Natalia Ginzburg - La Repubblica.it

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RANO LE QUATTRO DEL POMERIGGIO
e c’era un gran sole. Dalla finestra aperta vedeva il giardino, la
via sassosa solcata dai carri, le ville bianche sul pendio. Sua madre
traversò il giardino, aprì il cancello, lo salutò
agitando il parasole. Poi si allontanò fra gli alberi, col suo parasole lilla e la borsa di paglia,
dove teneva il lavoro. E poi passò Gisella, in bicicletta, al collo un fazzoletto rosso. Lo chiamò, gli fece una smorfia, rise e corse via.
«Gisella! Gisella!». Si era affacciato al balcone, stropicciandosi gli occhi assonnati. Ma
per la via non c’era più nessuno. Curiosa ragazza, Gisella, difficile un poco a capirsi. Rientrò, chiuse le imposte e si buttò sul letto, e forse si sarebbe addormentato, quando venne
Diego a chiamarlo.
«C’è una signorina che cerca di lei; l’ho fatta accomodare nello studio». E poi, abbassando la voce: «Si tratta della sorella minore… la
sorella minore, lei sa».
«Che sorella minore? Io non so niente!».
Nello studio lo aspettava la Carlottina, seduta sul canapè con le mani in grembo. «Tu?
non capisco… Sei pazza! Siete impazzita! Per
caso mammà non c’è, ma come diavolo…».
«Non mi lasci parlare! Pensavo di chiamar
Diego e farti avvertire da lui. Ma per la strada
ho visto la tua mammà, una signora col parasole lilla. L’ho riconosciuta, mi ricordavo d’averla vista con te. E ho pensato che potevo salire».
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ERCHÉ CERTI ROMANZI non invec-
chiano? Un esempio fra tutti resta -FTTJDPGBNJHMJBSF di Natalia
Ginzburg (1963). Dopo oltre
mezzo secolo, le sue pagine frusciano ancora come se fossero state stampate per la prima volta. Qual è il segreto della
sua giovinezza? Indubbiamente la stessa
biografia dell’autrice ha qualcosa di unico.
Proprio lei, torinese fra le torinesi, nacque
in realtà a Palermo nel 1916. Era il 14 luglio,
il giorno in cui si festeggia la presa della Bastiglia. Poco dopo si trasferisce in Piemonte
con la famiglia. Ma che famiglia! Il padre è
Giuseppe Levi, biologo di fama internazionale e maestro di Rita Levi Montalcini; la
madre appartiene a una famiglia di ideali
socialisti; quanto agli amici... Beh, con gli
amici entriamo nel cuore della storia.
Mentre nonni e genitori frequentano Leonida Bissolati, Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Felice Casorati, i figli vanno a spasso
con Giulio Einaudi e Cesare Pavese, scherzando con Adriano Olivetti, Vittorio Foa,
Carlo Levi, Giaime Pintor, o magari sposando la figlia di Amedeo Modigliani. Sci e concerti, mostre e amori. Purtroppo su questo
piccolo paradiso si allunga l’ombra delle leggi razziali. Sposatasi a ventidue anni con
Leone Ginzburg (fondatore della cellula torinese di Giustizia e Libertà), nel 1940 la
narratrice viene mandata al confino in
Abruzzo, dove nascerà la sua terzogenita.
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ON È SUCCESSO NIENTE. Solo che Angela è così
inquieta… Son dieci giorni che non vieni da
noi. Va da Enzo, mi dice, va da Enzo e fallo venir qui subito. Gli devo parlare di una cosa
importante. Ha gli occhi e le labbra gonfie,
dal gran piangere, sai. Tutto il giorno piange e non mi lascia studiare. Devo dar l’esame di francese in ottobre, sai». Sospirò. Era
una bimba di quattordici anni, grassa, dalle
solide gambe nude. I suoi capelli lisci, pettinati all’indietro, lasciavano scoperte due piccole, grasse orecchie. Portava una giacca di
panno rosso e una sottana bianca tutta sgualcita.
«Ma vedi, ora sono qui in villa, e la città non è tanto vicina».
«Oh, anche l’anno scorso eri qui, eppure trovavi modo di venire ogni giorno da Angela. In automobile ci vuol così poco! Avanti, mettiti la giacca e vieni».
«Come bambina mia, io… Neanche per sogno».
«Devi venire, devi venire, invece. Se mi vede sola, mia sorella se la piglia con me. E non vorrai che torni sola, al buio. Ho fatto la strada a piedi, un tratto in tram e poi a piedi, e un vecchio
mi veniva dietro, mi chiamava e rideva, e avevo paura. Finalmente ho visto Diego da lontano,
la sua giacchetta a righe, e l’ho raggiunto. Scrivi un biglietto alla tua mamma, mettilo su quello scrittoio. Di’ che hai un affare in città, un affare urgente, importante. L’hai fatto tante volte!
Ecco la penna, sbrigati».
Enzo prese la penna con due dita svogliate. «Cara mamma, ho un affare in città, un affare urgente, importante» scrisse a caso su un foglio. Sciocchezze! La cosa era chiara, e mammà non
avrebbe creduto. Ma glie ne importava poco.
L’automobile correva per la campagna deserta, fra i castagni dalle foglie polverose. Enzo era al volante, la bimba gli sedeva vicino.
«Senti, sei molto seccato?».
Si volse con un sorriso: «Non avevo nessuna voglia oggi di venire in città, veramente.
Sono di malumore. Sai? Ho paura che mi bisticcerò con Angela».
«Non la far piangere,
ha già pianto tanto. Se
devi bisticciarti con lei
piuttosto ritorna indietro».
«Ma no, scherzavo,
scherzavo!». Staccò una
mano dal volante, le accarezzò la testa. «Sei
una buona bambina».
«Mi fa piacere che tu sia venuto. Hanno
messo la tappezzeria nuova nella camera di
Angela, vedrai. Un pappagallo e una coroncina di fiori, un pappagallo e una coroncina di
fiori. Poi abbiamo attaccato le tende. Angela
è salita lei sulla scala. Fermati un momento,
che ho sete: c’è una fontana laggiù».
Scesero a bere, si sciacquarono le mani e il
viso. «Riposiamoci un po’ su quel prato» disse
Enzo «che mi stanco a guidare. Non è tardi, fare il compito”, e andava a passeggio con te,
allora non era bello. Io portavo la seggiola a
fra poco saremo in città».
Si gettarono lunghi distesi sull’erba. La dondolo sul balcone, e sai, mi mettevo a penbimba si tolse la giacca, ne fece un fagottino sare… Quanti discorsi! Adesso andiamo».
«Carlottina, mi passa il malumore a star
ed Enzo vi posò il capo. Gli uccelli s’inseguivacon te. Sono contento. Grazie». Le prese la facno per il cielo, stridendo.
«Su Carlottina, non mi dici niente? Raccon- cia fra le mani, si specchiò nei suoi occhi, ridendo. L’aiutò ad alzarsi, le scrollò la sottana
tami qualcosa di bello».
«Non so… Cosa ti devo raccontare di bello? macchiata di verde. Salirono in automobile,
Come sono belli i tuoi capelli ricciuti. Mi piace- ed egli riprese a guidare.
«Questa bambina» pensava «qualcosa di
rebbe avere i capelli ricciuti. Invece, guarda
qui! Non so mai come pettinarmi. Sei conten- puro, di fresco… Vederla crescere, farne una
to? Una mia amica mi ha detto: “Ha un bell’in- donna o insegnarle a esser bella, a far l’amonamorato tua sorella”. Non è proprio una mia re. Forse, quando sarà un po’ più grande…
amica, viene a scuola con me, là dalle mona- Quando tutto sarà finito con Angela…». In poche. Dice che sua sorella non ce l’ha, l’innamo- chi minuti raggiunsero la città.
Le due sorelle abitavano una casa nuova,
rato. Sfido, è brutta, vedessi!».
di un bianco gesso, con un largo cortile rettan«E tu ce l’hai l’innamorato, Carlottina?».
«Io? Va’ mi prendi in giro? Però quando sa- golare: sulle scale si vedevano ancora macchie di vernice, nell’angolo le sputacchiere
rà più grande».
«Certo. E chi sceglierai? Sentiamo i tuoi gu- erano piene di bella segatura asciutta. Angela li aveva visti venire dal balcone, li aspettasti, sentiamo i gusti della Carlottina».
«Oh… non so. Una volta mi sarebbe piaciu- va sul pianerottolo. Era senza calze: aveva un
to…» rise facendosi rossa. «Una volta volevo vecchio vestito nero di velo, con una rosa
bianca sulla spalla.
bene a te».
«Va subito a cambiarti e mettiti a studia«Davvero? Ti eri innamorata di me?».
«Sì». Teneva stretto nel pugno un fazzolet- re» disse alla Carlottina. «Tu, giusto, Enzo, voto umido di sudore, schiudeva le dita e lo guar- levo parlarti, vieni in camera mia. Ti ho mandato a chiamare» cominciò quando furono sodava. «Sì».
