17 Aprile 2016 - La Repubblica.it

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CORSIER-SUR-VEVEY
N CAMINO ACCESO. Sul tappeto
un magnetofono in funzione.
Un’orchestra risuona in questo salone ricco di mobili antichi e quadri, legno prezioso e
cornici dorate, porcellane di Dresda ed elefanti d’argento. Seduto in poltrona c’è Charlie Chaplin. Ha ottantasei anni, abito nero,
capelli bianchissimi. Incrocia le mani mentre intona con un soffio di voce il verso di
una canzone, "MJUUMFCJUGBJOU, poi aggiunge:
«Me la cantava sempre mia madre». Su
un’altra poltrona è seduta la moglie, Oona
O’Neill. Sorride, guarda il marito, la mano
poggiata sotto il mento. È una delle scene finali del documentario *MWBHBCPOEPHFOUJ
MVPNP, che cattura con il sapore da filmino
di famiglia quella che potrebbe essere stata
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una domenica pomeriggio lenta, vissuta
dai Chaplin nella grande tenuta a Corsier-Sur-Vevey, piccolo villaggio svizzero
sulle rive del lago di Ginevra: piazzetta con
chiesa, vecchia locanda, stradina per il cimitero, proseguendo verso la collina si arriva
al Manoir de Ban, una casa costruita a metà
Ottocento, in stile neoclassico, immersa in
un parco di quattordici ettari. Chaplin ha
vissuto qui dal 1952, da quando accusato di
antiamericanismo durante il maccartismo
non poté più rientrare negli Stati Uniti, fino
al giorno della morte, il 25 dicembre 1977.
Da oggi la casa apre al pubblico. Per l’occasione è stata creata anche una nuova fermata dell’autobus 212, la fermata Chaplin. Chi
scende qui attraversa la strada ed entra nel
“Chaplin World’s Museum”.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
2 SETTEMBRE 1953
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ARO CLIFFORD,
solo qualche riga per farti sapere come stiamo. Da quando ho
piantato le tende qui in Svizzera respiro e mi sento più libero.
Che lusso dopo quarant’anni passati in quel
tuo dannato paese, è come essere appena
usciti di prigione. L’Europa sta assumendo
un’immagine nuova, sia politicamente che
culturalmente e l’America al confronto sembra antidiluviana. Da qui si ha la visione del
corpo politico mondiale e l’America spicca come un grosso orribile foruncolo.
Ma basta con i pensieri malsani e spiacevoli — qui in Svizzera si sta proprio bene. Puoi
socializzare con personaggi illustri, i ricchi e
gli artisti, che tu ne condivida o meno le idee
politiche — non sono come gli americani irre-
gimentati, che vogliono castrarti perché la
pensi diversamente. Abbiamo una bella casa
con quattordici ettari di terreno sopra Vevey,
città bella e antica, che ha ospitato Rousseau
e Courbet. La vista del lago e delle montagne
ha un fascino indescrivibile e i bambini sono
tutto il giorno in esplorazione nei boschi e nei
frutteti, si arrampicano sui ciliegi, i peschi, i
susini, i meli, i peri. Nelle giornate di sole come queste pranziamo nel frutteto e dovresti
sentire quant’è buono il mais che coltiviamo… e le fragole, i lamponi e il ribes nero.
La posizione è strategica, in due ore raggiungiamo in pratica tutte le capitali europee. Sono stato parecchie volte a Londra e a
Parigi ma la maggior parte del tempo la passo a Corsier — è proprio la casa di campagna
ideale.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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UE PERSONE SPECIALI mi conducono in questo tour guidato a po-
chi giorni dall’inaugurazione: Michael Chaplin, uno degli otto
figli avuti con Oona O’Neill, e Edita Spinosi «nata Imperatori»,
come precisa lei, ottant’anni, che in questa casa ha vissuto prima che venisse a viverci la famiglia Chaplin. Perché poi alla fine questa è la storia non solo della casa di un uomo molto famoso, ma la storia di ciò che tutti noi lasciamo nei luoghi che abitiamo, l’eco che rimane quando ce ne andiamo, pronto per essere sentito da chi pagherà un biglietto ed entrerà a vedere dove le cose sono accadute.
«La prima volta che ho sentito parlare del Manoir è quando
nostro padre venne a prenderci in albergo, dove vivevamo da
mesi, e ci disse — Vi faccio vedere la vostra nuova casa», ricorda Michael. All’ingresso, dove oggi c’è una statua di Charlie
Chaplin immortalato in un saltello mentre con una mano saluta chi entra, un giorno degli anni Sessanta ad aspettare il figlio, oggi settantenne, c’era il padre in carne ed ossa. «Anche
lui aveva una mano sollevata, ed era diretta sulla mia guancia. A quindici anni mi ero innamorato di una ragazza che lavorava a Losanna, e così invece di andare a scuola andavo da
lei. Fino al giorno in cui mio padre lo scoprì...».
All’interno della villa le pareti sono biografia e i corridoi album fotografici. Domenica 4 dicembre 1960 la famiglia al
completo è in posa al cinema Rex di Vevey. Mercoledì 15 ottobre 1964, Charlie è tra il pubblico del circo Knie. Ed eccolo ancora che guarda il lago al tramonto, che scherza sul patio con
la figlia Geraldine. Tutta la sua vita scorre sopra la spalliera
del letto. Vicino alla finestra c’è un tavolino con sopra uno
schermo, delle carte da poker si muovono in animazione. Sulla sedia non è ancora stato posizionato il manichino, così sembra che nella sua stanza ne aleggi lo spirito. «La mattina di Natale del 1977 mi svegliarono alle
quattro per dirmi che era morto», racconta Michael. «Era nel suo letto, grande, solido, gli ho
preso la mano e sono rimasto lì a guardarlo. Mia madre ha voluto lasciare la camera intatta. Ha
fatto ridipingere il resto della casa, ma la sua camera mai». Venne però chiamato un fabbro
per fare aprire il tiretto del grande comò che era nella stanza del padre. Dentro vi trovarono
una lettera, “Ciao Charlie, in merito alla casa in cui dici di essere nato, sei un piccolo bugiardo
ma puoi essere perdonato perché effettivamente non sai dove sei nato, e chi sei veramente. Se
vuoi saperlo te lo dico io: sei nato in una roulotte, era bella e apparteneva alla regina degli zingari, mia zia”. Michael riflette: «Penso non avesse mai parlato a nessuno di quella lettera, ma
per me fu un ritrovamento meraviglioso: sapere chi sei, da dove vieni, e custodirlo in un cassetto».
Altro momento meraviglioso alla fine degli anni Cinquanta, nella biblioteca: «Mio padre stava lavorando alla sceneggiatura di 6OSFB/FX:PSL e mi fece capire che avrei avuto un ruolo.
