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PRIMO PIANO
Sabato 3 Dicembre 2016
9
Dopo aver candidato e rottamato prima Toti e poi Parisi, il Cav scopre un altro erede
Del Debbio, ti faccio e ti disfo
Il bastone del comando glielo darà in testa, anche qui
DI
MARCO BERTONCINI
C
hissà se la designazione di Paolo Del
Debbio a condottiero del centro-destra
sarà rilanciata dopo il referendum.
L’ u s c i t a
televisiva
di Silvio
Berlusconi,
con profferta all’intervistatore
perché rifletta sulla
possibilità
di affermarsi sullo stile
di Donald
Trump, è
giunta inattesa, come
sovente capita per le
trovate del
Cav: indimenticabile
resta il partito unico creato
sul predellino.
Del tutto fuori norma è
pure la circostanza, che ha
lasciato basito Del Debbio,
che fosse in corso un’intervista durante la quale il
conduttore si è sentito apostrofare in terza persona,
passando dal ruolo di intervistatore a quello di potenziale
coordinatore di Fi, federatore
del centro-destra e candidato
a palazzo Chigi.
Va detto che stavolta il
Cav si è spinto ben oltre il
consueto, parlando di «ricerca di un leader». Chissà come
si era espresso con Stefano
Parisi: probabilmente in
privato gli aveva spiegato o
Vignetta di Claudio Cadei
fatto balenare la stessa funzione di leader, anche se oggi
continua a ridimensionarlo
al ruolo di costruttore di «un
movimento d’opinione, con
l’obiettivo di portare all’impegno politico nuovi protagonisti del mondo del lavoro»
(così ieri in un’intervista al
Gazzettino). Però, al tempo
stesso, ammette che l’essersi messo in conflitto «con la
Lega e con molti esponenti»
forzisti ha inibito a Parisi il
divenire «coordinatore» del
centro-destra.
La verità è che il Cav
non ha mai voluto davvero
cedere il bastone del comando. Quando si è guardato intorno per cercare un teorico
erede, in realtà ha sempre
pensato a un
organizzatore del proprio
movimento,
restandone
regolarmente
deluso, talvolta senza neppure spingersi
a una parvenza d’investitura.
Nel caso
ultimo (o penultimo, vista
l’offerta a Del
Debbio?) di
Parisi, la novità è consistita
nella condizione, del tutto nuova, del sorpasso leghista su Fi. Quindi
al mancato sindaco di Milano il Cav ha potuto chiedere
nell’immediato solo la rigenerazione del movimento,
con la riserva che il rinforzo
avrebbe di per sé recato a un
ruolo di primato nell’intero
centro-destra.
Berlusconi patisce oggi
i limiti causatigli, insieme: dalle proprie condizioni
giudiziarie; dall’insufficiente
seguito di Fi; dal coagulo politico creatosi fra partiti già
alleati e una fetta del proprio
stesso movimento.
La soluzione Del Debbio
(nome non nuovo, visto che
pensava a lui come candidato sindaco a Milano: un altro
bis dell’esperienza di Parisi),
ammesso mai che proceda, e
moltissimi ne dubitano, sarebbe sempre provvisoria. A
Berlusconi importa essere
ancora lui il numero uno: il
ruolo di padre nobile, pur più
volte rivendicato, non gli è
congeniale. Il grave è che
nemmeno in quella funzione
lo vorrebbero Lega e Fd’It.
© Riproduzione riservata
Paolo Del Debbio
SCOVATI NELLA RETE
IN CONTROLUCE
Quando nacque, Repubblica aveva un pubblico giovane e radicalizzato:
erano per lo più studenti che tifavano per Ho Chi Min e Fídel Castro
DI
A
DIEGO GABUTTI
ll’inizio degli anni settanta, quando c’è un salto
improvviso all’interno dei
movimenti di piazza studenteschi e operai, la storia della
repubblica torna alle origini: la
guerra civile. C’è stato l’autunno
caldo, poi la strage di Piazza Fontana e l’«affaire» Pinelli. Luigi Calabresi, commissario a Milano, viene assassinato da un commando del
gruppuscolo d’ultrasinistra Lotta
continua. È iniziata anche la danza
macabra delle Brigate rosse. Siamo nel 1974, intrappolati nel loop
infinito d’un Sessantotto da incubo fantascientifico, che ricomincia
ogni mattina e non finisce mai.
