CORPOREITÀ E SENSORIALITÀ NELL`AGIRE DIDATTICO

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CORPOREITÀ E SENSORIALITÀ NELL’AGIRE
DIDATTICO
Francesca Invidia
Laureata in Lettere Classiche e in Organo e Composizione Organistica
Riassunto - Il lavoro proposto riguarda il ruolo dell’esperienza percettiva e sensoriale all’interno della
dimensione didattica e, quindi, le strategie, i metodi e gli strumenti utilizzati nell’ambito dell’esperienza
diretta negli ambienti formativi e nella vita di ogni giorno. Il contesto educativo, infatti, ha in sé un
insieme di processi che coinvolgono soggetti e situazioni differenti, in un vero e proprio “viaggio” di
informazioni e sensazioni tra le singole soggettività e le realtà circostanti.
Abstract - The current article regards the role of sensorial experience in learning contexts and
examines strategies, methods and instruments used during the individual experience in training
moments and in the everyday life. The educational context, indeed, contemplates a lot of different
situations and actors, in a real travel of informations and sensations between individuals and reality.
Parole chiave: Percezione, educazione, mediazione.
Keywords: Perception, training, mediation.
1. Il corpo come mediatore di conoscenza
Educare, insegnare, apprendere, conoscere, imparare: sono tutti termini che rimandano ad un
insieme di processi che coinvolgono soggetti e situazioni differenti; sono, infatti, azioni che si
riferiscono ad un “viaggio” di informazioni e sensazioni che passa attraverso le singole soggettività e le
realtà circostanti. Comprendere e analizzare questi “passaggi” è un’esigenza fondamentale per cogliere
i nessi e le relazioni che si istaurano nei processi di scambio conoscitivo, per porre l’attenzione sui
dettagli così come sugli aspetti più generali, per rendere accessibile a tutti quel grande tesoro che è la
conoscenza, l’apprendimento, la costruzione di un’identità.
Naturalmente, i primissimi protagonisti che “agiscono” in tale esperienza, sono coloro che,
attraverso le più diverse e varie modalità, scambiano informazioni e contenuti; in tale scambio, poi,
portano con sé ogni aspetto della propria soggettività: il vissuto, il modo di essere, di porsi, quel
momentaneo stato d’animo, una più o meno accentuata apertura mentale, e, forse primariamente, le
proprie sensazioni.
Quale relazione, dunque, tra il corpo e la cognizione? Quale funzione ha la capacità di aprire la
propria soggettività al mondo circostante dal quale attingere, ricevere, scambiare conoscenza? Quale
ruolo giocano le sensazioni in questo processo che riguarda ogni attimo della quotidianità?
La concezione dell’uomo e del suo coinvolgimento, in ogni sua parte, nei processi cognitivi
che riguardano tanto se stesso quanto il mondo circostante, ha le sue radici nella lunga tradizione
intellettualistica della nostra cultura, che si fonda “su contrapposizioni nette tra forma (o spirito) e
materia, fra anima e corpo: un rigido dualismo in cui risulta evidente la subalternità del corpo,
Mizar. Costellazione di pensieri ● n° 2-3- 2016 ● Didattica ●Corporeità e sensorialità nell'agire didattico
e-ISSN:
2499-5835 DOI: 10.1285/i24995835v2016n2-3p70
70 considerato un supporto, uno strumento da piegare ai propri bisogni e alle proprie esigenze o da
domare, quando non viene a essere pensato come un ostacolo, o addirittura un carcere in cui si è
costretti a vivere” (Balduzzi, 2002, p.XI).
Corporeo e non corporeo, però, non possono più essere considerate parti distinte e
indipendenti l’una dall’altra; basti pensare alle diverse modalità con cui l’uomo comunica, una delle
prime e più immediate attività della vita, utilizzando tanto il linguaggio verbale, che è categorizzato
nell’aspetto “mentale”, quanto quello non verbale, che utilizza il corpo per esprimersi e farsi
comprendere dal mondo. Se non ci fosse il corpo, la mente non potrebbe organizzare e strutturare i
concetti, poiché non riceverebbe nessuna informazione; se non ci fosse la mente, gli stimoli provati
sulla “propria pelle” rimarrebbero confusi e inutilizzati: “gli organi di senso, infatti, forniscono una
conoscenza sempre di tipo soggettivo: sono io che guardo, che tocco, che ascolto e sono sempre io
che descrivo ciò che ho visto, toccato, udito” (Balduzzi, 2002, p.XVI).