Avrei interpretato un ragazzino precoce, dalle idee rivoluzionarie. Il contrario di ciò che to passare. Un giorno fu quella di Roberto Rosero, timido e in ritardo sulle cose». Ad aiutar- sellini, voleva mostrarla a mio padre e ci prolo a imparare la parte ci pensò la governante: pose di fare un giro a Losanna. Sulla strada in«Al Manoir eravamo un piccolo Stato. C’era- crociammo una Cadillac e cominciammo a gano uno chauffeur, un maggiordomo, una cuo- reggiare, con mio padre che diceva — Vai Roca, un aiuto cuoca, tre cameriere, tre giardi- berto, vai, superala! Era un CPOWJWBOU, gli pianieri, una segretaria. Quando volevo stare so- ceva avere gente intorno, si divertiva a vedelo mi alzavo la mattina alle cinque e passeg- re i suoi bambini, amava mangiare bene e gogiavo nella foresta tra volpi e cervi».
dersi la vita, ma nell’intimo penso fosse an«Quando sento questi racconti di famiglia che molto tormentato, non così certo del valorivedo la solitudine di mia madre in questa ca- re di ciò che aveva fatto. Mio padre si sentiva
sa immensa» ricorda anche la signora Edita, solo nella vita e in ciò che aveva realizzato, e
quasi sottovoce: «I miei genitori, Wilheilm ed dunque a volte c’era una sorta di pesantezza
Edit, la comprarono nel 1939. Mio padre l’ha che io, bambino, avvertivo».
vissuta per un solo inverno». Continuiamo a
Il pianoforte dove Chaplin compose le mucamminare ed Edita è talmente emozionata siche dei suoi film, dove ogni Natale suonava
che rischia di inciampare ogni volta che indi- la pianista Clara Haskil, dove si sedeva quanca un angolo della casa, proiettando ciò che do aveva dei pensieri, è di nuovo qui, nel saloancora vede: «Qui è dove mamma mi disse ne in cui cantava "MJUUMFCJUGBJOU. D’estate lache mio fratello era stato ferito in guerra. Ero vorava in terrazza, dove anni prima Edita aveuna bambina e per me ferirsi equivaleva a far- va giocato con le due bambine rifugiate che
si un taglietto, non alla morte. E qui è dove mi la madre accolse durante la guerra. Nello studisse di aver venduto casa, io l’abbracciai for- dio in cui Chaplin dettava le sceneggiature alte perché volevo andarmene via, volevo una la segretaria oggi c’è una statua, indossa uno
casa normale, sognavo un condominio».
smoking e solleva un bastone con in cima un
Fuori dal cancello passa Roberto Rossellini cilindro. Manca ancora la testa. Mi dicono che
in Ferrari, a indicarcelo è Michael: «Mi piace- arriverà presto, si tratta di Winston Churva stare seduto sul muretto a guardare le au- chill. Una pila di riviste d’epoca è ancora av-
volta dal nastro. Il vecchio apparecchio televisivo in bianco e nero deve essere ancora collegato. Su un mobile ci sono un magnetofono,
un giradischi e una collezione di vinili che sfoglio velocemente pensando ai diversi momenti in cui hanno risuonato in queste stanze: una raccolta di canzoni tirolesi, l’ensamble del coro dell’Armata Rossa, canzoni popolari cinesi, musica cubana e un album del
1971 di Catherine Le Forestier, -FTQBZTEF
UPODPSQT, una struggente ballata che parla
di un uomo fatto di stagioni, di cielo e di orizzonti. Al telefono Mario Govoni, un uomo di
novant’anni che ha lavorato prima come autista e poi come maggiordomo per la famiglia
Chaplin, mi racconta di quando la signora Oona gli chiese di accompagnare Michael Jackson nei sotterranei della casa, dove c’era l’archivio delle pellicole: «Lui non parlava francese, io non parlavo americano, c’intendevamo
benissimo».
Camminando per la casa-museo incontriamo altri ospiti. Sophia Loren in sottoveste, Albert Einstein che si specchia nel bagno, lo
stesso padrone di casa che esce dalla vasca in
cui fu girata una scena di 6OSFB/FX:PSL.
Nella biblioteca ci sono i libri che gli facevano
tenere accesa la luce fino a tardi, le poesie di
Byron e di Keats. Una scalinata porta alla soffitta, un grande spazio vuoto che sarà possibile affittare per eventi privati e che ospitava le
camere dei bambini. Ci affacciamo alla finestra: «Quello è Le Grammont», dice Edita indicando il monte che si vede in lontananza, «si
dice che quando la neve si scioglie si può fare
il bagno nel lago». Michael aggiunge: «La vita
è piena di ricordi, meglio guardare avanti».
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scrisse qui tra il 1959 e il 1963, termina con
queste parole: “...Oltre il lago i monti silenziosi, e in questo stato d’animo non penso che a
godermi la loro magnifica serenità...”.
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L TEMPO ALL’INIZIO DELL’ESTATE non è stato granché, ma alla fine ha fatto
caldo con un bellissimo sole. Tutte le sere ceniamo in terrazza e
abbiamo la fortuna di avere dei bravissimi domestici che, credo, ci sono
affezionati e fanno di tutto per farci star bene — ovviamente ci pensa Oona,
che ci sa fare con le persone di servizio. Volendo, nei dintorni ci sono
parecchi artisti, pittori, scrittori. Al momento non mi va di frequentarli
perché ho iniziato a lavorare a un nuovo film. A proposito, “Luci della ribalta”
sta andando benissimo in Europa, quindi per il nuovo film non devo pensare
al tuo stramaledetto paese. Quanto alla trama ti dirò in un’altra lettera.
Oona, come me, è diventata molto europea. A volte andiamo a cena fuori.
Ci sono dei ristoranti carini e si mangia benissimo. Seduti in terrazza,
affacciati sul lago di Ginevra, si cena sulle note meravigliose di Beethoven,
Bach e la colonna sonora di “Luci della ribalta”! Non so se sei mai stato in
Svizzera ma le città sono belle e pulite e i negozi elegantissimi. La vita però è
molto cara, poco meno che negli Stati Uniti.
Ma veniamo a te. Cosa combini? Lavori? Che progetti hai? Come va il
morale? Oona ed io ti pensiamo spesso, quindi facci avere presto tue notizie,
siamo ansiosi di ricevere una tua lettera.
Con l’affetto di sempre
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IÀ, DI CHE COLORE È LA GROENLANDIA? La
NEW YORK
domanda, apparentemente banale, nasconde un tranello scientifico. A molti sarà
capitato (sfogliando un atlante, osservando un mappamondo
o consultando una mappa digitale) di constatare che la Groenlandia è bianca. È, infatti, coperta di ghiaccio e neve per la
maggior parte del suo territorio, che si estende su una superficie circa sette volte più grande di quella dell’Italia. Il nome le
fu assegnato, secondo fonti storiche, da Erik il Rosso, esploratore vichingo mandato in esilio dall’Islanda intorno all’anno
Mille. La sua fu una mossa propagandistica per attirare più coloni(SFFOMBOE viene tradotto letteralmente in “Terra Verde”. Ma il tranello del nome non è quello di cui ci occupiamo. L’isola della Groenlandia gioca un ruolo fondamentale nello scenario del cambiamento climatico: contiene infatti abbastanza acqua immagazzinata sotto forma di
ghiaccio tale da innalzare il livello del mare di sei, sette metri. Il suo parziale disgelo, proiettato per la fine del secolo dalla comunità scientifica, coinvolgerà
la scioccante cifra di più di cinquecento milioni di persone che vivono in aree a rischio inondazione: metà della popolazione dell’Olanda
e un quarto di quella del Vietnam. Inoltre, gioca un ruolo fondamentale nel complesso e delicato territorio artico, dove le temperature
sono aumentate a un ritmo pari al doppio di
quello del resto del pianeta. È proprio di questa settimana la notizia che la zona meridionale della Groenlandia ha cominciato a sciogliersi quest’anno il 12 aprile, quasi un mese
prima della media, con temperature che hanno raggiunto picchi fino a circa 15 gradi.
Ma cosa c’entra tutto questo con il colore?
