Rassegna stampa 6 febbraio 2017

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Transcript Rassegna stampa 6 febbraio 2017

RASSEGNA STAMPA di lunedì 6 febbraio 2017
SOMMARIO
“Se sua madre quella sera non fosse andata al cinema, o se in cartellone ci fosse stato
un qualsiasi altro film, Luca Mattei oggi non sarebbe vivo – racconta Lucia Bellaspiga
su Avvenire di ieri -. E nessuno (eccetto forse lei) lo piangerebbe morto: non sarebbe
neanche nato. Venuto al mondo per il rotto della cuffia, Luca era già pronto in rampa
di lancio per essere abortito, uno dei 100mila desaparecidos che ogni anno in Italia
spariscono in silenzio. La storia è sempre quella: un uomo che volta le spalle, una
donna sola, la maternità vista come un peso impossibile, l’illegalità di chi per legge (la
194) dovrebbe garantirle ogni supporto e invece emette un frettoloso certificato di
morte. «Mio padre se ne andò di casa appena seppe che mia madre mi aspettava –
racconta Luca, nato in Piemonte 35 anni fa –, così io crebbi senza di lui e a 7/8 anni
cominciai a sentirne forte la mancanza. Notavo che con mia sorella maggiore, che lo
aveva avuto in casa fino a 5 anni, per lo meno aveva un rapporto, con me nulla, il che
mi rendeva un bambino molto triste, anche se mia madre invece mi ricolmava di
attenzioni. Con l’adolescenza la mancanza del padre fece crescere in me una rabbia
ingestibile, che scaricavo contro l’innocente mia madre, non le parlavo, ero
aggressivo. Il motivo era che non sapevo più chi fossi io, senza quel punto di
riferimento...». A preservarlo da droga e alcol sono stati lo sport e il desiderio di non
veder piangere sua madre: «Giocavo a calcio e questo mi ha salvato, sfogavo tutto lì, e
poi vedevo l’estrema sofferenza con cui mia mamma discuteva con mia sorella quando
lei difendeva in lacrime quel padre che tanto le mancava, e io non volevo aggiungere
strazio a strazio». Finché un giorno di 20 anni fa lei non seppe più trattenere quella
verità covata a lungo: «Fosse stato per tuo padre tu oggi non saresti qui!», gli sbatté
in faccia in un momento di disperazione. Parole capaci di mordere il cuore. Che Luca
ormai perdona ma che allora rischiarono di ucciderlo. «Sbagliò, non puoi scaricare su
un ragazzino un rancore trattenuto per anni, ma oggi che vivo accanto ai bisognosi ho
imparato a guardare tutto con gli occhi della misericordia e la comprendo. Certo fu
atroce...». Quel giorno Luca apprese tutto d’un fiato che «nemmeno per un secondo
ero stato desiderato», di tutto era frutto fuorché dell’amore: nato da un rapporto
occasionale e distratto, quando i genitori si stavano già lasciando, era pure figlio di un
errore, «il preservativo si è rotto, così sei nato», gli disse la madre. Poi il rifiuto del
padre, «abortiscilo, cara mia, tanto io me ne vado». Per paradosso azzerare quel
bambino per cancellare ogni traccia di un amore mutato in odio diventava l’unico
punto di accordo tra i due. Se non che la sera prima di abortire (è il 1980) Anna entra
in un cinema. «Adoro questa cosa», si illumina il giovane a questo punto del racconto.
Proiettavano un film che in Italia s’intitolava Luca bambino mio e nell’originale
spagnolo Il Cristo nell’oceano, la storia di un bimbo che perde entrambi i genitori e
vive con uno zio alcolista. «Un giorno nel mare trova un crocifisso portato dalle onde
e lo nasconde in cantina – riassume Luca – e questo Cristo gli parla di amore, gli fa
scoprire che la vita è bella. È lì che mia madre ha avuto l’intuizione: se un bambino
può essere felice senza genitori, io che almeno una mamma l’avrei avuta perché non
potevo nascere? È uscita da quel cinema determinata a salvarmi e a chiamarmi come
lui». Luca è nato la Domenica delle Palme ed è stato la resurrezione di Anna. Dieci
anni fa ha cercato quel film e se lo è divorato scena per scena, ma da solo, «mi
vergognavo di vederlo con lei e mostrarle i miei sentimenti...». A dissipare pian piano
quella rabbia che dentro lo divorava sono stato i suoi amici, i disabili, quelli con cui
oggi vive in una struttura in cui accoglie settanta persone: «Grazie a mia madre, che
pure agnostica aveva uno spiccato senso del sociale, ho iniziato a frequentarli a 16
anni e sono cresciuto alla loro scuola, non mi stancherò mai di dirlo – spiega –. Mi
direte: cos’hai da imparare da un disabile? Sei tu che lo lavi, che lo vesti... Mi hanno
insegnato uno sguardo di stupore sulla vita. Io a 16 anni già non mi meravigliavo più di
niente, invece li osservavo e loro erano felici con poco. Quanto erano fortunati!». Se
fino a quel momento la consapevolezza di essere un aborto sopravvissuto gli scorreva
sottopelle, adesso tutto cambiava: «Finché ero centrato su me stesso la mia vita non
mi piaceva e che io fossi nato oppure no mi pareva ininfluente, ma con gli amici ho
trovato il sale nella mia vita e ho capito che esserci, al mondo, o non esserci non
sarebbe stata la stessa cosa. Ho un debito con loro, mi hanno donato lo stupore senza
bisogno di stupefacenti ». In dieci anni nella sua struttura sono passate anche 32
donne incinte, soprattutto ex schiave prostitute, convinte di dover abortire. Invece
sono nati 32 bambini”.