«Oh guarda, e io che non me n’ero accorto: li, sedendosi sul letto «per dirti che se non ne
ne sono molto contento!». Questa bimba mi vuoi più sapere di me, ti lascio libero. Vattene
piace, mi diverte, pensava. Curioso, saran pure, vattene. Ti sei divertito con me fino a
due anni che me la vedo intorno, e non me n’e- quando ti è parso comodo. Andavi a venivi in
ro accorto… mi piace. «Su Carlottina, raccon- casa mia da padrone. Quando ti fermavi a dortami un po’ com’è stato. Sarà passato molto mire, era mia sorella, al mattino, che ti puliva
le scarpe. E io? Non mi sono sciupata la salute
tempo. Era bello?».
«Non molto… non è passato moltissimo per te, io? Guarda in che stato son ridotta. E
tempo. Qualche volta era bello, sai, non sem- forse non ti voglio bene ancora, come il primo
pre. Quando Angela mi diceva: “Sta a casa a giorno? Sono cotta di te come una stupida».
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Si buttò giù sul letto, singhiozzando.
«Via Angela, non far così, sta buona. Su,
non piangere più. Sono venuto, vedi!».
Le si fece vicino, accarezzandola. Ella gli
cercò la mano. «Cattivo… caro… cattivo» disse
in un soffio. «Vai con le altre, fai la corte alle signorine, là in villa, ma poi lo so che torni dalla
tua Angela… caro…».
Enzo si tolse la giacca, si strappò le scarpe
dai piedi senza slacciarle: si stese sul letto,
con un lungo sospiro.
Le ore passavano. Egli seguì fino al soffitto
il disegno dalla tappezzeria: un pappagallo e
una coroncina di fiori, un pappagallo e una coroncina di fiori. Sul tavolo era posato un ritratto: la madre di Angela, morta da quattro anni. Un viso grasso, rugoso. «La nostra mamma, sai Enzo, era diversa dalla tua mammà»
diceva la Carlottina. «Figurati che non era
mai stata al cinematografo. Ma diceva che
son tutte sciocchezze. D’inverno le venivano i
geloni e io prendevo un pennello e le tingevo i
piedi e le mani di iodio. Era sempre allegra, le
piaceva cantare. Era lei che dava la galera. Le
piaceva molto dare la galera».
Enzo e Angela quella sera non andarono a
tavola. La Carlottina cenò sola, dopo averli
aspettati inutilmente: ma portò la tavola vicino alla finestra, per guardar fuori, e versò la
conserva sulla frittata, scambiando cenni
amichevoli coi ragazzini del balcone di faccia.
Enzo si sveglia prima di mezzanotte. Scivola giù dal letto: traversa l’andito buio, cerca a
tentoni la porta della cucina.
«Digiuno mi ha fatto stare, digiuno» sbadigliava rovistando nella credenza. «Si è dimenticata dell’ora di cena, ma io non me ne son dimenticato, io».
Radunò in un piatto un po’ di carne fredda,
un uovo sodo e qualche ciliegia. Mentre mangiava, gli occhi gli caddero su un calendario
appeso a un chiodo della parete. Sulla vignetta una ragazza dalle spalle nude, dai denti
sgranati.
Se avessi una donna così… non mi annoierei con una donna così. Allora sì mi scorderei
di mangiare.
«Venticinque giugno» dice il fogliettino.
Venticinque giugno? Qualcosa doveva succedere il venticinque giugno… ma che cosa, che
cosa? Si picchia sulla fronte: il ballo. Sicuro, il
ballo dalla signora Giordano, quell’amica di
mammà che ha la villa vicino alla loro. Anche
Gisella aveva promesso di andarci. Gisella,
da quanto tempo non stavano un po’ insieme! Ah, essersi dimenticato del ballo!
«Non mi posso sottrarre a questo impegno, mammà sarebbe furiosa. Ma Angela…
devo andar via senza svegliare Angela. Il male è che le chiavi del portone…».
Non le aveva, le chiavi del portone: le ave-
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va perse qualche mese prima: «Non fa nulla»
aveva detto ad Angela «non ti verrò a trovare
nel bel mezzo della notte». Idiota! Come si fa,
quando si ha un’amante, a star senza le chiavi di casa sua? E in che modo procurarsele
adesso? Svegliare Angela no, non poteva, col
rischio di un’altra scenata.
Entrò nella camera della Carlottina, accese la luce. «Carlottina! Le chiavi del portone.
Le chiavi».
Ella si alzò a sedere sul letto, stropicciandosi gli occhi.
«Cosa vuoi?».
«Carlottina, svegliati, devo spiegarti. Ho visto il calendario, venticinque giugno, figurati, mi ero dimenticato. Il ballo! Un ballo dalla
signora Giordano, l’amica di mammà. Chi se
ne ricordava? Un ballo elegante, figurati, un
ballo all’aperto, in giardino. Hanno un giardino grande trenta volte questa stanza. Eh, capirai, per un ballo all’aperto! Non posso mancare, Carlottina mia, proprio non posso. E
non ho le chiavi del portone: le ho perse, sai
bene, e non voglio svegliare Angela. Cercale
tu queste chiavi, tesoro. Tu certo sai dove sono. Ma per carità senza svegliare Angela…».
«Te ne vuoi andare?».
«Devo, Carlottina mia, devo. Guarda, farò
il possibile per tornare qui domani, prima di
mezzogiorno. Carlottina Carlottina, sai cosa?
Al ballo ti ci porto anche te. Ti metti un vestito da sera, ce l’hai un vestitino carino da sera? E andiamo al ballo della signora Giordano. Ti faccio passare per… la sorella di un mio
amico. Ti appiccico un cognome qualsiasi…
Sarà un gioco, una commedia. Ci divertiremo. E ti riporto a casa domattina presto, prima ancora che Angela si svegli. Carlottina,
un ballo all’aperto, non sei mai stata a un bal-
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lo all’aperto. Lampioncini colorati appesi agli
alberi. E rinfreschi. Su, queste chiavi, cerca
queste chiavi».
«Oh, Enzo, io… sì, so dove sono nascoste».
Scese dal letto, in una camicia da notte
scollata, corta e larga. Si strinse nella vestaglia, infilò un paio di scarpe di tela che le servivano da ciabatte.
«Lampioncini colorati? Oh, mi piacciono
tanto i lampioncini colorati. La sera della Consolata, sai, ne abbiamo appesi quattro alla finestra: due gialli, uno rosso e uno azzurro,
quello azzurro s’è bruciato, purtroppo».
«Sì cara, ma va, va in cerca di queste chiavi». Ella corse via. Tornò pochi minuti dopo
col mazzo delle chiavi, strette in pugno perché non tintinnassero. «Ecco. Erano nella sua
borsetta marrone. Oh Enzo, ha mosso un
braccio, avevo tanta paura che si svegliasse!
Ecco, prendi le chiavi. Mi vesto? Ho un vestito
celeste dell’anno passato, non mi sarà diventato corto, no?».
«Non so… sì, forse sarà diventato un po’ corto».
«Oh, ma non sono quasi più cresciuta, sai.
Come sarà bello. Ballerò con te, ci saranno
tante signore… Anche la tua mammà? Chi sa
cosa dirà la tua mammà? Mi vien da ridere…
Allora va in anticamera e aspettami. Faccio
presto a vestirmi». E lo spinse fuori.
Egli sedette in anticamera, si allacciò le
scarpe, si abbottonò la giacca. «Che pazzia»
disse fra sé «cosa me ne faccio della bambina? Al ballo me la devo portare, col vestito celeste dell’anno passato? A un ballo dove ci sarà mammà? Che idiota sono stato a proporglielo. Le chiavi me le avrebbe date lo stesso».
«Enzo» bisbigliò la Carlottina attraverso la
porta «fra due minuti sono pronta, mi sono in-
filata già le calze, sai».
«Cosa me ne faccio» seguitava «che idiota
sono stato, che idiota».
Si tastò le chiavi nella tasca dei pantaloni.
Furtivo, senza accendere la luce, socchiuse la
porta che dava sul pianerottolo; scivolò fuori.
Scese a precipizio le scale, aprì il portone e lo
rinchiuse, adagio, salì in automobile e via.
Prese la corsa verso la campagna.
«Vigliacco. Eccomi qui che prendo la fuga
come se avessi il diavolo dietro. Impantanarsi nei pasticci apposta, si può essere più sciocchi di così. Povera Carlottina, l’ho ingannata,
non me lo saprò mai perdonare. Piange, sì,
s’è di certo messa a piangere. Innamorata di
me… Quando mi fermo a dormire da loro, è
sempre lei che mi pulisce le scarpe. Portarla
al ballo, ballare con lei tutta la sera, farle vivere un’ora felice. Una buona azione. Sarebbe
stata una buona azione. Ma si vede che io non
le so fare. Adesso però torno indietro, torno a
prendere la Carlottina».
