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Pianeta Apuane II: ambiente e diritto al lavoro potranno
coesistere? | 1
giovedì 12 gennaio 2017, 16:30
Economia
Pianeta Apuane II: ambiente e diritto al lavoro
potranno coesistere?
«Aut Out» : incontro ‘fuori dal coro’ con Alberto Grossi, ambientalista e filmaker
di Virgilio Carrara Sutour
La disciplina delle cave in Italia è tuttora regolata dal Regio Decreto n. 1443 del 1927 ('concessioni amministrative
su risorse del demanio idrico, marittimo e minerario'). Dopo l’istituzione delle Regioni, a partire dalla seconda metà degli
anni Settanta la materia è stata oggetto – escludendo le risorse marittime e in modo inorganico rispetto al contesto
nazionale - di specifiche normative adottate dagli enti territoriali (Provincia di Bolzano, Piemonte, Liguria, Basilicata
tra i primi). La Toscana è intervenuta solo con la L.R. 78/1998, integrata dal «Piano regionale delle attività estrattive» del
2007. Tuttavia, a livello nazionale, l’assenza di piani cava interessa ancora metà della Penisola. Chi autorizza, allora, le
nuove cave? Gli attori in gioco rimangono, in assenza di una normativa-quadro omogenea, i Comuni, le ecomafie e le lobbies
legate al settore estrattivo. Ad oggi, le aree di rilevante interesse ambientale e paesaggistico risultano escluse
dall’attività estrattiva in sole 4 Regioni: Basilicata, Molise, Marche e Umbria). In Toscana, così come in Abruzzo,
Lazio e Calabria (che non si è dotata neppure di una legge regionale) l’autorizzazione all’esercizio dell’attività di cava spetta
ai Comuni, con aumento di discrezionalità nel concedere l’autorizzazione e nel determinare le tariffe di escavazione in
assenza di aree che siano per legge «escluse». Il recupero delle aree dismesse è previsto a carico del proponente, ma ciò il
più delle volte non avviene: numerosi sono i casi di abbandono e le conseguenti necessità di ripristino ambientale (a cui ha
provveduto, eccezionalmente, il Friuli-Venezia Giulia con la Legge regionale n. 42/1991). Nel generale squilibrio del sistema
giuridico, l’impatto riguarda non solo il paesaggio, ma il sistema idrogeologico. Per le aree abbandonate sono
previsti, in diverse regioni, contributi a carico della collettività in tutti quei casi che vedono esclusa la possibilità di rivalsa sul
proponente. Per la determinazione delle tariffe, le divergenze sono evidenti, passando dai 7,19 euro a metro cubo per le
cave di porfido in Trentino Alto Adige all’estrazione totalmente gratuita in Sicilia, Sardegna, Puglia (alla quale spetta il
primato per le cave attive e più di 2500 aree dismesse) e Basilicata, con un contributo simbolico per la Campania (0,10 euro
a metro cubo) su ogni tipo di estrazione. Secondo l’ultimo 'Rapporto Cave' di Legambiente, del 2014, ci troviamo di fronte
a un Paese smembrato, dove parlare di patrimonio naturale e geoparchi suona come un astratto mascheramento della
realtà tangibile: 5592 cave attive
e 16045 dismesse, escludendo quelle non monitorate (in Calabria e Friuli). Eppure
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su
http://www.lindro.it/pianeta-apuane-ii-ambiente-e-diritto-al-lavoro-potranno-coesistere/
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un’inversione di rotta non può che procedere dalla legalità, dall’istituzione dei territori interessati come bene comune in sé e
per chi li vive quotidianamente. In questo senso, il concetto di ‘ambiente’ contiene già la concretezza dell’abitare un
luogo nella sua fisicità, del convivere con esso secondo uno scambio aperto e costante, là dove il senso di
appartenenza si costruisce ogni giorno, lontano da un’autoctonia issata a vessillo o da consuete prerogative di ‘proprietà’ su
risorse naturali derivanti da puri e semplici rapporti di forza. Lo sfruttamento delle risorse e della forza-lavoro, e i tre
beni giuridici fondamentali della salute, del lavoro e dell’ambiente sono diventati i termini di una scelta imposta,
marcata dal disgiuntivo 'o' : salute o lavoro, aut… aut. Anzi: «Aut out», ‘o dentro o fuori’, per citare il titolo di un filmato
dell’ambientalista Alberto Grossi, che sottolinea come non esista, in realtà, alcun diritto a scegliere liberamente.