“Il governo giapponese - racconta l’Osservatore Romano in un servizio di Cristian
Martini Grimaldi - ha recentemente annunciato misure per ridurre la quantità di
straordinari che i dipendenti possono fare, nel tentativo di contrastare il fenomeno
delle morti da super lavoro (karoshi). In Giappone la morte da superlavoro non è
affatto un evento raro. Nel 2015 il governo ha ufficialmente riconosciuto circa 2000
casi e si stima un numero ancora maggiore per il 2016. Ma se karoshi è diventata una
parola ricorrente nei discorsi dei giapponesi lo si deve al caso di una ragazza
ventiquattrenne che si è tolta la vita prima di Natale. La giovane si era gettata dal
terzo piano della stanza del dormitorio nel quale viveva. I media internazionali non
hanno evidenziato abbastanza questo particolare. Il luogo del suicidio la dice lunga,
infatti, sul reale significato del lavoro per un giovane giapponese: mangiare e dormire
nello stesso posto dove si lavora (soprattutto nei primi anni dopo l’assunzione) è una
prassi quasi scontata. Il suicidio della ragazza è avvenuto in un’azienda tra l’altro già
tristemente famosa per il trattamento disumano a cui sottoponeva da anni i propri
dipendenti. Il grande clamore suscitato, e non solo in Giappone, da questo caso è
dovuto ad alcuni messaggi diventati virali sui social media. La giovane, che totalizzava
una media di 105 ore di straordinari al mese, aveva infatti condiviso su Twitter, senza
giri di parole ed eufemismi, il proprio stato d’animo: «Hanno deciso ancora una volta
che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita». Si
leggeva in uno dei suoi tweet poco prima di compiere il gesto estremo. Un sondaggio
del governo giapponese ha rivelato che un quinto dei dipendenti del paese deve
vedersela con il rischio di morte da superlavoro. Il 22,7 per cento delle imprese
impiegano personale che produce più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80
ore - circa quattro ore al giorno da aggiungere ai normali orari di ufficio - sono
ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di morte si moltiplica in
modo drammatico. Ma nel 12 per cento delle aziende i dipendenti producono ben
oltre le 100 ore mensili di straordinarie. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti
oberati di lavoro sono impiegati nel settore dell’It e delle comunicazioni, come in
quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto. Il governo sta
cercando di attuare un cambiamento di mentalità all’interno delle aziende per
incoraggiare maggiore flessibilità e, conseguentemente, ridurre lo stress. «Il Giappone
ha bisogno di ridurre le ore dedicate al lavoro allo scopo di indirizzare il tempo alla
famiglia, ai figli e anche alla cura degli anziani», ha ribadito recentemente un
portavoce dell’esecutivo. Il primo ministro, Shinzo Abe, e il suo governo alla ricerca di
un metodo efficace per imporre un limite allo straordinario stanno per varare un
sistema chiamato «Premium Venerdì». La campagna, guidata dalla Japan Business
Federation, permetterà ai lavoratori di lasciare presto l’ufficio l’ultimo venerdì di
ogni mese. Ma i critici di questa iniziativa non hanno tardato a farsi sentire, mettendo
in evidenza come con questa misura non si stabilisce in alcun modo un migliore
equilibrio tra ore dedicate alla propria vita privata e quelle destinate al lavoro, tanto
più che la Japan Business Federation ha relativamente pochi membri: 1300 aziende su
oltre 2,5 milioni di imprese registrate. Allo stesso tempo il Giappone si ritrova a
essere uno dei paesi al mondo meno generosi per quanto riguarda le ferie. I
dipendenti hanno mediamente diritto a dieci giorni di ferie pagate, ma a zero festività
nazionali retribuite (l’Australia, in confronto, offre 20 giorni di ferie pagate e otto
giorni di festività pubbliche pagate). Non solo. Molti lavoratori non utilizzano
nemmeno la metà dei giorni di ferie che hanno a disposizione. Allo stato attuale il
governo giapponese punta a ridurre la percentuale di dipendenti che lavorano più di
60 ore alla settimana a meno del cinque per cento della forza lavoro totale, ed entro
il 2020 (data non certo casuale, in quanto è l’anno delle Olimpiadi che si svolgeranno
a Tokyo, ovvero quando gli occhi di tutto il mondo saranno puntati sul paese) intende
convincere i lavoratori a prendersi almeno il 70 per cento delle vacanze a cui hanno
diritto. Ma il problema delle morti da superlavoro difficilmente potrà essere risolto
dall’alto: attraverso una legislazione tra l’altro già sperimentata in anni passati e con
scarsi risultati. Il karoshi è un problema che nasce innanzitutto dalle dinamiche sociali
all’interno della società giapponese: la pressione sociale in combinazione con il
desiderio di non deludere le aspettative da parte di familiari, colleghi e superiori
rende difficile convincere i lavoratori a compiere scelte più “salutari”. E lo è ancor di
più quando per tutta la vita è stato loro insegnato che ciò che conta non è il proprio
stato d’animo - di un progetto di vita vagamente felice neppure si parla - ma la
sicurezza materiale, ovvero ottenere un buon posto di lavoro e mantenerlo a tutti i
costi, anche i più estremi” (a.p.)
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag X Borbiago, associazioni a caccia di sponsor per i lavori di restauro della
torre campanaria di r.pas.
LA NUOVA
Pag 12 Giubileo, centinaia di religiosi in Basilica di n.d.l.
Celebrazione del Patriarca a San Marco
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 19 Giubileo con il patriarca per suor Margherita di Nadia De Lazzari
La religiosa, 70 anni di professione, vive a Cannaregio: “Sveglia alle 5.15, prego e
lavoro, così sono utile al prossimo”
3 – VITA DELLA CHIESA
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
Manifesti antipapali, tra pasquinate e attacchi a Paolo VI di Marco Roncalli
Quanto accaduto nei giorni scorsi non è una prima volta: nel 1978, dopo la morte di
Montini, apparvero cartelli firmati «Civiltà Cristiana» che chiedevano un «Papa cattolico»
SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister)
Ricambio in vista a Ferrara. Le nomine dei vescovi nell'era di Francesco
CORRIERE DELLA SERA
Pag 6 Il Papa: la maldicenza rovina la Chiesa di Gian Guido Vecchi
Ruini si schiera con Francesco: “Quei manifesti lontani dai sentimenti della gente”.