Corporeo e non corporeo forniscono, quindi, diversi livelli di conoscenza, ma collaborano tra
loro e sono in continua interazione.
Si abbandona finalmente, così, l’idea di un “corpo-macchina”, e si approda ad una concezione
progettuale, che vede il corpo non solo come agente nei processi cognitivi, ma come vero e proprio
soggetto: non si può più pensare soltanto di “avere” un corpo, ma soprattutto di “essere” un corpo
(Iori, in Balduzzi, 2002, p.5.), in continua relazione non solo con il proprio vissuto che, giorno dopo
giorno si costruisce, ma anche con “gli altri corpi” e l’ambiente in cui si vive.
Nella storia dell’educazione questa problematica è sempre stata attuale: all’esigenza di
un’educazione morale si accompagnava anche quella sociale e sportiva, in un’ottica olistica che
comprendeva il coinvolgimento di tutti i sensi. Si pensi, ad esempio, al tiaso di Saffo, in cui si praticava
la danza collettiva, la musica strumentale, il canto, feste, banchetti e poesia (Marrou, 1966, pp.62-63),
in una decisa presa di possesso del proprio corpo e della propria sensorialità.
Il coinvolgimento del corpo nei processi conoscitivi è, quindi, integrale. Cervello, cuore,
terminazioni nervose: tutto contribuisce ai continui flussi di scambio tra l’uomo e il mondo
circostante. Egli è costantemente inserito nell’opposizione-dialogo in se stesso e tra sé e il mondo. E’
necessario, dunque, ritenere il corpo e, di conseguenza, la sensorialità come fondamentale punto di
partenza e una “stimolante e imprescindibile direzione di applicazione e di ricerca” (Gamelli, 2002,
p.46); solo gradualmente, infatti, ad una concezione di “organismo come recettore passivo di stimoli
esterni” (Armezzani, 2002, p.86.) si sostituisce una visione di soggetto che attivamente costruisce il
suo mondo attraverso l’esperienza sensoriale e le conseguenti valutazioni e reazioni, un soggetto che è
capace di “rappresentare la realtà e di filtrarla attraverso le proprie intenzioni e le proprie strategie di
azione”(Ibidem, p.84). Non esiste, infatti, e non può esistere, in ambito educativo, un’attenzione
orientata esclusivamente alle capacità accademiche, poiché porterebbe a formare individui incapaci di
gestire se stessi e la realtà; oltre all’intelligenza accademica, infatti, gli educatori devono supportare e
guidare l’intelligenza emotiva che riguarda la “capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri,
di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le emozioni, tanto interiormente, quanto nelle nostre
71 relazioni” (Goleman,1998, p.375). Un contesto formativo orientato nel senso della metacognizione e
della metacogni-emozione (Roche Olivar, 1999, p.23) favorisce la consapevolezza di sé, non
reprimendo, ma imparando a conoscere le proprie emozioni per controllare meglio le varie situazioni
della vita reale e avere un atteggiamento aperto e positivo nei confronti degli altri, delle cose, dei
concetti e, quindi, della conoscenza.
Umberto Galimberti scrive: “se parlare del corpo non significa riferirsi a un oggetto del
mondo, ma a ciò che dischiude un mondo, quello che scorgo in procinto di agire, o paralizzato dallo
sguardo dell’altro, o incoraggiato da un gesto, o piegato dal dolore, non è il mio corpo, ma sono io.
Questa identità di corpo ed esistenza è quella presenza che, ignorata, consente ancora di parlare del
corpo, ma non nell’accezione umana, dove la corporeità non è un organismo, ma una dimensione
originaria senza cui non si costituisce una presenza al mondo” (Galimberti, 1993, pp. 138-139).
E’ in questo senso che il corpo deve essere inteso come fondamentale mediatore di
conoscenza, anche perché è proprio attraverso i sensi che l’uomo impara a muoversi nel mondo, a
comprenderlo e a riconoscerlo sin dai suoi primi passi. Sensorialità come radici, dunque, come
presupposto naturale della conoscenza; è un processo spontaneo, poiché “prima della consapevolezza
mentale di avere un corpo il bambino è un corpo: un corpo che sente e conosce sperimentandosi
all’interno di polarità, di contrasti (equilibrio-disequilibrio, dentro-fuori, vicino-lontano, tensionerilassamento, ecc) rintracciabili in tutti i giochi che mette costantemente in scena; dondolare, girare,
cadere, assaporare la vertigine, il limite dell’equilibrio, toccare, costruire e smontare sono tutte
condizioni di quell’unica ricerca dell’esperienza di un sé corporeo in grado di dare senso al mondo”
(Gamelli, 2002, p.21).
