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Venerdì 10 Marzo 2017
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Sono i veri sfidanti nelle primarie del Pd che si terranno fra poco meno di due mesi
Le idee di Renzi e di Orlando
Le differenze massime su leggi come lavoro e Jobs act
DI
FRANCESCO CURRIDORI
L
a corsa alla segreteria
del Pd si consumerà in
poco meno di due mesi
ma i tre candidati sono
già ai blocchi di partenza. Pochi giorni fa Matteo Renzi e
i suoi sfidanti, il ministro della
Giustizia Andrea Orlando e il
presidente della Puglia, Michele Emiliano, hanno depositato ufficialmente le firme di chi
sostiene la loro candidatura e
contestualmente la sintesi della
propria mozione congressuale.
Testi e numeri - Ma la vera
sfida è tra Renzi che cerca la
riconferma e Orlando, espressione della sinistra del partito
che non ha seguito gli scissionisti bersaniani e dalemiani.
Il favorito è l’ex segretariopremier che, attorno alla sua
mozione, ha raccolto 37mila
firme contro le 18mila di Orlando, mentre Emiliano ne
ha presentate soltanto 6mila.
Lo sfidante principale di Renzi è ovviamente Orlando che
occupava la poltrona di Guardasigilli anche nel precedente
governo e che ha sostenuto il
sì alla riforma costituzionale.
Allora, in cosa differiscono le
due candidature? Ecco le due
mozioni a confronto.
Le citazioni - Quello che
colpisce nella mozione del «candidato di sinistra» Orlando, intitolata «Unire l’Italia, unire il
Pd» sono le citazioni iniziali del
padre nobile della Dc, Alcide
De Gasperi, di Papa Francesco e Abramo Lincoln.
Renzi, invece, inizia con una
feroce critica ai nuovi nazionalisti che avanzano in Europa e
che potrebbero presto prendere
il potere, a partire da Marine
Le Pen in Francia.
Per Orlando la preoccupazione maggiore è unire la sinistra e
le forze di centrosinistra contro i
populismi. «La destra vince perché divide il popolo, contrappone gli inclusi agli esclusi, gli italiani agli stranieri, una nazione
all’altra. Noi vogliamo unire, e
così vincere», si legge nella mozione dell’ormai ex «giovane
turco» che si pone l’obiettivo di
unire l’Italia andando a riconquistare anche il voto degli under 35 che il 4 dicembre scorso
hanno voltato le spalle a Renzi
votando in massa contro la sua
riforma costituzionale.
Cosa dicono le mozioni Nelle sei pagine della mozione
renziana si calca molto la mano
sulla necessità di rilanciare
l’Europa che resta «l’orizzonte
strategico» per battere l’ideologia della «chiusura» e dei muri.
«L’Unione Europea è il primo
tentativo nella storia di creare
un insieme sopranazionale in
tempo di pace, senza armi e
senza minacce, sulla base della
libera adesione dei popoli. Ma
purtroppo», sottolinea Renzi,
«negli ultimi anni, la miopia di
una classe dirigente succube
del pensiero tecnocratico ha
ribaltato la percezione dei cittadini». E aggiunge: «Per molti
europei, oggi, l’Unione è diventata il problema, più che la soluzione». Frasi che confermano
la strategia adottata dall’ex
premier negli ultimi mesi nei
confronti di Bruxelles: carota e
bastone.
Analogie e differenze
sull’Europa - E questo è forse
uno dei pochi punti di contatto
tra Renzi e Orlando: imprimere
all’Europa una svolta economica espansiva perché «il coraggio
di Mario Draghi non può bastare», scrive il ministro che si
spinge fino a chiedere una revisione del Fiscal compact.
Secondo l’ex premier, invece,
bisogna creare «un modello con
due livelli di governo ben distinti, uno federale con un adeguato
bilancio da gestire e uno rinviato alla responsabilità degli Stati, singoli o in forma associata
nel Consiglio europeo» così da
europeizzare le elezioni nazionali di ogni singolo Stato.
