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PRIMO PIANO
Venerdì 14 Ottobre 2016
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Non è accettato dalla vecchia nomenklatura Fi, come Renzi col Pd, ma ha molto meno potere
Parisi resta in mezzo al guado
Il Cav lo ha scelto ma ha confermato anche i suoi nemici
DI
MARCO BERTONCINI
P
er certi aspetti la frattura marcata in Fi
ricorda la spaccatura
fra Matteo Renzi e
oppositori. Di là degli appelli all’unità, che riappaiono
sempre sulle labbra di tutti,
nell’uno o nell’altro partito,
comunque schierati, la volontà
delle sinistre democratiche di
far fuori il proprio segretario
è analoga alla brama di una
buona parte della classe dirigente di Fi di togliersi dai
piedi Stefano Parisi.
Parisi, ovviamente, trova
ben più difficoltà di Renzi
nell’imporsi. Adesso ha lanciato un giro d’Italia, che essenzialmente si giova dell’appoggio territoriale di esponenti
azzurri, quelli che condividono la tattica di Silvio Berlusconi o a essa si rassegnano,
mentre gli ostili non perdono
occasione per distinguersi dal
mancato sindaco di Milano. A
ben guardare, a proprio favore,
Parisi ha la spinta del Cav, e
poco più. Berlusconi ha perfettamente capito che serbare
Fi così com’è oggi, magari con
qualche rappezzo, significherebbe scendere al 10%. A dir la
verità, già qualche sondaggio
registra il movimento del Cav
addirittura sotto tale livello
(nel 2008 il Pdl toccò il 37%).
Berlusconi non ha osato
un rifacimento totale: ha
preferito indicare il proprio
successore. Però è un succes-
sore parziale, più che parziale,
almeno finora, con un incarico
non ben definito pubblicamente, anzi limitato a una sorta
di studio sull’esistente per
avanzare proposte. Poi, con il
consueto piglio ambivalente,
il Cav ha battuto pacche sulle
spalle ai riottosi vertici di Fi,
come per garantir loro rielezione, conferma, immutate condizioni di partito. Ovviamente
Parisi è danneggiato da queste
parziali ritirate.
Da settimane, complici le
condizioni di salute, il Cav è
silente. Intanto la campagna
elettorale scorre, in forme ben
più che vivaci. Parisi insiste
a sostenere di battersi per il
no, senza eccessi, appagando
così la linea politica quasi totale del partito-movimento, in
contrasto col partito-azienda o
partito-famiglia; ma preferisce
scivolar via quando si discetta
del dopo referendum.
Sta ben attento a esorcizzare gli incubi di partiti effimeri o di movimenti di grandi ambizioni finite nel nulla:
non dev’esserci possibilità di
confonderlo con un Montezemolo o un Passera. Lui
stesso è conscio della propria
insufficienza di capacità personali quanto a richiami per le
folle: un carisma come quello
berlusconiano se lo sogna. Gli
manca, però, pure un richiamo come quello che esercita un
Renzi o quello che, per lunghi
anni, esercitò un Fini, prima
d’impantanarsi da solo.
ON THE ROAD, NOTE DI VIAGGIO FRA I MEDIA DI MARIO SECHI
L’Italia è un paese più caotico
di un autentico circo felliniano
DI
MARIO SECHI
Titoli. È tempo di manovra e manovre.
La manovra economica e le manovre politiche. La prima sottomessa alle seconde, le
seconde figlie non riconosciute della prima.
Il cortocircuito esistenziale della vecchia finanziaria che non è mai morta, lo zombie
del deficit che avanza per sgranocchiare gli
avanzi del mesto banchetto. Vabbè, ci sono i
titoli dei giornali a dare un tocco di magistrale surrealtà. Non ditelo in giro, ma il governo
è a caccia di qualche spicciolo, 7 miliardi.
Apertura della Stampa: «Manovra, mancano ancora 7 miliardi». Riflettete un secondo
sulla cifra, sulla situazione, sul linguaggio.
Mancano ancora… come se fosse la raccolta
delle castagne, con il ministro Padoan che
gira per il bosco con la sacca in spalla. Sette
miliardi. Ma sul Corriere della Sera è impaginata una speranza, una certezza sull’uguale
che non tramonta, sul sottotesto della storia
che, in fondo, oplà, salta fuori dal passato come un coniglio dal cilindro tributario:
«Iva, evasione e giochi. Le tasse salvano la
manovra». Le tasse. Segnare sul taccuino, a
futura memoria, quando, dopo il 4 dicembre,
posato il polverone referendario, emergerà il
problema dei conti (il debito) e della crescita
Per ora, Parisi mobilita
settori, forse limitati, di elettorato forzista. Guai per lui,
tuttavia, se rinchiudesse la
propria opera alla conquista di
(produzione e reddito).