È allora che nasce Repubblica. Fondato e diretto da Eugenio
Scalfari, gazzettiere più robesperriano che azionista, nonché fondatore e direttore, diciotto anni prima,
anche dell’Espresso, Repubblica è il
giornale che interpreta e «impagina» la guerra civile. Fino a quel momento i giornali sono «filo» oppure
«anti» governativi: una spruzzata
d’opinione politica sopra una marea di pagine sportive e di cronaca
nera. Repubblica è pura opinione
politica: sono politiche anche la
pagina degli spettacoli, lo sport e
la moda, per non parlare degl’inserti culturali. Repubblica ha un
pubblico giovane e radicalizzato:
per lo più studenti che tifano per
Ho Chi Min e Fídel Castro (oggi
sono gruppi sparuti e folkloristici,
all’epoca sono legione). Niente separazione dei fatti dalle opinioni.
Quello di Scalfari è un punto di
vista interno allo scontro, come lo
sarà un paio d’anni più tardi quello
del Giornale nuovo d’Indro Montanelli. Non si tornerà più indietro: il giornalismo è ormai diventato un’arena, dove si combattono
battaglie fantasy campali, l’ordine
contro il caos, elfi e nani, figli della
luce contro figli delle tenebre.
A sua volta giornalista di rango, anche lui direttore di giornali,
prima i quotidiani locali del gruppo,
poi l’Espresso fino all’estromissione
da parte di Carlo De Benedetti,
Giovanni Valentini è a Repubblica fi n dalla fondazione e, quarant’anni più tardi, ne racconta la
storia sub specie memoir. È la sua
storia personale: la storia d’un giornalista di «sinistra radical chic» (è
così che la definisce lui stesso) non
più così sicuro d’aver combattuto
sempre dalla parte giusta (niente di
strano, capita a tutti ogni giorno).
Ma è anche la storia del paese,
dell’Italia ai tempi della guerra
fredda, del compromesso storico e
del terrorismo, dello choc petrolifero, di Andreotti-Belzebù e della P2,
di Craxi e Berlinguer, di Tangentopoli e di Mani pulite, dell’«Ulivo
mondiale» e del partito di plastica,
del bunga bunga e infine dello spappolamento presente (Brunetta e
D’Alema, il Bomba e le mezze pippe). Valentini, nel suo La Repubblica tradita, racconta un’Italia che si
specchia nelle vicende editoriali di
Repubblica (e degli altri giornali,
che la prenderanno a esempio, più
per i suoi molti difetti che per le sue
rare virtù) come nel più fedele dei
ritratti storici. È un’Italia distorta
che s’aggiusta la cravatta ammirandosi in uno specchio distorto.
Repubblica è l’Italia di sinistra (ma non solo) in carta e inchiostro. Come l’Italia, buggerata
dalla sua classe politica, anche Repubblica è stata «tradita», almeno
secondo Valentini, che si riconosce
ancora nel progetto identitario
iniziale, quello d’una democrazia
radicale e d’un liberalismo gobettiano spinto, vicino alle ragioni (e ai
torti) della sinistra chic, erede della
sinistra pesante togliattiana.
Sempre secondo Valentini,
i due ex direttori della Stampa
passati a dirigere Stampubblica
(prima Ezio Mauro e adesso Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato da Lotta continua e
giornalisticamente «mascariato» da
tutte le grandi firme che poi affluiranno a Repubblica) agiscono da
commissari politici di poteri estranei. Può darsi che sia così (anzi, è
certamente così).
Come può darsi che per il giornalismo impegnato e militante sia
venuta l’ora di smobilitare. Di sicuro Repubblica non riesce più a
«impaginare» l’Italia come faceva
alle origini. Anche per l’Italia - oggi
messa in pagina e «strillata» dai
raid televisivi del Boyscout e dalle
intemerate delle mezze pippe - è
tempo di sbaraccamento.
Giovanni Valentini, La Repubblica tradita, PaperFirst 2016,
pp. 144, 12,00 euro.
© Riproduzione riservata