C’entra. Anzi, è fondamentale. Il motivo è legato alla nostra stella, il Sole, che fornisce l’energia necessaria per lo scioglimento. L’energia solare viene, infatti, parzialmente assorbita o riflessa in maniera diversa dai diversi
materiali che coprono la superficie del nostro
pianeta. Per esempio, la neve fresca riflette
la maggior parte dell’energia del sole (è abbagliante!), di conseguenza ne assorbe pochissima, ed è, perciò, più difficile da sciogliere. Al
contrario, le foglie di un albero sono più scure
della neve, per cui si riscaldano più velocemente. Le diverse superfici terrestri, perciò,
riflettono l’energia solare in maniera unica e
sono caratterizzate da una sorta di impronta
digitale TQFUUSBMF (qui il termine indica una
proprietà che varia con lo “spettro” elettromagnetico, ovvero a seconda dei diversi colo-
ri della luce che incide sul materiale). Questa
impronta spettrale cambia durante il corso
della vita di un oggetto (un po’ come il colore
dei nostri capelli cambia con l’età) e così la neve appena caduta al suolo può essere distinta
dalla neve dell’anno prima o dal ghiaccio. Gli
scienziati studiano le caratteristiche fisiche
della neve e del ghiaccio puro utilizzando i dati collezionati dai sensori a bordo dei satelliti
nello Spazio a un’altezza di ottocento chilometri (sopra le nostre teste) e a una velocità
di circa ventiquattromila chilometri l’ora. Le
immagini vengono poi spedite alle stazioni a
Terra, dove vengono controllate e poi distribuite.
Proprio l’analisi dei dati satellitari ci ha
permesso di scoprire che la Groenlandia è diventata più scura nell’ultimo ventennio. Ciò
è dovuto a una combinazione di fattori, alcuni visibili e altri invisibili ai nostri occhi (ma
non a quelli dei satelliti). A partire dal 1996,
infatti, la Groenlandia è entrata in una fase
in cui lo scioglimento del ghiaccio è aumentato anno dopo anno, e continua tutt’oggi ad
aumentare. Uno scioglimento più intenso favorisce l’esposizione del ghiaccio
sottostante lo strato del manto nevoso. Il ghiaccio assorbe fino al settanta
per cento della radiazione solare, a differenza della neve che ne assorbe solo circa il trenta. L’aumento dello scioglimento, perciò, favorisce l’esposizione del ghiaccio (più scuro
della neve) che, a sua volta, aumenta lo scioglimento e, ancora, rende la superficie più
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Domenica, 10 aprile 2016
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scura. Questo meccanismo instaura una reazione a catena in cui lo scioglimento aumenta
in maniera progressiva.
Il secondo fattore riguarda la presenza di
polveri, sabbia e fuliggine sulla superficie del
ghiaccio. Uno scioglimento più intenso favorisce anche l’aumento della concentrazione di
tali materiali. Polveri sottili e ceneri vengono
depositate sulla supeficie della neve continuamente tramite vento e precipitazioni. Le
sorgenti di tali particelle sono molteplici e disparate: da granelli di polvere dal deserto del
Gobi alle ceneri delle eruzioni vulcaniche, fino agli incendi nel nord della Siberia e a detriti meteoritici. Quando la neve si scioglie, tali
particelle vengono in parte disperse dal flusso d’acqua e in parte intrappolate sulla superficie della neve o del ghiaccio: più la neve si
scioglie, più le particelle tendono ad accumularsi sulla superficie. Come per il ghiaccio
esposto, anche in questo caso un aumento
dello scioglimento favorisce un aumento
dell’accumulo di particelle scure sulla superficie che, a sua volta, ne aumenta lo scioglimento (perché le particelle scure assorbono più
energia solare dei fiocchi di neve). Anche in
questo caso si instaura, perciò, una reazione
a catena.
Ma oltre ai meccanismi visibili ai nostri occhi, ci sono anche fenomeni in cui “l’essenziale è invisibile agli occhi”. In questo caso sono i
fiocchi di neve a essere protagonisti. Questi
ultimi crescono quando la neve è sottoposta a
cicli di fusione e rigelo. Uno dei motivi è legato alla presenza dell’acqua liquida nel manto
nevoso, che agisce come un collante per i fiocchi che si ricongelano “incollati” tra loro dallo
strato sottile di acqua congelata. Questo processo altera la capacità della neve di assorbire la radiazione solare: più i grani sono grandi, più radiazione solare viene assorbita e si
ha una reazione a catena simile ai due casi
precedenti. Tuttavia, in questo caso, nonostante la neve assorba più energia, appare ai
nostri occhi quasi immutata, come se nulla
fosse cambiato.
D’estate, quando il sole artico non tramonta mai, l’effetto della radiazione solare combinato con lo scurirsi della Groenlandia accelera lo scioglimento. Poiché i fenomeni che abbiamo discusso sopra vengono amplificati
con l’aumentare della fusione del gelo, l’incremento delle temperature nell’Artico proiettato per i prossimi decenni favorirà ulteriormente la fusione, amplificata e accelerata da una Groenlandia che diventa sempre
più scura. L’impatto dell’aumento dello scioglimento del ghiaccio su questa remota isola
ci coinvolge tutti. Al di la dell’innalzamento
del livello del mare, studi recenti hanno indicato nell’aumento d’acqua dolce proveniente dallo scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia uno dei meccanismi responsabili
dell’alterazione di una delle più importanti
correnti oceaniche del pianeta, che regola il
nostro clima. Inoltre, l’alterazione della salinità dell’Oceano può, a sua volta, avere forti
ripercussioni sulla flora marina e il sistema
ecologico da cui dipende. A differenza di ciò
che molti pensano, i poli del nostro pianeta
non sono affatto marginali. Sono potenti giganti dormienti che noi abbiamo risvegliato
con il rumore degli ingranaggi che stiamo alterando sul nostro pianeta, attraverso l’aumento dell’emissione dei gas serra.
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È UN CLIMA INFUOCATO per i ghiacci, le
notizie degli ultimi giorni raccontano
di un pianeta che si squaglia — anche
se la comunità scientifica non è
concorde su cause e esito finale. I dieci
giorni che sconvolsero i poli iniziano l’8 aprile scorso con
l’annuncio da parte della Nasa che lo scioglimento dei
ghiacci artici e antartici sta alterando la distribuzione del
peso sul globo: come conseguenza si registra una piccola
variazione nell’inclinazione dell’asse di rotazione
terrestre. I ricercatori dell’Agenzia spaziale americana
hanno studiato con i satelliti la dislocazione delle masse sul
pianeta, dal 2003 a oggi. E si sono accorti che gli
spostamenti delle acque erano in grado di spiegare quasi
del tutto la misteriosa migrazione del Polo Nord verso
l’Europa. Ogni anno, infatti, dalla Groenlandia si sciolgono
278 trilioni di chili all’anno di ghiaccio. Dall’Antartide
occidentale si perdono ogni anno 172 trilioni di chili,
riguadagnati solo in parte nell’Antartide orientale (80
trilioni di chili) dove recentemente le nevicate sono
aumentate. Se a questo si aggiunge il prosciugamento di
molte falde acquifere nel mondo, i conti sull’inclinazione
dell’asse terrestre tornano perfettamente.
Meno di una settimana dopo, il dimagrimento dei poli è
confermato dalla notizia che due iceberg si sono staccati
dal ghiacciaio Nansen in Antartide. Un evento atteso: «La
prima frattura era stata osservata nel 1999 e si è
progressivamente allargata, ma l’accelerazione vera c’è
stata nel 2014» spiega Massimo Frezzotti, ricercatore
dell’Enea. Infine l’allarme Groenlandia: in poche ore il 12
per cento della superficie ghiacciata si è ritrovata coperta
da un sottile velo di acqua. «Lo scioglimento verificatosi tra
il 10 e l’11 aprile è quello che in condizioni normali avviene
a fine di maggio» ha detto Peter Langen, climatologo del
Danish Meteorological Institute.