Rimossi da Roma i poster contro di lui. I sospetti della Santa Sede sui gruppi di destra
Pag 26 E’ il “fronte del silenzio” che preoccupa il Papa di Massimo Franco
Il caso dei manifesti anonimi
LA REPUBBLICA
Pag 7 Il Papa al Super Bowl in spagnolo sfida Donald con un videomessaggio di
Vittorio Zucconi
Pag 15 “Coprì gli abusi del prete pedofilo”, denuncia al Papa contro il cardinale
di Elena Affinito e Giorgio Ragnoli
L’arcivescovo di Napoli Sepe al centro dell’esposto di una vittima
AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016
Pag 4 L’economia di comunione contro la cultura dello scarto
Il Papa: il profitto fine a se stesso è idolatria
Pag 12 Manifesti anonimi contro il Papa a Roma, ma i passanti li strappano via
di Mimmo Muolo
Pag 19 Ordine di Malta, Becciu nominato delegato del Papa di Andrea Galli
Aiuterà il cammino verso il Capitolo: “Curerà il rinnovamento spirituale”
Pag 19 Ora di religione, materia per crescere
Il Messaggio della presidenza Cei: è chiave di lettura per la nostra realtà
CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 15 “N’do sta la tua misericordia?”. I poster dei conservatori. E il Papa:
serenità e distacco di Luigi Accattoli
Decine di manifesti nella Capitale. John Allen jr.: “Ricorda i volantini contro Wojtyla. In
Vaticano il coraggio divide”. Ordine di Malta, il vescovo Becciu nominato delegato papale
LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 17 Il giallo dei manifesti che attaccano il Papa: “E’ la destra cattolica” di
Paolo Rodari e Alberto Melloni
A chi fa paura la svolta di Bergoglio
L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 7 Padri di speranza non professionisti del sacro
Il Papa chiede ai religiosi e alle religiose di mettere Cristo in mezzo al popolo
AVVENIRE di sabato 4 febbraio 2016
Pag 2 La speranza immensa (risorgeremo e vedremo) di Marina Corradi
Il Papa e “l’attesa di qualcosa che è stato già compiuto”
Pag 3 La Chiesa e il Mezzogiorno, storia di impegno e vicinanza di Angelo Scelzo
Dal 1948 ad oggi un cammino di attenzione mai interrotto
Pag 17 Padrini, ruolo da rivedere. Ma ora bisogna fare presto di Luciano Moia,
Francesco Dal Mas, Filippo Rizzi e Alessandra Turrisi
Le diocesi in capo con proposte di rinnovamento. E continuano le polemiche scatenate
dal caso Riina
CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 19 “Racconto il cardinale Martini. Un dono che non va disperso” di
Giangiacomo Schiavi
Ermanno Olmi: è stato uno spirito profetico che invitava gli uomini a essere inquieti
Pag 20 La Chiesa resterà unita nell’epoca di Trump di Andrea Riccardi
Casa Bianca e Vaticano
LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 16 Preti e disprezzo per le donne, andiamo oltre lo sconcerto di Sandro G.
Franchini
Pag 37 Così parlano i papi e nella parola è il loro vero potere di Alessandro
Barbero
Il rapporto tra la Chiesa e il mondo nei secoli
4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016
Pag VI Azione Cattolica, il patriarca nomina Alessandro
Molaro
nuovo
presidente
Pag XII Nuovo laboratorio e giovani diplomati. Doppia festa per l’Istituto
Salesiano
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 17 Molaro presidente dell’Azione cattolica di n.d.l.
Succede a Teresa Scantamburlo
IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016
Pag II O Malta o morte di Matteo Matzuzzi
Non solo polemiche. Dall’assistenza ai profughi al lavoro negli ospedali. Cosa fa il più
antico Ordine religioso laicale della chiesa
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 25 La rivincita degli antipatici di Elvira Serra
Spesso impopolari tra i colleghi perché troppo esigenti e poco inclini ai compromessi. Ma
portano efficienza e meritocrazia
LA NUOVA
Pag 1 Servono dati e proposte, non appelli di Michele A. Cortelazzo
Lingua italiana
CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 17 Seicento docenti universitari: i ragazzi non sanno l’italiano di Orsola Riva
L’appello al governo: vediamo errori da terza elementare
Pag 21 “Vi spiego chi sono i vostri figli. Mai fatto sesso senza amore. E
nemmeno le mie amiche” di Aldo Cazzullo
Sofia Viscardi ha 18 anni e 2 milioni di follower: “In Rete siamo più sinceri”
AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016
Pag 12 Scuola, teatro gender: l’altolà del ministro di Paolo Ferrario
“Le famiglie devono essere informate”
L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 5 febbraio 2016
Pag 3 Vittime del karoshi di Cristian Martini Grimaldi
Il fenomeno del superlavoro tra i giovani giapponesi
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 19 Ca’ Fornera: recapito a singhiozzo, il don scrive alle Poste di g.ca.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016
Pag IV Famiglie povere, soldi in cambio dell’impegno a uscire dal disagio di
Vettor Maria Corsetti
Servizi sociali, i nuovi criteri più “mirati” per l’assegnazione dei contributi
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 35 Jesolo, divieto assoluto di burqa di Giovanni Cagnassi
Il sindaco Zoggia sta studiando un’ordinanza per la prossima estate
CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 8 Il sindaco abbatte i cubi del parco: “I cittadini diventino protagonisti” di
Gloria Bertasi
Polemica sulla decisione della giunta. Ruspe in azione all’alba. Più luci contro lo spaccio
Pag 9 “Mazzacurati ancora lucido nel 2013”. E le accuse restano nel processo
Mose di Alberto Zorzi
Acquisiti i verbali: la malattia era imprevedibile. Ma sarà guerra sull’attendibilità
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 4 febbraio 2016
Pag VIII Da convento ad albergo, il Comune nega il cambio di Lorenzo Mayer
Lido. Nuova tegola per l’imprenditore calabrese Antonio De Martino nella realizzazione
dell’hotel
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 9 Falso profilo su Facebook. Don Contin: faccio causa
Padova, preso di mira l’ex parroco indagato per favoreggiamento della prostituzione
LA NUOVA
Pag 1 Il referendum e i voti non usati di Francesco Jori
CORRIERE DEL VENETO di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Luce nelle notti della Repubblica di Alessandro Russello
Schio e la riconciliazione
Pag 5 Il partigiano Teppa e la figlia del podestà, l’abbraccio divide i parenti
delle vittime di Michela Nicolussi Moro e Elfrida Ragazzo
L’eccidio di Schio: l’eredità della storia. Su perdono e riconciliazione non c’è ancora
accordo
CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 La “religione” della mafia di Massimiliano Melilli
Salvuccio cresimato
Pag 6 Riina jr.: “Alla mia nipotina insegnerò cos’è l’amore” di Andrea Priante
Cresimato a Padova, padrino a Corleone. La Chiesa: “C’è il perdono, ma doveva evitare”
LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 15 Nordest bloccato, la mobilità sociale non funziona più di Daniele Marini
Con la crisi sono aumentati l’indice di povertà l’esclusione
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Illusioni elettorali a sinistra di Paolo Mieli
Le leggi e il voto
LA REPUBBLICA
Pag 1 Il rischio dell’Italia a due velocità di Massimo Giannini
LA STAMPA
Costi e benefici del dialogo con Donald di Marta Dassù
IL GAZZETTINO
Pag 1 Roma e G7, occasioni per una nuova Ue di Marco Gervasoni
Pag 12 L’agenda di Trump: ecco le altre mine pronte ad esplodere di Flavio
Pompetti
CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Le rimozioni pericolose sull’Europa di Ferruccio de Bortoli
Maastricht 25 anni fa
Pag 4 Non tutti i Trump vengono per nuocere di Paolo Valentino
LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 L’Europa sta sotto i piedi di Angela ma nel cuore di Draghi di Eugenio
Scalfari
AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Perché no alla tortura di Francesco D’Agostino
La risposta cristiana al male
Pag 2 Donare senza scandalo di Massimo Calvi
Solidarietà, quando la fiducia è tradita
Pag 3 Perché l’aborto non è un “diritto” di Pier Giorgio Lignani
Una tesi giuridicamente sbagliata
Pag 7 “Stavo già per essere abortito… Invece sono qui grazie a un film” di Lucia
Bellaspiga
L’incredibile storia di un ragazzo “nato per il rotto della cuffia”
Pag 11 I doveri di un sindaco, la giustizia dei cittadini di Eugenio Fatigante
IL GAZZETTINO di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 L’occasione di riportare la Russia nel G8 di Romano Prodi
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Delegittimati dal ritorno al passato di Fabio Bordignon
Pag 1 America, lo spauracchio della “tigre di carta” di Giancesare Flesca
CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 L’equivoco della classe dirigente di Sergio Rizzo
Pag 1 Berlusconi e i due ministri di Francesco Verderami
Pag 6 La “cosa” di D’Alema può superare l’8%. Ma la sfida al leader è in salita
dentro il Pd di Nando Pagnoncelli
L’ex premier eroderebbe il 3% dei voti ai dem
Pag 7 Salvini in Vaticano dal cardinale filo-Trump di Gian Guido Vecchi
L’incontro di un’ora e mezza con l’ultratradizionalista Burke
Pag 10 La locomotiva tedesca ha il motore arrugginito (e Schultz è in rimonta)
di Federico Fubini
LA REPUBBLICA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Il post-renzismo al tempo di Renzi di Ilvo Diamanti
IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Giudici, decreti, orazioni. La ricompensa di Trump alla destra religiosa di
Mattia Ferraresi
Pag 1 Muri mediterranei di Matteo Matzuzzi
IL GAZZETTINO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Renzi e il labirinto della selva oscura di Bruno Vespa
Pag 16 Carosello 60 anni dopo, quando nacque la réclame di Paolo Navarro Dina
LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Raggi story, fallimento per il M5S di Claudio Giua
Pag 1 Il radicalismo e la fragilità della Libia di Renzo Guolo
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag X Borbiago, associazioni a caccia di sponsor per i lavori di restauro della
torre campanaria di r.pas.
Mira - Cerchiamo sponsor per salvare il campanile di Borbiago. Questo l'appello di tutte
le associazioni di Borbiago che, accogliendo la necessità del paese e del parroco don
Carlo Gusso, si sono mobilitate per cercare uno o più o sponsor per restaurare il
campanile. Il costo del restauro dovrebbe aggirarsi intorno ai 12-13 mila euro, una
somma troppo alta per la parrocchia. Una prima iniziativa si è tenuta a dicembre con il
posizionamento, vicino al santuario di Borbiago, della scultura di acciaio che riproduce il
campanile di San Marco con all'interno una torre di New York, opera del maestro Giorgio
Bortoli. Sono state avviate le pratiche per donare la scultura alla città di New York,
tramite un contatto diretto delle associazioni con la polizia italo-americana. Venerdì 2
febbraio, il ristorante Colombo di Venezia ha accolto l'iniziativa delle associazioni e ha
deciso di esporre per due mesi, fuori del suo locale, una gigantografia che riproduce la
scultura. Le associazioni hanno per questo deciso di aiutare il parroco don Carlo, sempre
attivo per aiutare il prossimo. Per trovare degli sponsor sono stati organizzati una serie
di appuntanti con personalità note e che hanno dei rapporti diretti con la grande mela.
LA NUOVA
Pag 12 Giubileo, centinaia di religiosi in Basilica di n.d.l.
Celebrazione del Patriarca a San Marco
Giornata della cerimonia dei "giubilei" dei religiosi. Ieri alle 16 in centinaia si sono riuniti
nella Basilica di San Marco con il Patriarca Francesco Moraglia. La processione si è
avviata preceduta da due suore che tra le mani sostenevano i simboli scelti per ricordare
la vita contemplativa o attiva: una lampada accesa e una scritta "Una vita consacrata
che non si lascia rubare la speranza, la giovinezza, l'entusiasmo, la forza missionaria e la
gioia di evangelizzare". All'inizio è intervenuto don Lucio Cilia, delegato patriarcale per la
cura pastorale degli Istituti di vita consacrata, che ai religiosi ha ricordato: «Per il mondo
siete luce e sale. Siate fedeli al carisma ricevuto e al servizio quotidiano. Diffondete
speranza, siete un dono di Dio». Nell'omelia il presule si rivolge ai «carissimi fratelli e
sorelle» con una lunga riflessione teologica. «La giornata della vita consacrata»
sottolinea il Patriarca «non riguarda solo voi ma tutta la Chiesa che oggi guardando a voi
è chiamata a riflettere. Arricchite la Chiesa anche se siete anziani. È il tempo in cui i
numeri si contraggono e la qualità viene meno, è il tempo della qualità e della santità. La
Chiesa ha bisogno di voi e il mondo della vostra testimonianza». Il Patriarca ricorda la
loro vita casta, povera, obbediente e ringraziandoli definisce i religiosi «segni viventi di
libertà cristiana». A conclusione una suora scandisce i nomi dei "giubilati": don
Raimondo Lass, salesiano della comunità di Mestre, festeggia i 75 anni di professione
religiosa e suor Margherita Vedovato delle Domenicane Santa Caterina da Siena di
Cannaregio ne festeggia 70. Poi gli religiosi che quest'anno raggiungono il 60esimo,
50esimo e 25esimo anniversario. Numerosi gli ordini religiosi presenti nella Cattedrale
marciana: i salesiani, i carmelitani, i francescani, le domenicane di Santa Caterina da
Siena, le Piccole Suore della Sacra Famiglia, le Suore di San Francesco di Sales, le
Sorelle Minime della Carità di Maria Addolorata "Istituto Campostrini", le Mantellate
Serve di Maria di Pistoia - Villa Salus, le Suore Imeldine, le Figlie di San Giuseppe del
Beato Caburlotto, le Suore di Maria Bambina.
