Yolocaust, quando il selfie è inconsapevole

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venerdì 27 gennaio 2017, 15:30
Il caso
Yolocaust, quando il selfie è inconsapevole
I selfie al memoriale dell’Olocausto di Berlino messi in pubblica piazza dal satirista israeliano Shapira
di Claudio Caramadre
Nei giorni scorsi è apparso, improvvisamente, come una specie di fulmine a ciel sereno, il sito 'Yolocaust.de'. Solo un altro
sito che nasce dal nulla? Non esattamente. Il suo autore, il satirista israeliano Shahak Shapira, è balzato agli onori
delle cronache perché il suo sito non era come tutti gli altri. Al suo interno, infatti, sono riportati i selfie di persone
assolutamente comuni fatti al memoriale per l’Olocausto di Berlino. Queste fotografie ritraggono i volti dei
visitatori sorridenti fra le lapidi commemorative dell’Olocausto o in atteggiamenti che poco o nulla hanno a
che fare col luogo e l’intento per il quale era stato costruito. Shapira li ha, dunque, modificati, in modo che
passandoci sopra il mouse appaiano, dietro alle persone in primo piano, scene dell’Olocausto. Un’operazione
votata, già sul nascere, alla polemica. Qualcuno ha definito le foto 'irrispettose', qualcuno le ha dichiarate artistiche. Le
domande si accavallano: questi selfie sono rispettosi o irrispettosi? Siamo davanti a un oggetto d'arte? E noi, noisocietà, stiamo diventando immemori? Il problema principale, e iniziale, che quelle foto (nella loro versione originale)
pongono al fruitore è il rapporto con la memoria e soprattutto con la memoria dell’Olocausto. Questo non è un caso di
revisionismo, ma di certo c’è una 'rivisitazione' dei luoghi adibiti alla memoria. "Di fronte al prodotto mediale, allo
sviluppo tecnologico tipico della modernità c’è sempre un’ambivalenza. Non è né buono né cattivo. Nello specifico è
chiaro che l’artista satirico israeliano ha tutto il diritto di porre l’attenzione su quella che lui considera una desacralizzazione
del luogo sacro, però è altrettanto vero che non si può semplicemente considerare questa una perdita di memoria,
una forma di estremo cinismo o nichilismo che abita il mondo dei giovani. Si deve vedere anche come una
forma d’espressione, che anche se a noi novecenteschi fa rabbrividire, è lecita. Quel modo di stare nel luogo è irrispettoso
da un certo punto di vista, ma è anche un modo mimetico, non concettuale, che usa il selfie come affermazione di
esistenza, come voler esserci", ci spiega la professoressa Lia Fassari, docente di Sociologia dei Processi Culturali presso
l’Università La Sapienza di Roma. "Non credo che i selfie siano artisticamente rilevanti, in generale non rispondono
alla logica dell’arte, rispondono, semmai, alla logica del narcisismo, dello spettacolo, del bisogno di
riconoscimento", ci dice Mariagiovanna Musso, docente di Sociologia del Mutamento e della Creatività de La Sapienza.
"Non hanno nulla a che vedere con l’autoritratto d’artista. E anche l’autoritratto d’artista, è arte nella misura in cui è fatto,
creato, dalla mente dell’artista". E per quanto riguarda l'autore del sito, prosegue Musso: "Non credo si tratti di un
artista, ma certamente si tratta di una persona dotata di creatività e di una certa capacità riflessiva anche in senso
estetico. Il fatto che sia anche lui uno che si occupi di satira, e il fatto che abbia messo in piedi questo sito
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/yolocaust-selfie-inconsapevole/
L'Indro è un quotidiano registrato al Tribunale di Torino, n° 11 del 02.03.2012, edito da L'Indro S.r.l.
