Transcript Diapositiva 1 - istitutocomprensivotrivento.it
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I castelli del Molise
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Istituto Comprensivo di Trivento
Laboratorio Lettere/Informatica Anno Scolastico 2008/2009
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Il medioevo, come epoca storica a sé
stante, e una creazione degli storici
che, a partire dal Rinascimento,
hanno guardato al lungo intervallo di
tempo trascorso dalla fine dell’impero
Romano d’occidente sino ai loro
giorni, come un lungo intervallo
durante il quale la “civiltà” si era
dapprima
oscurata,
e
quindi
faticosamente ricostruita, attraverso
un faticoso itinerario di fuoriuscita
dall’ignoranza e dalla superstizione.
Con il procedere degli studi storici, fra XVII e XX secolo, si è progressivamente compreso
come un cosi lungo arco di secoli racchiuda in sé situazioni e condizioni politiche,
economiche e culturali molto diverse tra loro, che differiscono non solo per ragioni
cronologiche, ma anche a seconda dei diversi contesti geografici. Si possono individuare
almeno tre ripartizioni cronologiche ulteriori:
L’ALTO MEDIOEVO, che comprende il periodo tra la fine dell’ Impero Romano e, grosso
modo, il X secolo, ma per alcuni può essere esteso sino all’ XI secolo;
Il MEDIOEVO CENTRALE che comprende i secoli da X/XI sino al XIII;
Il BASSO MEDIOEVO, che comprende i secoli XIV e XV.
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Il castello di Gambatesa, ubicato ai margini del centro storico, domina la
valle del Tappino verso la quale protende le sue torri angolari a base
quadrangolare. Riferimenti storici relativi al castello mancano. Il primo
intervento riguardò la realizzazione di un corpo di fabbrica che andò ad
innestarsi sulla metà esterna del lato nord della torre, rispetto alla quale,
divergeva lievemente verso est. Successivamente fu realizzata l’ala ad
ovest che, sovrapponendosi a questo lato del torrione, conferì all’insieme
la caratteristica forma planimetrica a “forcina”. Allo stesso periodo
risalgono le due torri angolari. Dopo il 1484, quando il feudo era affidato ai
signori della famiglia Di Capua, fu realizzato sul versante nord un corpo di
fabbrica e il castello fu modificato nella divisione degli spazi interni e le
facciate si arricchirono di nuove aperture con pregevoli incorniciature in
pietra.
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Il castello di Gambatesa si caratterizza per un ricco ciclo di
affreschi che si dispiega sulle pareti del primo piano e
probabilmente, a giudicare dai frammenti decorativi superstiti,
anche al piano superiore. L’iscrizione apposta su una delle
porte del salone del castello riporta il nome dell’artista
pittorico: “Donatus omnia elaboravit”. Si tratta di Donato di
Cupertino operante nel 1550 sotto Vincenzo di Capua duca di
Termoli.
L’entrata del castello presenta un androne con coperture a tre
volte, di cui una soltanto conserva l’affresco raffigurante nelle
vele una serie di scene mitologiche, fra le quali in particolare si
sottolinea il “ratto d’ Europa”, e lungo i costoloni, festoni di fiori
e di frutti. Attraverso un breve passaggio con volte dipinte a
motivi a stella, si accede al salone principale interamente
affrescato sui quattro lati con scene mitologiche.
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Dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente (476),
l’Italia Meridionale - come tutto il resto della Penisola –
conosce prima l’occupazione dei Goti e poi l’annessione
all’Impero Romano d’Oriente (Impero Bizantino), dopo
una guerra lunga e sanguinosa (guerra greco/gotica 535–
553). Questi eventi, sebbene portino a cambiamenti
sostanziali nelle condizioni di vita delle popolazioni
italiane, in direzione di un generale impoverimento e di
una profonda disarticolazione del tessuto sociale, tuttavia
non mutano una condizione di fondo, stabilita oltre 500
anni prima : l’unità politico-amministrativa della Penisola.
Solo con l’arrivo dei Longobardi (a partire dal 568 ) si
spezza questa situazione e la frammentazione politica
sarà la condizione abituale dei territori italiani sino al XIX
secolo. Nelle regioni meridionali si forma, fra 570 e 580,
un nucleo longobardo indipendente, gravitante sulla città
di Benevento, caposaldo strategico delle comunicazioni
fra Adriatico e Tirreno.
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Nel corso del VII secolo, anche queste ultime vengono
erose dall’espansionismo longobardo, cosicché, intorno
al 700, restano in mano bizantina solo Napoli e i
dintorni, la Calabria centromeridionale e la punta
meridionale della Puglia (il Salento). I longobardi
beneventani, sottoposti a un duca, si avviano a
diventare padroni dell’ intero Meridione ,quando, fra 770
e 780 ,un fatto nuovo scuote tutto il panorama politico
europeo: i Franchi, sotto la guida di
Carlo
Magno, intraprendono una serie di campagne militari
vittoriose che li portano, nel 774, anche ad invadere
l’Italia e a impadronirsi del regno longobardo e della
sua capitale, Pavia. Anche il ducato di Benevento è
sottoposto alla pressione dei Franchi e ne deve
riconoscere formalmente l’autorità, sebbene il
Meridione non sia mai oggetto di una vera e propria
conquista da parte di Carlo Magno.
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Il castello di Termoli fu edificato all’epoca di Federico II di Svevia, come un tempo dimostrava l’epigrafe
che andò smarrita durante la demolizione di una delle torri dei contrafforti. Su di essa era scritto che
Federico II aveva fatto costruire la fortezza nel 1247, sette anni dopo il saccheggio condotto dai Veneziani
sulla costa molisana. Secondo alcuni studiosi la sua costruzione risalirebbe alle seconda metà del VI
secolo d. C., nel momento in cui la città entrò a far parte del Ducato di Benevento, ma non si hanno di ciò
prove archeologiche. Durante la dominazione normanna Termoli fu dotata di un porto che assunse una
certa importanza strategica e che fu potenziato in epoca angioina. Il castello di Termoli, meglio definito
“ Torre castellata”, si presenta oggi come un bastione fortificato proteso verso l’Adriatico, racchiuso da
una cinta muraria con una apertura in corrispondenza dall’ accesso dalla terraferma, e difeso da una torre
di vedetta del XIII secolo.
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La torre quadrata si innalza sullo
spigolo nordovest dell’antica cinta
muraria della città, terminante agli
angoli con quattro piccole torri
cilindriche di vedetta. In epoche
posteriori il castello perse in parte il
ruolo di opera essenzialmente
militare; ciò avvenne quando,
affermatosi il dominio spagnolo e
ridotti notevolmente i pericoli interni
ed esterni, cominciò per la costa
adriatica un periodo di relativa calma
e quindi di progressivo disuso per le
opere belliche. Alle pareti vennero
sovrapposte decorazioni, furono
aperte finestre e allargate feritoie. Le
famiglie feudatarie furono i Di
Capua, i D ‘Angio, i Durazzo, i
Gambatesa, i Pappacoda, i Pignatelli
e i Cattaneo. Oggi è di proprietà
comunale ed è sede di una stazione
metereologica
dell’ Aeronautica
Militare.