Torniamo, allora, in Apuane, seguendo il filo del discorso di Grossi, incontrato al Workshop sulla giustizia ambientale
organizzato lo scorso agosto da Manitese a Colle Brianza (LC) e, successivamente, all’incontro sulle montagne del marmo,
tenutosi il 12 dicembre presso la Sezione CAI di Pisa. “Il massiccio apuano ha un orientamento NO-SE, il che significa
precipitazioni abbondanti e una ricca biodiversità, che conta diversi endemismi. Questi ed altri aspetti naturalistici, malgrado
abbiano portato all’istituzione di un Parco e al successivo inserimento nel sistema di protezione europea «Natura 2000» (con
10 SIC e una ZPS), hanno un peso nullo di fronte alla presenza interna delle «aree contigue di cava», un eufemismo adottato
dalla Regione Toscana”. Individuate dalla L.R. n. 65/1997, istitutiva del Parco, tali delimitazioni coincidono con altrettanti
Bacini estrattivi (21 in totale) sparsi a macchia di leopardo all’interno dei suoi confini e nominati secondo la geografia dei
luoghi ‘protetti’: Bacino Orto di Donna, Bacino Tre Fiumi, Bacino Fontana Baisa, Bacini dei Monti Corchia, Cavallo, Sagro… La
ragione addotta dalla Regione per questo unicum giuridico è una «significativa e storicizzata presenza di attività per
l’estrazione del marmo all’interno del territorio apuano». Tra gli emendamenti alla Disciplina del Piano paesaggistico del
2014, sulla compatibilità delle attività estrattive leggiamo che «L’apertura di nuove cave, l’ampliamento di cave
esistenti e la riattivazione di cave dismesse non devono in ogni caso interferire in modo significativo con: (…)
SIC e ZPS (…); linee di crinale e vette». L’attuale stato dei luoghi non sembra corrispondere a queste previsioni. Inoltre,
«I diritti acquisiti relativi alle attività estrattive in essere, svolte in conformità ai piani di coltivazione ed entro i termini
indicati nei provvedimenti di autorizzazione, sono fatti salvi» (Art. 18 bis). All’articolo successivo, è previsto che «l’apertura
di nuove cave, la riattivazione di cave dismesse e l'ampliamento di cave esistenti sono consentiti a condizione che non
richiedano la realizzazione di nuove discariche di cava (ravaneti) nè la ricarica di quelle esistenti. E’ comunque consentito lo
stoccaggio provvisorio». Nonostante l’opposizione del Coordinamento degli imprenditori del Lapideo, sarà difficile
qualificare ‘garantista’, nel bilanciamento degli interessi in gioco, l’orientamento politico sotteso a questa
disciplina, e ciò per ragioni diverse dalla tutela del diritto al lavoro. “Nel 1926”, prosegue Grossi, “i cavatori erano
14181, e parlo dei soli iscritti… Con la diffusione, da circa un quarantennio, del filo diamantato inventato dal carrarese Luigi
Madrigali, l’estrazione del marmo è cresciuta in modo esponenziale, diciamo 36 volte di più, anche se il bilancio attuale è
arrivato a un milione e mezzo di metri cubi l’anno! Questo non significa, automaticamente, ‘occupazione’: a distanza di un
cinquantennio, oggi nelle cave lavorano meno di 1000 persone. Come si fa a parlare di «sicurezza» se per ogni
macchinario troviamo, nei casi più fortunati, un solo addetto? Lo stesso Presidente del Parco ha dichiarato, a più
riprese, che, in nome del lavoro, non si sarebbero chiuse cave: è certo che intendesse qualcosa di distinto dall’oggetto
dell’Articolo 4 della Costituzione e dall’inerente fine di «progresso materiale e spirituale» per la società”. Mentre fuori
dalle pese passano, oltre al marmo di scarto, sassi e terre tracimati nei ravaneti o stipati negli antri del Parco, a fare le spese
del business sono gli stessi lavoratori assunti (regolari incidenti vedono operai sepolti dalle frane, l’ultimo nell’aprile del
2016) e gli abitanti dei paesi apuani. “La «patente a punti», proposta da Cisl e Filca Toscana è fantascienza per imprenditori
che non prevedono, nel proprio bilancio, alcuna responsabilità. Quanto ai residenti, pensiamo al disastro di Cardoso, oggi
ricostruita. Il 19 giugno del 1996, quella bomba d’acqua provocata dall’intasamento dei canali non fu un caso: 0.5 tonnellate
di acqua al mq misero in ginocchio 3500 famiglie e portò alla morte di 14 person non è un caso isolato”. Dallo smottamento
di Forno del 1982, in cui 5 persone furono soffocate dal fango dentro le loro case, alla frana staccatasi a Lavacchio, sopra
Massa, nel novembre del 2009, gli eventi tragici sono agevolati dallo sfruttamento incontrollato del territorio. Come
confermano le perizie geologiche, a fronte di un monitoraggio dei crolli in montagna, malgrado il rischio specifico sussistente
per gli addetti, isi riscontra la totale insicurezza dei versanti in caso di piogge. Infatti le discariche di detrito (o ‘ravaneti’),
specie se a grana fine, assorbono l’acqua come spugne pronte a staccarsi trasformandosi in valanghe di fango. Le acque
provenienti dai bacini estrattivi, compresi quelli situati nei fondovalle, non sono minimamente regimentate da un
idoneo sistema di canalizzazione. “Di fronte al dissesto e al rischio idrogeologici, all’insicurezza e ai ricatti sul lavoro,
all’esistenza – per un Parco - di possibili economie alternative, e a poche famiglie che si arricchiscono dietro la Marmi
Carrara (con un 50% alla famiglia Bin Laden dal 2014) o la Cpc Marble & Granite Ltd, cosa fanno i governatori dei territori? E
i dirigenti del Parco?”. Grossi si interrompe, innescando un’ipotesi di civiltà secondo cui l’equilibrio ambientale e la tutela
del lavoro viaggiarebbero su un terreno comune, a pena di vedere, ancora, nella coltura del marmo “una ricchezza che ci
impoverisce tutti”.
di Virgilio Carrara Sutour
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