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OBLIO VI, 22-23
EDITORIALE
A mano a mano che escono articoli e libri interi sulla valutazione dei lavori scientifici, per lo più
molto critici sull’orientamento che è prevalso, inopinatamente in me si rafforza un’impressione di
déjà vu. La messa a fuoco del problema da parte dei settori disciplinari che interessano «Oblio», e
rientrano tra i cosiddetti non bibliometrici, è recente e non ci si deve meravigliare se gli studiosi che
lo affrontano non si rendono conto di aver ereditato la missione della teoria della letteratura,
ripercorrendone la parabola. Oltre che con il tessere al posto della teoria l’interminabile tela dei
preliminari di rito all’esercizio della critica, sempre più inameni, la nuova specializzazione ricalca
le orme della precedente, della quale le mancano lo sviluppo ipertrofico e le ambizioni totalitarie,
con la palese inadeguatezza di argomentazioni troppo sofisticate e complesse, condannate a non
conseguire il loro scopo principale, non tanto quello di essere accolte dal legislatore o dalle
gerarchie ministeriali, quanto di persuadere e coinvolgere la platea di pari alla quale in prima
istanza si rivolgono.
Ancora una volta, tale inadeguatezza non dipende necessariamente dalla inefficacia degli argomenti
e va piuttosto ricondotta alle eccessive pretese di chi li produce e, per farla finita con le astrattezze
burocratiche (la teoria ce l’aveva invece con la critica impressionistica), allarga il campo e allunga
le proprie perorazioni, uscendo dal seminato e innalzando un’altra torre di Babele. Del resto, la
riflessione su questi temi, che non si riducono ai meccanismi del reclutamento universitario, ha una
lunga storia, dalla quale è estremamente difficile distaccarsi davvero e che è rimasta regolarmente
sepolta sotto le sue macerie, come da ultimo i fasti della teoria letteraria. Senza chiamarla così, una
battaglia per un sapere sostenibile nell’ambito delle scienze umane aveva sostenuto un secolo e
mezzo fa Vincenzo Padula: «È più difficile far riconoscere una verità, che scoprirla». Me ne sono
ricordato (a proposito di memoria), mentre sistemavo per la pubblicazione l’articolo di argomento
paduliano che si può leggere in questo numero di «Oblio».
L’animosità dei più severi critici del riformismo valutativo (la valutazione è poco meno del braccio
armato della coazione a riformare che affligge da anni l’intero sistema scolastico) si appunta tra
l’altro, e forse con particolare accanimento, sulla scelta e sul ricorso stesso a indicatori, che, nel
nostro caso, di fronte a una diffusa consapevolezza dell’inflazione delle cavalleresche citazioni di
scambio non potendo prevedere l’impact factor, si è momentaneamente attestato sulla
classificazione preventiva delle riviste. Dimmi con chi pubblichi e ti dirò chi sei, cioè se continuerai
a pubblicare. Anche «Oblio» si è piegato sperimentalmente (forse io solo mi diverto con le rese
sperimentali e con le loro inquietanti implicazioni) alla peer review, che è uno dei requisiti per
l’inclusione delle pubblicazioni nella lista dei Salvati. Poiché nel mestiere che ho scelto di fare tanti
anni fa il valore indiziario loro assegnato era la clausola di garanzia del ruolo decisivo di spie e
indicatori, e bisognava guardarci dentro, invece di riprendere la parola in un dibattito al quale ho già
partecipato senza coprirmi di gloria, provo a vedere se le considerazioni seguenti, sull’attendibilità e
sulla pertinenza dell’indicatore per antonomasia della nostra cultura letteraria, possono funzionare
come un apologo.
Checché si pensi dell’opportunità di conferire il premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan e delle
polemiche connesse, si converrà che la materia del contendere non si riduce alla sorprendente scelta
di un cantautore, come lo statunitense sarebbe considerato se fosse italiano. È del tutto legittimo
preferire i versi di una canzonetta a quelli di un poeta affermato e non lo è di meno ritenerlo una
sciocchezza. La cosa cambia quando il poeta non viene esaltato per la qualità dei suoi versi, ma per
motivi d’altro genere. La lingua nella quale Dylan scrive i suoi versi, di per sé non spregevoli,
raggiunge e affascina un pubblico sterminato ai quattro angoli della terra, intanto parla a tutti, in
quanto è accompagnata dalla musica e interpretata dalla sua voce, e non viene intesa dalla maggior
parte degli ascoltatori, che sarà pure una sorte non ignota ai più impegnativi capolavori della
letteratura contemporanea, ma in maniera meno categorica e per ragioni meno grossolane. Il
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riconoscimento della medesima dignità dei capolavori letterari alla canzone popolare d’autore mette
perciò in gioco la nozione stessa di letteratura, promovendo l’intera galassia della creatività in tutto
o in parte verbale che si esprime ormai per lo più e con miglior fortuna in forme artistiche alla
letteratura apparentemente irriducibili e infatti non perde né la propria identità di genere, né i nomi
di cinema, televisione o appunto canzone popolare d’autore, qualcosa in più del mero riferimento
suo supporto materiale.
Se Dylan non rappresentasse quello che rappresenta su scala planetaria rispetto a qualsiasi scrittore
e soprattutto se il suo premio Nobel avesse suscitato solo reazioni scandalizzate, bisognerebbe
complimentarsi con i giudici dell’Accademia svedese, per l’ampiezza del loro campo visivo e per
aver scovato, assecondando la nostra indulgenza nei confronti di queste espansioni del letterario, un
protagonista della vita culturale contemporanea nella terra di nessuno dove la letteratura attinge
stimoli e sperimenta nuove possibilità. Ma Dylan è Dylan e l’Accademia svedese insieme con lui
della letteratura ha premiato un’accezione apparentemente troppo estesa e in realtà ristretta e
fuorviante, nella quale, sul successo comunicativo da tempo ritenuto più importante della natura del
messaggio, ha ormai la meglio il contatto, la portata e il voltaggio della scarica elettrica. Per non
premiare lo scrittore corrivo e commerciale con il quale si sarebbe potuta riaffermare la vitalità del
rapporto della letteratura con il suo pubblico, il risultato del Nobel pesca direttamente dove un
rapporto vitale esiste al di là di ogni dubbio e della letteratura resiste una traccia, venendo però
meno al suo compito e rifiutandosi di spendere la sua autorevolezza per indicare all’attenzione
universale uno scrittore meritevole. Anziché essere la prova di una eccellenza nel campo della
letteratura, il premio a Dylan sembra piuttosto il sintomo di una più ampia trasformazione.
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Con commozione ricordo a chi l’ha conosciuta Bianca Maria Da Rif, che ha fatto parte del nostro
Comitato dei referenti scientifici e ha offerto a «Oblio» il contributo prezioso della sua appassionata
competenza.
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