Bob Dylan sarà presente alla cerimonia per l`apertura del

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Transcript Bob Dylan sarà presente alla cerimonia per l`apertura del

estratto alle ore 13:10
Bob Dylan sarà presente alla cerimonia per
l’apertura del Grande Traforo Marziano
La luce naturale, filtrando dalle ampie finestre
del Museo di Capodimonte, devia pacatamente
sui toni di un grigio sempre più tenue, fino a
scomparire, assorbita dalla superficie informale
del Grande Cretto Nero. La maggior parte delle
persone intervenute alla presentazione della
riapertura della sezione di arte contemporanea,
gravita nel campo d’attrazione magnetica
generato dall’opera di Alberto Burri, emblema
della collezione della Reggia e di un certo
rapporto con la materia che, storicizzato,
esprime serenità e rassicurazioni. L’aria è
pacata, voci e passi si intonano sui decibel più
appropriati, le tinte dei vestiti e le articolazioni
anatomiche si integrano creando una
composizione di colori e forme perfettamente
equilibrata, come in una Grand Jatte collezione
estate 2016. Siamo a metà luglio ma il caldo
non è eccessivo, il vento muove timidamente le
foglie degli alberi del parco regale, che
proiettano screziature di verde nel terso
medium atmosferico. Niente lascia presagire il
fulmine che saetta improvvisamente quando
Lucio chiede, molto cortesemente, la mia
opinione su quale possa essere il romanzo
contemporaneo per eccellenza. Mi si mozza il
respiro, cerco uno spunto nelle bollicine
sfuggenti dal calice che ho in mano, nei titoli
nascosti nei recessi più profondi di tutti e due
gli emisferi. Me ne esco balbettando qualcosa
su Cortázar, mordendomi subito la lingua. Un
intreccio di filamenti opachi mi confonde la
vista, mentre tento di spostare il discorso su
argomenti più tranquillizzanti, sulla tridimensionalità
della Vasca, sull’eruzione del Vesuvius.
Non ricordo precisamente cosa sia successo
dopo ma la questione, ormai, aveva iniziato a
scavare il suo cunicolo che, al termine di un
lavoro sotto traccia durato alcuni mesi, si è
rivelato del diametro di un traforo adatto a
estrarre il nucleo solido di Marte. E alla
cerimonia di inaugurazione di questa colossale
infrastruttura extraterrestre, è intervenuto
proprio lui, il Menestrello. Bob Dylan è stato
insignito del Nobel e la scelta non solo è stata
argomento di discussioni, come da tradizione,
ma ha anche acceso una spia rossa nella camera
di controllo della letteratura. La reazione
immediata è stata di stupore, per un’assegnazione
che a qualcuno deve essere sembrata fuori
ambito. Infatti, per Baricco, «è come se dessero
un Grammy a Javier Marías perché c’è una bella
musicalità nella sua narrativa. Se seguiamo
questo ragionamento allora anche gli architetti
potrebbero essere considerati poeti». Aspettando
ritorsioni dagli architetti e repliche dallo
scrittore spagnolo, divertente anche il
commento di Irwine Welsh che, nel suo stile
colorito, ha descritto la giuria come un
manipolo di vecchi hippies rimbambiti e con
problemi alla prostata, glissando però su altre
motivazioni meno corporali e più teoriche. In
tutto ciò, l’Accademia di Stoccolma,
l’Istituzione che, per volere di Alfred Nobel, si
occupa specificamente dell’assegnazione del
più importante premio letterario, non è ancora
riuscita a contattare il cantautore che solo ieri
ha segnalato suo sito ufficiale la notizia. Dalla
Svezia saranno partite decine di telefonate, tutte
cadute in un angoscioso silenzio degno della
migliore trilogia bergmaniana, ma si spera nella
sua presenza alla cerimonia, prevista per il 10
dicembre. «Non sono preoccupata, penso che
si presenterà – ha detto Sara Danius, segretaria
permanente dell’Accademia – se non vuole
venire, non verrà, sarà comunque una grande
festa». Se, malauguratamente per le tautologie
dell’Accademia, Dylan non volesse essere
presente alla serata di premiazione, sarebbe il
quarto della breve lista, dopo Boris Pasternak e
Jean-Paul Sartre, per la letteratura, e Lê Đ
ức Thọ, per la pace.