Se tre indizi fanno una prova, non resta che concludere
che davvero stiamo vivendo gli anni più caldi da secoli a
questa parte (il 2015 è stato già archiviato come tale). C’è
chi lo attribuisce a El Niño, il periodico surriscaldamento
delle acque del Pacifico. I suoi effetti, iniziati l’estate
scorsa, stanno scemando. Ma i meteorologi americani
avvertono: solo per fa posto alla Niña, che comporta il
raffreddamento sotto la media delle acque oceaniche. E
nemmeno questa è una buona notizia.
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NEW YORK
internazionale
come romanziere, ma ci tiene a definirsi in egual
misura fotografo, come dimostra questo1VOUP
EPNCSB, pubblicato ora in Italia. Ritiene che le
due forme espressive abbiano uguale importanza e ogni suo nuovo progetto artistico nasce da
un’intuizione iniziale di parole e immagini. Nigeriano di nascita e viaggiatore per scelta, non ha
mai avuto paura delle polemiche: negli ultimi
mesi è stato il capofila del gruppo di scrittori che
si sono opposti al premio del Pen Club a $IBSMJF
)FCEP, e poche settimane fa ha attaccato le fotografie di Steve McCurry sulle pagine del /FX:PSL5JNFT. Partendo dalla
sua più celebre, "GHIBOHJSM, le ha giudicate «troppo perfette», «incredibilmente noiose» e, in fin dei conti, disoneste intellettualmente. «La buona fotografia» ha scritto «deve sopravvivere al momento che la genera. La fotografia debole consegna un messaggio rapido: dolcezza, pathos, umorismo,
ma non riesce a creare di più. Quel di più è quello che siamo».
«Chi decide di dedicare la propria vita all’arte», mi racconta di passaggio
a New York, «ha il dovere di catturare l’essenza di quello che racconta: forse
è illusorio pensare che ciò sia realmente possibile, ma è sbagliato partire
con dei limiti o cercare scorciatoie. Io amo l’arte che affronta temi grandi,
che la stessa opera non riesce a racchiudere interamente, lasciando suggestioni per chi ne fruisce. Pensiamo per esempio a , forse il più grande
film mai realizzato. È limitante definirlo un’opera su un artista in crisi: Fellini parla di arte, vanità, dubbio, personalità, fragilità. E non cerca mai l’immagine bella o pura, riuscendo tuttavia a immortalarla, proprio perché non
è quello il fine primario».
L’arte moderna ha rinunciato, ripetutamente, a cercare la bellezza.
«Non mi sfuggono i gravi rischi dell’arte moderna, e tanto ciarpame spacciato per qualità dalla spregiudicatezza e dall’interesse di alcuni galleristi e
critici. Fondamentalmente credo che il discrimine stia nella sincerità. Io cerco di avere un approccio inclusivo, senza scorciatoie a effetto, tentando di offrire uno sguardo diverso che suggerisce un significato differente del soggetto ritratto: diciamo che sono un viaggiatore che si interroga sulle persone e sul paesaggio».
Le immagini hanno una potenza molto diversa rispetto alle parole?
«Sono due linguaggi che lavorano in maniera diversa, non esiste una gradazione di qualità. La fotografia è analogica, e forse per questo mi piace
creare un complemento con un testo. È come dire che una pasta è squisita,
ma lo è anche un vino: si possono gustare insieme, anzi forse anche di più».
Lei sostiene che spesso gli stranieri colgono realtà intime di una realtà
più di chi di quella realtà fa parte.
«Pensiamo nel cinema al lavoro di Louis Malle in India, o ancora a Fellini:
come ha raccontato Roma nel film omonimo. Per esempio quella scena strepitosa sul raccordo anulare, e la cena in piazza con la gente che canta e che
litiga...».
Torniamo ancora alla sua vis polemica. A un anno di distanza dalla presa
di posizione su “Charlie Hebdo”, e alla luce di quanto è avvenuto dopo di
nuovo a Parigi e poi più di recente a Bruxelles, pensa di aver fatto la scelta giusta?
«Assolutamente sì, e il dibattito sulla laicità ha dimostrato l’urgenza di
quella riflessione. Non mi stancherò mai di affermare che i disegnatori di
$IBSMJF sono vittime di una mostruosità ingiustificabile, ma non si può confondere la fondamentale difesa della libertà di espressione con la celebrazione di qualcosa che rimane pericoloso, e che scatena il peggiore estremismo».
EJU COLE HA RAGGIUNTO LA FAMA
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LONDRA
A RAGAZZA GIUNONICA che si aggi-
ra sorridente tra gli scaffali di vinili e cd sta facendo uno stage
nel negozio di dischi più famoso
del mondo. Ecco perché è così felice. Ha solo vent’anni, ama la
musica, canta, ha appena inciso
il suo primo album per un’etichetta indipendente che sta già
riscuotendo un buon successo.
Non c’è un posto migliore di Rough Trade dove imparare come si
vendono i dischi. Da piccola accompagnava la madre a
cercare i vinili di Etta James ed Ella Fitzgerald nei negozietti di Camden, ora lavora in quello più DPPM della città. È
il 2008. E lei si chiama Adele.
Sì, proprio RVFMMB. La popstar planetaria che a oggi ha
totalizzato quaranta milioni di album venduti e più di un
miliardo di visualizzazioni su YouTube solo per il suo ultimo singolo )FMMP. Ma non è lei l’unica artista ad avere un
debito di riconoscenza verso questo storico negozio che
quest’anno festeggia i quarant’anni di vita. Fu Geoff Travis, nel ‘76, ad aprire il primo negozio nella zona ovest della città, al 202 di Kensington Park Road, ispirandosi al modello della libreria City Lights di San Francisco. Sei anni
dopo si sarebbe trasferito qui a Talbot Road, Notting Hill,
e poi ne avrebbe aperti altri a Londra, quindi a Nottingham, Tokyo, Parigi, San Francisco, New York.
Nel ‘78 Travis aveva anche fondato la Rough Trade Records, un’etichetta indipendente che dopo aver cavalcato l’onda ribelle del punk divenne di culto nella prima metà degli anni Ottanta pubblicando gli Smiths di Morrissey
e Johnny Marr. E oggi quello spirito continua. Tanto più
che oggi (ieri per chi legge, OES) è il Record Store Day, ovvero la giornata mondiale dell’orgoglio dei negozi di di-
schi. Qui, nella storica sede di Talbot Road, ci sono scatoloni accatastati in ogni angolo. Un commesso sta spacchettando una pila di vinili dei Public Image Ltd di John
Lydon, è un’edizione limitata di un album live, una delle tante pubblicazioni speciali messe in commercio solo
per questa giornata. Ma qui la musica non la si compra
soltanto, la si fa e la si ascolta. Tra quelli che suonano oggi c’è Adrian Sherwood, leggendario produttore e pioniere del genere EVC e Glen Hansard, cantautore
folk-rock di Dublino e attore nel film 0ODF premiato con
l’Oscar per la migliore canzone. «Ma ogni giorno per noi
è un Record Store Day», ci racconta Nigel House, testa
rasata, t-shirt con il logo della Third Man Records di Nashville, mentre beve un caffè al Pedlars Shop, di fianco a
Rough Trade: «Adoro il mio lavoro, lo faccio da più di
trentacinque anni. Ogni giorno è una scoperta, si incontrano sempre persone interessanti». Rientriamo in negozio. Va a prendere sul bancone una copia della rivista
appena stampata per il quarantennale. Duecento pagine di immagini d’archivio, testimonianze, ringraziamenti e racconti che ripercorrono una lunga avventura,
dalle fanzine e dalle audiocassette degli anni Settanta e
Ottanta fino alle piattaforme digitali di musica in streaming. C’è anche la cronistoria dei leggendari concerti te-
nuti nel negozio, ancora oggi il piatto forte della casa.