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 19 Giubileo con il patriarca per suor Margherita di Nadia De Lazzari
La religiosa, 70 anni di professione, vive a Cannaregio: “Sveglia alle 5.15, prego e
lavoro, così sono utile al prossimo”
Venezia. Oggi per suor Margherita Vedovato dell’Ordine delle Domenicane Santa
Caterina da Siena è un giorno speciale: festeggia i 70 anni di professione religiosa. Per
lei, per tre consorelle - suor Maria Caterina Miele e suor Gilda Toscani con il 60esimo
anniversario, suor Maria Grazia Doveri con il 50esimo - e per altri religiosi il patriarca
Moraglia presiede in Basilica alle 16 la cerimonia dei “giubilei”. Suor Margherita, nata a
Trebaseleghe (Padova) il 2 luglio 1929, vive a Cannaregio. Si alza alle 5.15, prega,
lavora in portineria, ricama e di domenica fa corone. Le piace leggere, soprattutto le vite
dei santi e La Nuova Venezia. La sua vita - è infermiera - è un’instancabile testimonianza
di fede vissuta per aiutare il prossimo. Dopo la morte della madre Margherita, inferma
per oltre dieci anni, entrò in convento a Roma. A sedici anni lasciò la famiglia, i cinque
fratelli e il padre. «Mi salutò con due sberle. Questa casa non è più per te», ricorda la
religiosa che ha un carattere allegro, mite, socievole. Suor Margherita ricorda il giorno
dei voti perpetui: era a Bologna, da lì raggiunse la Casa di Roma. La superiora le
consegnò i vestiti e le scarpe. «Erano da uomo», dice, «Le indossai senza battere ciglio.
C’era severità e povertà. Là trovai mio padre, pianse tutto il giorno e voleva portarmi a
casa. Avevo un abito bianco da sposa con una corona in testa. Ero felice e non ho mai
tradito la mia scelta». A Bologna per ricostruire la scuola bombardata quasi ogni notte
andava a vegliare le salme nelle case, nelle chiese, nelle celle mortuarie. «È una bella
missione, si prega sempre. Una volta mi trovarono addormentata. Ero giovane: di giorno
lavoravo e mi dividevo tra il servizio di portineria e di lavanderia», spiega suor
Margherita. Poi andò a Modena, a Bergamo, a Pordenone in un asilo frequentato da 900
bambini, a Casale Monferrrato. Di giorno lavorava in cucina e in guardaroba, di notte
pregava e ricamava. «Nella nostra Casa e tra la gente ho visto tanta povertà. Talvolta
mi rivolgevo al Signore: dove sei?». Da un anno e mezzo è a Venezia. In questi giorni
segue con dolore la storia del sacerdote padovano e della sua canonica a luci rosse:
«Oggi interessa quello che soddisfa per sé e non per gli altri. Quando i preti sbagliano, ai
laici sorgono dubbi e le chiese si svuotano. L’esempio è tutto. A me dà vita il sentirmi
utile al prossimo».
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3 – VITA DELLA CHIESA
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Manifesti antipapali, tra pasquinate e attacchi a Paolo VI di Marco Roncalli
Quanto accaduto nei giorni scorsi non è una prima volta: nel 1978, dopo la morte di
Montini, apparvero cartelli firmati «Civiltà Cristiana» che chiedevano un «Papa cattolico»
Ragionando sull’esiguità del “caso”, la tentazione sarebbe di ignorare tutto. E tuttavia
resta valida la raccomandazione cantimoriana per la quale anche i quadri generali
ricevono un po' di luce se visti “di scorcio”. E allora cominciamo con i fatti. Sabato 4
febbraio in alcune zone della capitale, anche centrali e vicine al Vaticano, sono apparsi
qua e là negli spazi pubblicitari, due o trecento manifesti per così dire singolari. Tutti
uguali. Con una scritta, sovrastata da un grande volto un po' imbronciato di Papa
Bergoglio, e queste parole ad apostrofarlo così in romanesco: “A France', hai
commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l'Ordine di Malta e i
Francescani dell'Immacolata, ignorato Cardinali... ma n'do sta la tua misericordia?”.
Scelte di governo contestate - Chiaro l'intento di contestare scelte di governo - dove la
misericordia pare un po' tirata per i capelli - a partire da vicende recenti. E cioè il
terremoto tra i Cavalieri di Malta con le dimissioni del Gran Maestro cui è seguita la
nomina del Sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu,
come “delegato speciale“ del Papa presso il Sovrano Militare Ordine (comunicata dalla
Sala Stampa proprio sabato); il commissariamento con intenti disciplinari di una
congregazione lacerata al suo interno (il minimo che possa dirsi circa un'inchiesta
cominciata ai tempi di Benedetto XVI); la mancata risposta ai quattro porporati del
fronte dei cosiddetti “dubia”(i dubbi sul capitolo ottavo dell' “Amoris Laetitia” circa l'
“apertura” verso i divorziati risposati). Dunque fatti specifici, che, enfatizzati, rimbalzano
da un po' in rete e per qualcuno sono diventati quasi un'ossessione: bisognosa di
maggior visibilità e condivisione, senza però metterci la faccia, la firma, la sigla,
restando anonimi.
Un'idea goliardica? - Da qui l'idea (tra l’adolescenziale e il goliardico?), di ricorrere ad
una tipografia, far stampare una provocazione e affidarla a solerti attacchini (chissà se
estranei o simpatizzanti) che nottetempo hanno fatto tutto. Il resto è noto: passanti che
hanno subito strappati i manifesti, addetti del Comune che li hanno coperti con la toppa
solita “affissione abusiva”, solidarietà e sdegno, amarezza e deplorazione, ma anche, al
momento in cui scriviamo, qualche silenzio di troppo. E, per cosi dire, il “diretto
interessato”? Informato ha fatto sapere di andare avanti per la sua strada con «serenità
e distacco», più o meno come ogni volta in cui gli sono stati chiesti giudizi sulle
contestazioni che l'hanno visto al centro del bersaglio: «Non ci perdo il sonno» o «Fanno
il loro lavoro e io faccio il mio». Così come ha continuato a farlo domenica: all'Angelus
(«La cultura della vita» sia la risposta «alla logica dello scarto e del calo demografico»);
poi ricevendo i partecipanti all'incontro «Economia di Comunione», promosso dai Focolari
(«Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare
una struttura idolatrica, una forma di culto...»), ecc.