2. Sensorialità e apprendimento
Parlare di corpo nella conoscenza significa soprattutto riflettere sugli strumenti più immediati e
più direttamente utilizzati da ognuno nel quotidiano: i sensi. “Che la sensazione si verifichi nell’anima
attraverso il corpo è chiaro sia mediante il ragionamento sia senza ragionamento alcuno” (Aristotele,
De parva naturalia, De sensu et sensibilibus, 436b, 8. “ἡδ' αἴσθησιςὅτιδιὰσώματοςγίγνεταιτῇψυχῇ,
δῆλονκαὶδιὰτοῦλόγουκαὶτοῦλόγουχωρίς) scrive Aristotele ritenendo quindi spontanea la connessione
anima-corpo e il ruolo di primo piano giocato dai sensi nel vivere quotidiano. Naturalmente ogni
senso ha la sua specificità e le sue particolari categorie di riferimento, ma sono l’uno collegato all’altro
ed in continua interazione, sia sul piano delle percezioni immediate che ad un livello più profondo.
Basti pensare alla teoria dell’imprinting di Lorenz (Lorenz, 1975): egli ritiene che “nel processo di
sviluppo individuale, interviene un periodo, che egli definisce critico, il quale deve la propria criticità al
fatto di essere talmente sensibile a determinate “situazioni-stimolo” da assumere, in risposta ad esse,
forme comportamentali rigide, ripetitive e difficilmente modificabili” (Fabbri, in Contini, Fabbri,
Manuzzi, 2006, p.128). Il rilievo del ruolo dei sensi, quindi, si ritrova anche in quei comportamenti o
abitudini che spesso non ricadono nella consapevolezza, e sono, quindi, profondamente radicati.
72 Una fondamentale interazione tra i sensi è quella che contribuisce alla definizione di spazio e di
tempo.
Il primo, infatti, non deve essere considerato l’ambito in cui le cose sono disposte, ma il mezzo
attraverso cui è possibile la disposizione delle stesse. Vivere lo spazio significa comprenderlo con tutto
il corpo, comprendendone ogni livello e ogni aspetto, in un processo di conoscenza e riconoscimento
graduale e in continua evoluzione.
Per quanto riguarda il concetto di tempo, anche qui interviene la cifra soggettiva e personale di
ciascuno: nello scorrere del tempo mi ritrovo sempre al centro, con qualcosa che ho lasciato alle spalle
e qualcos’altro che mi è di fronte, come una terra inesplorata. Il presente, poi, oltre che come spazio
fisico, si configura come l’insieme di certezze/incertezze sociali e culturali che costituiscono la mia
civiltà, e, quindi, il mio punto di partenza da cui, aderendovi o allontanandomene, posso costruire la
mia storia.
“Ciascuno di noi vede se stesso come attraverso un occhio interiore che, da pochi metri di
distanza, ci guarda dalla testa alle ginocchia. Così, la connessione dei segmenti del nostro corpo e
quella fra la nostra esperienza visiva e la nostra esperienza tattile non si realizzano poco a poco e per
accumulazione. Io non traduco nel linguaggio della vista i dati del tatto, o viceversa; non raggruppo le
parti del mio corpo una a una. Questa traduzione e questo raggruppamento sono fatti una volta per
tutte in me: sono il mio corpo stesso”(Merleau-Ponty, 1965, p.214). Consapevolezza di se stessi,
dunque, come parte di un sistema, in cui il proprio io, costituito da mente e corpo, interagisce con il
“fuori”: ogni percezione esterna, infatti, è sinonimo di una percezione del proprio corpo e viceversa,
poiché “noi siamo al mondo in virtù del nostro corpo, in quanto percepiamo il mondo con il nostro
corpo” (Ibidem, p.281). Parlare di sensorialità, quindi, significa tenere in considerazione il fatto che
ciascuno di noi, con il proprio sistema sensoriale e percettivo e con i soggettivi percorsi da esso
innescati dentro e fuori il nostro corpo, avrà una personale, mutevole, distorta idea del mondo, poiché
“non dobbiamo chiederci se percepiamo veramente un mondo, ma dire che il mondo è ciò che noi
percepiamo”, cioè che “cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la percezione è non
presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità” (Ibidem, p.25 ss).
