Le nuove strategie Opec e gli effetti sull`offerta e il

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Le nuove strategie Opec e gli effetti sull'offerta e il prezzo d
Le nuove strategie Opec e gli effetti sull'offerta e il
prezzo del barile
Dopo un lungo periodo di ampia offerta di petrolio e prezzi ai minimi, l'Opec ha deciso una riduzione
delle quote di produzione nei diversi paesi esportatori. Sui possibili effetti di tale accordo,
QualEnergia.it ha intervistato Massimo Nicolazzi, professore di economia delle risorse energetiche.
Francesco Valezano
Abbondanza di petrolio e prezzi ai
dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori.
minimi
hanno
caratterizzato
la
recente
condotta
A Vienna, con l’accordo del 30 novembre, si tenta un’inversione di rotta. Intervistiamo sul tema
Massimo Nicolazzi, professore di economia delle risorse energetiche all’Università degli Studi di
Torino, chiarendo il reale significato di questa storica intesa.
Tenendo conto delle tensioni che fino a poche settimane fa laceravano il Cartello, è
rimasto sorpreso dalla prova di coesione dimostrata a Vienna?
Quanto annunciato a Vienna ha stupito molti. Il messaggio è chiaro: se vogliamo possiamo metterci
d’accordo. Solo qualche settimana prima non pareva possibile anzitutto a causa dei conflitti
d’interesse tra i membri OPEC. Le dispute interne al Cartello dipendono anche da ragioni
demografiche e, in ultima analisi, dalla rendita petrolifera procapite. Chi accumula rendita in forma di
riserve può permettersi di difendere il prezzo. Mentre chi la impiega tutta e subito in spesa sociali
non può che difendere le proprie quote di mercato e, dunque, i volumi. In seno all’OPEC questa volta
ha prevalso l’idea che l’articolazione delle quote per ridurre la produzione debba contemplare
l’esenzione dei paesi in maggiore difficoltà. Questa è la ragione per la quale paesi popolosi e con alta
densità di popolazione, la Nigeria fra tutti, sono stati esentati da compiere qualsivoglia misura di
limitazione della produzione.
Sembra che Teheran e Ryad siano riusciti a superare la loro storica rivalità, ma è l’Arabia
Saudita ad aver pagato il prezzo più alto. Significa forse che il suo ruolo all’interno
dell’OPEC si è ridimensionato?
Non vedo né vinti né vincitori. Da parte di entrambi c’era la consapevolezza che la priorità era dare
al mercato il segnale di poter far cartello, a prescindere dal volume del taglio. Si è giunti a un
compromesso di buon senso all’interno del quale è sulle spalle dei sauditi, ritornati almeno in parte
al ruolo di swing producer, che ricade il maggior sforzo di taglio alla produzione. Ricordiamoci un
precedente storico. A partire dal 1973 e fino ai primi anni ‘80, la convinzione diffusa in seno al
cartello era che la domanda di petrolio si dimostrasse perfettamente anelastica al prezzo. Il prezzo
veniva fissato unilateralmente, passando in un decennio da poco più di 2 a quasi 40 dollari per
barile. E non ci si preoccupava del fatto che l’aumento del prezzo stimolava i Paesi consumatori al
varo di strategie di efficienza energetica e rendeva economica la ricerca di riserve alternative, quali
quelle sviluppate nel Mare del Nord. In un mercato che, anche grazie la quotazione del petrolio al
nymex, si stava facendo sempre più liquido, la capacità di controllo dell’OPEC venne sempre più a
ridursi. Nel 1983 decisero di difendere il prezzo del barile, anziché le quote di mercato, imponendo a
tutti i membri quote prefissate di produzione.
Cosa accadde poi?
Finì che l’Arabia Saudita si fece onere della quasi totalità del taglio, mentre la maggior parte degli
altri membri non rispettò le quote assegnate. Il tentativo di difesa dei prezzi del 2016 potrebbe avere
un esito più felice di quello del 1983. Oggi, considerando che tutti i membri partono da picchi di
produzione, dovrebbe essere possibile togliere dal mercato 1,2 milioni di barili giorno senza
particolari contraccolpi. Il problema è che, come molti credono, questa riduzione potrebbe rivelarsi
insufficiente a riequilibrare domanda e offerta. Solo i prossimi mesi ci diranno se in questa ipotesi
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saranno in grado di concordare ulteriori tagli alla produzione. Se poi non gli riuscisse comunque di
riequilibrare domanda e offerta, finirebbe la storia, o forse già la leggenda, della capacità dell’OPEC
di reindirizzare il mercato.
È pur vero che la buona riuscita dell’accordo dipende anche da quanto dichiarato dal
ministro dell’energia russo. Cosa ha da guadagnare Mosca se si fa carico di una riduzione
di 300.000 barili al giorno?