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A partire dal IX secolo, in seguito alle invasioni, alle guerre e alle
scorrerie di predoni che minacciavano l‘Occidente, l’Europa si
riempì di nuove costruzioni fortificate, il cui primo scopo era la
difesa. Gli storici hanno chiamato questo fenomeno
“incastellamento”. In queste costruzioni trovavano rifugio, in caso
di guerra, gli abitanti delle campagne e dei villaggi dei dintorni.
I primi castelli erano costituiti da semplici palizzate di legno
circondate da un fossato. Grosse torri stavano a una certa
distanza tra loro lungo il perimetro esterno. Nel centro sorgeva
invece un’alta costruzione, anche essa di legno: il maschio o
mastio, posto nel punto più elevato. Esso ospitava gli ambienti più
importanti del castello: la torre di guardia, l’abitazione del
castellano, la prigione e la sala del tesoro. Non vi era accesso dal
pianterreno: la porta si trovava a diversi metri di altezza dal suolo,
per cui si poteva entrare soltanto attraverso un ponte volante o
una scala portatile. In caso di allarme, era facile impedire
l’ingresso ai nemici. Solo verso la fine del X secolo si
cominciarono a costruire castelli in pietra e la tecnica edilizia si
perfezionò nel corso del XII e XIII secolo. I castelli diventarono
allora vere e proprie fortezze, vaste come città, sapientemente
organizzate e ben difese.
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La fortezza era circondata dal muro
dotato di merli e torri di guardia. Al di
fuori scorreva un fossato profondo.
Porte a saracinesca e ponti levatoi
permettevano l’accesso all’interno. In
caso di attacco, dalle mura e dalle torri si
potevano lanciare facilmente pietre e olio
bollente sui nemici.
All’interno del grande recinto lo spazio
era di solito diviso in due cortili: uno, più
piccolo, circondava il mastio; l’altro, più
ampio, conteneva gli edifici, addossati gli
uni agli altri: le case dei servi, le
scuderie, i magazzini e la cappella. Un
muro merlato separava i due cortili per
rafforzare la difesa del mastio in caso di
aggressione. All’esterno del muro
perimetrale si trovava un sentiero, la
“lizza”, dove, in caso di assedio, i soldati
facevano la guardia giorno e notte.
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La dimora del castellano
La dimora del castellano medievale aveva scale e corridoi stretti, piccole finestre senza vetri, pavimenti
ricoperti di paglia o di stuoie, un mobilio essenziale. Essa si sviluppava in verticale: al primo piano si trovava
la grande sala dove il signore dava udienza, amministrava la giustizia, riceveva gli ospiti e spesso
accoglieva musicisti e menestrelli; al secondo erano collocate le stanze private del castellano e di sua
moglie; al terzo e al quarto quelle dei figli e dei camerieri. Le condizioni igieniche non erano certo invidiabili:
la mancanza di acqua corrente e di bagni era una cosa normale per il castellano come per il contadino. Il
sistema di riscaldamento era invece affidato a grandi bracieri e a focolari collocati in ogni stanza. Solo col
passare dei secoli il castello perse la sua originaria funzione difensiva e militare e divenne una dimora
signorile, lussuosa e riccamente arredata, con parchi, giardini, cortili e saloni per le feste e i ricevimenti dei
signori. Ma per tutto questo bisognerà attendere il XVI secolo.
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Il castello di Carpinone, sorto intorno al X secolo a picco sul fiume Carpino, fu raso al suolo ad opera di
Federico II di Svevia nel 1223. Successivamente, ricostruito nel XIV secolo per volere della famiglia
D’EVOLI, nel 1400 fu ampliato ed arricchito dal condottiero Giacomo Caldora e dopo di lui dal figlio Antonio
che prescelse il castello come sua abituale dimora. La battaglia di Sessano del 1442 per conto degli Angioini,
segnò il declino dei Caldora e portò il re aragonese Alfonso I tra gli spalti del maniero. Il re mostrò di
apprezzare molto il valore del capitano Antonio Caldora, nel cui castello fu ospite la sera stessa della battaglia
e non volle privarlo dei suoi beni. La dimora baronale del 1500, come descrive il Perrella, spesso ospitava i
convenuti ai vari tornei di caccia, organizzati nella valle e nei boschi circostanti ove si praticava anche la
caccia con il falcone. Danneggiato dai terremoti del 1456 e del 1805, attualmente il castello si presenta con
una pianta a pentagono irregolare, dominato da un frontale merlato tra le due torri cilindriche che si affacciano
sull’abitato e che seguono l’andamento del suolo roccioso. Recentemente l’edificio è stato restaurato e
modificato, soprattutto nella divisione degli spazi interni, dai privati che vi risiedono.
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Il castello era la residenza fortificata del
signore. Viverci non era confortevole, almeno a
giudicare con i criteri di oggi. Gli ambienti
riscaldati erano pochi. L’ acqua proveniva da un
pozzo situato nei sotterranei e i servizi igienici
erano scomodi, quando non mancavano del
tutto. Nelle stanze il mobilio era scarso. Oltre ai
letti che erano larghi e imponenti - potevano
ospitare diverse persone e a volte, per salirci era
necessaria una scaletta -, c’erano panche,
sgabelli e numerosi bauli in cui si riponevano
abiti, stoffe, biancheria e vasellame. Un robusto
forziere, ben protetto da serrature, custodiva il
tesoro del signore: oggetti preziosi e monete
d’argento. Le tavole per il pranzo non erano che
lunghe assi appoggiate su cavalletti che, dopo
l’uso, si accostavano alle pareti per guadagnare
spazio. L’ambiente principale del castello era la
sala, che nei castelli di pietra era riscaldata dal
fuoco del camino e illuminata da torce, lucerne e
candele. Grandi tappeti ornamentali, gli arazzi
erano appesi alle pareti per isolarle dal freddo
dell’esterno.
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Per la sua posizione di transito nel percorso che conduceva
verso l’entroterra del Sannio, Venafro ha sempre rappresentato
un anello di collegamento dal punto di vista difensivo dell’alta
Valle del Volturno. Posto a nord-est dell’area di inurbamento di
età romana, il castello assunse le forme tipiche di una
fortificazione-recinto intorno al X secolo. In questo periodo
Venafro era uno dei gastaldati del ducato di Benevento e quindi il
centro in cui agiva uno dei rappresentanti territoriali del duca.
Col trascorrere dei secoli fasi di intervento si alternarono a
momenti di stasi, come accade durante l’occupazione sveva,
periodo in cui Venafro fu privata dell’uso delle fortificazioni
subendo una totale distruzione del sito.
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Attualmente esso si presenta articolato intorno ad un
cortile rettangolare, da cui un tempo si accedeva agli
ambienti di servizio come magazzini, cisterne, forni,
cucine e mediante una scalinata ai piani superiori. Sono
evidenti delle torri cilindriche e delle cortine sul lato sud.
Di particolare importanza e` all’interno la ricca e
pregiata decorazione ad affresco. Essa si snoda su tutto
il piano nobile e il tema centrale e´ costituito da una
teoria di cavalli a grandezza naturale realizzati per
volere di Enrico Pandone che con la sua famiglia abitò
il castello nel corso della prima metà del XVI secolo.