Fa tenerezza, il presidente della Repubblica, che dice (apertura del Corriere),
riduce e cuce: «Rispetto, prima e dopo il
voto». Sembra facile, caro presidente, con
questi wrestler della politica: D’Alema che
vede poteri forti dove di forte c’è solo il debito
pubblico, Renzi che perde tempo a litigare
in Parlamento con Brunetta sul Nobel che
non c’è e non ci sarà, la fantomatica destra
che fa la parte della mosca sulla criniera del
ronzino del partito del rancore, dei Dibba,
dei Di Maio, dei cercatori di scie chimiche
e sballi contabili. Che strano paese, più caotico di un circo felliniano. E poi si va tutti
in pensione, più prima che dopo (grazie alla
riforma in corso) c’è un Ape per tutti al bar
della politica, basta ordinare un caffè ar vetro e Il Messaggero che impagina l’avvenire
improduttivo della nazione: «Pensioni anticipate meno care». Siamo al discount previdenziale, al Lidl della quiescenza, all’Eurospin
dell’assegno da qui all’eternità, ogni giorno è
un Tuodì, ogni pomeriggio è la siesta per Todis. Visioni del titolare di List, esagerazioni?
Ops, mancano 7 miliardi. La manovra verrà
presentata sabato. Buona giornata.
Il Foglio. It - List
Fi: a questo, dovrebbe provvedere il Cav in prima persona,
se superasse lo stallo in cui da
mesi finisce col trovarsi.
La sua vera ambizione sa-
rebbe riconquistare gli ex elettori: ma chissà quanto tempo
gli servirà. E chissà se ci riuscirà mai.
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IL SOTTOSOPRA DI FILIPPO MERLI
D’Alema non è stato cercato dalla minoranza Pd. È stato lui stesso
a farsi avanti (stanco di pigiare l’uva e di farsi scrivere i libri)
DI
M
FILIPPO MERLI
assimo D’Alema c’è rimasto sotto. «No, no e no».
Ormai non può
fare altro che
dire di no a qualunque
cosa. Tutto è cominciato
con l’opposizione alla riforma costituzionale varata da Matteo Renzi.
D’Alema ha aspettato il
momento giusto. Per non
annoiarsi s’è messo a fare
il vignaiolo, ha scritto un
paio di libri e s’è tenuto
alla larga dalla politica.
Non per sua volontà, ma
perché non se l’è filato più
nessuno.
A dire il vero, anche
nel caso del referendum
costituzionale, D’Alema
non è stato cercato dalla
minoranza Pd. È stato lui,
stanco di pigiare l’uva e
di farsi scrivere i libri, a
ergersi a paladino del no
al ddl Boschi.
Del resto, qualcosa,
nella vita, bisogna pur fare: Renzi
fa il presidente del Consiglio, Beppe Grillo fa il sindaco di Roma e
D’Alema dice no. Come un bambino
dispettoso. «No, no e no». Sua moglie,
Vignetta di Claudio Cadei
Linda Giuva, è disperata. Ogni vol-
ta che propone qualcosa al marito,
lui cita la Costituzione e risponde di
no. È una mania. Un’ossessione.
«Massimo, esco a fare il bancomat». «Io dico no al capitalismo.
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul Pci. La sovranità
appartiene al popolo lavoratore,
quindi straccia la tessera del bancomat e fai quella del glorioso Partito comunista italiano». «Massimo,
tesoro, il Pci non esiste più. Mettitelo in testa». «No. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, compreso il
mio di credere che esista ancora il
Pci. Hai capito, compagna moglie?».
«Sei fissato! Quando t’impunti così
mi sembri Matteo Salvini». «No.
Va bene che la Repubblica tutela
con apposite norme le minoranze
linguistiche, compresa quella di
Salvini, ma paragonarmi a lui è
anticostituzionale».
«Massimo, ti vedo un po’ stanco. Usciamo a fare un giro, ci prendiamo un caffè, guardiamo i palazzi,
le chiese». «No. Lo Stato e la Chiesa
cattolica sono, ciascuno nel proprio
ordine, indipendenti e sovrani. I
loro rapporti sono regolati dai Patti
lateranensi. Le modifi cazioni dei
Patti accettate dalle due parti non
richiedono procedimento di revisione costituzionale. Quindi io devo
stare qui a vigilare che Renzi non
ne approfi tti per cambiare anche
i Patti lateranensi. È un lavoro, il
mio». «Lavoro è una parola grossa…». «No. Ogni cittadino ha il
dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o
spirituale della società. Io, adesso,
mi oppongo al progresso costituzionale. È un lavoro, ed è pure duro.
Chi può farlo, se non io? Pier Luigi Bersani? Stefano Fassina?
Quelli sono stati rottamati da Renzi. Ma io no».
«Massimo, ti rendi conto che
la tua è una guerra persa?». «No.
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Questa, però, è una guerra nazionale
sulla Costituzione. E io avrò la meglio su Renzi». «Quindi sei sicuro che
il 4 dicembre non vincerà il sì?».
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