È tutto molto relativo. Già da tempo alcune analisi, in parte anche russe, prevedevano che in
assenza di nuovi investimenti si sarebbe verificata una lenta riduzione della produzione nazionale.
Quello che viene definito taglio potrebbe perciò sovrapporsi almeno in parte al fisiologico declino
produttivo dei giacimenti russi, la maggior parte dei quali ha raggiunto uno stadio dello sfruttamento
molto avanzato. Al di là dell’ammontare effettivo della riduzione, va colto il valore politico del gesto
di disponibilità al dialogo manifestato dalla Russia. Si pensi a Ryad e Mosca, così distanti sulle
tematiche siriane e - per ora - così apparentemente in sintonia nel delineare una comune strategia di
limitazione della produzione. Sono i miracoli della rendita petrolifera.
Lo shale oil statunitense ha superato indenne per due anni i sussulti del mercato: sarà
proprio l’olio non convenzionale il primo beneficiario del taglio?
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Indubbiamente lo shale oil ha resistito alla guerra dei prezzi meglio di quanto chiunque si aspettasse.
Oggi, grazie al miglioramento delle tecniche estrattive, può godere di un breakeven point molto più
basso rispetto all’inizio del 2014. Ciononostante il prezzo corrente ha causato una riduzione della
produzione di circa un milione di barili/giorno rispetto ai massimi del 2015. Nella shale industry tra la
decisione d’investimento e l’operatività dei campi trascorrono pochi mesi, e il picco produttivo si
raggiunge dunque in un lasso di tempo nettamente più breve rispetto a quanto avviene nel settore
convenzionale. Il volume della produzione da shale è dunque price sensitive nel breve periodo,
laddove quello della produzione convenzionale non lo è , o almeno non significativamente. La
produzione shale potrebbe perciò rivelarsi un ammortizzatore dei picchi del mercato. Già a 50 $ al
barile, rispetto a un minimo sceso sotto i 30, la produzione statunitense ha mostrato di poter
riprendere al rialzo.
Quindi cosa ne sarà del petrolio non convenzionale statunitense?
Si gioverà del taglio e potrebbe, aumentando la produzione, essere di ostacolo a una ripida risalita
del prezzo. Ulteriore ammortizzatore potrebbero rivelarsi le scorte commerciali che si sono stoccate
nel corso degli ultimi due anni e che, se riversate massicciamente sul mercato, avrebbero un effetto
depressivo sull’andamento del prezzo. Tutti barili che si riverserebbero sul mercato con chiari effetti
sulla stabilità del prezzo. In ogni modo, stiamo solo analizzando il lato dell’offerta.
Appunto, e la domanda?
L’evoluzione della domanda meriterebbe un capitolo a sé. Oggi, e forse irreversibilmente, la
domanda dell’Occidente appare in declino. L’aumento dei consumi petroliferi è interamente
determinato dall’andamento dei consumi asiatici. Da questo punto di vista, il tasso di crescita dei
consumi cinesi sarà una delle determinanti principali del futuro andamento dei prezzi.
È ancora attuale la leva geopolitica del petrolio?
Sono persuaso che ci sia molta mitologia. In modo provocatorio direi che non abbiamo ancora
superato lo shock del ’73. Quando parliamo di sicurezza energetica dobbiamo capire che produzione
e domanda dipendono l’una dall’altra, e ciò significa che il benessere di un Paese esportatore netto
deriva dalla disponibilità di vendere sul mercato i propri barili. La storia è testimone dell’inefficacia
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dei boicottaggi. Misure di questo tipo, in una situazione di eccesso di offerta, non sortirebbero altro
effetto se non quello di favorire i produttori concorrenti. Anche se spesso si parla di guerre per
accaparrarsi l’ultima goccia di petrolio, nell’era dell’abbondanza ciò non ha un fondamento
economicamente razionale.
Massimo Nicolazzi, professore a contratto di economia delle risorse
energetiche all’Università degli Studi di Torino, è Presidente di Centrex Italia SpA e responsabile
dell’Osservatorio Energia dell’ISPI. Nel corso della sua plurideccenale carriera nel settore degli
idrocarburi ha ricoperto importanti incarichi dirigenziali in Eni/Agip e in Lukoil. Consigliere scientifico
della rivista "Limes", è autore di numerose pubblicazioni tra cui il libro "Il prezzo del petrolio", edito
da Boroli Editori.
Francesco Valezano
URL di origine (Salvata il 21/12/2016 - 13:32):
http://www.qualenergia.it/articoli/20161215-offerta-domanda-e-prezzo-del-barile-del-petrolio-analisistrategie-opec
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