L´episodio figurativo del castello Pandone rimane
isolato; non ci è giunta notizia di altri cicli
cinquecenteschi di soggetto religioso, nè di imprese
decorative nei palazzi abitati. Attualmente la
Soprintendenza sta completando i lavori di restauro
dell’intera struttura, anche se alcune sale sono aperte al
pubblico per la visita.
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La
storia
dei
cavalli
di
Venafro
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Enrico Pandone possedeva una scuderia con circa trecento cavalli di varie razze che
vendeva o regalava a personaggi insigni dell’Italia meridionale del tempo. Da questa sua
passione nasce un ciclo decorativo unico nel suo genere, che vede le stanze del piano
nobile del castello trasformarsi in una sorta di album fotografico, con una sfilata di immagini
di cavalli, scelti tra i favoriti del conte Enrico.
Artisti ignoti giungono tra il 1521 e il 1527, per dipingere stanza dopo stanza, a grandezza
naturale, gli esemplari più belli della scuderia, con una tecnica che rappresenta quasi un
unicum nella storia dell’arte: su un veloce disegno preparatorio le sagome dei cavalli sono
modellate in basso rilievo e poi dipinte ad affresco. Ognuna è caratterizzata dalla propria
sella e da eleganti finimenti, contrassegnati dal marchio a fuoco di Enrico - un rombo
inscritto in quadrato e sormontato da una croce con al centro la lettera H – e accompagnata
da un morso dipinto con dovizia di particolari. Ciascun cavallo è individuato da precise
annotazioni circa la razza, l’età e il nome. Tra tutti i cavalli spicca l’imponente esemplare
nominato San Giorgio, fatto pervenire da Enrico nell’ottobre del 1552 all’imperatore
Carlo V.
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La carriera del cavaliere cominciava nell’infanzia. Ancora bambino il figlio di
una nobile famiglia veniva inviato al castello di un potente signore dove
svolgeva funzioni di paggio(faceva piccoli servizi al signore e alle dame, li
accompagnava durante le uscite …).
Raggiunta l’adolescenza, diveniva scudiero e passava al servizio di un
cavaliere che scortava nelle battute di caccia e in guerra , portandogli le armi
sul campo di battaglia. Quando era ritenuto maturo, di solito fra i 15 e i 18
anni, veniva nominato cavaliere, nel corso di una solenne cerimonia. Il
giovane vi si preparava trascorrendo in preghiera la notte della vigilia. Il
giorno seguente, alla presenza di parenti e amici, un cavaliere più anziano o
lo stesso signore gli consegnava le armi che il vescovo aveva in precedenza
benedette: la spada ( a cui di solito dava un nome proprio, come a una
persona), l’elmo, la maglia di anelli di ferro, la lancia lunga, lo scudo e gli
speroni. Infine il signore lo colpiva con il piatto della spada sulla spalla o
sulla guancia ed egli sotto il colpo non doveva vacillare per dar prova di
resistenza e di coraggio. Il giovane cavaliere si poneva al servizio di un
signore oppure cominciava la sua nuova vita come cavaliere errante,
spostandosi di luogo in luogo in cerca di avventura, di gloria e di ricchezza.
Le occasioni migliori nel farsi conoscere e apprezzare erano i tornei, i
combattimenti-spettacolo, organizzati in occasione di feste,e, naturalmente,
gli scontri in battaglia. Tutto vestito di ferro, ben saldo sulle staffe che gli
garantivano buon equilibrio, brandendo la lunga lancia, il cavaliere costituiva,
insieme con il cavallo, un terribile strumento d’urto. L’armatura che lo
ricopriva da capo a piedi rendeva però difficile riconoscerlo e ciò in battaglia
poteva essere molto pericoloso.
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Perciò, dal secolo XII, i cavalieri fecero dipingere o
applicare sugli elmi e sugli scudi simboli e fondi di
colore che permettevano di distinguerli e che
venivano trasmessi di padre in figlio. Nacquero così
i primi stemmi, cioè immagini a forma di scudo che
contenevano i colori della famiglia, accompagnati da
una breve frase significativa
(il motto). Le
imprese cavalleresche furono
celebrate in
numerose canzoni di gesta , poemi epici in cui i
cavalieri appaiono sempre come campioni di
coraggio, lealtà, devozione religiosa, generosità
verso il nemico. La realtà fu spesso diversa. Per
lungo tempo, almeno per tutto il X e per gran parte
dell’ XI secolo, i cavalieri non si comportarono molto
diversamente dai briganti e usarono la loro forza per
terrorizzare, opprimere, rapinare e aggredire la
popolazione indifesa. Per vincere o almeno limitare
la violenza dilagante, la Chiesa cercò di diffondere
ideali nuovi e propose ai cavalieri il compito di
mantenere la pace fra il popolo cristiano e di
proteggere i deboli, i poveri, gli indifesi. Istituì inoltre
le cosiddette paci di Dio e tregue di Dio, proibendo
ogni tipo di combattimento contro persone disarmate
(ad esempio, i chierici), in certi luoghi (ospizi,
mercati) e in certi periodi dell’anno.
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Nei Regesti Angioini del1320 viene citata una località chiamata “ROCCA PIPEROCII”, da identificare senza
dubbio con l’attuale centro fortificato. La rocca sorge al centro del paese e l’impianto perimetrale ha una forma
irregolare condizionata dall’andamento naturale dello sperone di roccia sul quale si sviluppa. La torre cilindrica
costituisce l’elemento più appariscente del complesso difensivo. Questa prima fase si fa risalire agli inizi del XVI
secolo, mentre a qualche decennio successivo risale l’incamiciamento turrito con la braga merlata, che ha la
semplice funzione di antemurale della torre cilindrica detta “Maschio”. Una torre angolare su base scarpata è
situata sullo spigolo meridionale della struttura e serviva da protezione laterale ad una porta secondaria. Dal
piano di calpestio non era possibile accedere direttamente al Maschio, non essendo esistente alcuna apertura.
Il collegamento avveniva con una scala retrattile esterna, che si univa ad un ingresso situato al livello del
primo piano della torre. Un tempo la rocca, per la sua posizione geografica a confine del Lazio e della
Campania, rappresentava il perno della difesa e del controllo del territorio molisano. Il castello di
Roccapipirozzi, è di proprietà del comune, che ha elaborato una proposta per il consolidamento della cinta
muraria e la sistemazione dell’area circostante con percorsi pedonali e giardini.
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Il patrimonio del signore doveva rimanere per quanto possibile indiviso. Perciò le figlie erano escluse
dall’eredità e ricevevano solo una dote in caso di matrimonio. Fra i maschi se ne privilegiava soltanto uno - di
solito il primogenito - che si sposava e aveva figli; gli altri i cadetti, spesso rimanevano celibi o entravano in
convento. I figli maschi erano inviati, ancora bambini, presso un signore più potente del loro padre, perché
imparassero le regole della cortesia, cioè le buone maniere in uso presso le corti, e diventassero esperti
nell’arte militare. Da grandi avrebbero preso il posto del padre oppure sarebbero diventati abati, vescovi o
cavalieri. Le femmine, se erano poste in convento per risparmiare sulla dote, venivano maritate giovanissime
con qualcuno scelto dal padre per rinforzare le alleanze familiari:per il fidanzamento era sufficiente che gli sposi
avessero compiuto 7 anni, ma si combinavano matrimoni anche fra più piccoli. Una volta maritate, il loro
compito era di mettere al mondo numerosi figli, perché le famiglie più nobili volevano garantirsi degli eredi:se la
sposa era sterile il marito poteva ripudiarla.
