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PRIMO PIANO
Giovedì 12 Gennaio 2017
Trenta in più dell’anno scorso. Mentre gli interessi che paga lo stato stanno alzandosi
Scadono Bot e Cct per 216 mld
Il governo di Paolo Gentiloni si muove. Ma non abbastanza
DI
STEFANO CINGOLANI
F
in dalla sua nomina
come presidente del
Consiglio, Paolo Gentiloni non ha fatto
altro che giurare sulla continuità del suo governo con
il gabinetto Renzi, anche a
rischio di beccarsi l’epiteto
di «fotocopia». In realtà, fin
dall’inizio, ha mostrato molte
discontinuità. Un po’ per il
compito che si è dato (gettare ponti politici sopra fossati
diventati dei burroni), un po’
per la pressione degli eventi,
un po’ per il ruolo che hanno assunto alcuni ministri a
cominciare da Carlo Calenda e Marco Minniti, molte
cose sono già diverse, dalla
politica verso l’immigrazione
clandestina alla Libia, dove
s’intravede un’apertura al
dialogo con il generale Haftar.
Nuovo è senza dubbio
l’interventismo in economia. È vero che il salvataggio pubblico del Monte dei
Paschi di Siena era già maturato prima, ed è vero che
la sconfitta al referendum
ha dissolto ogni operazione
di mercato, ma Gentiloni non
ha perso un minuto prima di
dare il via libera a Pier Car-
lo Padoan. Una netta accelerazione è stata impressa
alla fusione tra Bpm e Banco
popolare o alla sistemazione
delle tre banche «risolte» che
vengono acquisite da Ubi.
Aspettiamo di sapere che
cosa accadrà per la Popolare
di Vicenza e Veneto Banca,
cioè se ci sarà anche in questo caso un aiuto da parte dei
poteri pubblici.
Persino uno scontro
che si svolge su un’arena
tutta privata come la scalata di Vincent Bolloré a
Mediaset ha visto il governo
schierarsi, sia pur solo politicamente per il momento, al
fianco dell’azienda di Silvio
Berlusconi, fino al punto
da considerarla strategica
per il Paese. Vedremo se alle
parole seguiranno dei fatti. È
evidente che non ci potranno
essere interventi pubblici diretti, ma se l’Agcom accoglierà la richiesta di Mediaset
bloccando le quote di Vivendi, sarà evidente l’influenza
sia pur indiretta del nuovo
clima politico.
Il ministro dello Sviluppo si è distinto come la
punta di diamante di questa
svolta interventista. Calenda non solo ha fatto propria
l’idea di sostenere dei cam-
pioni nazionali, ma è giunto
a parlare di neo-protezionismo, in un ambiente internazionale che si è fatto sempre
più ostile al libero scambio.
Non siamo ancora alla fine
del laissez faire, ma ci stiamo
avvicinando a grandi passi
verso un’economia mondiale
divisa tra grandi potenze in
competizione tra loro anche
facendo ricorso a dazi, tariffe,
ritorsioni e protezioni di ogni
genere. L’Italia non può fare
l’utile idiota, per rispettare
principi che nessun altro più
sostiene, ma di qui a costruire un nuovo paradigma di
politica industriale ed economica ce ne corre.
Comunque si giudichi
l’inclinazione che emerge
dalle parole e dai gesti del
governo Gentiloni, emerge un problema di fondo:
quanto spazio ha l’Italia in
questo nuovo ambiente neonazionalista? Davvero poco.
Il primo ostacolo è il debito.
Il dibattito pubblico continua
a rimuoverlo, ma la realtà
lo impone all’attenzione di
chi deve acquistare i titoli di stato italiani. Sono in
scadenza Bot e Btp per 216
miliardi di euro, 30 in più
rispetto all’anno scorso. Gli
interessi che paga lo Stato
sono minimi (0,52%) grazie alla politica monetaria
espansiva della Bce. Mario
Draghi ha annunciato che
non cambierà linea, tuttavia è sottoposto a pressioni
molto forti che vengono dalla
Germania dove l’inflazione è
tornata ad avvicinarsi al 2%
(cioè l’obiettivo della banca
centrale) e dal sistema bancario e assicurativo che, con
gli interessi a zero, vede gli
utili schiacciati sotto il pavimento.
Le imminenti prime aste
del 2017 daranno un’indicazione. I dati sui prezzi mostrano che l’Italia è ancora in
deflazione, quindi ha bisogno
ancora a lungo di una politica monetaria molto accondiscendente. Ma il mercato
potrà sanzionare in modo
negativo questa asimmetria
italiana rispetto all’insieme
della zona euro.
Un altro grande interrogativo riguarda le riforme,
quelle mancate (si pensi al
cambiamento del sistema
di governo o alla giustizia),
quelle incomplete (per esempio la Pubblica amministrazione) e quelle interrotte
(come il mercato del lavoro).
Dovevano offrire la garanzia
che l’Italia si stava muoven-
do, sia pur con difficoltà e
lentezze, nella direzione giusta per ritrovare la via della
crescita e della competitività sistemica. A questo punto
sarà difficile convincere, non
tanto gli eurocrati di Bruxelles, ma le vedove scozzesi o
i gestori del fondo sovrano
norvegese che val la pena
comprare titoli italiani, titoli
delle imprese e delle banche,
non solo dello Stato.