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apparentemente neutro, senza giudizio di valore, rende il tutto un’opera di grande interesse perché ha semplicemente
esposto le immagini alla riflessione". I ragazzi autori dei selfie potrebbero certamente non essere consapevoli in maniera
completa del retaggio connesso al luogo in cui si trovano ma, in qualche misura, si potrebbe dire, come suggerisce anche
Fassari, che stiano cercando di vivere in un modo 'altro', alternativo se vogliamo, uno spazio che è in qualche modo sacro e
sacralizzato. Giunge, però, inaspettata una discrepanza tra il luogo fisico, con tutto il suo retaggio e simbolico significato, e i
volti degli autori degli scatti. "Io non credo che i ragazzi dopo un’esperienza del genere non siano riflessivi. Solo
che c’è una riflessione concettuale, che ancora si fa nelle scuole, e poi c’è anche un modo che è tutto loro di stare
nei posti che per quanto paradossale riprende tutta una tradizione della mimesi", prosegue Fassari. "La gente
ritira la delega data agli intellettuali, ed è come se dicesse 'io non voglio più che qualcuno dica chi sono, voglio dirlo io chi
sono'. Ovviamente dire una cosa del genere vuol dire che il corpo sociale sta tutto al di qua dello schermo. Bisogna
sempre starci in modo critico nei confronti della modernità tecnologica, ma allo stesso tempo non demonizzare
perché anche l’autore del memoriale ha detto di non sentirsi offeso". Insomma, essere presenti in modo mimetico è la parola
d’ordine dell’uomo moderno, o quantomeno del giovane moderno. In questo caso, tuttavia, sorge un problema nel momento
in cui una fotografia del genere viene intesa come 'irrispettosa' nei confronti di evento storico di indicibile portata. Quando
tutto viene accolto col sorriso, anche la tragicità più cupa della Storia, potremmo essere davanti ad una spettacolarizzazione
del dolore, anche e soprattutto grazie ai new media. Ridere del dolore, ridere nei luoghi del dolore, potrebbe essere inteso
anche come offensivo. Secondo Fassari, però, non è necessariamente vero che abbiamo sviluppato la ricerca sistemica del
dolore per poterne ridere. "Secondo me è vero che c’è la tv del dolore, ma c’è anche una tendenza mediale a
esplorare sfumature emotive interessanti. Cè una grande produzione che riguarda anche il male, non è soltanto che
cerchiamo di sorridere. Il mondo è un po‘ diventato un reality in conseguenza dello sviluppo tecnologico e del consumo.
Questa messa in scena dell’intimo è una prescrizione del capitalismo contemporaneo, molto vorace, che vuole che
consumiamo tutto, anche le emozioni". Questo fermo restando che gli ebrei avranno sempre tutto il diritto di sentirsi offesi
da atti del genere. "Io penso che loro continuino ad avere ed avranno sempre il diritto di sentirsi offesi. Noi
sull’Olocausto abbiamo messo in discussione l’idea stessa di modernità. Non mi sento offesa dal loro diritto di
rimanere offesi", dice Fassari. Non c’è dubbio che l’Olocausto sia incancellabile dalla memoria di quanti l’hanno vissuto e
studiato a scuola. Oggi più che mai, almeno in Italia, viene tributata un’attenzione particolare a questo evento perché anche
noi italiani abbiamo contribuito a rendere possibile un’atrocità simile. La cultura ebraica, per certi versi, non solo è stata
aiutata dai tanti 'giusti' di nazionalità italiana che durante la Seconda Guerra Mondiale aiutavano i cittadini ebrei a
fuggire, ma è stata anche violentata dalle retate fasciste che cercavano ebrei da consegnare alla Germania nazista. Ecco
allora che questi selfie si connotano di un valore potenzialmente grottesco. La cultura ebraica potrebbe davvero sentirsi
offesa da atti del genere? “Io penso che loro continuino ad avere ed avranno sempre il diritto di sentirsi offesi. Noi
sull’Olocausto abbiamo messo in discussione l’idea stessa di modernità. Non mi sento offesa dal loro diritto di