Le divergenze su lavoro e
Jobs act - In politica economica Renzi rivendica i risultati dei
suoi mille giorni, durante i quali il pil «è passato da negativo
(-2) a positivo (+1)» e, grazie al
Jobs Act si sono avuti 700 mila
posti di lavoro», mentre Orlando mette in luce le criticità di
quella riforma del lavoro e della
Buona Scuola: «Il Jobs Act non
è riuscito a modificare il comportamento di chi continua a
preferire come prima tipologia
di assunzione, specialmente
per i giovani, le forme contrattuali più precarie. L’esplosione
dei voucher – da riportare alle
reali esigenze di lavoro accessorio – ha coperto i fenomeni
La riforma della giustizia dove si è arenata?
P
iercamillo Davigo, illustre magistrato e pro tempore presidente
dell’associazione nazionale magistrati, entità che si presenterebbe come una formazione sindacale della
categoria, ma è di fatto una formazione
politica e di potere, è in questi giorni
pressoché quotidianamente presente in
tutti i talk show, telegiornali et similia.
Abitualmente, tale presenza si articola
in catilnarie sulla corruzione, sulla sua
diffusione (in particolare nella classe politica), e sull’enunciazione apodittica delle innumeri virtù della magistratura, che
per pura combinazione o per insita natura,
risulta pressoché del tutto immune da peccati di qualsivoglia genere, e se sbaglia è
perché il testimone la ha ingannata, nelle
indagini o in tribunale.
Naturalmente noi, come tutti ormai
in questo Paese, riponiamo la massima
fiducia nella magistratura che, ha detto
Davigo, ha il suo primario fine di «calmiepiù degradanti», si legge ancora nella mozione di Orlando,
il quale secondo i renziani non
aveva espresso in passato questa contrarietà.
L’idea orlandiana di una
Iri della conoscenza - Il cavallo di battaglia dello sfidante
di Renzi è, però, il rilancio degli
investimenti pubblici che dovrebbe tradursi nell’assunzione di nuovi impiegati pubblici
e nella nascita di «un nuovo Iri
della conoscenza, che affronti di
petto il problema della ricerca
applicata al fine di migliorare
la competitività e la qualità
dell’intero sistema produttivo,
in coerenza con le vocazioni e
gli orientamenti dell’economia
Italia».
rare» il potere (politico) che se non avesse
alcun guardiano esterno potrebbe degenerare nell’arbitrio. Sante parole, ma siccome
anche la magistratura è un potere e non ci
è ben chiaro quale sia il potere esterno che
la controlla, ci piacerebbe sapere se il neocandidato alla segreteria del Pd, Orlando,
attualmente ministro della Giustizia (che è
altra cosa dalla Magistratura) abbia tra i
suoi programmi una riforma anche in questo campo, riforma che parrebbe oltremodo
necessaria sia sul piano della durata dei
processi che sotto parecchi altri.
Su questo tema ci piacerebbe che
conduttori televisivi e valorosi giornalisti
interrogassero sia il candidato segretario,
sia (tanto ce l’hanno continuamente davanti) il dottor Davigo. Con tutto il rispetto e
la fiducia in ciò che simboleggiano l’uno
e l’altro, sia come personaggio, sia come
potere. Non suoni come eresia, è giusto per
curiosità.
Serena Gana Cavallo
La diatriba sul ticket
segretario-premier - Infine
lo spartiacque cruciale. Per
Renzi, anche se dovesse tornare in auge il proporzionale, la
leadership che si propone per il
governo del Paese deve essere
la stessa che guida il partito,
mentre per Orlando la figura del segretario deve essere
diversa da quella del candidato premier. Per il ministro
della Giustizia il segretario
deve tornare ad occuparsi
solo e soltanto del partito.