La definizione stessa di percezione, però, non è semplice da dare. Prima di tutto bisogna
distinguere tra ciò che è percepito direttamente da ciò che è intuito, e questo dipende dal fatto che “la
percezione è un orizzonte che si apre sempre a nuove possibilità” e che la conoscenza che ne deriva “è
una costituzione originaria che precede le forme della rappresentazione” e che procede per “sintesi
incompiute”, in un processo senza fine che prosegue nel tempo (Bottero, in Balduzzi (a c. di), 2002,
p.29). Al concetto di percezione, infatti, si affianca quello di associazione, che rimanda all’importante
problematica del vissuto personale e al fatto che la conoscenza, pur traendo origine dall’esperienza
sensoriale, coinvolge tutto l’insieme di esperienze già vissute e dei risultanti processi mentali che ne
sono derivati.
Vedere un colore o una forma, sentire la ruvidezza o la morbidezza, ascoltare un suono
significa entrare in possesso di essi in un contesto che ne determina la peculiarità; “per costituire la
73 percezione ricorriamo al percepito” scrive Merleau-Ponty, ed è il fenomeno definito experience error, il
quale avviene perché “siamo presi nel mondo e non arriviamo a staccarcene per passare alla coscienza
del mondo; se lo facessimo, vedremo che la qualità non è mai esperita immediatamente e che ogni
coscienza è coscienza di qualcosa” (Merleau-Ponty, 1965, p.37). Ciò significa che “il sensibile è ciò
che si coglie con i sensi, ma ora sappiamo che questo con non è semplicemente strumentale, che
l’apparato sensoriale non è un semplice conduttore” (Ibidem, p.42) e che c’è un insieme di coordinate
interne che prende, gestisce e categorizza gli stimoli presi dall’esterno, in un’immensa rete di
informazioni e strutture che contribuiscono alla costruzione del sé: “l’associazione delle idee che
richiama l’esperienza passata non può restituire se non connessioni estrinseche, fra le quali deve
necessariamente essere annoverata anch’essa poiché l’esperienza originaria non ne comportava altre;
una volta definita la coscienza come sensazione, ogni modo di coscienza dovrà attingere la propria
chiarezza alla sensazione.”(Ibidem, p.49).
L’esperienza sensoriale, quindi, non è assoluta: “percepire non è esperire una moltitudine di
impressioni che condurrebbero con sé ricordi capaci di completarle, bensì veder scaturire da una
costellazione di dati un senso immanente, senza il quale nessun appello ai ricordi è possibile; ricordare
non è ricondurre sotto lo sguardo della coscienza un quadro del passato a sé stante, ma tuffarsi
nell’orizzonte del passato e svilupparne a poco a poco le prospettive racchiuse finché le esperienze che
esso riassume siano come vissute di nuovo al loro posto temporale. Percepire non è ricordare” (Ibidem,
p.58). Il significato da attribuire al sentire, al percepire, alla sensazione, non è quindi quello di uno stato o
una qualità statica e oggettiva, ma un significato vitale, in cui ogni singola parte contribuisce alla
creazione di un processo cognitivo; così, invece che oggettivarla, bisogna considerare l’attività
sensoriale come un comportamento che cerca di cogliere le cose nella loro essenza e le rimanda a
quell’insieme di strutture interiorizzate senza le quali i sensi non avrebbero significato.
Imparando a percepire, comprendiamo gli oggetti e le realtà che incontriamo, le loro relazioni,
“impariamo le categorie appropriate e i sistemi categoriali, impariamo a predire e a verificare cosa va
con che cosa” (J. S. Bruner, 1976, p.38): proprio per questo, didatticamente, è necessario ricercare un
equilibrio, per cogliere ogni connessione, tra la dimensione spontanea e il bisogno di educare, di
“indicare una strada che porti al benessere e alla felicità” (Aldi, in Aldi, Belvedere, Coccagna, Locatelli,
Pavone, 2013, p.272) nella duplice accezione insita nel termine attraverso i verbi educere e ducere.
