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lunedì 26 settembre 2016, 16:30
Elezioni
Russia: luci e ombre per Putin dalle urne
Il'partito del potere' rafforza il suo predominio ma con un prevalente astensionismo e alcune differenze
di Franco Soglian
Chi abbia vinto e chi perso, nelle elezioni russe della penultima domenica scorsa, a prima vista è fin troppo
chiaro. Sempre a prima vista, sul nome del vincitore, quanto meno, non possono esservi dubbi. E’ quello di Vladimir Putin,
naturalmente, la cui padronanza politica assoluta del Paese ha trovato una conferma persino più ampia del previsto. Ma
proprio perché un simile risultato era comunque largamente scontato, ci si può domandare se quell’'in più' non celi qualcosa
su cui valga la pena di soffermarsi alla ricerca di indicazioni meno sommarie e univoche. Per valutare adeguatamente
l’evento bisognerebbe sapere che cosa esattamente si aspettasse il signore del Cremlino. Se puntava solo a sbaragliare
il campo a spese di qualsiasi avversario dichiarato o potenziale, il suo appagamento dovrebbe essere totale.
Se invece aspirava anche a vincere con modalità tali da migliorare a tutti i possibili effetti l’immagine interna
ed esterna del suo regime rispetto a quella generata da precedenti consultazioni popolari la sua soddisfazione
sarebbe probabilmente alquanto più limitata. Non è una questione solo estetica, per così dire. Quale che sia il tipo di
democrazia che lo caratterizza, un regime è tanto più solido quanto più fondato su un rapporto corretto e trasparente tra
governanti e governati e su un sostegno privo di ombre dei secondi ai primi. E la sua solidità è tanto più necessaria e
preziosa quanto più serie sono le difficoltà e impegnative le sfide che esso deve affrontare in situazioni che raramente sono
di tutto riposo. Non lo è certo quella in cui versa attualmente la Russia e alla quale ha accennato lo stesso Putin
commentando con apparente sollievo il nuovo successo elettorale del suo partito. Ottenuto, ha detto, malgrado appunto una
'situazione dura e difficile', a causa della quale era evidentemente lecito temere che le cose andassero meno bene. La crisi
economica sta infatti appena passando, nella migliore delle ipotesi, dalla fase recessiva alla stagnazione, e i suoi costi sociali
sono solo attutiti, per ora, dal patriottismo popolare che supporta una politica estera fortemente assertiva quanto,
anch’essa, onerosa. Elettoralmente e politicamente le cose sono andate bene ma solo in parte, quanto ai numeri,
mentre ciò che il governo aveva fatto, nei mesi precedenti, per migliorare l’immagine non è bastato a
compensare le copiose misure adottate contemporaneamente, e anche alla vigilia del voto, per prevenire e
reprimere comportamenti sgraditi accentuando il carattere 'guidato' ovvero controllato della democrazia alla russa. Con
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/russia-luci-e-ombre-per-putin-dalle-urne/
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conseguenze che, se non si sono viste adesso, potrebbero manifestarsi nel prossimo futuro. In materia di numeri, spicca
innanzitutto il dato che Russia unita, il 'partito del potere', ha fatto ancora meglio di cinque anni fa, quando la
manipolazione del voto era stata sicuramente più ampia, passando dal 49% dei consensi al 54% e assicurandosi così
la maggioranza dei due terzi alla Duma, camera principale del parlamento federale, necessaria per modificare la
Costituzione. Questo successo viene tuttavia sminuito da una partecipazione al voto crollata al 47,8%: un record
negativo assoluto (nel 2011 si era fermata al 60%). L’astensionismo, com’è noto (o dovrebbe esserlo, al netto delle
strumentalizzazioni), non possiede un suo significato univoco. Può derivare, come ad esempio in Svizzera, da uno scarso
interesse per le elezioni perché non vi sono scottanti problemi nazionali sul tappeto e una soddisfacente stabilità relativa è
comunque assicurata. Al contrario, e più frequentemente, la gente non si reca in massa alle urne perché è per lo più
malcontenta e non accorda fiducia ad alcuna formazione politica in campo. Nel caso della Russia sembra lecito ipotizzare un
misto delle diverse ed anche opposte ragioni. Tra i benestanti ci sarà sicuramente chi non condivide la politica dura nei
confronti dell’Occidente ma non soffre per la crisi economica, apprezza la relativa tranquillità e l’ordine regnanti all’interno e
non vede alternative allettanti a Putin. Benestanti e meno abbienti sono poi verosimilmente accomunati da un fattore tipico
se non proprio esclusivo del Paese: la consapevolezza che il parlamento di Mosca, i cui membri godono di una popolarità
assai bassa, conta poco o nulla in confronto al potere esecutivo e in particolare al presidente della Federazione. E poiché la
democrazia rappresentativa, almeno nelle sue accezioni occidentali, non è uno dei valori più cari ai russi non è forte neppure
la spinta a migliorare la funzionalità dell’organo che maggiormente la incarna. Se il regime, ciò nonostante, mostra di tenerci
al periodico rinnovo dell’investitura democratica, l’elettorato, stavolta, non si è lasciato trascinare più di tanto
dall’eccezionale popolarità del 'nuovo zar'. Il quale, al massimo, potrà compiacersi per la buona prova di trasparenza di una
consultazione che oggi almeno non assomiglia più alle elezioni dell’era sovietica quando, secondo la versione ufficiale,
votava regolarmente il 99% o quasi degli aventi diritto e a favore del partito comunista con percentuali a malapena inferiori.