Satira antipapale - Ma torniamo subito all'attacco alla persona del Pontefice, attacco
protetto, almeno al momento, dall'anonimato, un colpo basso che, per qualche
osservatore, potrebbe segnare un innalzamento della tensione, legittimando nuove
espressioni di dissenso di piazza. Come leggere questo gesto? A chi attribuirlo? Vanno
evocate, come si sta facendo, lobby potenti o è stata un’azione isolata? Quali fattori può
innescare? Premesso che espressioni di satira antipapale ci sono sempre state nella
storia, senza dimenticare con Pasquino, pur nelle loro diversità, le critiche dei liberali
cattolici contro Pio IX, quelle dei modernisti contro papa Sarto, e quelle, più o meno
palesi, continuate con i papi del Concilio e tutti i loro successori (vengono in mente i
volantini anti Wojtyla per la giornata di Assisi), e premesso che nel caso in esame ci
sembra esserci una distanza, nelle forme e nella sostanza, dalla stessa “Chiesa
dell'anticoncilio” raccontata dallo storico Giovanni Miccoli nel suo volume laterziano, di
ormai sei anni fa, sui tradizionalisti alla riconquista di Roma, ecco cosa pensano alcuni
storici con cui ci siamo confrontati.
Il parere degli storici - Per Fulvio De Giorgi, ordinario di Storia dell'Educazione e della
Pedagogia all'Università di Modena e Reggio, «la satira anticlericale e antipapale
presente in passato nell'età contemporanea è diminuita, anche per lo spessore di vera
santità di tutti i papi contemporanei, Francesco incluso. Il popolo ama Francesco. I
cattolici di parrocchia sono entusiasti di lui: della sua umanità, del suo calore, del suo
linguaggio comprensibile. Dunque queste - costose e falsamente 'popolari'- forme di
critica anonima rappresentano un'esigua minoranza di persone». Già ma a chi attribuirne
la paternità? «Non credo i lefebvriani in senso stretto. Direi quella corrente di laici e di
prelati che si ricollega alle vecchie opposizioni al Concilio Vaticano II (a Giovanni XXIII e
a Paolo VI): ormai pochissimi, ma violentissimi sul web e con qualche entratura nella
burocrazia ecclesiastica. Quest'ultimo aspetto è l'unico che deve far riflettere. Sì, ci
possono essere anche frange politiche di destra in questo antipapismo: ma sono
storicamente trascurabili. Invece ciò che mi colpisce, nel manifesto, è la citazione dei
Cardinali (cioè i quattro cardinali dei dubia)». «Ecco - conclude de Giorgi - questo
manifesto è una spia del disordine divisivo che quelle posizioni hanno provocato o
possono provocare. Ma i processi storici sono più forti delle pasquinate reazionarie e
degli intrighi prelatizi».
"Pasquinate" del terzo millennio? - Più prudente Francesco Mores, che insegna storia
della Chiesa all'Università degli studi di Milano: «Credo sapremo qualcosa di più sui
manifesti nei prossimi giorni». E continua: «Mi pare però si possa dire che sono una
contaminazione tra la tradizione delle pasquinate (con l'uso del romanesco in apertura e
in chiusura) e un riferimento ad ambiti precisi del cattolicesimo reazionario che si
oppone all'esercizio di autorità di questo papa (che di autorità, come abbiamo visto, sa
far uso). Se, infatti, i riferimenti ai Cardinali, alle Congregazioni e all'Ordine di Malta
seguono la grafia per dir così gerarchica (non per caso, sacerdoti è minuscolo), l'accenno
ai Francescani dell'Immacolata denota una conoscenza un po' più approfondita della
situazione....».
«Circoli ristretti» - Piuttosto articolata l'analisi di Enrico Galavotti, che insegna storia del
cristianesimo presso l’Università «G. d’Annunzio» di Chieti-Pescara. Convinto che le
pasquinate non c'entrino («quelle mettevano alla berlina il potere del papa come
monarca, mentre oggi il ruolo del papa rispetto a Roma è fondamentalmente rovesciato:
la Porta Santa alla sede della Caritas alla Stazione Termini è emblematica), convinto come noi - che i lefebvriani non c'entrino («escluderei il loro coinvolgimento dei
lefebvriani: hanno ottenuto da Francesco - e sembra che otterranno - molto più di quello
che hanno avuto dai predecessori, da Paolo VI a Benedetto XVI»), Galavotti osserva che
i riferimenti del manifesto sono precisi e intelligibili a un circuito molto ristretto, dato che
«per intenderci, il riferimento ai francescani dell’Immacolata non mi pare precisamente
una cosa afferrabile all’uomo comune della strada che passa e legge il manifesto». Ma al
di là di tutto, precisa lo storico, «io non darei troppo peso alla cosa: mi pare anzi una
iniziativa disperata. È certamente furba perché è chiaro che in questo modo gli autori
hanno avuto una visibilità e un’attenzione che non avrebbero mai avuto pubblicandola su
uno dei tanti siti internet che compongono il microcosmo antibergogliano. Ma resta una
iniziativa disperata, di qualcuno che cioè sta disperatamente cercando di spingere
Francesco a un gesto di forza o di censura nei suoi confronti per poi iniziare una fase di
vittimismo in vista della successiva elezione papale». E conclude: «Mi pare ad ogni modo
che Francesco sino a questo momento abbia agito con grande intelligenza: mi sembra
davvero di rivedere quella pagina del diario Tucci dove Giovanni XXIII replicava a chi gli
chiedeva di dare un calcio nel sedere a quei curiali che gli continuavano a creare
problemi che lui doveva agire con prudenza per evitare che il conclave dopo di lui non
fosse contro di lui e smontasse quello che aveva pazientemente messo in piedi».
I precedenti degli anni Settanta - Insomma, una partita aperta, che non finirà presto, tra
supposizioni e certezze, ma pure solidarietà al vescovo di Roma in quello che in
apparenza è solo una piccola incrinatura nel rapporto con l'opinione pubblica a quattro
anni dall'elezione.. Più o meno come avvenne a Paolo VI che, eletto nel '63, pure quattro
anni dopo, nel '67, visse il punto di rottura dell'equilibrio del suo pontificato. Dopo il
risveglio post-conciliare per lui la contestazione arrivò prima da sinistra, poi da destra.
Stretto tra dom Franzoni e Lefebvre, Montini reagì con fermezza evitando strappi. Ma fu
egualmente contestato duramente dentro la Chiesa e talora bersagliato dalla satira in Tv
(Dario Fo) e sui giornali (si vadano a rivedere le copertine del settimanale “Tempo” del 4
e 11 aprile 1976 , o certe vignette di Giorgio Forattini su “Repubblica”, dove comunque,
alla morte di papa Montini, Eugenio Scalfari l’8 agosto scrisse: «Ereditò una Chiesa
richiamata a nuova vita ma esposta a tutti i venti; lascia una Chiesa più sicura di sé in
un mondo che ha visto invece la propria crisi aggravarsi ed estendersi. Noi laici
dobbiamo qui dirlo: la società religiosa si è in questi anni assai meno imbarbarita della
società laica»). Non era scontato.