Procede per la strada buia, deserta.
«Torno indietro? No, qui la strada è stretta
per voltare… più avanti».
Procede nella notte, sotto il cielo stellato. E
vede la sua villa, col fanale di fianco, in lontananza. «La consolerò, le dirò che si faceva tardi, che non ho potuto. Le farò un regalino. Un
pupazzo di maiolica, un gingillo, sciocchezze
da ragazzina. Mammà sa un negozio dove
vendono a prezzi economici cose graziose…
Passo a casa, metto lo smoking e vado. Gisella
avrà piacere di vedermi? Passava sotto le mie
finestre, non s’è fermata. Forse aveva una
gran fretta. Mi ha chiamato per salutarmi. Se
le fossi del tutto antipatico…».
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OPO LA CADUTA di
Mussolini, si trasferisce a
Roma, ma pochi mesi più
tardi il marito viene
arrestato: morirà nel
febbraio 1944 a Regina Coeli, per le
torture subite.
Forse è alla luce di questa inaudita
esperienza che la scrittrice indicherà nel
proprio tempo delle “voragini di
terrore”. Da simili voragini, Natalia
Ginzburg si riprenderà solo nel
dopoguerra, lavorando nella casa
editrice Einaudi e sposando l’anglista
Gabriele Baldini (che tuttavia, nel 1969,
morirà ad appena quarantanove anni).
Usciranno via via “Le piccole virtù”
(1962), “Mai devi domandarmi” (1970,
con le celebri pagine sulla pigrizia o la
psicoanalisi) e “Caro Michele” (1973).
Dal 1983, mentre appare “La famiglia
Manzoni”, viene eletta deputata alla
Camera per gli indipendenti del Pci.
Morirà a Roma il 7 ottobre 1991. Ma
torniamo alla domanda iniziale: perché
alcune sue opere continuano a restarci
vicine, ignorando le insidie del tempo?
Prendiamo ancora “Lessico
famigliare”, «il libro unico di Natalia
Ginzburg». La definizione è di Domenico
Scarpa, che ha appena curato
“Un’assenza”, antologia di “racconti,
memorie, cronache”. Ebbene, secondo
Scarpa, il mistero della Ginzburg, la sua
scandalosa diversità, risiede in una
saggezza infantile, che pone sì le
domande elementari dei bambini, ma
per rispondere con la tranquilla voce
degli adulti. La sua è insomma una
scrittura basata «sull’autenticità, sulla
povertà di spirito evangelica, sull’amore
e la pietà creaturale, su un relativo
disinteresse per l’intelligenza che ordina
e distingue». Il che spiega la famosa
polemica sollevata da Oreste Del Buono
nel giudicare tale semplicità come una
posa: «È difficile trovare una finta tonta
più finta di Natalia Ginzburg. La sua
prima preoccupazione è di ostentare la
sua ottusità».
In verità quella della Ginzburg era
un’intelligenza squisitamente
letteraria, l’intelligenza di una
anti-intellettuale. La sincerità con cui
confessava le molte lacune della propria
formazione, non era affatto un vezzo,
bensì un indizio prezioso per trovare la
fonte di quella sua freschezza che oggi ci
affascina. La freschezza con cui
sentiamo ancora risuonare le
tonitruanti espressioni di suo padre,
iroso e brusco, con i capelli rossi a
spazzola: “Non fate sbrodeghezzi!”,
oppure: “Non dir sempiezzi”. Altrettanto
memorabili i comportamenti di altri
personaggi come la madre, che “amava
il piacere di raccontare”, o la domestica
Natalina, tanto simile a Luigi XI ma
incapace di distinguere i pronomi
maschili da quelli femminili. Nasce da
queste umanissime figure la sua prosa,
la sua particolare cadenza, con cui
intonava il dolore e le gioie della vita così
come “la musica si confonde con le
parole d’un’opera, ne oscura il senso e se
le porta via nel suo ritmo di gloria”.
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È UN TEMPO INVENTATO da quegli esseri industri
che si chiamano uomini, e c’è un tempo delle
cose, il tempo indocile del tutto accaduto, un
tempo strano, non mercantile: chiamiamolo il
tempo dell’inutile. In quest’ultimo, gli uomini
non ci sono più: non ne muovono i fili, non ordiscono trame, non hanno interesse. Tutt’al più
guardano, scoprendo talvolta che le cose non
sono rimaste nei confini certi che avevano tracciato per loro.
Fra tutte le cose che vivono, come soggette
alla pura inquietudine di cui parlava Hegel e
che è già movimento, ci sono le case. In particolare le case abbandonate, perennemente
esposte al rischio dell’informe, e infatti perdono pezzi, porte e finestre; perdono qualche
volta persino il tetto e lasciano che un albero lo rimpiazzi. Queste case traggono giovamento dall’aria, dalla luce, dal buio. Non stanno nella pelle quando un vento le attraversa: l’intonaco che cade è come pelle che cambia. Insomma, si sporgono dai bordi e così sconfinano: non stanno al loro posto, ecco tutto.
“Con tutti gli occhi vede la creatura l’aperto” scriveva Rilke, cominciando l’ottava delle
&MFHJFEVJOFTJ e riferendosi agli animali, ma potremmo vieppiù riferirlo alle case, se queste come gli animali sono libere dalla paura della morte. E siccome si accennava agli occhi,
mi spingo a dire che le case con gli occhi (e il naso e la bocca) esistono, o perlomeno io le ho
viste. A questo punto — citando dal Talmud — si potrebbe obiettare che non vediamo le
cose come sono, le vediamo come siamo. E se dunque ho visto case che avevano un volto —
ora severo, ora guardingo; un volto che sotto sotto rideva di me — avrò un grumo irrisolto
con il “materno”, con il ventre che è stato la prima dimora e di cui la casa è una sostituzione, come diceva a suo tempo Freud. Sarà senz’altro così. Ad ogni modo, nel cuore BSCÑSFT
IF di una Calabria fitta di tradizioni e mescolanze linguistiche, e
precisamente a Civita, ci sono case che hanno qualcosa in più delle
mura che le delimitano rispetto all’esterno: queste case hanno
una loro mimica, fanno smorfie con la facciata, ridono e spargono
urletti; qualcuna persino fischia. Le chiamano case parlanti o antropomorfe, oppure più realisticamente case Kodra. Otto, al momento, sono quelle inserite nel giro per i visitatori, ma ce ne sono
altre, nascoste o difficilmente visibili dal basso. Sono dodici in tutto e sono state individuate per la prima volta nel 2005 da Stefania
Emmanuele, insegnante originaria di Civita. È stata lei ad assegnare un nome alle case, ma non per un arbitrario gesto denominativo. Le ha chiamate Kodra in ricordo di Ibrahim Kodra, il pittore albanese morto nel 2006 che sul finire degli anni Novanta aveva visitato Civita e gli altri paesi BSCÑSFTIF, e aveva voluto fissarne qualche particolare — per esempio, i comignoli — in certi suoi schizzi.
Le case Kodra sono tutte disabitate, ma almeno fino alla metà
del Novecento erano abitate da famiglie di contadini e allevatori
che in primavera e in estate vivevano fra le montagne del Pollino e
nei mesi di freddo tornavano a Civita, dove il clima è meno faticoso. In un volume del Touring Club Italiano del 1937, alla sezione
“La Calabria cosentina”, così è descritto il piccolo borgo: “Civita,
che nel medioevo chiamavasi Castrum Sancti Salvatoris, è abitata
da popolazione albanese e trovasi in posizione alpestre dominante la valle del Torrente
Raganello. Questo attraversa la piana di Sibari, sfociando nello Ionio pochi chilometri a
nord del Crati”. Attualmente Civita conta poco più di novecento abitanti. C’è la chiesa, di
rito greco bizantino con icone e arredi della tradizione liturgica bizantina. C’è la scuola elementare con le classi congiunte (prima e quinta insieme, da una parte; seconda terza e
quarta insieme, dall’altra) e i piccoli allievi sono ventiquattro. Per frequentare la scuola
media andranno a cinque chilometri più in là, a Frascineto, dove c’è un istituto comprensivo. Per le scuole superiori andranno a Castrovillari, a quattordici chilometri dal borgo. In
compenso, Civita ha ben venti bed and breakfast e quattro ristoranti, pronti ad accogliere
circa undicimila visitatori all’anno, secondo il registro del Museo Etnico Arbëresh.