Per la verità, in qualche situazione più o meno periferica l’ombra del passato ha fatto ancora capolino. In
Cecenia si è votato per la prima volta dopo la brutale repressione di un movimento indipendentista, islamista ma con
antiche radici nazionaliste, e l’affidamento del potere ad un autocrate indigeno, Ramzan Kadirov, fin troppo fedele e
devoto a Putin. Gli elettori diligenti sarebbero stati il 95% e il 96% avrebbe votato per Russia unita. Un prodigio analogo si
sarebbe verificato anche nel vicino Dagestan, che aveva rimpiazzato la Cecenia nel ruolo di principale ribelle a Mosca e fino
a ieri figurava come la regione più cruentemente turbolenta del Caucaso settentrionale. Qui le due percentuali di cui sopra
sarebbero state di poco inferiori a quota 90. Un fenomeno singolare si è invece registrato nella regione di Saratov, dove il
'partito del potere' risulta avere conquistato la stessa percentuale di voti (62,2) in un centinaio di sezioni elettorali. In questo
e in qualche altro caso si è prontamente provveduto ad annullare voti chiaramente prefabbricati o taroccati, si direbbe per
un inutile eccesso di zelo da parte di autorità o comunque responsabili locali. Nel complesso, tuttavia, suona e viene
generalmente considerata credibile l’assicurazione da parte di Ella Pamfilova, presidente della Commissione elettorale
centrale, che le operazioni di voto si sarebbero svolte per lo più regolarmente e che il loro esito sarebbe genuino. Non è
d’accordo Aleksej Navalnyj, il celebre blogger nonché oppositore più temuto dal Cremlino, e non a caso impedito di
competere, che ha denunciato un’ennesima falsificazione della volontà popolare e chiesto le dimissioni sia della Pamfilova
sia di Vjaceslav Volodin, capolista di Russia unita a Mosca nonché, per cinque anni e fino a ieri, vice direttore
dell’Amministrazione presidenziale con competenza specifica per la politica interna. Per quanto riguarda Volodin Navalnyj è
stato accontentato grazie al suo trasferimento, pare scarsamente gradito, alla carica formalmente prestigiosa di presidente
della Duma, lasciata libera da Sergej Naryshkin cui è stata affidata la direzione del Servizio di spionaggio all’estero. Ci si
domanda ora se Volodin sia stato castigato oppure premiato (almeno sulla carta) per l’esito della prova elettorale. In altri
termini, se l’indirizzo prevalentemente restrittivo dei diritti civili e politici sia destinato ad accentuarsi oppure a invertirsi, con
il suo maggiore responsabile eventualmente incaricato di rivalutare e potenziare il ruolo del parlamento. Salvo sorprese, in
realtà, il volto della nuova Duma si presenta in proposito ancor meno promettente del precedente. Passi per la
scomparsa dai suoi banchi degli unici due deputati meritevoli della qualifica di oppositori in quanto apertamente e
sistematicamente critici nei confronti dell’attuale regime. Non sono stati infatti rieletti, come era facile prevedere, né Ilija
Ponomariov, del resto già riparato in esilio, né Dmitrij Gudkov, residuo esponente non addomesticato del partito Russia
giusta e vittima di percosse nella capitale durante la campagna elettorale. Altrettanto prevedibile era la bocciatura senza
appello (e sia pure con la complicità di un sistema elettorale articolato in modo da sfavorire le formazioni meno gradite al
potere) subita dai due partiti di indirizzo autenticamente liberale e democratico nonché, grosso modo, filo-occidentale. Nè
Jabloko di Grigorij Javlinskij nè Parnas di Michail Kasjanov hanno superato lo sbarramento del 5%, restando così esclusi
dal parlamento, e sono anzi rimasti al di sotto anche del 3% perdendo il diritto di fruire dei finanziamenti pubblici. Che non
tirasse aria favorevole a questo segmento dello schieramento politico era abbastanza evidente in partenza, e senza
distinzioni tra vecchie conoscenze e nuovi venuti. L’ormai anziano Jabloko ha fatto semmai un po’ meglio del giovane
Parnas, che non ha beneficiato neppure delle simpatie in cui poteva sperare avendo avuto tra i suoi leader Boris Nemzov,