«Quello dei Radiohead nello store di Dray Walk fu una
vera bomba, suonarono quasi tutti i brani di *O3BJOCP
XT», ricorda Nigel, «ma anche quelli dei Beastie Boys e
Courtney Love restano indimenticabili». Una ragazza si
avvicina per chiedergli un vinile dei Dead Kennedys. Nigel la serve e poi riprende: «Ascolta questa. Un giorno
entra nel negozio Nicole Kidman col marito. Voleva
ascoltare un cd ma avevamo un solo lettore e lo stava
usando Cyril, un nostro vecchio cliente, un tizio un po’
maniacale. Lui non l’aveva riconosciuta e non ne voleva
sapere di mollare le cuffie. Un’altra volta venne invece
Jack White, in completo gessato e bombetta, solo per
ringraziarci perché eravamo stati i primi a vendere l’album dei White Stripes: voglio dire, li abbiamo visti diventare famosi». E così è successo per molti altri.
«Ma la cosa davvero più incredibile è quanti vinili vendiamo ancora oggi», aggiunge Nina Hervè dello staff di
Rough Trade East seduta alla scrivania nell’ufficio sop-
palcato, «e questo perché molti vogliono possedere qualcosa di fisico, toccare quello che ascoltano». «Il momento per chi vende dischi è buono», spiega Nigel, «è come
se stessimo tornando indietro nel tempo, il vinile sta riprendendo slancio. Soprattutto va forte anche tra i più
giovani. Ed è questo che ci rende ottimisti. Tanto che, in
controtendenza, stiamo aprendo nuovi negozi: quello
di New York è già diventato un’attrazione e domani
chissà, ci piacerebbe aprirne uno in Italia, magari a Milano. Il bello è che non vendiamo bene solo i gruppi che
hanno fatto la storia del rock, i super classici, roba come
i Led Zeppelin, i Beatles o i Rolling Stones di cui ogni settimana facciamo fuori almeno una copia di &YJMFPO
.BJO4U, ma vanno alla grande anche le nuove band indie, capisci?». Capito. E Adele? «Adele è una brava, carina, e tutto sommato credo che l’esperienza che si è fatta
lavorando qui alla fine le sia stata utile. Come che sia per
noi è stato divertente lavorare con lei».
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NCORA ADESSO PASSO TUTTO IL MIO TEMPO LIBERO nei negozi di dischi. Negli ultimi anni
vivo a Londra per cui ho avuto la fortuna di suonare nel Rough Trade vecchio stile
di Notting Hill, con il suo seminterrato di vinili usati rari. Ma ho un ricordo
affettuoso anche del negozio di Covent Garden, dove è emersa gran parte della scena noise
rock/riot grrl/grunge/lo-fi. Esibirsi al Rough Trade East, come anche nella filiale di
Nottingham e in quella di Brooklyn, a New York, è sempre una bella esperienza: tutti
questi negozi pullulano di promesse ed energia in continua evoluzione. Comprare certi
dischi qui è un’azione legata a uno stuolo di segnali estetici: la grafica della copertina, le
sensazioni tattili, la forma fisica, la sublimità olfattiva della carta e del vinile, e poi il suono...
Secondo me è tutta una faccenda maledettamente letteraria: i dischi hanno la capacità di
metterci in contatto e di farci prendere coscienza del fatto che la vita è un’incredibile
dinamica di mistero e dialogo aperto all’interno di queste missive musicali. Sono lettere al
cosmo e dal cosmo, alla strada e dalla strada, al cuore e all’anima e dal cuore e dall’anima.
Probabilmente è questo che ha sempre avuto in testa uno come Geoff Travis.
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SEATTLE, MAGGIO 1993
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ONOSCO UN SACCO DI PERSONE SUPERCOOL che succhiano e traggono energia dal
fatto che conoscono e (presumibilmente) apprezzano sconosciute, oscure
band del presente e del passato. Questi fighetti prosperano sulle loro piccole
scoperte come i piccoli pesci che si attaccano al pesce più grande e come dei parassiti si
nutrono degli escrementi dell’ospite.
Le Raincoats, pubblicate da Rough Trade, non erano molto famose negli Usa e,
sinceramente, non so in Gran Bretagna e in Europa. In effetti non so molto delle
Raincoats, se non che hanno registrato della musica che mi ha colpito così tanto che
ogni volta che l’ascolto mi ricorda un particolare periodo della mia vita in cui ero
profondamente infelice, solo e annoiato. Quando le ascoltavo mi sembrava di essere
nella stessa casa con loro e dovevo stare assolutamente fermo mentre le spiavo dal
piano di sopra perché ero convinto che se mi avessero sentito avrei rovinato tutto.
Suonavano per se stesse, non per gli altri. In realtà forse se mi avessero visto mi
avrebbero offerto una tazza di tè e poi avrebbero finito di suonare la loro canzone e io
avrei detto “grazie mille per avermi fatto sentire bene”.
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interpreta il ruolo di
uno scienziato ambizioso e controverso che ha un solo obiettivo: la vita eterna. Quando rimane ucciso la sua mente viene caricata su un computer che assume la sua personalità e che lo
rende immortale, seppur nel cyber spazio.
Un film di fantascienza, che ha avuto scarso successo. Eppure il concetto di “mind uploading”, di trasferimento della mente, non è pura utopia, come potrebbe sembrare. Almeno secondo una certa scuola di neuroscienziati che stanno lavorando proprio su questo obiettivo. In Giappone l’esperto di robotica Hiroshi Ishiguro, già creatore di Erica, l’umanoide più
avanzato mai realizzato, è convinto che nelle prossime decadi
i suoi robot diventeranno il guscio dentro il quale sarà racchiusa la mente degli uomini. Corpi meccanici con un cervello umano.
Il miliardario russo Dmitry Itskov è convinto, come il Johnny Depp del film, di poter vivere per sempre attraverso una macchina e così ha stanziato decine di milioni di euro per un
progetto chiamato “2045 Initiative”, che ha l’obiettivo di arrivare al trasferimento della
mente su un robot o un avatar. Fantasie di un miliardario che non vuole rassegnarsi alla morte? Molti lo pensano, ma intanto la Bbc ha dedicato un documentario al tema (5IFJNNPSUB
MJTU) e il direttore scientifico di “2045 Initiative”, Randal Koene, neuroscienziato,
già professore all’università di Boston, è
un convinto sostenitore dell’emulazione
del cervello, come la definisce lui. «Non nego sia molto, molto complicato arrivarci.
Ma in teoria è possibile e ne abbiamo le
prove», spiega entusiasta al telefono da
San Francisco.