«Vogliamo un Papa cattolico» - Alla morte fu resa giustizia a Papa Montini? Di fatto,
giudizi aspri e quasi polemici si ebbero solo in due ristrette zone d'opinione, qualche
cattolico del dissenso passato all'estrema sinistra o intellettuale marxista fuori dai partiti
politici. «A non voler tener conto, naturalmente, del tradizionalismo cattolico, che in
Italia ha scarsa consistenza», ha scritto Luigi Accattoli in un saggio edito nella raccolta
“Paul VI et la Modernité dans l'Église” dall' École française di Roma (nel 1984). Dove
ricordava che «il movimento, più nominale che reale, di "Civiltà cristiana", composto di
simpatizzanti del MSI-DN, fece affiggere, nell'agosto 1978, dopo la morte di Paolo VI, un
manifesto in cui il giudizio sul pontificato montiniano era espresso, per contrasto, in
questo slogan: "Vogliamo un Papa cattolico"».
SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister)
Ricambio in vista a Ferrara. Le nomine dei vescovi nell'era di Francesco
Le nomine dei vescovi sono il principale strumento con cui papa Francesco rimodella la
gerarchia della Chiesa. Alcune nomine gli stanno talmente a cuore che non esita a
saltare tutti i passaggi procedurali e fare lui tutto da solo. Per l'Argentina, ad esempio,
avviene quasi sempre così. Da quando è papa, Jorge Mario Bergoglio ha deciso lui di
persona praticamente tutte le nuove nomine vescovili in quella nazione. Ma anche in
Italia Francesco ama riservare a sé le scelte chiave. Non solo per grandi diocesi come
Roma, Palermo, Bologna o Milano, ma anche per talune sedi di media grandezza. Una di
queste è la diocesi di Ferrara, dove la nomina del nuovo vescovo è data per vicina. Il
vescovo in carica, infatti, Luigi Negri, ha compiuto i 75 anni canonici lo scorso 26
novembre e, come di norma, ha rimesso il mandato nelle mani del papa. Il quale in tutti
i casi del genere può prorogare la sua permanenza in sede, oppure procedere subito al
ricambio. A Ferrara la proroga non c'è stata. E lo si può capire. Negri, da una vita in
Comunione e liberazione e vicinissimo al fondatore don Luigi Giussani, è uno dei vescovi
meno assimilabili allo stile di papa Bergoglio. Per la scelta del suo successore le
procedure sono quasi ultimate. A fine gennaio il nunzio in Italia Adriano Bernardini ha
concluso le consultazioni di rito, in particolare quelle di tutti gli altri vescovi, anche
emeriti, dell'Emilia Romagna, la regione in cui ricade Ferrara, e ora si appresta a
inoltrare una terna di candidati alla congregazione vaticana per i vescovi, che la vaglierà
e darà infine la sua indicazione al papa. Tra i vescovi consultati ve ne sono alcuni in
sintonia con Negri, come quello di Reggio Emilia Massimo Camisasca, anche lui di
Comunione e liberazione e pupillo di don Giussani, o come l'arcivescovo emerito di
Bologna Carlo Caffarra, uno dei quattro cardinali che hanno sottoposto al papa i famosi
"dubia" sull'interpretazione di "Amoris laetitia". Ma ve ne sono anche altri allineati in
pieno a Bergoglio, come l'arcivescovo di Bologna da lui stesso insediato, Matteo Zuppi, e
i vescovi di Ravenna Lorenzo Ghizzoni e di Modena Erio Castellucci. Una simile varietà di
orientamenti potrebbe quindi suggerire candidature d'equilibrio, non troppo sbilanciate
in un senso o nell'altro. Ma se papa Francesco volesse scegliere lui il nuovo vescovo di
suo gradimento? O addirittura l'avesse già scelto? L'ipotesi non è affatto da escludere.
Nella congregazione per i vescovi papa Francesco ha una squadra di suoi esecutori molto
agguerrita, che mette facilmente fuori gioco – forte del mandato di Santa Marta – la
congregazione e il suo cardinale prefetto, il canadese Marc Ouellet. Compongono questa
squadra il segretario del dicastero, il brasiliano Ilson de Jesus Montanari, fatto
arcivescovo e chiamato a questo ruolo nevralgico dallo stesso Bergoglio, l'argentino
Fabián Pedacchio Leaniz, poco visibile ma potente segretario personale del papa, e
l'italiano Fabio Dal Cin, legatissimo soprattutto al secondo. Non solo. Proprio monsignor
Dal Cin, 52 anni, della diocesi di Vittorio Veneto, potrebbe essere il candidato che papa
Francesco ha in mente per la successione nella diocesi di Ferrara. Forse più ancora di
monsignor Giancarlo Perego, attuale direttore della pastorale per i migranti nella
conferenza episcopale italiana, caldeggiato sia dal segretario generale e referente di
Bergoglio per la CEI Nunzio Galantino, sia dall'ex direttore della Caritas di Bologna
Giovanni Nicolini. Nicolini è fondatore e superiore delle Famiglie della Visitazione, una
comunità che si ispira a don Giuseppe Dossetti. Ed è legato a quell'influente think tank
cattolico progressista, noto come "scuola di Bologna", che ha avuto nello stesso Dossetti
il suo fondatore e ha nello storico della Chiesa Alberto Melloni e nel fondatore del
monastero di Bose Enzo Bianchi i suoi attuali reggitori e guru, entrambi ultrabergogliani.
Corre appunto voce, tra costoro, che "l'Emilia Romagna è ormai nostra", proprio grazie
alle nomine che papa Francesco si appresterebbe a fare non solo a Ravenna, ma anche
nella vicina diocesi di Rimini, il cui attuale titolare, il vescovo Francesco Lambiasi, è alle
prese con una esposizione debitoria talmente grave da esigere una sua sostituzione, non
necessariamente punitiva visti i suoi appoggi romani e visto il precedente della diocesi di
Terni, per il cui debito si svenò lo IOR e per il cui vescovo, Vincenzo Paglia, si
dischiusero le praterie di alte cariche curiali. Una postilla. Tra i cardinali e i vescovi
membri della congregazione vaticana che vaglia le nomine, Bergoglio ha incluso – tra i
primi atti del suo pontificato – proprio il predecessore di Negri a Ferrara, Paolo Rabitti. Il
quale aveva consegnato a Negri, al momento della successione, alla fine del 2012, una
diocesi in stato disastroso, con i conti in disordine e – come non bastasse – con un
nugolo di seminaristi inaffidabili, rastrellati qua e là da altre diocesi che li avevano
respinti.