Tornando alle case che sembrano avere un volto (per completezza c’è da dire che ve ne
sono anche ad Aliano, tra gli ineffabili calanchi lucani), esse appaiono così per la disposizione delle piccole finestre che sembrano occhi con il naso nel mezzo, e il naso è la canna
fumaria. Le finestrelle poste vicino alla condotta facilitavano il deflusso del fumo, quando
tornava indietro riempendo la stanza, specie nei giorni di venti imbrogliati. La porticina
che dava l’accesso alla cantina delle provviste — la vita quotidiana si svolgeva al primo piano — somiglia tanto a una bocca che si spalanca o si rinserra, che ride e poi no. Le canne
fumarie di Civita hanno lo sbocco in comignoli che sono di fattura non certo modesta. Svettano infatti in alto sul tetto, in forma di torre merlata o all’orientale e perciò tondeggianti,
oppure terminano con una maschera apotropaica o un volto corrucciato. Questi comignoli dall’enorme tiraggio, su cui restano impigliati il sole e il cielo, dovevano contrastare i
venti provenienti dal Pollino e dalla costa ionica e, insieme, gli spiriti maligni. Dovevano,
inoltre, disperdere più in alto possibile i racconti intimi della famiglia, quelli fatti a sera
presso il fuoco del camino, perché non ne venissero a conoscenza in paese.
Le case, costruite fra il 1600 e il 1700, sono rimaste quasi intatte, confidando unicamente sulla propria forza. Nessuno sa come mai le facciate rassomiglino tanto a un volto, con
tutti i suoi difetti, visto che a qualcuna manca il naso, oppure lo ha tutto storto, di uno sbilenco cubista. Stefania Emmanuele, al tempo della sua scoperta, rivolse la domanda a un
vecchio abitante del borgo che le rispose nel più semplice e inquietante dei modi: «Prima
le case si costruivano con la terra e nella terra ci sono le ossa degli uomini». Vengono in
mente, come per un’assonanza, certi versi di Narcìs Comadira, del 1976: “Nacquer così le
città: costruite lentamente con pietre che ieri furono vite di uomini: amori, patimenti da
tutti scordati”.
Certo è che queste case non sembrano fatte per restare immobili, non hanno paura
dell’oscillazione fra il mondo dei vivi e quello dei morti. D’altronde, così collocate fuori dal
tempo degli uomini, cosa mai dovrebbero temere nell’avvenire? Bernardino Telesio, nato
in quelle terre nel 1509, aveva il suo bel dire sul grado di sensibilità delle cose tutte. Argomentando dal caldo e dal freddo che dilatano e condensano ciò che ha corpo, egli sosteneva che proprio ogni cosa è dotata di vitalità. La vita è ovunque. Come la morte, si dirà. Da
certe espressioni delle case Kodra — che in modo così naturale respingono la fissità; che
inventano nuove forme di sopravvivenza per il borgo e così lo trasformano, dandogli ancora una possibilità, senza invocare il ritorno di un tempo che potrebbe anche essere stato
brutto — sembra che a vincere sia la vita. In effetti, come non vedere un sussulto di vita in
una facciata che al passaggio di un visitatore dispone la porta a zufolo e fischia?
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REDO CHE SIANO MIGLIAIA I FILM DEL TERRORE che hanno come punto focale una
casa. Perché le case è come se trattenessero sempre qualcosa del loro
passato. Nel bene ma soprattutto nel male. O almeno così ci piace
pensare. Fatto sta che non c’è paese che non abbia la sua casa infestata. La guerra
mi ha obbligato a passare la mia infanzia in campagna. Lì mi sono formato grazie
alle favole contadine che venivano usate come deterrente per farci stare
tranquilli, terrorizzandoci, prima di andare a dormire. Sono state favole
determinanti per alcuni dei miei film, e tra questi certamente “La casa dalle
finestre che ridono”. La più terrorizzante riguardava la riesumazione delle salme
dei cadaveri di San Leo. Quando ci raccontavano la parte in cui salta fuori che lo
scheletro del vecchio parroco era in realtà quello di una donna, noi bambini
gridavamo terrorizzati. Quell’idea del prete donna, non capivamo bene perché, ci
sembrava oscena, insostenibile. Alle favole si è poi aggiunta anche la follia della
mia terra. Nel mio film il protagonista è un restauratore invitato in un paesino
della Bassa per riportare alla luce un affresco di Buono Legnani, pittore pazzo,
famoso perché dipingeva i suoi soggetti nel momento della loro morte e, per
questo, definito il “pittore delle agonie”. L’ispirazione mi venne da Ligabue: l’idea
di dipingere grandi bocche sulla casa mi pareva fosse adatta a un pazzo di paese.
Da qui nasce il “gotico padano”, poi più volte ripreso anche da scrittori come
Lucarelli. Adesso l’edificio è crollato e la casa dalle finestre che ridono vive solo
nella memoria del film.
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IENTE GIOSTRE, NIENTE VISITE ALLO ZOO, niente gite in
bicicletta: eppure l’infanzia di Agata deve essere
stata una delle più avventurose mai vissute da
una bambina. Un viaggio estremo negli spazi infiniti della mente, un continuo gioco con il cervello
di un papà d’eccezione: Alighiero Boetti. Uno che
quando lei impara a scrivere le regala gli&TFSDJ[J
EJTUJMF di Raymond Queneau. «Aveva paura che
la scuola potesse rinchiudermi nelle regole, mi
impedisse di essere libera come lui». Uno che
quando Agata studia in matematica gli insiemi,
le propone classificazioni fantasiose: «1 chilo di
sale e 1 chilo di legno li metto insieme perché sono tutti e due 1 chilo. 1 sigaretta e 1 matita insieme perché sono cilindri. 2 pezzi di carta e 40 fiammiferi insieme perché sono più di 1». Peccato che l’inconsapevole maestra non abbia apprezzato.
Ecco: Alighiero Boetti, lo sciamano dell’arte concettuale scomparso nel ‘94,
ha cresciuto così i suoi primi due figli, li ha lasciati entrare nel suo studio, dove
poterono persino allestire un’enorme stanza dei giochi animata da centinaia
di animaletti di plastica, e ha aperto loro le porte della sua testa. Per una strana
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coincidenza — ma nel territorio di Boetti il caso è una necessità — ora Agata e
Matteo, quasi contemporaneamente,
dedicano un libro ai genitori scomparsi.
Quello di Matteo, gallerista, è un volume d’arte (%POUUFMMNZNVN*NBDPX
CPZJOUIFNPSOJOH, edizioni Essegi)
con testi, poesie e disegni, ma è soprattutto uno struggente atto d’amore per
la madre scomparsa due anni fa, la critica d’arte Annemarie Sauzeau.
Quello di Agata, che esce per Electa, è
forse il più bel libro che sia stato scritto
su Alighiero Boetti. Il sottotitolo potrebbe essere “Album di famiglia di un formidabile genio”, perché dalla scatola
dei ricordi della figlia — una vera scatola magica — escono centinaia di foto accompagnate da lunghe didascalie che
racchiudono il racconto di una vita e il
senso di un’estetica. Lui, fanatico di Herman Hesse, (autore de *MHJPDPEFMMFQFS
MFEJWFUSP), aveva instaurato con la fi-
glia un grande gioco, *MHJPDPEFMMBSUF,
come appunto si intitola il volume. Con
lei condivideva tutte, o quasi tutte, le
sue creazioni. E il suo diario di bordo ci
guida passo passo, e con tenerezza, nelle ragioni dell’arte del papà.
Per esempio: stesa sul prato nella
notte di San Lorenzo Agata esclama
«Le stelle sono ovunque, sono in disordine!». Alighiero risponde: «Niente affatto. Forse per noi, ma non per tutti!
Tu vedi il disordine nel cielo stellato.
Mentre per un astronomo è tutto molto
chiaro… Tu sai leggere i miei ricami, vedi dunque dell’ordine ma chi non conosce le regole trova del disordine». È forse la spiegazione più chiara e più semplice che sia mai stata fatta della serie
0SEJOFF%JTPSEJOF, immagine icona di
Boetti.
O ancora: Agata temeva di perdere
la scia di una stella cadente, «Non potrai mai essere presente a tutto ciò che
accade — la consolava papà — Molti avvenimenti possono accadere senza che
lo sappiamo». Ed ecco la ragione della
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che si accende per undici secondi all’anno, ma è impossibile sapere quando:
scultura crudele per il collezionista che
la comprò e non riuscì mai a vederla illuminata. Dopo dieci anni se ne liberò.
I telegrammi dal futuro, le lettere spedite a indirizzi inesistenti, le virgole, le
frasi inscritte nel quadrato, gli arazzi, le
dame: ogni gioco ha le sue regole, e ogni
volta Alighiero le inventava per sé e per
Agata, che creava accanto a lui, ne imitava i lavori, qualche volta ne diventava
coautrice, come quando i suoi origami
di rane finiscono nei quadri del padre.
Nello studio di Trastevere c’era un
tappeto («il nostro tappeto volante»),
sul quale decollavano alla conquista di
mondi fantastici, di vertigini matematiche, di nuovi ordini possibili in cui siste-
mare la realtà (le quadrature, i kilim, le
carte geografiche). La missione era
quella di non arrendersi all’evidenza:
ma di scoprire sempre nuove prospettive, inaspettate profondità. Ogni cosa
può essere più di una: e infatti si firmava Alighiero e Boetti, perché rivendicava la sua duplicità. Alla figlia regalò una
foto in cui era addirittura moltiplicato
per quattro.
