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venerdì 25 novembre 2016, 18:00
Economia Usa
Gli Stati Uniti diverranno protezionisti?
Le grandi insidie lungo il cammino di Trump
di Giacomo Gabellini
Le tre ambiziose finalità stabilite rispettivamente per il primo, il centesimo e il duecentesimo giorno di governo dalla cerchia
di stretti collaboratori di Donald Trump ricalcano le intenzioni espresse in campagna elettorale. Il primo punto riguarda
l'apertura di trattative intese a rinegoziare da cima a fondo del Nafta, il trattato di libero scambio con Canada e
Messico che il nuovo presidente ritiene uno dei principali responsabili del trasferimento dagli Stati Uniti all'estero di milioni di
posti di lavoro. A poco più tre mesi di distanza, l'obiettivo prefissato è quello di definire in maniera precisa
l'atteggiamento che gli Stati Uniti dovranno tenere nei confronti della Cina, dopo aver stabilito se sussistono o
meno i presupposti per accusare formalmente l'ex Impero Celeste di manipolare sistematicamente la propria valuta in
violazione delle norme previste dall'Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc). L'applicazione delle sanzioni contro
Pechino dipende da questa disamina. Entro la scadenza dei duecento giorni, Trump si è invece imposto di giungere alle
conclusioni finali riguardo al Nafta, a seguito di un attento a approfondito studio atto a valutarne la
riformabilità secondo le esigenze statunitensi. In caso contrario, il tycoon newyorkese ha annunciato che non
esiterà a porre unilateralmente fine al trattato. I tre obiettivi fissati dal documento preparato dal transition team di
Trump sono quindi perfettamente in linea con la sua politica rivolta a invertire la tendenza promossa dalla
globalizzazione e a concentrare gli sforzi degli Stati Uniti alla risoluzione dei problemi interni attraverso un
progressivo ritiro dalle questioni internazionali. L'abbandono o quantomeno la radicale revisione dei trattati
commerciali, così come l'applicazione di barriere doganali sulle importazioni cinesi, giapponesi e coreane, mirano a ridare
vigore alla manifattura statunitense così profondamente colpita dalla deindustrializzazione, secondo un rinnovato spirito
protezionista e neo-isolazionista che ammicca ai principi originari del Grand Old Party. Un approccio, quello del nuovo
presidente repubblicano, che vincola gli Usa ad impegnarsi al di fuori dei confini nazionali soltanto in presenza
di un sostanziale vantaggio economico-commerciale, e unicamente a supporto degli alleati che spendono per
la difesa una percentuale accettabile di Pil e accettano di accollarsi maggiori responsabilità riguardo al
controllo/monitoraggio delle loro rispettive aree geografiche di competenza. La riconciliazione con Mosca si
inscrive in questa visione, poiché implicherebbe, secondo i calcoli di Trump, l'arruolamento di un preziosissimo alleato sia in
funzione anti-cinese che sotto il profilo della lotta al terrorismo, consentendo agli Stati Uniti di abbattere i costi legati al
moderno roll-back della Russia e all'impegno militare in Medio Oriente. Il voto dei cittadini a favore di questo programma
politico pone tuttavia gli Stati Uniti di fronte a un gigantesco dilemma strategico, poiché significa che la base elettorale
del Paese intende picconare le fondamenta politiche ed economiche della supremazia Usa. L'incapacità
dell'establishment Usa di tradurre il dominio geopolitico in benessere dei cittadini è all'origine del
ripiegamento strategico a cui dichiara di aspirare l'amministrazione Trump. Ma questa sovversione non può
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/gli-stati-uniti-diverranno-protezionisti/
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prescindere dal fatto che gli Stati Uniti sono il Paese detentore del 23% della ricchezza mondiale, con un debito pubblico
spaventosamente alto, un deficit commerciale da capogiro e quasi 6.200 miliardi di dollari di titoli di Stato sparsi in giro per il
mondo. Detto in altri termini, gli Usa sono troppo interconnessi con il resto del mondo per rinchiudersi in se
stessi. D'altro canto, il loro evidente declino relativo non li pone più nelle condizioni di mantenere a lungo il
margine di vantaggio sui concorrenti, come riconosciuto dallo stesso Zbigniew Brzezinski. Una situazione che riduce
di molto lo spazio di manovra di Trump, che molto difficilmente potrà fare a meno di conservare il controllo dei mari, la rete
di alleanze e la presenza militare nelle aree strategicamente cruciali. Va inoltre sottolineato che negli Stati Uniti esistono
enormi limitazioni al potere della Casa Bianca, nell'ambito di un sistema i cui pesi e contrappesi impediscono che
una sola carica sia in grado di varare cambi di rotta troppo radicali. La posizione del Congresso sarà
fondamentale, ed il fatto che i repubblicani dominino entrambe le camere non costituisce di per sé una garanzia per
Trump, nella cui memoria è ancora ben impresso l'incredibile ostruzionismo attuato nei suoi confronti dall'establishment del
suo partito durante le primarie. Altrettanto cruciali si riveleranno gli orientamenti degli apparati (Dipartimenti di
Stato e del Tesoro, Federal Reserve, Pentagono, Cia, ecc.) incaricati di tradurre in pratica la politica
commerciale, monetaria ed estera degli Stati Uniti. Lo 'Stato profondo' avrà come sempre una voce in capitolo
sulle questioni fondamentali di cui Trump molto difficilmente potrà evitare di tener conto. Il tempo si incaricherà
di evidenziare il grado di applicabilità della ricetta insularista di Trump, che in campagna elettorale ha suscitato l'ostilità di
una parte più che preponderante dei centri di potere statunitensi, dei grandi media e dei principali think-tank sia democratici
che repubblicani. Sta di fatto che l'introversione strategica, chiesta a gran voce dagli elettori, è un orizzonte sempre più
concreto verso cui gli Usa sembrano muoversi già adesso.
di Giacomo Gabellini
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