l’ex vice premier assassinato lo scorso anno nel centro di Mosca da sicari o comunque sostenitori del regime. Né risulta
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eletto, d’altronde, alcun candidato tra quelli singoli, una ventina, sponsorizzati da Michail Chodorkovski, l’'oligarca' ostile a
Putin e ora in esilio dopo avere subito un esproprio giudiziario, di comodo benchè non totale, e trascorso lunghi anni in
carcere. Se però qualcuno in alto loco auspicava (come non è affatto detto, naturalmente) che dalle urne
uscisse un parlamento più pluralista anche se non meno docile e controllabile, deve essere rimasto deluso da
un esito opposto. Al rafforzamento del partito di maggioranza già relativa e divenuta adesso assoluta fa infatti riscontro
l’indebolimento di tre dei quattro partiti (e di tutti e quattro per numero di deputati) che completavano e completano tuttora
la composizione della Duma. Alleggerito di oltre un terzo dei voti ricevuti nel 2011, il Partito comunista (KPRF) di Gennadij
Zhjuganov, ha mantenuto per un soffio (col 13%) il secondo posto nella graduatoria perdendo tuttavia oltre la metà dei
suoi seggi. Qualcuno lo dava addirittura in crescita, ma sembra tuttora valida la presunzione che paghi lo scotto della
progressiva scomparsa delle vecchie leve nostalgiche dell’URSS e della scarsa attrattività del suo messaggio per le
generazioni più giovani. Guarda caso, tra le sue non frequenti nè vistose dissociazioni del KPFR da Russia unita figura un
voto contrario, lo scorso anno, all’anticipo delle elezioni da dicembre a settembre perché, sosteneva Zhjuganov, a fine estate
la gente ha altro di cui occuparsi. Sono aumentati sia pure di pochissimo, invece, i consensi per il terzo classificato, il
sedicente Partito liberal-democratico (LDPR), capeggiato dall’inesauribile istrione, ultranazionalista e populista, Vladimir
Zhirinovskij, che cerca anch’esso di affiancare l’impegno sociale al coinvolgimento in prima linea nella mobilitazione
patriottica. Anche l’LDPR, comunque, ha perso un buon terzo dei precedenti seggi. Peggio di tutti ha fatto Russia giusta, ora
più che mai fanalino di coda col 6% dei suffragi e seggi ridotti da 57 a 16. In questo caso si tratta di una formazione che ha
perso anche l’originaria grinta di oppositrice sia pure non radicale e una vocazione socialdemocratica non proprio
marcatissima. Il suo leader, Sergej Mironov, affetta ottimismo pronosticando che il verdetto delle urne favorirà lo sviluppo
di un’utile dialettica politica grazie a convergenze di sinistra e di destra intorno a Russia unita; ma già i soli numeri
sembrano contraddirlo. Altri numeri meritano invece una maggiore attenzione. Se l’affluenza alle urne è stata
complessivamente molto bassa, lo è stata ancora di più in determinate aree del Paese. Nelle due metropoli,
innanzitutto, dove tradizionalmente si decidono i suoi destini e il cui peso politico è comunque predominante. A Mosca città
ha votato solo il 35% e anche nella relativa provincia solo poco di più. Ancor meno a San Pietroburgo (32%), città natale
nonchè fucina di Putin e di molti suoi collaboratori. Correlativamente, anche i voti per Russia unita vi sono stati parecchio
inferiori alla media nazionale: 37% a Mosca e 39% a San Pietroburgo. E va anche notato che in entrambe le capitali, odierne
o del passato, persino una presenza altrove trascurabile come quella di Jabloko, ha conservato o assunto una certa
rilevanza, con consensi superiori al 9%. Più in generale, ha trovato conferma la differenza tra i maggiori centri urbani da
parte e le periferie e le campagne dall’altra, per quanto riguarda sia la partecipazione al voto sia i suffragi per Russia unita.
Nel primo caso il minimo regionale assoluto si è registrato a Irkutsk (34%, e 28% nella sola città), punta dell’iceberg
nell’ampio panorama siberiano e in particolare dell’Estremo oriente russo, in cui il malcontento è tanto diffuso quanto
radicato e a tratti molto sonoro, per una varietà di ragioni. Comprendenti, tra l’altro, anche l’invadenza cinese, cioè di una
grande amica ufficiale della Russia.
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