La mente è stata la grande giostra su
cui Agata e i suoi quattro papà — bambini per sempre — si sono molto divertiti.
Qualche volta Boetti avrebbe voluta fermarla, fermarsi, tirare il fiato: perché, è
ovvio, non è stato solo un gioco. «Gli
massaggiavo spesso la testa, lui chiudeva gli occhi e io cercavo il tasto “pausa”
tra i suoi capelli. Rifletteva tutto il tempo, e ne era stanco, a volta esasperato».
Quel tasto Agata non l’ha mai trovato.
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LONDRA
I VUOLE OCCHIO PER COGLIERE L’ATTIMO FUGGENTE di una stel-
la del cinema che fa colazione sul bordo di una piscina, la
mattina dopo aver vinto l’Oscar, con la statuetta in bella vista sul tavolo fra una tazza di tè e i giornali sparpagliati a
terra. «Ma è un po’ più facile, se ti sei svegliato al suo fianco
prima di fotografarla», dice Terry O’Neill, scoppiando a ridere. La sua immagine del “post-Oscar breakfast” di Faye
Dunaway, il 29 marzo 1977, vale davvero più delle proverbiali mille parole: c’è un’intera storia, in quel clic, inclusa la
MPWFTUPSZ fra l’autore dello scatto e l’attrice, che era cominciata una settimana prima, li portò a sposarsi sei anni più
tardi e a divorziare dopo altri tre. Adesso, a settantasette
anni, O’Neill gira il mondo presentando mostre dei suoi ritratti: qualcuno è appeso alla National Portrait Gallery, tutti hanno contribuito a dargli la reputazione di fotografo dello
show-business più famoso del pianeta. Dai Beatles ai Rolling Stones, da Richard Burton a
Elizabeth Taylor, da Paul Newman a Sean Connery, da David Bowie ad Amy Winehouse,
nessuno dei grandi della musica e del cinema è sfuggito al suo obiettivo. L’ultima esibizione è allestita in questi giorni in una cornice italiana di Londra: il Fiat Motor Village, concessionario nel cuore chic della capitale. Per la serata d’inaugurazione ci sono tappeto rosso
all’ingresso, champagne e fragole al cioccolato, pubblico vip tra le fiammanti Fiat 500 che
hanno conquistato gli inglesi come (o più) della Mini. Donne e motori sembrerebbe un
cocktail familiare per il ritrattista delle celebrità. Ma lui arriva in autobus, solo, si scusa del
ritardo e ordina un bicchier d’acqua.
Ricorda quando ha scattato la prima foto
della sua vita?
«Certamente, avevo vent’anni».
Mai fatta una foto prima, da bambino,
da ragazzo?
«Mai. Sono cresciuto in una famiglia po-
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vera di Londra. A casa mia non c’erano macchine fotografiche».
Chi gliene mise in mano una?
«La British Airways. Il mio sogno era fare
il batterista jazz. E il grande jazz era nei
club di New York. Non avevo i soldi per andarci, così risposi a un’inserzione per fare lo
steward sulla nostra linea aerea nazionale,
sperando che mi ci avrebbe portato».
E come andò?
«Mi assunsero, ma non come steward: a
terra, al quartier generale. Meglio che niente, era pur sempre uno stipendio. Un giorno
bisognava fotografare l’inaugurazione di
un nostro nuovo aereo, il fotografo convocato per il servizio fece tardi, io ero lì e chiesero a me di scattare la foto. Ne feci un po’ e
per caso ripresi un tizio che sbadigliava annoiato in un angolo. Scoprii che era il ministro dell’Interno, un tabloid volle la foto e
mi pagò profumatamente. La mia carriera
è cominciata così».
Ed è proseguita a Fleet street, la mitica
“via dell’inchiostro” dove avevano sede
tutte le redazioni dei giornali di Londra.
«Diventai il più giovane fotoreporter di
Fleet street. Era un posto fantastico, mi divertivo come un pazzo, stavano esplodendo
gli anni Sessanta, con il rock, la minigonna,
la liberazione sessuale, e a me chiedevano
di fotografarli».
Si considerava un paparazzo?
«Forse lo sono stato anch’io per un po’. E
mi dicono che in Italia, dove avete inventato l’espressione, c’erano bravi fotografi specializzati nel rubare foto di gente famosa.
Ma oggi qui a Londra sono cacciatori di immagini senza scrupoli. Non mi piacciono
molto».
C’è una foto che le ha cambiato la vita?
«Eccome. Un giorno al %BJMZ4LFUDI, il
giornale per cui lavoravo, mi dicono di andare a fotografare quattro ragazzi che registravano canzoni in uno studio ad Abbey
Road. Andai, scattai, mettemmo la mia foto
dei Beatles in prima pagina e il giornale andò esaurito. Il giorno seguente ricevetti in
redazione una telefonata che mi chiedeva
di andare a fotografare un’altra neonata
rock band: i Rolling Stones. Diventai amico
degli uni e degli altri e da allora non ho più
smesso di fotografare cantanti e gente di
spettacolo».
È diventato anche amico di tutti?
«Di molti. Con Elton John ci sentiamo ancora. Con Frank Sinatra andavo a bere a Hollywood. E con Brigitte Bardot, a Saint-Tropez, bè, fu un’esperienza piuttosto carina.
Ma in genere preferivo mantenere le distanze. L’occhio del fotografo deve rimanere
estraneo per essere sincero».
Non tenne molto le distanze con Faye Dunaway, il mattino dopo l’Oscar…
«In quel caso, lo ammetto, aiutò essersi
svegliato accanto a lei. Una rivista mi aveva
mandato a seguire gli Oscar. Sapevo che le
foto alla cerimonia sono sempre tutte ugua-
li. Cercavo qualcosa di speciale, che desse il
senso di cosa significa ritrovarsi quella statuetta fra le mani. E il mattino dopo, in albergo, mentre Faye faceva colazione dopo
aver letto i giornali con il resoconto della serata, mi passò davanti l’attimo fuggente.
Era il momento in cui si rendeva conto che
niente sarebbe stato più come prima, che
era diventata una star e una milionaria. Ma
nel suo volto si coglie anche un’ombra di
malinconia, per tutta la fatica precedente,
gli sforzi non riconosciuti, l’insensatezza di
essere sempre la stessa persona eppure valere molto di più. Penso immodestamente
che sia la foto più bella mai scattata agli
Oscar. Ne sono ancora molto orgoglioso».
Con Faye come va?
«Siamo rimasti amici, abbiamo un figlio
insieme. Ma sposarla fu un errore. Non amo
le luci della ribalta e come marito di una
star sei sempre sotto i riflettori».
C’è un segreto per il ritratto perfetto?
«No. Tutta una questione di istinto».
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Quale è stato il soggetto più difficile da fotografare?
«Steve McQueen. Avevamo appuntamento, ma cacciò a calci dalla stanza me e il
press agent. Era di cattivo umore. Io però cominciai a scattare appena entrato e una foto a casa la portai lo stesso».
Qualcuno che vorrebbe fotografare e
non l’ha fatto?
«Ho fotografato tutti quello che volevo. E
poi non ci sono più le grandi star di una volta. La Kardashian non m’interessa».
Se la immaginava una vita così?
«Non lo immaginavo io e non lo immaginavano nemmeno quelli che fotografavo.
L’altro giorno ho incontrato Bill Wyman,
l’ex-bassista dei Rolling Stones, e mi ha detto: “Ricordi quando nei primi anni Sessanta
andavamo tutti insieme al pub e ci chiedevamo che lavoro avremmo fatto quando tutto questo sarebbe finito?”. Ebbene, incredibilmente non è mai finito».
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GLI ESEMPI
Che devo fare domani?
(DA FIN.VENTURES)
Devo chiamare mia madre
stasera
Te lo ricordo stasera alle 7
Non dimenticare che devi
chiamare anche Jessica
oggi (917.123.4567)
Comprare le cartucce
per la stampante
Inviare un feedback a
Miguel sul suo racconto
Concerto dei Sonic Youth
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ON NE POSSIAMO PIÙ DELLE APP: sono ingom-
branti, lente e frustranti». Così parlò Sam
Lessin, già super-manager che ha lasciato Facebook per fondare Fin,
un servizio di assistenti virtuali, robotici e umani, che «troveranno risposte, manderanno messaggi e ricorderanno tutto per conto vostro». Non è che uno dei pionieri
dell’incipiente CPUFDPOPNZ che il
suo ex capo Mark Zuckerberg ha
tenuto a battesimo un paio di settimane fa a San Francisco annunciando l’apertura di Messenger e WhatsApp a
software esterni attraverso i quali sarà possibile comprare fiori, hamburger,
notizie, servizi bancari e molto altro. Via normali messaggini, senza bisogno
di scaricare niente. «Lo userete come Siri, Echo o Google Now, con l’unica differenza che…. funzionerà» chiosa malizioso Lessin, citando alcuni dei più famosi assistenti vocali del momento. Se la promessa sarà mantenuta, potrebbe essere
una rivoluzione. Di addii prematuri è però lastricata internet, come quando una
celebre copertina di 8JSFE (marzo ‘97) congedava il browser a favore dei servizi
QVTI, quelli che ci avrebbero mandato le informazioni direttamente nella casella
email. Non è andata esattamente così. Stavolta però potrebbe essere diverso.