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Uno dei castelli più belli del Molise, sia per quanto
riguarda la struttura architettonica che per lo stato di
conservazione e la posizione. Durante la dominazione
normanna e sveva, Monteroduni fu feudo della casa
comitale del Molise, che la teneva come una delle
maggiori piazzeforti della contea. Il castello si presenta
oggi con la sua imponente struttura, le robuste torri
cilindriche e le cortine murarie, merlate, in conci di
pietra calcarea. La costruzione di un primo nucleo
fortificato, si fa risalire all’epoca longobarda, di certo la
fortezza già esisteva nel XII secolo. Nella prima metà
del XVI secolo, all’epoca dei D’Afflitto, finì con il
perdere l’originario aspetto militare per trasfomarsi
parzialmente in struttura residenziale, subendo diversi
interventi di abbellimento. Il castello fu sede di
esattoria delle imposte di pedaggio, come dimostra
una lapide del 1570, che elenca i dazi da pagare per
uscire dallo stato napoletano. La struttura planimetrica
presenta una forma trapezoidale e l’ingresso principale
si apre su un giardino. Nella sala di rappresentanza è
ancora presente la pavimentazione in cotto originale
con lo stemma della famiglia Pignatelli della Leonessa,
ultimi feudatari del castello. Nella sala si trova un
grandioso camino marmoreo e un soffitto ligneo
dipinto a tempera con motivi cavallereschi.
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Al castello le donne conducevano una vita ritirata.
Passavano il tempo chiacchierando, cantando,
narrandosi novelle, ma soprattutto lavorando:
filavano,
tessevano,
confezionavano
abiti,
lavoravano a maglia.
Tutta la biancheria, i tessuti che abbellivano la
sala, la camera, la cappella, gli arazzi alle pareti –
che a volte erano veri capolavori – erano opera
delle loro mani. Purtroppo la stoffa è un materiale
deperibile e di tanto lavoro femminile la massima
parte è andata distrutta. Sulle donne del castello
esercitava la sua autorità la sposa del signore, la
castellana.
Ella doveva provvedere al buon andamento della
vita nel castello, dirigere il lavoro dei servi e delle
serve, controllare che le provviste fossero
sufficienti e i magazzini ben forniti. Se il marito era
assente, la castellana doveva
sostituirlo
nell’amministrazione delle terre e se egli cadeva
prigioniero doveva occuparsi di raccogliere il
denaro necessario per il riscatto.
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L’epoca dell’edificazione del castello di Trivento, non è
nota.
Trivento dopo il periodo sannitico, fu elevato dai
romani a “Municipium”.
Dopo la caduta dell’Impero romano non si hanno
notizie di distruzioni ragione per cui è da ritenersi che
nel tempo vi sia stata una continuità abitativa del
luogo, e che già nell’alto medioevo vi dovette essere
edificato il castello a difesa della popolazione dalle
invasioni barbariche e saracene. Il castello era
circondato sul lato ovest da una profonda vallata
naturale, inattaccabile, mentre negli altri lati vi erano
impiantate torri merlate, bastioni, ponte levatoio, da
molti secoli non più esistenti. Nell’interno una serie di
trabocchetti, saracinesche e cunicoli sotterranei
segreti, immettenti all’aperto nella profonda vallata
occidentale in uscite ben dissimulate nel caso di
forzata ritirata. Insomma un sistema difensivo
complesso e poderoso.
Le prime notizie storiche risalgono quindi all’alto
medioevo, epoca in cui Trivento apparteneva al ducato
longobardo prima, al principato poi, di Benevento.
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Nel successivo periodo normanno, intorno al 1130, il castello, fu
assediato ed espugnato dai soldati di Ruggiero. Salirono i normanni
all’assalto, e dopo non poco sangue, il castello cadde in loro potere.
Dopo la sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento (1266) e la
conquista militare del regno di Napoli da parte di Carlo I° D’Angiò, la
contea di Trivento fu concessa dal vincitore come premio per l’aiuto
ricevuto, ad Ansaldo di Lavanderia della cui persona tacciono
cronisti e storici. Verosimilmente morì senza eredi ed il feudo tornò al
demanio. Dopo il 1347 il contado passò alla famiglia Pipino, di stirpe
francese, venuta anch’essa al seguito di Carlo I° D’Angiò.
Dopo un lungo avvicendamento al potere, la contea di Trivento con
diploma del 1465 del D’Aragona re Alfonso, fu data in feudo a
Calzerano Requesenz di famiglia patrizia catalana.
Per secoli la contea di Trivento fu in mano ai nobili della famiglia
D’Afflitto fino all’ultimo erede.
Nicola in vita ancora nel 1807 alienò il palazzo comitale, ormai da
tempo non più castello, a favore dei signori Colaneri, i cui eredi sono
gli attuali proprietari.
Carlo I° D’Angiò
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Il castello Manforte, ha una pianta quadrata, domina dall’alto di una collina la città di Campobasso. Alcuni
storici lo ritengono edificato durante la dominazione longobarda e fortificato durante quella normanna dai conti
del Molise, altri lo considerano del 1458, fatto costruire da Cola Monforte, feudatario di Campobasso. Il
castello oggi ha una pianta rettangolare, basi di torri sui tre spigoli e il maschio quadrato. Inoltre presenta
poche finestre quadrate e un ingresso con ponte levatoio sul lato meridionale. Oggi nell’ala opposta al ponte
levatoio c’è il sacrario dei caduti in guerra. Attualmente proprietario del castello è il Comune di Campobasso.
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In età feudale le donne erano sottomesse per tutta la vita ad
un uomo: il padre, il marito, il fratello..…
Sappiamo però di figlie femmine che, in mancanza di fratelli,
ereditarono feudi, prestarono giuramenti di vassallaggio e
seppero difendere con le armi il castello assediato dai nemici.
Altre, entrate in convento e divenute badesse, amministrarono
con energia vasti territori e godettero di un potere simile a
quello dei signori feudali.
Le monache potevano ricevere una buona istruzione: alcune
opere letterarie ancora oggi apprezzate per la loro originalità
furono scritte fra il X e il XII secolo da donne vissute in
convento.
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Soprattutto tra il XII e il XV secolo, si diffusero i tornei, detti anche “giostre”
o “caroselli”, spettacoli militari costituiti da duelli tra cavalieri: duelli singoli
o a squadre. Non sappiamo esattamente quando e perché nacquero.
Probabilmente derivarono da un’usanza di età longobarda, quella del
“giudizio di Dio”, secondo la quale per risolvere una questione, si stabiliva
che i due contendenti si affrontassero, poiché si credeva che Dio avrebbe
donato la vittoria a chi aveva ragione. Verso il 1000, i tornei servirono forse
come addestramento in vista di scontri militari cruenti. Verso il 1150, essi
divennero veri e propri spettacoli. Si affermarono dei veri professionisti del
combattimento che divennero popolari e contesi dal pubblico. Talvolta gli
scontri degeneravano e divennero causa di morte, per questo verso il 1300
la Chiesa e i sovrani cercarono di vietarli ma essi continuarono sino alla
metà del XVI secolo.