L’insegnante, quindi, deve indirizzarsi non solo in prospettiva delle peculiarità dei vari canali, compito
a cui già sono delegate le singole materie scolastiche, ma soprattutto a trasferire contenuti di sé da un
canale all’altro, creando risorse aggiuntive per supportare i processi di apprendimento e di autoapprendimento.
74 3. Metodologia
“Un cieco dalla nascita, al quale sia insegnato a distinguere mediante il tatto un cubo da una
sfera, ove recuperi improvvisamente la vista, sarà in grado di distinguere il cubo dalla sfera, senza far
ricorso al tatto?” Questa la domanda posta da William Molyneux, astronomo e fisico, all’amico
filosofo John Locke in una lettera del 1693. Alla domanda di Molyneux, un empirista puro avrebbe
risposto negativamente: le conoscenze, infatti, sarebbero legate intimamente ai sensi; chi non vede non
potrà acquisire i concetti dello spazio (distanza, colore, profondità) così come chi non sente non
assumerà in sé i concetti di ritmo, tonalità, timbro, volume. Questo perché, empiricamente, le
rappresentazioni mentali sono legate alle modalità sensoriali. I sostenitori della modalità, infatti,
vedono nel rapporto tra conoscenza ed esperienza percettiva un’insormontabile rigidità.
Nessuna speranza, quindi, per chi non possiede uno dei sensi? Assolutamente no, basti
pensare al concetto di “vicarianza”: non esiste un nesso nitido tra le categorie di rappresentazione della
realtà e le modalità sensoriali. Sicuramente c’è un’associazione precisa delle categorie ad un
determinato senso (lo spazio è collegato alla vista, la ruvidezza al tatto), così come le nostre modalità
di conoscenza delle cose sono collegate al nostro personale modo di essere che può essere
prevalentemente visivo, uditivo, o tattile. Ma tra quello che succede nelle categorie, i confini sono
meno rigidi di quello che sembra, proprio grazie al fatto che i sistemi sensoriali siano vicari tra loro; ad
esempio, non è detto che un individuo non vedente non abbia il senso dello spazio, così come è
possibile che un non udente possa acquisire un determinato ritmo semplicemente osservando un
uomo che si muove ritmicamente. Ritornando all’esempio del Molyneux, la sfericità della sfera potrà
essere colta non solo vedendola, ma anche sentendola rotolare o semplicemente toccandola. Questo
perché ci sono più canali attraverso cui un concetto può essere esperito: ecco il passaggio dalla
modalità, il sistema di classificazione delle cose, alla sovramodalità, attraverso processi in cui altri
sistemi sensoriali possono mediare e vicariare concetti ed esperienze in mancanza di quel senso
prevalente e, successivamente, alla amodalità, in cui la conoscenza si completa quando avviene la
trasformazione in una definizione formale che non è nulla di empirico; è importante, quindi,
sottolineare la differenza tra prevalenza, irreversibilità e vicarialità nel nesso tra sensazione e
cognizione e tenerne conto nella costruzione dei mediatori didattici, al fine di favorire l’apprendimento
di tutti. la figura dell’insegnante/educatore appare cruciale, sia nella sua formazione che nella sua
“azione”: insegnare, infatti, “significa esattamente mettere in segno” (Piccinno, 2013, p.92) e ciò mette in
immediata relazione la realtà scolastica con i contesti della vita “fuori dalla scuola”, poiché gli oggetti
dell’apprendimento si trovano al di là delle mura scolastiche. Il compito dell’insegnante, quindi, è
quello di creare una relazione valida tra gli oggetti reali e i segni attraverso i quali l’allievo, in classe,
può conoscere, riconoscere e comprendere tali oggetti: questa è l’attività di mediazione, creare, cioè,
un ponte in grado di “trasportare quegli oggetti medesimi nel perimetro spazio-temporale in cui si
svolge l’insegnamento, al fine di poterli rendere disponibili ai processi di apprendimento” (Ibidem,
p.93), poiché “la questione dell’insegnare non è quali informazioni trasmettere, bensì come trasformare
le informazioni in conoscenza” (Gamelli, 2002, p.116). Insegnare significa, quindi, mediare all’interno
75 di una dimensione “limitata”, che è quella dell’aula scolastica, l’infinita serie di oggetti del mondo reale.