Intanto la fame di app è in calo, dopo il pantagruelico banchetto che, dal 2007
del primo iPhone a oggi, ne ha fatte scaricare circa cento miliardi. È stato un mercato
molto ricco (quaranta miliardi di dollari) e altrettanto disuguale (circa metà degli introiti
sono andati ai venti principali sviluppatori e delle otto app presenti nel 94 per cento degli
smartphone ben cinque sono di Google). Soprattutto un dato fa pensare: un quarto delle
app scaricate viene abbandonato dopo il
primo utilizzo. Uno spreco di tempo (di do- rator, invece, è un risolvi-problemi generawnload) e di spazio (sul cellulare) che i bot lista, orientato allo shopping. A Digit, via
risolverebbero. Galoppano invece i numeri sms, puoi chiedere di spostare soldi dal condella messaggistica. WhatsApp raggiunge to corrente a quello deposito. E si tratta di
un miliardo di persone (un utente medio lo un’avanguardia minima, per la maggior
usa duecento minuti alla settimana), Mes- parte disponibile negli Stati Uniti, di legiosenger novecento milioni e in totale parlia- ni di software che stanno per invadere il
mo di un pubblico di 2,5 miliardi di esseri mercato.
Memore di tante novità spacciate per
umani che, in un paio d’anni, dovrebbero
arrivare a metà della popolazione mondia- fuochi d’artificio e poi rivelatesi patetici pele. Gli adolescenti ci passano già più ore che tardi, chiedo a un esperto di quantificare il
sui social network. Mi viene in mente Jona- fenomeno. «Al momento» risponde Mithan Crary quando scrive in (Einaudi) chael Vakulenko, direttore delle strategie
che “l’enorme quantità di tempo che tra- della britannica VisionMobile, «la categoscorriamo dormendo, affrancati da quella ria più promettente di bot ha a che fare con
paludosa congerie di bisogni artefatti, rap- l’assistenza ai clienti. Promettono di rimpresenta uno dei grandi atti di oltraggiosa piazzare gli antiquati numeri verdi con siresistenza degli esseri umani alla voracità stemi automatizzati che, quando il softdel capitalismo contemporaneo”. La scom- ware non sarà sufficiente, dirotteranno su
messa analoga qui è di colonizzare que- operatori in carne e ossa. Dunque parliamo
st’immane oasi di socializzazione e conver- di un mercato potenzialmente grande
tirla a finalità commerciali. Immaginatevi quanto quello». Considerato che la compase, oltre a mandare unaGBDDJOB alla fidan- gnia telefonica At&t da sola spende ogni
zata, poteste anche, dallo stesso program- anno quattro miliardi di dollari per i suoi
ma, prenotare un fine settimana romanti- centomila operatori, si tratta di una torta
co. È quello che promette Pana, agenzia di gigantesca. Le incontrastate reginette delviaggio consultabile via messaggino. Ope- la festa delle app sono state Apple e Goo-
DALLA
APP
ECONOMY
100 MILIARDI
Dal 2007 (primo
iPhone a oggi)
sono state scaricate
circa 100 miliardi
di app, generando
un indotto di 40
miliardi di dollari
I VINCITORI
Google e Apple
controllano
il mercato
con l'80% (Android)
e il 10% (iOs) dei
sistemi operativi
degli smartphone
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POSTI DI LAVORO
Per il Progressive
Policy Institute
avrebbe creato 3,3
milioni di posti
di lavoro tra Europa
e Usa. Ma c'è chi
dimezza la stima
GUADAGNI
I 20 principali
sviluppatori
prendono
circa la metà
degli introiti,
gli altri solo
le briciole
SUPER GOOGLE
Delle otto
applicazioni
presenti
nel 94% degli
smartphone,
cinque
sono di Google
ALLA
BOT
ECONOMY
COS'È UN BOT
In questo caso
chat-bot,
è un assistente
virtuale con cui
interagire attraverso
messaggi
di testo
la Repubblica
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Puoi mandare a Jenny
un link all’intervista che mi
era piaciuta su Vanity Fair?
Fatto! Le ho appena girato
l’intervista per email
Che pianta è quella che
vedi nella foto in fondo
a destra? Ha bisogno
di molta acqua?
Strelizia Nicolai (Giant Bird
of Paradise). Preferisce
la luce diretta del sole
Plant Warehouse dovrebbe
averne in magazzino
Grazie!
Altrimenti la possono
ordinare Plant Warehouse:
(415) 885-1515
INFOGRAFICA DANIELE SIMONELLI
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gle. Se ora Facebook riesce a trasmutare il
-JLFin #VZ, a condurre le danze in Occidente potrebbe essere lei. Ancora Vakulenko:
«In Cina il leader è WeChat, in Giappone Line, in Corea del Sud KakaoTalk. Poi ci sono i
piccoli come Skype, Telegram, Kik e Viber,
ma sarà dura per loro scalfire il predominio
di Zuckerberg». D’altronde, confessava a
#MPPNCFSH qualche giorno fa il capo di Messenger, David Marcus, «oggi non c’è guadagno ma gradualmente ci inventeremo un
modo per monetizzare la piattaforma». Anche perché la gente ormai la scarica di più
(cento milioni al mese da gennaio) di quanto non faccia con l’applicazione di Facebook. Confermando per via empirica il
“peak” che le app tradizionali avrebbero ormai raggiunto.
La strategia è semplice e antica: consentire al proprio cliente di fare tutto senza lasciare l’ambiente in cui si trova. Era quello
che succedeva con i portali negli anni Novanta, che offrivano la mail, le notizie, il meteo. O con Chrome, che da browser è diventato sistema operativo, giusto per nominarne un paio. Ora è il momento di Facebook
che vorrebbe organizzare intorno alla mes-
LA PREMESSA
Oggi
oltre 2,5 miliardi
di persone hanno
un’applicazione
per la messaggistica
istantanea
sul telefonino
200 MINUTI
L’utente medio
del sistema
di messaggistica
WhatsApp
lo utilizza
per circa 200 minuti
alla settimana saggistica il resto della vita online. Usando
una versione aggiornata di quelli che,
nell’ormai classico &TTFSFEJHJUBMJdel ‘95,
Nicholas Negroponte chiamava «agenti intelligenti». I nuovi bot non sono che la prassi di quella teoria. Grazie al recente salto di
qualità dell’intelligenza artificiale e ai passi avanti nella comprensione del linguaggio naturale. Oltre che a una maggior dose
di realismo che M., il prototipo dell’assistente virtuale di Facebook, incarna bene.
Dal momento che, come ha dimostrato un
giornalista di #V[[GFFE, molto spesso si limita a ricevere la richiesta e a smistarla a
esseri umani che fanno il lavoro sporco. Un
po’ come il «turco meccanico» di Maria Teresa d’Austria, l’automa che sembrava giocare a scacchi ma in realtà nascondeva al
suo interno un maestro umano. Bit o atomi, quel che importa è il risultato. Se i bot ci
semplificheranno la vita, consentendoci
esperienze migliori di quelle cui le app ci
hanno abituato, non ci penseremo due volte a liquidarle. Viceversa continueremo ad
affollare il nostro schermo tascabile di icone POFOJHIUTUBOE. In attesa di meglio.
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LA SCOMMESSA
La bot economy
utilizzerà
l'intelligenza
artificiale
per cercare
di vendere beni
o servizi
DOVE SARANNO
Sui servizi
di messaggistica,
da WhatsApp
a Telegram,
da Facebook
a Messenger
e così via
la Repubblica
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L PIÙ AMATO DAGLI ITALIANI. COMPRATO E GUSTATO in modo trasversale per età e ceto sociale. Mangiato in tutte le stagioni, tagliato in fette spesse con la polenta e sottilissime sulle tartine estive. Ingrediente-base di omogenizzati e menù per anziani, per via
dell’BMMVSF di cibo sano e digeribile, che si porta appresso da sempre. Declinato in cento modi diversi: in purezza nel panino più fragrante, democraticamente comprimario
in insalate, sughi, farciture. Il prosciutto cotto ben rappresenta la grande contraddizione alimentare: lo mangiamo più di qualsiasi altro salume (4,6 chilogrammi a testa
su un totale di quasi diciotto), scegliendolo per bimbi e malati, ma a patto che costi poco, pochissimo: in più, lo vogliamo magro ma morbido, naturale ma a lunga conservazione. E mai o quasi chiediamo di che prosciutto si tratta.