L’approccio di Koene e dei suoi colleghi
è quello di considerare il cervello come un
computer, che trasforma gli input, dati
sensoriali, in output, ovvero la nostra personalità e il nostro comportamento. Se
EL FILM “TRANSCENDENCE” JOHNNY DEPP
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questo processo potesse essere interamente mappato allora potrebbe anche, in teoria,
essere copiato su un computer. «Per trasferire il cervello dobbiamo prima capire come
funziona. Questo significa arrivare a conoscere il connettoma, ovvero la rete di tutte
le connessioni sinaptiche. Tra un paio di mesi avremo il primo connettoma completo,
quello della drosofila, il moscerino della frutta, che è stato realizzato dal Max Planck Institute con due anni di lavoro. Una volta arrivati al connettoma bisogna osservare la funzione delle sinapsi del cervello mentre è in
attività, ovvero mentre si pensa, si sogna, si
ricorda. Un progetto del dipartimento della
Difesa americano è riuscito finora a vedere
in funzione, contemporaneamente, un milione di neuroni. È sicuramente un grande
passo avanti», commenta Koene.
Una delle prove che lo scienziato porta a
esempio arriva dall’università della Southern California. Qui l’ingegnere biomedico
Theodore Berger è riuscito a sviluppare la
prima protesi neurale, quella dell’ippocampo. Come se fosse un braccio o una gamba
bionici, questo ippocampo fittizio è stato testato con successo sui topi e sta per partire
la sperimentazione sull’uomo. «È la prima
tangibile dimostrazione che il cervello sia
una macchina. Se possiamo rimpiazzarne
un pezzo allora possiamo rimpiazzarlo tutto», conclude Koene.
Per arrivare allo scenario descritto da
5SBOTDFOEFODF e al trasferimento della
mente serviranno alcune decadi, prevede il
neuroscienziato: «Dopotutto i nostri neuro-
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ni sono uguali a quelli della drosofila».
Rafael Yuste invece è scettico. Definito da
/BUVSF uno degli scienziati più influenti al
mondo, da oltre vent’anni si occupa di capire come operi il nostro organo più complesso. Il suo lavoro ha ispirato Barack Obama
che nel 2013 ha lanciato l’iniziativa “Brain”,
proprio per arrivare alla comprensione dei
circuiti neuronali e quindi a tentare la cura
di malattie come la schizofrenia, l’Alzheimer, l’epilessia, l’autismo, la depressione.
«Non abbiamo prove certe che scartino l’ipotesi del NJOEVQMPBEJOH. Ma sono propenso
a pensare che il cervello non funzioni come
un computer, ma come una macchina biologica. In questo caso il suo contenuto potrebbe essere trasferito solo su un substrato biologico, per esempio in un animale», ragiona
Yuste al telefono dal suo ufficio alla Columbia University, dove insegna Scienze biologiche e Neuroscienze. «I miei studi finora provano che il cervello abbia un’intensa attività
spontanea, non legata al comportamento o
al movimento del soggetto. Se il cervello fosse un computer quando un animale o un uomo non si muovono dovrebbe essere spento
e a riposo». Proprio in questi giorni il professore e il suo team hanno licenziato la loro ultima ricerca per la pubblicazione: la mappatura dell’attività di tutti i neuroni di un piccolo invertebrato, l’idra. «Le faccio un esempio. Il connettoma può essere paragonato al
diagramma della rete telefonica di una grande città. Noi siamo andati oltre. Abbiamo
ascoltato ogni singola conversazione di quella rete e in due anni siamo arrivati al model-
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lo tridimensionale del cervello dell’idra, che
può avere tra i seicento e i tremila neuroni.
Prossima tappa: capire il contenuto di queste conversazioni. Dobbiamo decodificarne
il linguaggio. L’iniziativa di Obama,
“Brain”, si prefigge lo stesso obiettivo ma
con il cervello umano. Solo capendo quel linguaggio possiamo davvero comprendere come funzioni la nostra mente e perché ogni
mente è unica», prosegue Yuste. «Il mio sogno è arrivare a decifrare la corteccia cerebrale dell’uomo, ma se comprendessimo
una piccola parte della corteccia dei topi saremmo molto vicini. Credo che una teoria generale di come funzionino i circuiti neurali
potremmo averla tra una decina di anni e
questo ci aiuterà ad arrivare all’obiettivo finale. Quando questo avverrà non posso prevederlo».
Anche Miguel Nicolelis, professore di neuroscienze alla Duke University, North Carolina, crede che Itskov e Koene siano sulla strada sbagliata. «È impossibile ridurre il cervello a un medium digitale. Intuizione, odio,
amore, coscienza non si possono trasformare in algoritmi», commenta tranciante. Senza contare le implicazioni inquietanti di
un’operazione del genere. Si potranno fare
più copie di uno stesso cervello? Le diverse
copie saranno la stessa persona? E a chi apparterranno? La mente potrà essere manipolata? Con pragmatismo, Yuste liquida così ogni interrogativo etico: «Per ora è fantascienza, preoccuparsene troppo è solo una
perdita di tempo».
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INQUANTA SFUMATURE DI VERDE. Numero
indicativo ma non esaustivo,
se pensiamo alla tavolozza cromatica di una misticanza o di un minestrone di verdure fatto come dio comanda. Aprile è signore e padrone
delle primizie, che rapiscono lo sguardo e attivano la salivazione al solo
vederle, freschissime, turgide, fragilmente verdi. Perfino le tabelle dei
colori web riconoscono l’identità del “verde primavera”, definito come
tale ben duecentocinquanta anni fa.
È un colore equilibrato, il verde. La posizione equidistante tra tinte
calde e fredde viene associata alla rinascita e ai desideri. Sono verdi le
speranze, l’età adolescente, il frutto nuovo e un nuovo progetto, pur se
bollati come immaturi (“Lasciamogli tempo, è ancora verde”). Utilizzarlo per dipingere le pareti della camera da letto dicono migliori la fertilità e favorisca il rilassamento, anche se non è detto che le due attitudini coincidano. Comporlo, matite alla mano, è facile: basta mischiare il giallo con il blu. Molto più complicato è riprodurre la gamma
sontuosa che madre terra regala all’affacciarsi della nuova stagione, complici le virtù terapeutiche legate al colore: disintossicante, decongestionante, ansiolitico, febbrifugo. Perché a ogni sfumatura di
verde corrisponde un ortaggio nuovo di zecca, e a ogni ortaggio una messe di effetti benefici.
C’è verde e verde. Basti pensare alle zucchine di serra, grosse, gonfie, ricoperte di un verde scuro e
tristanzuolo, a uso e consumo di chi non si cura delle stagionalità dei prodotti. Oppure a quelle nuove,
piccole, pallide, tenere. Il palato arriva dopo: basta vederle vicine, per capire fin troppo bene quali scegliere. Non solo zucchine. La lattuga “lollo” e i pisellini (non a caso battezzati “primavera”), le fa- zionale e biologico. Scoprire la differenza è semvette e l’erba cipollina, il basilico e i cavolini di plicissimo, e comincia dalla vista. Diffidare degli
Bruxelles: tutti di uno struggente, delicatissimo ortaggi pulitissimi, perfetti e privi di qualsivoverde, che rincuora, rallegra e regala vitamine a glia difetto, fosse anche solo un’abbondante spolvolontà. Altra categoria benedetta per detossina- verata di terra. Poi l’olfatto. Perché solo l’interare e rimineralizzare, quella del verde brillante, zione virtuosa tra zolle e sole, non contaminate
guidata dagli asparagi, in versione coltivata o sel- da fertilizzanti, pesticidi e conservanti, permetvatica, e dai fagiolini, seguiti a ruota da taccole e te lo sviluppo dei profumi, delicatissimi ma persibroccoletti. Ma non tutto il verde scuro vien per stenti. In quanto al tatto, gli ortaggi devono risulnuocere. Al di là delle zucchine palestrate, coste tare sodi ma non legnosi, e soprattutto per nulla
e spinaci esibiscono toni da abito da sera, insie- ipertrofici. E infine il gusto: pieno, fragrante, ricome a carciofi, cicoria e alle cime di rapa, renden- noscibilissimo.