Il nuovo attivismo del
governo, dunque, potrà
essere anche benemerito, ma
rischia di diventare mero velleitarismo. Per mettere radici
a quelli che sono oggi soltanto
segnali se non proprio messaggi nella bottiglia, bisogna
che Gentiloni e i suoi ministri mettano a punto rapidamente una cornice di politica
economica e fiscale credibile e
coerente. Finiti i fuori d’artificio polemici stile Renzi, occorre davvero mostrare i denti,
i quali si affilano solo con
il coraggio di disboscare la
giungla della spesa corrente
e cominciando quel percorso
di riduzione delle imposte sui
redditi più volte annunciato e
rinviato di anno in anno. Sarà
questa la vera svolta del governo Gentiloni?
IlSussidiario.net
È LA STRATEGIA DELL’IMA DI ALBERTO VACCHI CHE LI COINVOLGE NELLA SUA STRATEGIA DI CRESCITA
I subfornitori considerati come se fossero soci
I robot ce li hanno anche gli altri paesi concorrenti, i tecnici diffusi no
DI
L
CARLO VALENTINI
a struttura è a raggiera. Al
centro, l’impresa di medie
dimensioni, attorno i fornitori. Coi quali però non c’è
un semplice rapporto contrattuale ma un’intesa che rende queste
mini-aziende di subfornitura, parte
del gruppo. Ovvero il committente
partecipa all’innovazione tecnologica
del fornitore anticipando i pagamenti, gli illustra le proprie strategie di
crescita e discute con lui su come
attuarle insieme, lo invita a partecipare a stage in fabbrica. E’ un
nuovo modo di produrre, che punta
sull’alta qualità dei componenti e
non sul massimo ribasso. A impostare in questo modo, cioè in rete,
la produzione è Alberto Vacchi, a
capo di Ima, leader nel packaging.
L’azienda è quotata a Piazza Affari
nel segmento Star ma il 60% del capitale è in mano alla So.fi.ma, holding
di cui la famiglia Vacchi ha il 70%.
Lui è stato a un passo da diventare
presidente di Confindustria. Voleva
rigenerare l’associazione e orientarla
verso quella parte imprenditoriale
che compete nel mondo. Ma è stato
bruciato sul filo del traguardo perché
le aziende a partecipazione statale
gli hanno votato contro.
L’ inter-connessione tra l’azienda e chi le fornisce i componenti è,
secondo Vacchi, quel tassello in più bene per tutti e se loro diventano più
che può avere l’industria italiana 4.0. forti lo saremo anche noi».
Ima è una case history del made
Vanno bene i big data, cioè la potenza
di calcolo, la robotica, le nuove tecno- in Italy leader nel mondo. Fondata
logie. Che sono però appannaggio di nel 1961, è specializzata nelle mactutto il mondo industriale avanzato. chine per il confezionamento di prodotti farmaceutici,
L’Italia, in più, può
cosmetici, alimentavantare una rete di
ri, tè (due terzi delle
piccoli e piccolissimi
bustine di tè che ogni
imprenditori speciagiorno vengono scarlizzati nella subfortate nel mondo sono
nitura e in grado
state impacchettadi proporre una
te dalle macchine
qualità del prodotto
dell’azienda) e caffè
ineguagliata. Se la(Nespresso fa prosciati soli e magari
durre qui le sue cialstrozzati sui prezde). Ha 5.000 dipenzi di catalogo è un
denti (di cui 2.600
valore aggiunto del
all’estero) in 38 stamade in Italy che ribilimenti tra Italia,
schia di scomparire.
Alberto
Vacchi
Germania, Francia,
Al contrario l’esperiSvizzera, Spagna,
mento di Vacchi sta
consentendo sia a lui che a loro di Regno Unito, Stati Uniti, India, Macrescere. Dice: «Loro mantengono la lesia e Cina.
All’inizio dell’anno ha acquisito
loro autonomia e forniscono anche
altri committenti e noi li lasciamo (per 7,7, milioni di dollari) il 70% delliberi ma li facciamo partecipi del- la Mai, sede a Mar del Plata, Argenle nostre scelte e delle nostre esi- tina, che produce e commercializza
genze, li consideriamo partner del macchine per il confezionamento di
gruppo e quindi siamo al loro fianco tè e tisane in sacchetti filtro (fattura
nel farli crescere, possono attingere 7 milioni di dollari). “Si tratta- dice
alle nostre competenze, utilizzare i Vacchi- di un’operazione strategica.
nostri specialisti, essere facilitati L’acquisizione ci consente di rafforzanegli investimenti. Nessuna gelosia. re la leadership nel confezionamento
Se cresce il sistema industriale è un del tè e di rafforzare la presenza in-
dustriale in Sud America».
Dal te al caffè. L’acquisizione
della Mai segue di poche settimane
quella dell’80% di Mapster (sono
stati pagati 2,4 milioni di euro, sede
a Parma, fatturato di 7,5 milioni), e
del 49% di Petroncini (2,5 milioni,
sede a Ferrara, fatturato 8 milioni
di euro, opzione per l’acquisto di un
ulteriore 31%).
Le due aziende producono macchine automatiche per il riempimento e
confezionamento di capsule per caffè, settore previsto in forte crescita
nei prossimi anni. «
L’ampiezza della gamma è un elemento competitivo e vincente- spiega
Vacchi. -Diventiamo il solo produttore in grado di offrire soluzioni per
impianti completi che spaziano dal
caffè verde al confezionamento finale
del caffè tostato in capsule, cialde,
sacchetto, incluso il packaging secondario».
Il rafforzamento di questi settori è anche una spinta alla diversificazione poiché finora il farmaceutico
genera oltre la metà dei ricavi. Le
previsioni sulla chiusura del 2016
indicano un fatturato di 1,27 miliardi (+14% sul 2015) e un’Ebitda
(si tolgono dall’utile lordo le imposte,
gli ammortamenti, i deprezzamenti
e gli interessi) di 178 milioni di euro.
Tutto questo è made in Italy 4.0.
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