Per fare questo, egli deve in primo luogo approcciarsi all’allievo, e metterlo a confronto con il segno
costruito attraverso una serie di passaggi graduali che lo portino a possedere “la capacità di utilizzare
gli apprendimenti non soltanto nel contesto scolastico, ma nei luoghi in cui egli svolge la sua
esistenza” (Piccinno, 2013, p.97). In secondo luogo, poi, l’educatore deve confrontarsi con l’oggetto
culturale, e renderlo fruibile e comprensibile all’allievo al fine di creare “una definizione concettuale
dell’oggetto di studio” (Ibidem, p.99) in sua ogni dimensione (dichiarativa e procedurale). Questa
complessa attività di mediazione, naturalmente, ha bisogno di strumenti pratici e concreti che
sostengano l’attività dell’insegnante e collaborino nella sedimentazione della conoscenza. Già
Comenio, nell’Orbis sensualium pictus, (Comenio, Il mondo delle cose sensibili figurato) proponeva,
concretamente, degli strumenti didatticamente utili a “traslare in immagine (ovvero in un segno
percepibile dai sensi) tutto un insieme di principi di natura decisamente metasensoriale
(epistemologico, sociale, morale), sicché l’allievo, entrando in contatto con le prime, transiti, grazie ad
esse, verso la conoscenza dei secondi” (Piccinno, 2013, p.14). Comenio offre, pertanto, un esempio
storico di un metodo che parte dall’esperienza percettiva e, mediando, arriva a toccare tutti i livelli dei
processi cognitivi.
Questi strumenti, oggi, sono chiamati mediatori didattici; essi, in base alla loro maggiore o minore
distanza dall’oggetto reale, si distinguono in attivi (che si fondano sul contatto diretto con l’oggetto),
iconici (che trasformano l’oggetto, distanziandosene, in immagine), analogici (fondati, con un ulteriore
distanziamento, sulla simulazione) e simbolici (con i quali si compie il massimo grado di distanziamento
dall’oggetto reale, poiché rimandano ad esso attraverso segni convenzionali che non hanno più nulla
della struttura originaria dell’oggetto stesso).
La capacità del formatore di ideare e costruire tali fondamentali strumenti riveste un ruolo
fondamentale non solo nell’efficacia dell’apprendimento in genere, ma anche nei delicati ambiti
dell’integrazione interculturale e della didattica speciale. Tenendo conto, quindi, che ciò che cambia
sono i percorsi di concettualizzazione e i modi di associare i contenuti, è opportuno individuare quali
categorie possono venire in aiuto nel concepire le differenze culturali come elementi arricchenti, o
quali sono privilegiate da un soggetto non udente o non vedente e quali invece sono evitate. Una volta
individuate, mediate e affrontate, attraverso, ad esempio, la costruzione di un organizzatore anticipato
(un mediatore che crea la regola e aiuta a codificarla, attraverso canali sovramodali esso supporta e
media in base alle esigenze di quel determinato argomento), e utilizzando così il canale sovramodale, si
può arrivare ad una rappresentazione formale, e quindi amodale, dei concetti e delle associazioni
acquisite. Le strategie didattiche che possono essere utilizzate sono varie e molteplici, e riguardano
ogni contenuto e disciplina. Tanto un testo letterario quanto concetti linguistici, matematici o
scientifici, quindi, possono essere mediati da colori, oggetti da toccare, onomatopee, frecce, vignette.
L’esperienza cognitiva, infine, non passa solo per i sensi, ma anche attraverso il vissuto di
ognuno: la dimensione concreta è data sia attraverso il canale sensoriale, sia attraverso canali interni, in
cui la soggettività diventa il mediatore didattico per eccellenza. Sul piano delle attività, quindi, l’assenza
76 o la menomazione di un organo non necessariamente porta alla riduzione delle capacità, a una nonabilità; tutto sta a vedere quali sono le risorse che un individuo può usare per attivare il suo deficit,
poiché la mente umana è flessibile e capace di accedere alla conoscenza attraverso una grande serie di
codici. C’è una rilevante differenza, infatti, tra abilità e performance, e ciò significa che, cambiando le
condizioni, mediando e supportando, l’handicap sparisce. Il punto di partenza, ma anche l’obiettivo, è
quello di considerare l’allievo come un intero fatto di tante particolarità che lo distinguono dagli altri
ma che allo stesso tempo lo mettono in connessione con essi, in una questione di relazione o,
riprendendo Don Bosco, in una questione di cuore.
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