Se il verde vi avvince, andate a provarlo in tutdo palese la ricchezza in ferro e fibre.
A far la differenza, oltre al colore, il modo di te le sue sfumature nei ristoranti che comprano
produrle. Da una parte, serre e colture idroponi- la verdura direttamente dai contadini virtuosi e
che, che puntano su produttività, standardizza- non dai superdistributori seriali. Il verde primazione e riduzione dei rischi. Dall’altra, la semina vera vi stordirà.
in pieno campo, con la scelta primaria tra convenª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
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INGREDIENTI:
100 G. DI ZUCCHINE (SOLO LA PARTE VERDE); 100 G. DI FAGIOLINI
100 G. DI ASPARAGI (LASCIANDO DA PARTE LE PUNTE)
120 G. DI PISELLI SGUSCIATI; 120 G. DI FAVE SBUCCIATE 2 VOLTE
100 G. DI FAGIOLI CANNELLINI LESSATI A PARTE
100 G. DI PATATE LESSATE IN BRODO VEGETALE; 10 FOGLIE DI BASILICO
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agliare gli ortaggi sottili. Preparare un brodo
vegetale con porro, sedano, carote, fagiolini, cipolla, pomodoro, basilico e lo scarto di zucchine e asparagi usati per il minestrone, bollire venti minuti, poi filtrare. Rosolare il porro con l’extravergine,
unire carciofi e fagiolini, poi le zucchine, infine piselli
e fave. Stufare cinque minuti, versare del brodo vegetale e proseguire la cottura per pochi minuti. Togliere
dal fuoco, unire fagioli e patate e abbattere (raffreddare). Frullare, unendo qualche cubetto di ghiaccio e le
foglie di basilico, poi setacciare. Tostare dei crostini di
pane (tre per ogni piatto), su cui spalmare del caprino
fresco profumato col pepe. Scaldare il minestrone e
versarlo nel piatto fondo, disporre sopra i crostini di caprino, guarnire con le punte degli asparagi, i fagiolini,
le carote baby e foglioline di rape rosse.
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A STORIA E LA STORIOGRAFIA
antica sono state severe con
Nerone, raffigurandolo come
un megalomane e uno
squilibrato. In realtà i primi
anni di regno erano stati piuttosto
tranquilli e Nerone era apparso in più
occasioni un abile uomo politico. Ma non è
di questo che ci vogliamo occupare.
Nerone ci interessa per il suo ruolo di
fervido sostenitore del colore verde. Di lui,
diversamente da altri imperatori romani,
conosciamo alcuni gusti in fatto di colori e
vestiti. Ama le tinte vivaci, gli abiti “alla
greca”, le mode orientali. E dimostra
un’innegabile inclinazione artistica.
Innanzitutto nel suo aspetto, quando si
presenta a teatro o all’ippodromo. Poi
nella decorazione dei suoi palazzi.
Soprattutto nella sua collezione di pietre e
gioielli, in cui predominano smeraldi. A
questo riguardo è celebre un passaggio di
Plinio: nell’anfiteatro, Nerone avrebbe
osservato i combattimenti dei gladiatori
attraverso un grande smeraldo per non
essere infastidito dai raggi del sole. Il
passaggio in questione è stato spesso mal
tradotto. Nerone non osservava i
gladiatori attraverso uno smeraldo, il
testo va inteso diversamente: Nerone
restava a contemplare i gladiatori per ore,
e per riposarsi gli occhi di tanto in tanto
volgeva lo sguardo su un grosso smeraldo,
pietra a cui si attribuivano diverse virtù,
fra cui ristorare la vista.
Ma vi è un altro aspetto, diverso e
inaspettato, che collega l’imperatore al
colore verde: l’alimentazione. Nerone era
porrofago: mangiava una gran quantità di
porri, abitudine insolita per un uomo del
suo rango e del suo tempo. Questo tratto
colpì i suoi contemporanei, ancor più del
comportamento dissoluto. Nerone si
rimpinzava di porri, ortaggio associato al
verde nell’antichità, tanto che sul suo
nome il greco ha costruito un aggettivo
(“prasinós”) e il latino due (“prasinus” e
“porraceus”), per esprimere l’idea di un
verde sgargiante, che corrisponde al
francese “vert épinard” (verde spinacio).
Secondo alcuni autori Nerone, che si
vantava di cantare meravigliosamente,
avrebbe consumato tanti porri per
migliorare o proteggere la voce. Studiosi
moderni pensano invece che fosse stato
un medico a prescrivergli un simile
regime, in quanto il porro, come l’aglio e
la cipolla, fa bene al cuore. Ma la medicina
di allora ne era consapevole? Il porro,
molto utilizzato dai Romani, veniva
considerato un potente diuretico (come
conferma la medicina contemporanea),
una sostanza afrodisiaca (fra molte altre)
e un farmaco efficace contro i morsi di
serpente (fatto più contestabile).
Ma tutto sommato ha poca importanza.
Quel che è certo è che Nerone ama il
verde, gli smeraldi, la vegetazione e i
porri. Al punto che, quando va
all’ippodromo, indossa la casacca verde
della scuderia. La famosa “factio prasina”
derisa da Petronio nel “Satyricon”.
%BVerde. Storia di un colore
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Venticinque anni fa diede una scossa alle platee puritane d’America con la più sexy accavallata di gambe della storia del cinema: “Per
‘Basic Istinct’ usai lo stesso montatore di ‘Robocop’: non gli parve vero di trovarsi davanti non un tizio metà-uomo e metà-robot ma una
donna-donna come Sharon Stone”. Oggi continua a essere un europeo infiltrato alla corte di Hollywood: “A loro faccio credere di essere interessato alla fantascienza e ai supereroi. Ma la verità è che io
da bambino a Amsterdam ho vi- forte. Quanto alla Huppert, nel film dal romanzo 0Iy di Philippe Djian, mi
fatto ritrovare il piacere di lavorare in Europa. Spesso, se alla fine di una
non dicevo “DVU”, lei continuava e la sequenza successiva era già gisto la guerra, e mi piaceva. Ven- haripresa
rata. Negli Usa, invece, il contratto precisa il numero di pose per ogni attore: in #BTJD*OTUJODU, ventitré per Sharon, tre per Michael. Douglas era infuperché mi vedeva sempre addosso alla Stone. Fu facile trovare la giugo da Brueghel e da Bosch, gente riato
stificazione: “Sto solo rispettando il contratto”. Le racconto tutte queste cose da regista anche se poi, alla fine, quel che conta davvero in un film è il
Per #BTJD*OTUJODU ho avuto lo stesso montatore di 3PCPDPQ, a
che non andava troppo per il sot- montaggio.
cui non è parso vero di trovarsi davanti non uno metà uomo metà robot, ma
una donna-donna. Ha preso il meglio di Sharon, sfumandone i passaggi più
pensi invece com’è diseguale in $BTJOò di Scorsese».