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I castelli del Molise
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Il medioevo, come epoca storica a sé
stante, e una creazione degli storici
che, a partire dal Rinascimento,
hanno guardato al lungo intervallo di
tempo trascorso dalla fine dell’impero
Romano d’occidente sino ai loro
giorni, come un lungo intervallo
durante il quale la “civiltà” si era
dapprima
oscurata,
e
quindi
faticosamente ricostruita, attraverso
un faticoso itinerario di fuoriuscita
dall’ignoranza e dalla superstizione.
Con il procedere degli studi storici, fra XVII e XX secolo, si è progressivamente compreso
come un cosi lungo arco di secoli racchiuda in sé situazioni e condizioni politiche,
economiche e culturali molto diverse tra loro, che differiscono non solo per ragioni
cronologiche, ma anche a seconda dei diversi contesti geografici. Si possono individuare
almeno tre ripartizioni cronologiche ulteriori:
L’ALTO MEDIOEVO, che comprende il periodo tra la fine dell’ Impero Romano e, grosso
modo, il X secolo, ma per alcuni può essere esteso sino all’ XI secolo;
Il MEDIOEVO CENTRALE che comprende i secoli da X/XI sino al XIII;
Il BASSO MEDIOEVO, che comprende i secoli XIV e XV.
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Il castello di Gambatesa, ubicato ai margini del centro storico, domina la
valle del Tappino verso la quale protende le sue torri angolari a base
quadrangolare. Riferimenti storici relativi al castello mancano. Il primo
intervento riguardò la realizzazione di un corpo di fabbrica che andò ad
innestarsi sulla metà esterna del lato nord della torre, rispetto alla quale,
divergeva lievemente verso est. Successivamente fu realizzata l’ala ad
ovest che, sovrapponendosi a questo lato del torrione, conferì all’insieme
la caratteristica forma planimetrica a “forcina”. Allo stesso periodo
risalgono le due torri angolari. Dopo il 1484, quando il feudo era affidato ai
signori della famiglia Di Capua, fu realizzato sul versante nord un corpo di
fabbrica e il castello fu modificato nella divisione degli spazi interni e le
facciate si arricchirono di nuove aperture con pregevoli incorniciature in
pietra.
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Il castello di Gambatesa si caratterizza per un ricco ciclo di
affreschi che si dispiega sulle pareti del primo piano e
probabilmente, a giudicare dai frammenti decorativi superstiti,
anche al piano superiore. L’iscrizione apposta su una delle
porte del salone del castello riporta il nome dell’artista
pittorico: “Donatus omnia elaboravit”. Si tratta di Donato di
Cupertino operante nel 1550 sotto Vincenzo di Capua duca di
Termoli.
L’entrata del castello presenta un androne con coperture a tre
volte, di cui una soltanto conserva l’affresco raffigurante nelle
vele una serie di scene mitologiche, fra le quali in particolare si
sottolinea il “ratto d’ Europa”, e lungo i costoloni, festoni di fiori
e di frutti. Attraverso un breve passaggio con volte dipinte a
motivi a stella, si accede al salone principale interamente
affrescato sui quattro lati con scene mitologiche.
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Dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente (476),
l’Italia Meridionale - come tutto il resto della Penisola –
conosce prima l’occupazione dei Goti e poi l’annessione
all’Impero Romano d’Oriente (Impero Bizantino), dopo
una guerra lunga e sanguinosa (guerra greco/gotica 535–
553). Questi eventi, sebbene portino a cambiamenti
sostanziali nelle condizioni di vita delle popolazioni
italiane, in direzione di un generale impoverimento e di
una profonda disarticolazione del tessuto sociale, tuttavia
non mutano una condizione di fondo, stabilita oltre 500
anni prima : l’unità politico-amministrativa della Penisola.
Solo con l’arrivo dei Longobardi (a partire dal 568 ) si
spezza questa situazione e la frammentazione politica
sarà la condizione abituale dei territori italiani sino al XIX
secolo. Nelle regioni meridionali si forma, fra 570 e 580,
un nucleo longobardo indipendente, gravitante sulla città
di Benevento, caposaldo strategico delle comunicazioni
fra Adriatico e Tirreno.
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Nel corso del VII secolo, anche queste ultime vengono
erose dall’espansionismo longobardo, cosicché, intorno
al 700, restano in mano bizantina solo Napoli e i
dintorni, la Calabria centromeridionale e la punta
meridionale della Puglia (il Salento). I longobardi
beneventani, sottoposti a un duca, si avviano a
diventare padroni dell’ intero Meridione ,quando, fra 770
e 780 ,un fatto nuovo scuote tutto il panorama politico
europeo: i Franchi, sotto la guida di
Carlo
Magno, intraprendono una serie di campagne militari
vittoriose che li portano, nel 774, anche ad invadere
l’Italia e a impadronirsi del regno longobardo e della
sua capitale, Pavia. Anche il ducato di Benevento è
sottoposto alla pressione dei Franchi e ne deve
riconoscere formalmente l’autorità, sebbene il
Meridione non sia mai oggetto di una vera e propria
conquista da parte di Carlo Magno.
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Il castello di Termoli fu edificato all’epoca di Federico II di Svevia, come un tempo dimostrava l’epigrafe
che andò smarrita durante la demolizione di una delle torri dei contrafforti. Su di essa era scritto che
Federico II aveva fatto costruire la fortezza nel 1247, sette anni dopo il saccheggio condotto dai Veneziani
sulla costa molisana. Secondo alcuni studiosi la sua costruzione risalirebbe alle seconda metà del VI
secolo d. C., nel momento in cui la città entrò a far parte del Ducato di Benevento, ma non si hanno di ciò
prove archeologiche. Durante la dominazione normanna Termoli fu dotata di un porto che assunse una
certa importanza strategica e che fu potenziato in epoca angioina. Il castello di Termoli, meglio definito
“ Torre castellata”, si presenta oggi come un bastione fortificato proteso verso l’Adriatico, racchiuso da
una cinta muraria con una apertura in corrispondenza dall’ accesso dalla terraferma, e difeso da una torre
di vedetta del XIII secolo.
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La torre quadrata si innalza sullo
spigolo nordovest dell’antica cinta
muraria della città, terminante agli
angoli con quattro piccole torri
cilindriche di vedetta. In epoche
posteriori il castello perse in parte il
ruolo di opera essenzialmente
militare; ciò avvenne quando,
affermatosi il dominio spagnolo e
ridotti notevolmente i pericoli interni
ed esterni, cominciò per la costa
adriatica un periodo di relativa calma
e quindi di progressivo disuso per le
opere belliche. Alle pareti vennero
sovrapposte decorazioni, furono
aperte finestre e allargate feritoie. Le
famiglie feudatarie furono i Di
Capua, i D ‘Angio, i Durazzo, i
Gambatesa, i Pappacoda, i Pignatelli
e i Cattaneo. Oggi è di proprietà
comunale ed è sede di una stazione
metereologica
dell’ Aeronautica
Militare.