rimanere offesi”. D'altra parte, pur potendo 'perdonare' gli scatti e gli autori, di certo questi non possono essere difesi dal
muro della "creatività": "In generale nella spettacolarizzazione del dolore può, però, esserci creatività. Una dose di creatività
può esserci in qualunque cosa" dice Musso. "Noi stiamo facendo abuso di un termine che si collega a vari elementi della vita,
dalla politica alla cucina. Perfino Hitler era un creativo. La creatività si esemplifica anche nella bestemmia. I toscani e i
siciliani sono degli artisti in proposito. Nell’abominio e nella violenza c’è una dose di creatività, e allora? Questo
basta a rendere migliori e più utili e più interessanti queste attività? Non credo proprio che sia questo il metro che ci
interessa". Ne consegue che gli autori dei selfie stessero sì, cercando di vivere un luogo in modo alternativo, ma allo stesso
tempo, questa alternatività, non può essere difesa con la scusa della creatività. Forse è soltanto un problema di rispetto,
allora. In proposito Musso afferma che "già il fatto di porre la domanda sta a significare che c’è un’assenza di
criterio, un’incapacità di discernere cosa definisce il rispetto e cosa definisce il suo contrario. Quindi siamo all’interno di una
'anomia', una mancanza di leggi, tema di cui già Durkheim si occupò", e ancora: "è chiaro che non abbiamo più il rispetto
che era presente nelle società tradizionali". Quello sollevato dalla Prof.ssa Musso è un tema molto interessante. Il rispetto è
diventato qualcosa di estremamente labile negli ultimi tempi. Lo vediamo ogni giorno e i social networks sono pieni di atti
irrispettosi o menefreghisti. Sono lo specchio (a volte) di un cinismo efferato che, come se non bastasse, negli ultimi anni, ci
ha mostrato scene di sprezzo del dolore nei confronti della sofferenza altrui. È vero, siamo stati Charlie Hebdo, ma siamo
anche stati quelli che si scattavano una foto all’Isola del Giglio con lo scheletro della Costa Concordia sullo sfondo.
Abbiamo spettacolarizzato il dolore. Abbiamo cercato di affermare la nostra presenza tramite foto, hashtags e segnalatori di
posizione, per dire che la nostra intera esistenza – o meglio la nostra esistenza affermata nella realtà – non è più tanto
importante quanto quella “mostrata” e filtrata attraverso i social network. Guy Debord definiva questa modalità di
esistenza della società (negli anni ’70) come ‘Società dello Spettacolo’. Una società, cioè, in cui esiste solo ciò che appare
nelle televisioni o tramite qualsiasi altro medium. Ma se per Fassari "siamo oltre La Società dello Spettacolo" poiché
"Per Debord lo spettacolo si prende il mondo, le relazioni divengono mediate soltanto dallo spettacolo, ma rispetto a questa
forza, che c’è sempre e non finirà mai, ce n’è un’altra: la possibilità, adesso, non solo di andare verso la fine dell’individuo
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ma anche di produrre un nuovo individuo. Oggi grazie al supporto mediale c’è la possibilità di mostrare in modo
diverso il mondo, con più punti di vista", dello stesso avviso non è Musso, la quale afferma che "siamo nel bel mezzo della
Società dello Spettacolo". Ma allora, se le opportunità sono sotto gli occhi di tutti, cosa diremo dei rischi? C’è, in qualche
modo, un senso di pericolo percepito da coloro che condannano gesti come quelli fatti dagli avventori del Memoriale di
Berlino, e questo pericolo non è percepito nei confronti della società tedesca o soltanto europea, bensì nei confronti
dell’Occidente tutto. La nostra società in pochissimo tempo si è assuefatta ai nuovi mezzi di comunicazione ed
informazione ma non ha creato altri mezzi in grado di contenere le derive cui questi nuovi medium (principalmente usati da
soggetti molto recettivi quali sono i giovani) sono in grado di condurre. La coscienza collettiva Occidentale è in qualche
misura sottoposta a nuove spinte che mutano da paese a paese e da territorio a territorio e l'impressione è che stiamo