Sulla vicenda dello scrittore russo c’è anche
l’ombra di un intrigo internazionale. Pare che
sia stata la CIA a mandare in stampa la prima
versione russa del Dottor Zivago, un atto
fondamentale per l’assegnazione del premio,
visto che il comitato può prendere in
considerazione solo opere pubblicate in lingua
originale. Dopo aver impiegato dieci anni per
la stesura, dal 1946 al 1956, Pasternak non riuscì
a trovare un editore, in tutta la Russia, disposto
alla pubblicazione. Preso atto dell’aperta
ostilità degli ambienti culturali e politici,
Pasternak tentò altre strade e consegnò una
copia al giornalista Sergio D’Angelo, a Mosca
per cercare un nuovo filone di letteratura russa,
per conto di un giovane editore italiano,
Giangiacomo Feltrinelli. A questo punto, la
notizia del libro e, soprattutto, dell’ostilità del
governo russo, arrivò alle affilate orecchie della
CIA che, in maniera piuttosto avventurosa – si
racconta di un aereo costretto a uno scalo a
Malta, di una valigia aperta, di una cartella
ritrovata, di fotografie scattate a certe pagine
scritte in fitti caratteri cirillici – riuscì a
procurarsi una copia. Nel novembre del 1957,
il romanzo venne pubblicato in italiano, quindi
tradotto in inglese, francese, tedesco. Nella
primavera del 1958, Albert Camus nominò
Pasternak per il Premio Nobel e, immediatamente,
comparve una versione in lingua russa,
stampata presso la casa editrice accademica di
Muton, a L’Aja, senza diritto d’autore. Ma, per
non mettere in pericolo se stesso e la famiglia,
Pasternak non si recò a Stoccolma a ritirare il
Nobel. L’eco della notizia fu enorme. A metà
Guerra Fredda, CIA 1 – KGB 0.
Tornando al Nobel della discordia, il dado con
la faccia spigolosa di Robert Allen Zimmerman
è ormai tratto ma l’esito non è così catastrofico
per gli scrittori tout court. In fondo, il premio
tanto ambito si assegna ogni anno e, al di là delle
dietrologie, le scelte possono essere dettate dai
fattori più impensabili, Pasternak docet. Inoltre,
Dylan aveva già ottenuto altre candidature, la
prima nel 1996, poi anche nel 1997 – l’anno in
cui venne ricoverato d’urgenza per una
infezione al cuore che poteva risultargli fatale –
quando pare che Dario Fo, altro massimo
esperto di vocalità, riuscì a superarlo solo al
fotofinish. A parte le motivazioni di gusto
personale, si può ricercare qualche indicazione
spostando l’attenzione dagli stili agli strumenti
e inquadrando la scelta nella successione storica
delle assegnazioni.
Quali conformazioni può assumere un romanzo
contemporaneo? E’ una domanda che i membri
della giuria del Nobel evidenziano con la penna
rossa. E c’è sempre stato qualcuno un pizzico
più contemporaneo, nell’uso degli strumenti a
sua disposizione. Da Omero, che sicuramente
avrebbe vinto per aver portato al massimo grado
di espressione lo strumento delle onde sonore,
fino a Dostoevskij, un alchimista degli
ingredienti del racconto moderno e delle
potenzialità della stampa. Lo scrittore russo,
peraltro, era perfettamente padrone anche della
serialità, con L’idiota, che uscì a puntate, dal
1868, sulla rivista "Russkij vestnik”. E, in
fondo, oggi, si ripetono gli identici moduli dei
Karamazov, cambiando temi, argomenti, modi
di dire ma rimanendo nella struttura
cristallizzata di quel tipo di pubblicazione, con
tutti i vincoli e le possibilità che tale forma
impone allo svolgimento della trama, alla
descrizione dei personaggi, alle categorie della
storia e dei caratteri. Anche gli scrittori
tradizionalmente considerati più all’avanguardia –
De Lillo, Roth, Ellis, Pynchon – parlano
certamente una lingua contemporanea, però
espressa con codici e sviluppi non troppo
dissimili da quelli ottocenteschi. Ma le modalità
di trasmissione della conoscenza seguono
ormai altri canali, percorrono le trasparenze dei
social network, si diffondono negli spazi vuoti
tra le puntate delle serie tv più attese. Eppure,
la letteratura sembra non essersene accorta,
come se qualcuno, illo tempore, avesse detto a
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Gutemberg: «Ma no, questo trabiccolo non avrà
mai successo».
Già il premio alla voce di Dario Fo, alle
narrazioni interstiziali di Alice Munro, autrice
di racconti brevi e brevissimi, alla polifonia
stilistica di Svjatlana Aleksievič,
cronista e giornalista di guerra, sembravano
segnali di qualcosa sull’orlo di un cambiamento
non avvenuto, non tanto sulla superficie della
scrittura ma nella profondità dell’approccio ai
linguaggi. Con il Nobel a Dylan, l’Accademia
di Stoccolma ha dichiarato, tra le righe, che le
cose si possono raccontare anche attraverso un
mezzo fluido come l’aria, riconoscendo,
implicitamente, l’aderenza di un tramite
immateriale alla forma della contemporaneità,
questi anni dei caratteri mobili 2.0, dalla carta
pregiata dei browser, della leggerezza delle
strutture grafiche virtuali, più simili a ritmi
impalpabili che a voluminosi tomi enciclopedici.
Singolare che nessuno abbia ancora pubblicato
un romanzo non su Facebook ma attraverso di
esso, interpretando il potente social network
tanto come mezzo espressivo quanto come
categoria del raccontare. Oppure, il romanzo
già c’è ma si chiama in altri modi, è stato
pubblicato e i suoi capitoli continuano a essere
scritti, a ogni scroll della home page.
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