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A partire dal IX secolo, in seguito alle invasioni, alle guerre e alle
scorrerie di predoni che minacciavano l‘Occidente, l’Europa si
riempì di nuove costruzioni fortificate, il cui primo scopo era la
difesa. Gli storici hanno chiamato questo fenomeno
“incastellamento”. In queste costruzioni trovavano rifugio, in caso
di guerra, gli abitanti delle campagne e dei villaggi dei dintorni.
I primi castelli erano costituiti da semplici palizzate di legno
circondate da un fossato. Grosse torri stavano a una certa
distanza tra loro lungo il perimetro esterno. Nel centro sorgeva
invece un’alta costruzione, anche essa di legno: il maschio o
mastio, posto nel punto più elevato. Esso ospitava gli ambienti più
importanti del castello: la torre di guardia, l’abitazione del
castellano, la prigione e la sala del tesoro. Non vi era accesso dal
pianterreno: la porta si trovava a diversi metri di altezza dal suolo,
per cui si poteva entrare soltanto attraverso un ponte volante o
una scala portatile. In caso di allarme, era facile impedire
l’ingresso ai nemici. Solo verso la fine del X secolo si
cominciarono a costruire castelli in pietra e la tecnica edilizia si
perfezionò nel corso del XII e XIII secolo. I castelli diventarono
allora vere e proprie fortezze, vaste come città, sapientemente
organizzate e ben difese.
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La fortezza era circondata dal muro
dotato di merli e torri di guardia. Al di
fuori scorreva un fossato profondo.
Porte a saracinesca e ponti levatoi
permettevano l’accesso all’interno. In
caso di attacco, dalle mura e dalle torri si
potevano lanciare facilmente pietre e olio
bollente sui nemici.
All’interno del grande recinto lo spazio
era di solito diviso in due cortili: uno, più
piccolo, circondava il mastio; l’altro, più
ampio, conteneva gli edifici, addossati gli
uni agli altri: le case dei servi, le
scuderie, i magazzini e la cappella. Un
muro merlato separava i due cortili per
rafforzare la difesa del mastio in caso di
aggressione. All’esterno del muro
perimetrale si trovava un sentiero, la
“lizza”, dove, in caso di assedio, i soldati
facevano la guardia giorno e notte.
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La dimora del castellano
La dimora del castellano medievale aveva scale e corridoi stretti, piccole finestre senza vetri, pavimenti
ricoperti di paglia o di stuoie, un mobilio essenziale. Essa si sviluppava in verticale: al primo piano si trovava
la grande sala dove il signore dava udienza, amministrava la giustizia, riceveva gli ospiti e spesso
accoglieva musicisti e menestrelli; al secondo erano collocate le stanze private del castellano e di sua
moglie; al terzo e al quarto quelle dei figli e dei camerieri. Le condizioni igieniche non erano certo invidiabili:
la mancanza di acqua corrente e di bagni era una cosa normale per il castellano come per il contadino. Il
sistema di riscaldamento era invece affidato a grandi bracieri e a focolari collocati in ogni stanza. Solo col
passare dei secoli il castello perse la sua originaria funzione difensiva e militare e divenne una dimora
signorile, lussuosa e riccamente arredata, con parchi, giardini, cortili e saloni per le feste e i ricevimenti dei
signori. Ma per tutto questo bisognerà attendere il XVI secolo.
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Il castello di Carpinone, sorto intorno al X secolo a picco sul fiume Carpino, fu raso al suolo ad opera di
Federico II di Svevia nel 1223. Successivamente, ricostruito nel XIV secolo per volere della famiglia
D’EVOLI, nel 1400 fu ampliato ed arricchito dal condottiero Giacomo Caldora e dopo di lui dal figlio Antonio
che prescelse il castello come sua abituale dimora. La battaglia di Sessano del 1442 per conto degli Angioini,
segnò il declino dei Caldora e portò il re aragonese Alfonso I tra gli spalti del maniero. Il re mostrò di
apprezzare molto il valore del capitano Antonio Caldora, nel cui castello fu ospite la sera stessa della battaglia
e non volle privarlo dei suoi beni. La dimora baronale del 1500, come descrive il Perrella, spesso ospitava i
convenuti ai vari tornei di caccia, organizzati nella valle e nei boschi circostanti ove si praticava anche la
caccia con il falcone. Danneggiato dai terremoti del 1456 e del 1805, attualmente il castello si presenta con
una pianta a pentagono irregolare, dominato da un frontale merlato tra le due torri cilindriche che si affacciano
sull’abitato e che seguono l’andamento del suolo roccioso. Recentemente l’edificio è stato restaurato e
modificato, soprattutto nella divisione degli spazi interni, dai privati che vi risiedono.
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Il castello era la residenza fortificata del
signore. Viverci non era confortevole, almeno a
giudicare con i criteri di oggi. Gli ambienti
riscaldati erano pochi. L’ acqua proveniva da un
pozzo situato nei sotterranei e i servizi igienici
erano scomodi, quando non mancavano del
tutto. Nelle stanze il mobilio era scarso. Oltre ai
letti che erano larghi e imponenti - potevano
ospitare diverse persone e a volte, per salirci era
necessaria una scaletta -, c’erano panche,
sgabelli e numerosi bauli in cui si riponevano
abiti, stoffe, biancheria e vasellame. Un robusto
forziere, ben protetto da serrature, custodiva il
tesoro del signore: oggetti preziosi e monete
d’argento. Le tavole per il pranzo non erano che
lunghe assi appoggiate su cavalletti che, dopo
l’uso, si accostavano alle pareti per guadagnare
spazio. L’ambiente principale del castello era la
sala, che nei castelli di pietra era riscaldata dal
fuoco del camino e illuminata da torce, lucerne e
candele. Grandi tappeti ornamentali, gli arazzi
erano appesi alle pareti per isolarle dal freddo
dell’esterno.
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Per la sua posizione di transito nel percorso che conduceva
verso l’entroterra del Sannio, Venafro ha sempre rappresentato
un anello di collegamento dal punto di vista difensivo dell’alta
Valle del Volturno. Posto a nord-est dell’area di inurbamento di
età romana, il castello assunse le forme tipiche di una
fortificazione-recinto intorno al X secolo. In questo periodo
Venafro era uno dei gastaldati del ducato di Benevento e quindi il
centro in cui agiva uno dei rappresentanti territoriali del duca.
Col trascorrere dei secoli fasi di intervento si alternarono a
momenti di stasi, come accade durante l’occupazione sveva,
periodo in cui Venafro fu privata dell’uso delle fortificazioni
subendo una totale distruzione del sito.
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Attualmente esso si presenta articolato intorno ad un
cortile rettangolare, da cui un tempo si accedeva agli
ambienti di servizio come magazzini, cisterne, forni,
cucine e mediante una scalinata ai piani superiori. Sono
evidenti delle torri cilindriche e delle cortine sul lato sud.
Di particolare importanza e` all’interno la ricca e
pregiata decorazione ad affresco. Essa si snoda su tutto
il piano nobile e il tema centrale e´ costituito da una
teoria di cavalli a grandezza naturale realizzati per
volere di Enrico Pandone che con la sua famiglia abitò
il castello nel corso della prima metà del XVI secolo.
L´episodio figurativo del castello Pandone rimane
isolato; non ci è giunta notizia di altri cicli
cinquecenteschi di soggetto religioso, nè di imprese
decorative nei palazzi abitati. Attualmente la
Soprintendenza sta completando i lavori di restauro
dell’intera struttura, anche se alcune sale sono aperte al
pubblico per la visita.