mutando il nostro comune sentire, cosa che potrebbe portarci alla perdita della coscienza comune europea. Per Fassari
questo è vero solo in parte: "Ora la gente non ci sta più ad aderire acriticamente ad una narrazione pre-costruita, ciò che
però ci accomuna è la modernità stessa. Non cedere ai fondamentalismi". Non cedere ai fondamentalismi. Questa è la
grande opportunità. Anche perché un rischio c'è ed è quello di veder mutata per sempre la rimembranza dell'Olocausto. "Per
quanto riguarda l’Olocausto nello specifico," dice Musso, "è chiaro che stanno cambiando i meccanismi e i tracciati
della memoria. L’Olocausto è un caso assai specifico. La Storia ha conosciuto una tale quantità di eccidi e genocidi di cui
nessuno ha più memoria", tuttavia, "dell’Olocausto si è mantenuta la memoria grazie anche ad uno sforzo massiccio fatto
dal popolo ebraico per rivendicare la propria posizione nel mondo e da un lato questo intento e dall’altro il senso di colpa dei
colpevoli che in qualche modo hanno partecipato con atti o indifferenza a questo genocidio hanno fatto sì che dell’Olocausto
si mantenesse memoria. Poi la storia fa il suo corso e a volte le vittime diventano i colpevoli". Se dovesse accadere
una cosa del genere, cioè la rivisitazione di eventi terribili come l'Olocausto cosa diremo ai nostri figli e nipoti? Come uomini
e donne moderni dobbiamo anche metterci in discussione di fronte alle generazioni future. Infatti, non lasceremo soltanto
qualcosa di fisico e fisicamente percepibile, ma anche un’immagine di noi, della nostra società, del nostro tempo e del
nostro comportamento. Anche questo farà parte della nostra cultura e del nostro lascito? “L’esperienza mediale è
ambivalente", spiega Fassari, "il simulacro si mangia tutto, diviene derealizzante e cancella la Storia. Il rischio che ci
siano soggetti senza Storia c’è. Però c’è sempre nella modernità un movimento che da una parte è questo, il mediale
che fagocita e domina i soggetti (mondo speculare, derealizzato) ma c’è sempre un’altra forza, quella dei soggetti che
esprimono una resistenza. Sì c’è il selfie in questi luoghi, ma anche esperienze che ci tornano in altro modo, più profondo e
soggettivamente orientato. L’Olocausto rimane un momento di riflessione potente”. Il rischio dell'individuo "astorico" è
concreto. Questa inconsapevolezza produce soltanto effetti indesiderati. Errori che in quanto tali possono essere tollerati ma
non giustificati. La spettacolarizzazione del dolore è uno di questi effetti collaterali. Persone che cercano i luoghi del dolore
con fare turistico, interi pullman di gente che si reca a Brembate per vedere i luoghi in cui svanì nel nulla Yara
Gambirasio, o ancora “turisti” che si recano ad Avetrana, sulle scene del delitto Scazzi. Il dolore è spettacolarizzato da
quando, per la prima volta, il piccolo Alfredo Rampi non cadde in un pozzo. Tutto si fonda sulla capacità che i giovani
hanno di rendersi consapevoli del pavimento che calpestano perché, nel caso specifico portato in prima pagina da Yolocaust,
questi ragazzi secondo Musso "non sono assolutamente consapevoli della specificità del luogo", o meglio, spiega la
docente, "sanno che lì c’è un memoriale, che ha delle caratteristiche di un certo tipo, che ricorda un certo elemento storico,
ma la cosa interessante è che pur sapendo questi dati (che sono evidenti e ovvi perché ci sono andati con le loro gambe)
attribuiscono a questi luoghi un significato che noi non ci aspettiamo. Non c’è nessuno sforzo di comprensione e di
mettersi in connessione con la Storia, con gli elementi storici e le tragedie della vita, tanto che si crea un vuoto, una
specie di diaframma. Queste persone vanno lì come degli automi inconsapevoli pur avendo l’informazione. Sono dotati di
informazione ma non di conoscenza". Ma attenzione: non si tratta di togliere la "libertà" di fotografare se stessi