tile. Nei loro quadri gli uomini vo- flebili:
Il cinema di Verhoeven è un’apocalisse di violenza e di sessualità, come i
DBSUPPOTdi Tex Avery. Ma i suoi sono “cartoons dal vero”, non iperboli immaginarie: «È la mia formazione, sono le suggestioni che mi arrivano
mitano e le donne orinano”
dall’arte olandese e dalla passione per i fumetti. I nostri grandi pittori, Brue-
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PARIGI
N QUARTO DI SECOLO FA, ma abbiamo tutti ancora gli occhi appic-
cicati allo schermo, davanti all’insoluto quiz-WPZFVS delle gambe accavallate di Sharon Stone. E il cinema più guardone sbucò
proprio a Hollywood, tempio delle platee puritane. Il regista di
tanto scandalo oggi sorride: «Il sesso di #BTJD*OTUJODUin realtà
aveva un alibi, un guscio protettivo: accalappiato dalla nudità il pubblico si
chiedeva se la donna fosse un’assassina. Nessuno l’ha cronometrato, ma il
rapporto torrido con Michael Douglas dura ben cinque minuti, un’eternità
rispetto ai tempi canonici di questo tipo di scene: anche qui, sesso cinematograficamente protetto, essendo in gioco un suspense extra-eros: il dubbio
che lei lo uccida». A Parigi per il grande omaggio che gli ha dedicato il quarto, scintillante Festival del film restaurato 5PVUFMFNÏNPJSFEVNPOEF,
Paul Verhoeven, negli strappi in taxi tra il pied-à-terre e gli incontri alla Cinémathèque Française, ripercorre le strategie che hanno permesso a lui,
europeo, di dribblare i diktat hollywoodiani: «#BTJD*OTUJODU non fu nulla in
confronto ai miei due fumettoni3PCPDPQ e 5PUBM3FDBMM, che mi sono divertito a rimpastare, o di 4IPXHJSMT e 4UBSTIJQ5SPPQFST. Ho dovuto soccombere solo nel sesto, )PMMPX.BO, diciamo pure un film impersonale».
Maglione grigio, jeans, scarpe da ginnastica, capelli e sopracciglia in subbuglio, l’”olandese violento”, così soprannominato per le
origini fiamminghe e per i suoi terremoti bellici e erotici su grande
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schermo, si rivela, a settantotto anni, giovanottone d’inestinta vitalità e soprattutto, nonostante il logorante
ventennio di studios, di intatte aperture europee. Dieci anni fa le rievocò in #MBDL#PPL, sulla sua infanzia
all’Aja durante l’occupazione tedesca e, adesso, nel thriller &MMF, girato in Francia e prenotato al prossimo
Cannes con protagonista Isabelle Huppert.
La Huppert è solo l’ultima donna di ghiaccio nel suo
défilé di femmine predatrici, dalla Stone alla Elisabeth Berkeley di 4IPXHJSMT fino alla mangiauomini di
4QFUUFST del periodo olandese: «Non è un mistero che
io subisca, e con gioia, il fascino delle donne, quelle ben
temprate ovviamente. Mia madre, casalinga, era di ferro. E anche Martine, mia moglie da sempre, è una donna
ghel, Bosch, Rembrandt non andavano tanto per il sottile: ritraevano la vita
in tutta la sua crudezza. Nei loro quadri scorrono fluidi corporali, gli uomini
vomitano, le donne orinano. Non hanno alcun tabù, tanto meno quello della
nudità. Tra il Cinquecento e il Seicento, l’arte fiamminga è la sola a autorizzarsi questa enorme libertà di rappresentazione, riproducendo la vita come la si vede, non come la s’immagina. Perché mai impegolarsi in inutili metafore?». Eppure, almeno due dei suoi blockbuster sono fanta-metafore:
4UBSTIJQ5SPPQFST “nazifica” l’ecumenismo bellico degli Usa e 3PCPDPQ allude a Gesù. Ci ha messo lo zampino più il fumetto che il pennello? «Glielo confesso sottovoce: della fantascienza non m’importa nulla, mi ci ha costretto
Hollywood. Se si eccettua, magari, il modo in cui l’ho resa in 5JOUJO. È solo in
chiave fumetto che ho potuto trattare la fantascienza. In 4UBSTIJQ5SPP
QFST, ho semplificato al massimo dialoghi e facce: i militari sono pseudo-fascisti, la giovane pilota è una Barbie di Leni Riefensthal». 3PCPDPQ, cui deve
l’inizio, folgorante, della sua parabola hollywoodiana, è invece un bignami
cibernetico di morte e resurrezione: «Sì, ma lo è in modo plausibile. Io sono
ateo, ed è solo sul piano storico che la figura di Cristo mi ha sempre attirato
— direi alla stregua di uno Stravinskij o di un Bryan Ferry. A Gesù ho dedicato oltre vent’anni di ricerche, confluite in un libro da cui spero prima o poi di
trarre un film. Quando ho ricevuto il copione di 3PCPDPQ, con sottotitolo
-BWWFOJSFEFMMBHJVTUJ[JB, lo cestinai subito. Fu mia moglie a raccoglierlo e
a leggerlo, convincendomi poi ad accettare suggerendomi la chiave-Calvario, che si completa, al ritorno del protagonista nella sua casa ormai deserta, con l’idea del Paradiso perduto». Il Vangelo secondo 5JOUJO? «Diciamo»,
ride Verhoeven, «che adoro il grottesco, l’esagerazione: pensi a George
Grosz, a Otto Dix, all’enfasi deformante dello sguardo di tutto l’espressionismo tedesco. È una visione del mondo che avevo già da bambino, quando disegnavo fumetti e caricature. Lo stesso Vangelo è una continua iperbole: “È
più facile che un cammello…” o, addirittura, “Ama il tuo nemico...”. Un invito PWFSUIFUPQ!».
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Verhoeven è stato l’occhio europeo dentro il cinema americano: in sostanza ha accettato committenze per poi abilmente stravolgerle, realizzando
“di contrabbando” un cinema tutto suo: «Sì, fumetto in superficie ma qualcosa di serio nel fondo. Che altro fare, se no? Film di supereroi dove il regista
dà il meglio di sé quando sparisce? 3PCPDPQ, nell’87, è un macigno sull’imperialismo reaganiano. E 4UBSTIJQ5SPPQFST anticipa, nel ’97, la situazione di guerra totale di oggi, dovuta anche al vizio degli americani di inventarsi dei nemici e di dichiarare loro la guerra prima ancora di venire aggrediti. In quel film avevo semplicemente fatto trasparire la politica americana del momento, ben avvertibile nel Texas governato da
George Bush. La guerra io ho l’ho vissuta, da bambino, ed essendo
bambino l’ho vissuta con estrema incoscienza, quasi fosse una festa, una sorpresa quotidiana. Se un aereo precipitava all’Aja,
correvo con i compagni a vedere lo spettacolo dei resti ancora
fumanti. Curiosamente, è stata la Marina olandese a far di
me un regista: avevo girato qualche corto, ai tempi degli studi universitari di matematica a Leida, poi abbandonati quando ho capito che non sarei stato abbastanza creativo come il
mio mito Albert Einstein. Forte del cine-curriculum di fuori
corso, venni reclutato per girare un documentario sui trecento gloriosi anni della nostra flotta. Riprese a Tolone, Panama, Antille. Ne feci un James Bond di mezz’ora, sulla
scia di %BMMB3VTTJBDPOBNPSF che mi ero appena degustato. Ed eccomi regista». Nessun mugugno domestico ? «Mio
padre, insegnante che mi voleva insegnante, s’è via via rassegnato — davanti ai successi. Ma alla vigilia del mio trasloco
negli Stati Uniti, mi aveva ritagliato l’annuncio per un posto
di professore di matematica part time: “Così la mattina insegni e nel pomeriggio ti dài al tuo hobby”. Era il 1985 e avevo già
girato sette film».
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