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La
storia
dei
cavalli
di
Venafro
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Enrico Pandone possedeva una scuderia con circa trecento cavalli di varie razze che
vendeva o regalava a personaggi insigni dell’Italia meridionale del tempo. Da questa sua
passione nasce un ciclo decorativo unico nel suo genere, che vede le stanze del piano
nobile del castello trasformarsi in una sorta di album fotografico, con una sfilata di immagini
di cavalli, scelti tra i favoriti del conte Enrico.
Artisti ignoti giungono tra il 1521 e il 1527, per dipingere stanza dopo stanza, a grandezza
naturale, gli esemplari più belli della scuderia, con una tecnica che rappresenta quasi un
unicum nella storia dell’arte: su un veloce disegno preparatorio le sagome dei cavalli sono
modellate in basso rilievo e poi dipinte ad affresco. Ognuna è caratterizzata dalla propria
sella e da eleganti finimenti, contrassegnati dal marchio a fuoco di Enrico - un rombo
inscritto in quadrato e sormontato da una croce con al centro la lettera H – e accompagnata
da un morso dipinto con dovizia di particolari. Ciascun cavallo è individuato da precise
annotazioni circa la razza, l’età e il nome. Tra tutti i cavalli spicca l’imponente esemplare
nominato San Giorgio, fatto pervenire da Enrico nell’ottobre del 1552 all’imperatore
Carlo V.
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La carriera del cavaliere cominciava nell’infanzia. Ancora bambino il figlio di
una nobile famiglia veniva inviato al castello di un potente signore dove
svolgeva funzioni di paggio(faceva piccoli servizi al signore e alle dame, li
accompagnava durante le uscite …).
Raggiunta l’adolescenza, diveniva scudiero e passava al servizio di un
cavaliere che scortava nelle battute di caccia e in guerra , portandogli le armi
sul campo di battaglia. Quando era ritenuto maturo, di solito fra i 15 e i 18
anni, veniva nominato cavaliere, nel corso di una solenne cerimonia. Il
giovane vi si preparava trascorrendo in preghiera la notte della vigilia. Il
giorno seguente, alla presenza di parenti e amici, un cavaliere più anziano o
lo stesso signore gli consegnava le armi che il vescovo aveva in precedenza
benedette: la spada ( a cui di solito dava un nome proprio, come a una
persona), l’elmo, la maglia di anelli di ferro, la lancia lunga, lo scudo e gli
speroni. Infine il signore lo colpiva con il piatto della spada sulla spalla o
sulla guancia ed egli sotto il colpo non doveva vacillare per dar prova di
resistenza e di coraggio. Il giovane cavaliere si poneva al servizio di un
signore oppure cominciava la sua nuova vita come cavaliere errante,
spostandosi di luogo in luogo in cerca di avventura, di gloria e di ricchezza.
Le occasioni migliori nel farsi conoscere e apprezzare erano i tornei, i
combattimenti-spettacolo, organizzati in occasione di feste,e, naturalmente,
gli scontri in battaglia. Tutto vestito di ferro, ben saldo sulle staffe che gli
garantivano buon equilibrio, brandendo la lunga lancia, il cavaliere costituiva,
insieme con il cavallo, un terribile strumento d’urto. L’armatura che lo
ricopriva da capo a piedi rendeva però difficile riconoscerlo e ciò in battaglia
poteva essere molto pericoloso.
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Perciò, dal secolo XII, i cavalieri fecero dipingere o
applicare sugli elmi e sugli scudi simboli e fondi di
colore che permettevano di distinguerli e che
venivano trasmessi di padre in figlio. Nacquero così
i primi stemmi, cioè immagini a forma di scudo che
contenevano i colori della famiglia, accompagnati da
una breve frase significativa
(il motto). Le
imprese cavalleresche furono
celebrate in
numerose canzoni di gesta , poemi epici in cui i
cavalieri appaiono sempre come campioni di
coraggio, lealtà, devozione religiosa, generosità
verso il nemico. La realtà fu spesso diversa. Per
lungo tempo, almeno per tutto il X e per gran parte
dell’ XI secolo, i cavalieri non si comportarono molto
diversamente dai briganti e usarono la loro forza per
terrorizzare, opprimere, rapinare e aggredire la
popolazione indifesa. Per vincere o almeno limitare
la violenza dilagante, la Chiesa cercò di diffondere
ideali nuovi e propose ai cavalieri il compito di
mantenere la pace fra il popolo cristiano e di
proteggere i deboli, i poveri, gli indifesi. Istituì inoltre
le cosiddette paci di Dio e tregue di Dio, proibendo
ogni tipo di combattimento contro persone disarmate
(ad esempio, i chierici), in certi luoghi (ospizi,
mercati) e in certi periodi dell’anno.
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Nei Regesti Angioini del1320 viene citata una località chiamata “ROCCA PIPEROCII”, da identificare senza
dubbio con l’attuale centro fortificato. La rocca sorge al centro del paese e l’impianto perimetrale ha una forma
irregolare condizionata dall’andamento naturale dello sperone di roccia sul quale si sviluppa. La torre cilindrica
costituisce l’elemento più appariscente del complesso difensivo. Questa prima fase si fa risalire agli inizi del XVI
secolo, mentre a qualche decennio successivo risale l’incamiciamento turrito con la braga merlata, che ha la
semplice funzione di antemurale della torre cilindrica detta “Maschio”. Una torre angolare su base scarpata è
situata sullo spigolo meridionale della struttura e serviva da protezione laterale ad una porta secondaria. Dal
piano di calpestio non era possibile accedere direttamente al Maschio, non essendo esistente alcuna apertura.
Il collegamento avveniva con una scala retrattile esterna, che si univa ad un ingresso situato al livello del
primo piano della torre. Un tempo la rocca, per la sua posizione geografica a confine del Lazio e della
Campania, rappresentava il perno della difesa e del controllo del territorio molisano. Il castello di
Roccapipirozzi, è di proprietà del comune, che ha elaborato una proposta per il consolidamento della cinta
muraria e la sistemazione dell’area circostante con percorsi pedonali e giardini.
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Il patrimonio del signore doveva rimanere per quanto possibile indiviso. Perciò le figlie erano escluse
dall’eredità e ricevevano solo una dote in caso di matrimonio. Fra i maschi se ne privilegiava soltanto uno - di
solito il primogenito - che si sposava e aveva figli; gli altri i cadetti, spesso rimanevano celibi o entravano in
convento. I figli maschi erano inviati, ancora bambini, presso un signore più potente del loro padre, perché
imparassero le regole della cortesia, cioè le buone maniere in uso presso le corti, e diventassero esperti
nell’arte militare. Da grandi avrebbero preso il posto del padre oppure sarebbero diventati abati, vescovi o
cavalieri. Le femmine, se erano poste in convento per risparmiare sulla dote, venivano maritate giovanissime
con qualcuno scelto dal padre per rinforzare le alleanze familiari:per il fidanzamento era sufficiente che gli sposi
avessero compiuto 7 anni, ma si combinavano matrimoni anche fra più piccoli. Una volta maritate, il loro
compito era di mettere al mondo numerosi figli, perché le famiglie più nobili volevano garantirsi degli eredi:se la
sposa era sterile il marito poteva ripudiarla.