Il nome identifica la preparazione. Prosciutto, ovvero prosciugato. Risultato che a
crudo si ottiene salando e stagionando, mentre a cotto occorre il passaggio in forno.
La normativa datata 2005 codifica tre tipologie: cotto, scelto e alta qualità, in base ai tagli di carne, dai ritagli ricomposti ad almeno tre dei quattro muscoli della coscia, e all’umidità interna,
che nel cotto semplice, grazie a polifosfati e proteine di latte e soia, supera l’80 per cento. Come
dire: comprare acqua pagandola per prosciutto, insieme a certe sfumature arcobaleno e all’aspetto lucido, gelatinoso.
Eppure, anche l’alta qualità (meno del 75,5 per cento d’acqua) lascia spazio a correzioni non
proprio virtuose, tra ingredienti — vino, zucchero, aromi e spezie, naturali e no — insaporitori e
conservanti, perché l’asticella andrebbe alzata un passo prima, al momento di scegliere le carni.
Oggi in Italia, due cosce lavorate su tre sono
straniere per colpa del prezzo vergognosamen- racconta così il suo celebre prosciutto cotto:
te basso pagato ai nostri allevatori, inferiore a “Lavoriamo esclusivamente maiali di un piccoun euro e mezzo al chilogrammo. Ma i respon- lo allevatore di Montechiaro d’Asti, che li cresabili dei grandi marchi di salumi italiani non sce allo stato semibrado con foraggio naturale
sembrano crucciarsene troppo. Sul sito di un di cereali e granturco. Prepariamo la salamoia
produttore famoso si legge: “Gli standard sono con un decotto di Marsala, spezie, erbe, acqua
più o meno uguali in tutta Europa e questo con- e sale, iniettato nelle vene delle cosce perché si
tribuisce a livellare sia l’aspetto qualitativo, distribuisca fino ai capillari. Dopo tre settimache quello di sicurezza igienica delle carni de- ne di marinatura, cottura in forno a bassa temstinate alla produzione di salumi. Al di là dei sa- peratura per ventidue ore. Il calo di peso è di
lumi Dop, l’origine della carne non è determi- quasi un terzo, da tredici chilogrammi a crudo
nante né per la qualità, né per la salubrità del a meno di nove, con una percentuale di umidiprodotto... Il glutammato di sodio viene impie- tà inferiore al 70 per cento”.
gato come additivo per stimolare i ricettori delIl prezzo — 39 euro al chilo — è direttamenla lingua aumentando la percezione del gusto te proporzionale alla qualità della carne e indi carne”.
versamente alla percentuale d’acqua. Poco ma
Dall’altra parte, le produzioni artigianali. La buono, si diceva un tempo. Per il prosciutto cotfamiglia Baudracco, che da quasi mezzo secolo to vale ancora.
lavora nell’ambito della gastronomia torinese,
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INGREDIENTI:
300 G. PROSCIUTTO SAN GIOVANNI A TOCCHETTI
100 G. DI PANNA LIQUIDA
50 G. DI BRODO VEGETALE;
180 G. DI BURRO AMMORBIDITO;
8 NESPOLE; INSALATA DI STAGIONE; ERBA CIPOLLINA; 1 CIPOLLA
BUCCIA DI UN LIMONE BIO; DADINI DI PANE
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agliare la cipolla a rondelle sottili, rosolare leggermente in poco extravergine, poi aggiungere il prosciutto cotto tagliato a tocchetti. Salare,
pepare, unire la panna, cuocere per dieci minuti, poi
frullare aggiungendo anche il burro ammorbidito.
Riempire uno stampo foderato di pellicola e far
riposare in frigorifero per quattro ore.
Nel frattempo, dorare i dadini di pane con un
goccio d’olio extravergine in padella oppure in
forno. Sbucciare le nespole, affettarle, condirle
con olio, pepe, sale, erba cipollina e buccia di limone. Appoggiare l’insalata nel centro del piatto, sopra una fetta di terrina.
Decorare, infine, con il pane tostato e con le
nespole.
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VOLTE RITORNANO. Il Cotto
(sia prosciutto o
mortadella o il redivivo
salame rosa) è soprattutto
comodo. Si taglia in un
attimo, si fa a fette o a cubetti, si infila in
un panino, si aggiunge in un ragù
istantaneo. Nelle case contadine il
prosciutto cotto non esisteva. Se una
coscia non era adatta alla stagionatura
— troppo piccola, troppo magra, troppo
giovane — veniva tagliata a pezzetti,
macinata e trasformata poi in salami e
salsicce. È stata l’industria a reinventare
(secoli e secoli dopo i celti e i galli Boi che
bollivano le cosce suine) il prosciutto
cotto. Appare già nel 1866 a Castelnuovo
Rangone nel modenese, nella ditta di
Costante Villani ed Ernesta Cavazzuti,
che diventerà la Villani Spa.
Il prosciutto crudo era un tesoro. Ma
bisognava aspettare almeno un anno,
prima di affilare la coltellina e fare il
primo assaggio. Era il capo famiglia, a
guidare la cerimonia, davanti a figli e
nipoti già con un pezzo di pane in mano.
Due o tre fettine poi la coltellina veniva
di nuovo affilata con la “pietra da cote”
usata per la falce da fieno. Il Crudo però
non sempre è stato il Re della tavola, sia
in campagna che in città. Narrano le
cronache che l’altro Cotto per
eccellenza, la mortadella, nel Seicento
costava a Bologna “nove volte più del
pane, tre volte e mezzo più del
prosciutto, due volte e mezzo più
dell’olio”.
Anche la coscia di maiale cotta — in
anni lontani dall’attuale resurrezione —
ha prodotto vere e proprie fortune.
“Stabilimento a vapore fratelli Zappoli
1884”, è scritto sull’ex fabbrica che a
porta San Felice a Bologna ospita ora la
redazione de “La Repubblica”. I “salumi
fini” cotti a vapore venivano confezionati
in scatole di metallo e venduti anche
negli Stati Uniti. Venivano “lavorati”
quindicimila maiali all’anno e gli Zappoli
entrarono nell’élite dei ricchi bolognesi.
Comprarono un grande appezzamento
di terreno, i prati di Caprara, e vi
costruirono un ippodromo privato. Ogni
anno, spettacolo per tutti i bolognesi.
Nel 1890 fu invitato Buffalo Bill, con i
suoi “Indiani d’America”. In
quell’occasione i cittadini delle Due
Torri impararono che il granoturco
poteva diventare non solo polenta o
mangime per le galline ma anche pop
corn. Il ricordo di quello spettacolo
(“Wild West Show”) fu tramandato di
padre in figlio e nacque anche un detto
popolare: “Andare come un Saiano”
(correre molto forte) dove Saiano
sarebbe la “traduzione” in bolognese di
Cheyenne.
Fra i cotti sta trovando fortuna anche
il “salame rosa”, dimenticato da decenni,
fatto con trito scelto di spalla e
prosciutto con aggiunta di grasso di
guanciale. “Ha il gusto e il profumo di un
arrosto”. Essendo saporito — e comodo
— forse anche lui correrà “come un
Saiano”.
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NAPOLI
È UNA SCENA, nel film /PHSB[JFJMDBGGÒNJSFOEFOFSWPTP, in cui
James Senese interpretando se stesso risponde alle domande
del giornalista Lello Arena. L’intervista si chiude con Senese
che urla “7BUUÒOOFDBTJOOÛUFTDBTTPAPTBTTPGPOPOGBDDJB”
— vattene perché altrimenti ti rompo il sassofono sul viso. Ricordo al “Maestro”, qua tutti lo chiamano “Maestro”, oppure ”Jé”, di quel simpatico sketch cinematografico. E lui, durante tutto il nostro incontro, farà del suo meglio per smentire «questa brutta OPNJOBUB» di essere «OVUJQPAODB[[VTP», una
persona irascibile. Ma già il tono della voce, la rauca possenza del timbro, la massa
di capelli neri, la sola «presenza», come lui stesso dice di sé, incutono ancora oggi
che ha settantuno anni un certo timore. Non solo reverenziale, come sarebbe giusto, anche fisico. In più ci sono gli aneddoti, molti dei quali già raccontati nella bella autobiografia scritta con Carmine Aymone anni fa e ora in ristampa (+FTUPDDË,
Guida editore, e il senso del titolo si capirà meglio alla fine). Come per esempio
quella volta agli inizi, quando James suonava con gli Showmen. Dopo un mese di
serate il proprietario del locale di Milano Marittima li informò che non avrebbe
cacciato una lira: «Scesi. Andai da un benzinaio. Comprai dieci litri di benzina. Tornai nel locale, svitai il tappo e dissi: BMMPSB DBNNBGB ». Oppure come quell’altra
volta, quando invece aveva appena messo in piedi i Napoli Centrale. I proprietari
del grande albergo di Messina pensavano, con quel nome, di avere ingaggiato un
gruppo che eseguiva brani classici napoletani. Scoperto l’equivoco si rifiutarono
di mettere mano al portafoglio: «Mi spogliai e mi diressi in sala nudo come
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mamma mi aveva fatto. Cambiarono idea». Ma, aneddoti a parte, a far diventare James Senese uno /HB[[BUFOJSF, incazzato
nero, come suggerisce il titolo di un suo vecchio brano, c’è soprattutto tutta una vita molto in salita e spesso passata a doversi difendere. Da che cosa un po’ ce lo racconta, e un poco lo
dobbiamo intuire, nel tinello di casa sua adibito a essenziale
studio di registrazione.