«La distinzione tra partito e
governo servirà a mantenere
le promesse mancate: formare gruppi dirigenti nuovi e
rilanciare la partecipazione
attiva».
Orlando, infine, parlando
di legge elettorale, rilancia
la modifica dell’Italicum che
aveva portato avanti il suo attuale sostenitore al Congresso,
Gianni Cuperlo, poco prima
del voto del 4 dicembre.
Una riforma che consentirebbe di uniformare le due
leggi elettorali ora in vigore
per Camera e Senato e che
permetterebbe di approvare
un proporzionale con premi di
maggioranza tali da escludere
l’arrivo a Palazzo Chigi dell’uomo solo al comando. L’antitesi
rispetto a quel che avrebbe voluto Renzi con l’Italicum prima
versione. Il 30 aprile sapremo
chi avrà avuto la meglio.
Formiche. net
SU QUASI TUTTI I FRONTI SI È DIMOSTRATO PIÙ RAGIONEVOLE DI QUANDO ERA IN CAMPAGNA ELETTORALE
Trump è duro all’interno, ma fuori
dagli Stati Uniti morde con le gengive
DI
S
CARLO PELANDA
i può iniziare a valutare con
dati fattuali il rischio di destabilizzazione globale attribuibile all’Amministrazione
Trump. In gennaio questo era elevato
in base a una serie di atti e annunci
apocalittici da parte del nuovo presidente. Dopo due mesi, tale rischio appare essersi ridotto di molto e sembra
concentrarsi, sul piano della stabilità,
più all’interno degli Stati Uniti che
fuori.
Da un lato, c’è l’attesa per vedere come l’Amministrazione Trump
interpreterà concretamente la dottrina del riequilibrio commerciale.
Dall’altro, i primi segnali indicano
una probabilità minima di «tasse di
confine» generalizzate, definendo tale
pericolo limitato a situazioni speciali,
per esempio con il Messico, ma non
con l’intensità temuta, o a settori particolari, per altro in continuità con il
tradizionale protezionismo selettivo
degli Stati Uniti.
In sintesi, il Nafta non sarà destabilizzato pur con qualche modifica. La relazione con gli europei non
appare problematica anche se qualche
aggiustamento è sul tavolo della prossima visita di Merkel a Washington.
Probabilmente gli europei dovranno
dare a Trump il contentino, da spendere con i suoi elettori, di un maggiore
contributo alle spese Nato per avere
in cambio meno pressione riequilibrante sul piano commerciale. Resta
ovviamente il tema dello squilibrio a
favore della Germania, molto, e anche dell’Italia, meno. Ma l’Italia ospita
armamenti nucleari statunitensi, pur
con il sistema della doppia chiave di
lancio, e può giocare questa carta più
quella del forte contributo alle missioni estere per attutire l’eventuale
fardello.
La Germania ha un problema
maggiore, ma la paura tedesca di subire pressioni o limitazioni dall’America è tale da rendere probabile un
compromesso silenzioso. E l’America
ha un bisogno estremo della convergenza con gli europei per contrastare
la strategia di dominio euroasiatico
sia russa sia cinese.
L’eventuale frizione con la Cina
dipenderà dal successo delle riforme
interne di Trump e, soprattutto, dalla
capacità di queste di sostenere i corsi
borsistici, vicini a un tetto, e la crescita. Problemi su questo lato potrebbero costringere Trump a trovare un
capro espiatorio e la Cina è il nemico
perfetto, militare e commerciale. Avrà
questi problemi? Trump è riuscito a
sorpresa a sconfiggere l’establishment
statunitense.
Parte di questo, la finanza, si è
subito allineata. Ma il resto sta reagendo alimentando un conflitto pesante tra istituzioni e punta a farlo
fallire, considerando che le riforme
promesse mostrano, al momento, una
difficoltà applicativa notevole. Qui il
nuovo rischio.
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