo più economiche. Ma non ritiene che l'Europa dovrebbe riportare in agenda il tema della sua
Costituzione? A mio avviso, in un momento così difficile forse non è il tempo giusto per riportare quel tema in agenda. È il
momento giusto per ripensare al futuro dell'Europa: nel 2017, con il sessantesimo anniversario dell'Unione, ci sarà un Libro
bianco della Commissione che andrà al di là del discorso economico e monetario per vedere quali sono le prospettive future.
Al tempo stesso, c'è il processo di Bratislava, secondo cui l'Europa a 27 deve riuscire a darsi una governance su alcuni temi
nuovi, dove può andare più in là rispetto a un'Europa a 28. Quindi, di sicuro i temi istituzionali saranno sul tavolo. Aprire un
nuovo grande dibattito sulla Costituzione porterebbe probabilmente in questo momento ad arenarsi in questioni che sono
materia dei costituzionalisti, già molto pesanti, complessi all'epoca del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa.
Quello di cui forse c'è più bisogno è di riuscire a dimostrare che nelle politiche su cui ci siamo impegnati, che sia il capitolo
sociale, la politica sull'immigrazione, la politica digitale, le politiche per le nuove forme di energia, riusciamo a fare dei
progressi. La gente vuole vedere questo, anche con piccoli passi. Un esempio molto concreto è anche alla guardia costiera
europea, realizzata in tempi record, dove l'Europa può fare la differenza. Riaprire il cantiere costituzionale, quindi, in questa
fase potrebbe paralizzare tutti questi passi in avanti. Al tempo stesso, il sessantenario che si festeggerà a breve sarà da
stimolo per trovare nuove ragioni per cui portare avanti la costruzione dell'Europa e approfondirne l'Unione.
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