Sulla scrivania un grande Mac e il mixer. A terra, accanto al
divanetto, un sax soprano. «La mia unica arma». Sulle pareti le
foto di James con gli Art Ensemble of Chicago, James con la formazione storica dei Napoli Centrale, James all’Apollo Theatre
di Harlem, James con Pino Daniele: «Napoli è una città piena di
invidia, soprattutto nel nostro ambiente. A me nessuno m’ha
mai toccato perché lo sanno tutti che a James quando suona lo
fai attenzione, non sentire la musica, ascolta le parole: offendono una donna bianca che fa un figlio con un nero. Insomma dice che APHVBHMJPOFÒAOVGJHMJFAF[PDDP
MB. Ti dicessi che è stato facile direi bugia. Dovevi conquistarti una tua dimensione
e quando sei bambino non è automatico, te lo devi imparare a forza. Io mi guardavo e lo vedevo che non ero come gli altri. Figurati gli altri: “4JOOJSF”, sei nero, questo era. Cercavo di rendermi simpatico, più volte cambiavo strada. Me lo consigliò
nonno Gaetano, il mio vero padre. Mi diceva “+ÏOVOEBSFUUB”, non ci pensare.
Grazie a lui ho imparato ad andare sempre per la mia strada». Ha due anni quando
il padre se ne va: «In pratica non l’ho mai conosciuto, di lui mi sono rimasti i dischi
che portava a casa e una fotografia. Seppi più tardi che mia madre gli scriveva lettere a cui lui non rispose mai. Ma non l’ho cercato. Se se n’era andato aveva le sue
ragioni. In America si era fatto un’altra famiglia. Ho capito. Ho perdonato. È una
storia chiusa. Poi, come le ferite, qualche volta si apre». Quella fotografia compare
in un suo vecchio disco, )FZ+BNFT, con il sax urlato e la voce tirata: “Cerco / sono
solo / nel tramonto del mattino / io lo so che tu ci sei”. E i dischi? «Nel nostro vico la
musica era dominante. Gli americani avevano portato i 45 giri fatti a 33, swing,
boogie woogie, Glen Miller. In casa tenevamo un grammofono che era una cosa
troppo bella, dentro ci stava il giradischi e il bar. E dentro i dischi, ci stavano le orchestre. Trombe e sassofoni. Avevo dodici anni quando scelsi il suono del sassofono. Andammo a comperarlo con mia mamma giù a Napoli, a san Sebastiano, allora lo pagammo settantamila lire a cambiale. Era un “ministeriale”, mancavano
perlomeno sette-otto chiavi — professionalmente parlando. Poi imparai la musica
dalla buonanima del maestro Santoro. Abitava a Piscinola, il paese qua dietro. Ci
andavo tutti i giorni. Ci andavo a piedi».
Ormai James aveva preso la sua strada. Al suo fianco c’era Mario Musella, nato
lo stesso anno, stesso palazzo: «Pure lui come me era figlio della guerra, solo che
suo padre era un cherokee e il mio della North Carolina. La musica che ci piaceva
era il rhythm and blues. Con le scarpe stavamo a Miano, a Piscinola, ma la testa stava nel Bronx». Mettono in piedi gli Showmen. Il loro Sessantotto sarà incidere riarrangiandolo un vecchio brano degli anni Trenta: 6OPSBTPMBUJWPSSFJ vince il Can-
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"%*0(-*$)*&%0."$)&)"*'"550 tagiro e conquista l’Italia. Sono soldi. Ma dopo qualche anno la favola finisce: «Mario decise che voleva fare il solista. Senza più un nome tornammo a essere quello
che eravamo prima. Nessuno. Ma ormai io ero partito in cerca della mia musica. Ci
stavano gli Area, i Weather Report, scoprivo John Coltrane...». James si inventò
una cosa che prima non esisteva e la chiamarono Napoli Centrale. Il primo Lp esce
nel 1974 e vende novantamila copie, il singolo $BNQBHOBè dahit parade, tra i tanti grandi artisti che chiedono di poter partecipare a quell’avventura nel ‘78 c’è anche un giovane Pino Daniele. Intorno a Senese nasce e cresce il “Neapolitan Power”. Troppo lunga la lista dei nomi.
Da allora sono stati momenti alti, bassi e pure piatti in cui James ha tirato
dritto, guardando avanti, indietro mai, sostanzialmente GPUUFOEPTFOF, direbbe lui, dell’aspetto commerciale. «Più che altro per un fatto naturale»,
nessuna ideologia. Adesso è arrivato al suo ventesimo «ellepì». Lp, dice proprio così: «Chi mi piace dei nuovi artisti? A"WFSJUË?/JTDJVOP. Pensano tutti
a fare la canzonetta che dura tre, quattro, al massimo cinque mesi. Io in questo disco parlo direttamente al Signore, mi capisci? Per dirgli: tu hai fatto tutto quello che hai fattoNBDIBKFGBUUP 1FDDIÏÒUVUUBDDVTTÖTCBHMJBUP L’ho
intitolato A0TBOHIF, il sangue, una parola estrema. Come me. Io sono nato
ribelle. Fossi nato in America sarei Malcolm X. Sono uno che tiene la
quinta elementare ma ho sempre studiato. Sono uno che tiene più di
settant’anni ma non mi sono mai seduto. Sono uno che ha sempre
detto quello che pensa. E sono uno che si è sempre fatto un mazzo
tanto. Cammino sulla mia strada dagli anni Sessanta. Scorciatoie non ne ho pigliate mai. Molta gente che conoscevo oggi non ci
sta più. +FTUPDDË». Ed ecco meglio spiegato il titolo di cui sopra.
Ora, ultima domanda-suicidio prima di salutare. James, ma tu
ti tingi i capelli? «Me li tingo da quando tenevo vent’anni. Non erano bianchi ma erano marroni, anzi, marroncini. E non mi piacevano. Me li lisciavo pure, come a James Brown. 7BCCVÛ &DPNVORVFKFBMNFOPFDBQJMMF
AFUUFOHP»Lui almeno i capelli ce li ha
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Era già suo il sax di “Un’ora sola ti vorrei” che con gli Showmen
squarciò l’Italia degli anni Sessanta. Suo il sax arrabbiato il cui
suono, con e senza i Napoli Centrale, è arrivato fino al Terzo millennio. Ora, a settantuno anni, esce il suo ventesimo disco. Si intitola “O’ sanghe”. Lui, nero a metà, uno dei padri del “neapolitan
power”, continua a guardare avanti: “Non mi sono mai seduto sugli allori, ho solamente cercato la mia strada e suonato la mia musica. Ho detto quello che pensa- devi
lasciare stare. Ma Pino, Pino è stato il più odiato. Da chi? Da quegli pseudomusicisti che fanno finta di suonare ma OVOTBOOPGBNBODPAPDB[’ tanto per essere
E che non fosse voluto bene è stata la cosa che lo ha fatto soffrire di più. Per
questo se ne andò da Napoli». James no. James ha sempre abitato qui a Miano, hinvo. Scorciatoie non ne ho prese chiari.
terland napoletano, backstage del Golfo, cemento senza mare: «Per me è principalmente un fatto di sentimento. Io e mia moglie ci siamo sposati qua che tenevo
Qua abbiamo cresciuto due figli che mò sono grandi. E poi dove me ne
mai. Ribelle lo sono stato sem- diciott’anni.
dovevo andare? Forse solamente in America, solo là mi sono sentito un uomo veramente libero. Ma la verità? Io qua ci sto bene. Però devi essere forte, non guardarti
intorno e devi avere una strada, la tua, sulla quale camminare».
pre. Fossi nato in America inve- troppo
L’appartamento dei Senese si trova all’interno del Parco Ice Snei, palazzine popolari anni Cinquanta appena imborghesite da una sbarra e da una guardiola con
«Io sono nato cinquecento metri più in là, 6 gennaio 1945, Vico Parise al
ce che a Miano oggi mi chiame- portiere.
civico 8. Qua era tutta terra». Figlio di Anna Senese, napoletana, e di James Smith, soldato afroamericano, prima ancora che incazzato James nasce OJSF, nero, e a
dispetto della 5BNNVSSJBUB non doveva essere una cosa tanto in discesa neppure
reste Malcolm X”
nella Napoli anarchica del Dopoguerra: «Quella? Quella è una canzone razzista,
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