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Uno dei castelli più belli del Molise, sia per quanto
riguarda la struttura architettonica che per lo stato di
conservazione e la posizione. Durante la dominazione
normanna e sveva, Monteroduni fu feudo della casa
comitale del Molise, che la teneva come una delle
maggiori piazzeforti della contea. Il castello si presenta
oggi con la sua imponente struttura, le robuste torri
cilindriche e le cortine murarie, merlate, in conci di
pietra calcarea. La costruzione di un primo nucleo
fortificato, si fa risalire all’epoca longobarda, di certo la
fortezza già esisteva nel XII secolo. Nella prima metà
del XVI secolo, all’epoca dei D’Afflitto, finì con il
perdere l’originario aspetto militare per trasfomarsi
parzialmente in struttura residenziale, subendo diversi
interventi di abbellimento. Il castello fu sede di
esattoria delle imposte di pedaggio, come dimostra
una lapide del 1570, che elenca i dazi da pagare per
uscire dallo stato napoletano. La struttura planimetrica
presenta una forma trapezoidale e l’ingresso principale
si apre su un giardino. Nella sala di rappresentanza è
ancora presente la pavimentazione in cotto originale
con lo stemma della famiglia Pignatelli della Leonessa,
ultimi feudatari del castello. Nella sala si trova un
grandioso camino marmoreo e un soffitto ligneo
dipinto a tempera con motivi cavallereschi.
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Al castello le donne conducevano una vita ritirata.
Passavano il tempo chiacchierando, cantando,
narrandosi novelle, ma soprattutto lavorando:
filavano,
tessevano,
confezionavano
abiti,
lavoravano a maglia.
Tutta la biancheria, i tessuti che abbellivano la
sala, la camera, la cappella, gli arazzi alle pareti –
che a volte erano veri capolavori – erano opera
delle loro mani. Purtroppo la stoffa è un materiale
deperibile e di tanto lavoro femminile la massima
parte è andata distrutta. Sulle donne del castello
esercitava la sua autorità la sposa del signore, la
castellana.
Ella doveva provvedere al buon andamento della
vita nel castello, dirigere il lavoro dei servi e delle
serve, controllare che le provviste fossero
sufficienti e i magazzini ben forniti. Se il marito era
assente, la castellana doveva
sostituirlo
nell’amministrazione delle terre e se egli cadeva
prigioniero doveva occuparsi di raccogliere il
denaro necessario per il riscatto.
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L’epoca dell’edificazione del castello di Trivento, non è
nota.
Trivento dopo il periodo sannitico, fu elevato dai
romani a “Municipium”.
Dopo la caduta dell’Impero romano non si hanno
notizie di distruzioni ragione per cui è da ritenersi che
nel tempo vi sia stata una continuità abitativa del
luogo, e che già nell’alto medioevo vi dovette essere
edificato il castello a difesa della popolazione dalle
invasioni barbariche e saracene. Il castello era
circondato sul lato ovest da una profonda vallata
naturale, inattaccabile, mentre negli altri lati vi erano
impiantate torri merlate, bastioni, ponte levatoio, da
molti secoli non più esistenti. Nell’interno una serie di
trabocchetti, saracinesche e cunicoli sotterranei
segreti, immettenti all’aperto nella profonda vallata
occidentale in uscite ben dissimulate nel caso di
forzata ritirata. Insomma un sistema difensivo
complesso e poderoso.
Le prime notizie storiche risalgono quindi all’alto
medioevo, epoca in cui Trivento apparteneva al ducato
longobardo prima, al principato poi, di Benevento.
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Nel successivo periodo normanno, intorno al 1130, il castello, fu
assediato ed espugnato dai soldati di Ruggiero. Salirono i normanni
all’assalto, e dopo non poco sangue, il castello cadde in loro potere.
Dopo la sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento (1266) e la
conquista militare del regno di Napoli da parte di Carlo I° D’Angiò, la
contea di Trivento fu concessa dal vincitore come premio per l’aiuto
ricevuto, ad Ansaldo di Lavanderia della cui persona tacciono
cronisti e storici. Verosimilmente morì senza eredi ed il feudo tornò al
demanio. Dopo il 1347 il contado passò alla famiglia Pipino, di stirpe
francese, venuta anch’essa al seguito di Carlo I° D’Angiò.
Dopo un lungo avvicendamento al potere, la contea di Trivento con
diploma del 1465 del D’Aragona re Alfonso, fu data in feudo a
Calzerano Requesenz di famiglia patrizia catalana.
Per secoli la contea di Trivento fu in mano ai nobili della famiglia
D’Afflitto fino all’ultimo erede.
Nicola in vita ancora nel 1807 alienò il palazzo comitale, ormai da
tempo non più castello, a favore dei signori Colaneri, i cui eredi sono
gli attuali proprietari.
Carlo I° D’Angiò
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Il castello Manforte, ha una pianta quadrata, domina dall’alto di una collina la città di Campobasso. Alcuni
storici lo ritengono edificato durante la dominazione longobarda e fortificato durante quella normanna dai conti
del Molise, altri lo considerano del 1458, fatto costruire da Cola Monforte, feudatario di Campobasso. Il
castello oggi ha una pianta rettangolare, basi di torri sui tre spigoli e il maschio quadrato. Inoltre presenta
poche finestre quadrate e un ingresso con ponte levatoio sul lato meridionale. Oggi nell’ala opposta al ponte
levatoio c’è il sacrario dei caduti in guerra. Attualmente proprietario del castello è il Comune di Campobasso.
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In età feudale le donne erano sottomesse per tutta la vita ad
un uomo: il padre, il marito, il fratello..…
Sappiamo però di figlie femmine che, in mancanza di fratelli,
ereditarono feudi, prestarono giuramenti di vassallaggio e
seppero difendere con le armi il castello assediato dai nemici.
Altre, entrate in convento e divenute badesse, amministrarono
con energia vasti territori e godettero di un potere simile a
quello dei signori feudali.
Le monache potevano ricevere una buona istruzione: alcune
opere letterarie ancora oggi apprezzate per la loro originalità
furono scritte fra il X e il XII secolo da donne vissute in
convento.
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Soprattutto tra il XII e il XV secolo, si diffusero i tornei, detti anche “giostre”
o “caroselli”, spettacoli militari costituiti da duelli tra cavalieri: duelli singoli
o a squadre. Non sappiamo esattamente quando e perché nacquero.
Probabilmente derivarono da un’usanza di età longobarda, quella del
“giudizio di Dio”, secondo la quale per risolvere una questione, si stabiliva
che i due contendenti si affrontassero, poiché si credeva che Dio avrebbe
donato la vittoria a chi aveva ragione. Verso il 1000, i tornei servirono forse
come addestramento in vista di scontri militari cruenti. Verso il 1150, essi
divennero veri e propri spettacoli. Si affermarono dei veri professionisti del
combattimento che divennero popolari e contesi dal pubblico. Talvolta gli
scontri degeneravano e divennero causa di morte, per questo verso il 1300
la Chiesa e i sovrani cercarono di vietarli ma essi continuarono sino alla
metà del XVI secolo.
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