dovunque si voglia. Siamo ancora liberi di fotografarci dove, come e quando vogliamo. Come siamo liberi di gettare una
gomma da masticare a terra. Il punto è rendersi conto, o quantomeno chiedersi, se quella nostra semplice ed
apparentemente innocua azione non abbia degli effetti. La libertà, spesso e volentieri, viene intesa proprio come una sorta di
spada alessandrina in grado di tagliare il ‘nodo di Gordio’ degli effetti. Si tratta di un errore comune un po’ a tutti. Persino a
chi, credendo di non fare nulla di male o catastrofico, getta tutto nel bidone dell’indifferenziata. Secondo Musso "c’è una
richiesta e una sorta di legittimazione di una libertà svincolata da ogni contesto e da ogni attributo che fa pensare
che non ci sia nulla di male a fare cose del genere. Non so se sia una non-consapevolezza del contesto ma c’è anche una
rivendicazione di libertà". Il risultato è che dei semplici selfie innocui possono gettare nel caos per quarantotto ore i social
network spaccando a metà i fronti del ‘giusto’ e dello ‘sbagliato’. Non che sia un grandissimo problema, s'intende, ma
denota quantomeno che c'è attenzione verso il fenomeno, il 'secondo fronte' di cui parlava Fassari, quelli che fanno
resistenza a certe tendenze. Vero è che soltanto grazie all’azione di Shapira noi, oggi, siamo qui a parlarne ma è altrettanto
vero che non ci capita di rado di vedere postate delle immagini di dubbio gusto da parte dei normali abitanti del nostro
pianeta. Se quindi queste fotografie riescono e sono riuscite ad avere un qualche effetto, sarà bene capire di quale effetto
parliamo. Di certo, come anche afferma la Prof.ssa Musso, "da un lato, come molte altre foto, queste vanno nel calderone
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delle immagini sena senso e passano nell’indifferenza, dall’altro si mettono sotto la lente riflessiva di una persona
consapevole ed esposta al dibattito pubblico, diventano materia di riflessione, alimentano le opinioni... e i social network ne
sono un grande contenitore". Eppure basterebbe sapere quando, dove e come fermarsi. Sapere, insomma, che ci sono dei
limiti che è doveroso non oltrepassare. Perché anche il Dottor Frankestein di Mary Shelley cerca di replicare l’orrore
della vita e l’opera di Dio, ma alla fine si accorge che è andato troppo oltre, che la sua opera è l’espressione di una volontà
abominevole che non tiene conto del prossimo. E, al fondo della questione, è proprio il "limite" il problema. "Noi
viviamo in un’epoca e in una società in cui il limite è l’unica cosa che non solo ignoriamo ma, nel caso la dovessimo vedere,
non ne vogliamo proprio sapere. Sia individualmente che socialmente noi concepiamo la nostra esistenza come mancanza di
limiti in assoluto. A meno che qualcuno non ce li imponga o le circostanze ce li mettano sotto il naso, nessuno pensa di avere
dei limiti ormai" afferma la Musso. Nelle relazioni interpersonali la cultura del limite è estremamente importante. Vero è che
le eccessive formalità sono state avversate dai giovani di ogni epoca ma è altrettanto vero che nella nostra epoca in
particolare "in una società che è sempre più ospitale per il narcisismo ed il cinismo, l’attenzione verso il
prossimo diventa un principio che sta passando come “buonista” che viene considerato come “andare di moda”. In
definitiva, come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Forse quei selfie rappresentano davvero un'opportunità, come dice
la Prof.ssa Lia Fassari, di leggere e vivere in modo alternativo qualcosa di funesto e terribile, ma d'altro canto non possiamo
restare indifferenti davanti una tendenza, come parrebbe indicare la Prof.ssa Musso, specchio di una società che è ancora
nella fase di abolizione dei "vecchi" valori e che non ne sta proponendo di nuovi a parte quelli legati alle sensazioni, spesso
anche quelle estremamente superficiali.
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