CORRIERE DELLA SERA
Pag 6 Il Papa: la maldicenza rovina la Chiesa di Gian Guido Vecchi
Ruini si schiera con Francesco: “Quei manifesti lontani dai sentimenti della gente”.
Rimossi da Roma i poster contro di lui. I sospetti della Santa Sede sui gruppi di destra
Città del Vaticano. «La missione dei cristiani nella società è quella di dare “sapore” alla
vita con la fede e l’amore che Cristo ci ha donato, e nello stesso tempo di tenere lontani
i germi inquinanti dell’egoismo, dell’invidia, della maldicenza e così via...». All’indomani
dei manifesti anonimi apparsi a Roma contro il Papa («Ma n’do sta la tua
misericordia?»), Francesco non fa menzione della vicenda. È tuttavia significativa la sua
riflessione intorno al Discorso della Montagna, l’invito di Gesù ad essere la «luce» e il
«sale» della terra. Egoismo, invidia e maldicenza «rovinano il tessuto delle nostre
comunità, che devono risplendere come luoghi di accoglienza, solidarietà e
riconciliazione», spiega. Prima di sillabare: «Per adempiere a questa missione, bisogna
che noi stessi per primi siamo liberati dalla degenerazione corruttrice degli influssi
mondani, contrari a Cristo e al Vangelo». Dopo la catechesi, Francesco si sofferma
piuttosto sulla Giornata per la vita, parla di aborto e eutanasia, «ogni vita è sacra!». E
invia un videomessaggio in spagnolo per il Super Bowl, la finale di football americano:
«Possa l’evento di quest’anno essere un segno di pace, amicizia e solidarietà per il
mondo». A Roma, intanto, i manifesti già coperti sabato sono stati quasi tutti rimossi. La
polizia ha recuperato alcuni filmati nei quali si vedono gli attacchini agire nottetempo e
sono in corso accertamenti su qualche targa. Di «tristezza e deplorazione» parla il
cardinale vicario, Agostino Vallini: «I fedeli della comunità cristiana, insieme a tutti gli
abitanti della città, non si riconoscono in queste insinuazioni ingiuste e rinnovano i loro
sentimenti di stima, di rispetto filiale e di gratitudine al vescovo di Roma, successore di
Pietro, per la sua personale testimonianza evangelica e la sua opera di evangelizzazione
e di vicinanza agli uomini, particolarmente ai poveri». Padre Antonio Spadaro, direttore
della Civiltà Cattolica , gesuita vicino al Papa, commenta su Facebook i «manifesti
anonimi finto-popolari e ben pagati contro Francesco» e scrive: «È il segno che sta
agendo bene e sta dando molto fastidio. Quei manifesti sono minacce e intimidazioni. In
finto romanesco per tentare di far credere che siano popolari. Ma la gente vera non
discetta sull’ordine di Malta o canonistici “dubia” cardinalizi. Dietro c’è gente corrotta e
poteri forti che montano strategie per staccare il Papa dal cuore della gente, la sua
grande forza. E il risultato è l’effetto opposto».
Pag 26 E’ il “fronte del silenzio” che preoccupa il Papa di Massimo Franco
Il caso dei manifesti anonimi
Città del Vaticano. «Guardi, ho sentito oggi in televisione le dichiarazioni del cardinale
Vicario, Agostino Vallini, e mi pare abbia parlato molto bene. L’essenziale è che quei
manifesti non rispecchiano per nulla il sentire comune dei romani, della gente». Il
cardinale Camillo Ruini ha una lunga esperienza e ne ha viste tante, la voce al telefono
suona serena. «È una cosa piccola che rischiamo di ingrandire per niente», spiega al
Corriere. Chi guarda al sottobosco di estrema destra romana, chi alla fronda
conservatrice vaticana. «Non lo posso dire perché non lo so, ma non credo che in
Vaticano ci siano poi tutte queste tensioni». Insomma, il cardinale Ruini ne è convinto:
«Non credo che convenga farne un caso. Non ce n’è bisogno. Del resto non ne sappiamo
nulla. Credo che ormai sia una faccenda finita, da quanto ho sentito il Comune li ha
coperti e fatti togliere. Si rischia soltanto di fare un favore a chi li ha voluto mettere». È
interessante notare come sul fronte più conservatore, o nella «vecchia guardia» che dir
si voglia, ritornino le stesse considerazioni: «Penso che non si debba fare pubblicità a
questi anonimi che escono così, e credo che le persone coinvolte non debbano essere
molto felici di essere usate per attaccare il Papa», dice il cardinale Marc Ouellet, prefetto
della Congregazione per i vescovi, parlando a Tgcom24. Per Ouellet «questi metodi non
si devono usare nella Chiesa, sono piuttosto opera del diavolo che vuole dividerci». Chi
ha voluto quei manifesti, comunque, ha messo insieme casi diversi sui quali il Papa è
dovuto intervenire, lo scontro interno all’Ordine di Malta, scandali e abusi nella piccola
congregazione tradizionalista dei francescani dell’Immacolata sulla quale aveva già
cominciato ad indagare Benedetto XVI (e la magistratura), e la questione dei «dubbi»
resi pubblici da quattro cardinali (l’americano ultraconservatore Burke e altri tre
porporati in pensione) contro le aperture ai divorziati e risposati udite dal Sinodo e
contenute nell’esortazione di Francesco Amoris Laetitia. Ad accomunarli è il fatto di
essere diventati gli argomenti prediletti da una galassia piccola ma rumorosa di siti e
blog tradizionalisti che in Rete attacca ogni giorno Francesco. Ai piani alti del Vaticano si
sperava che la cosa passasse sotto silenzio. C’è chi riflette che a Roma, dalla stazione
Tiburtina a Termini, ci sono tantissimi giovani - cattolici e non - che da anni passano le
loro serate a portare pasti caldi e coperte a migranti e clochard, e non sono mai andati
sui tg né in prima pagina. Si ripete che il Papa è tranquillo. Soprattutto si aspetta di
capire meglio. «Certo, saremmo più sereni se si riuscisse a scoprire da quali gruppi
vengono queste iniziative». Il sospetto è che si tratti di una questione politica, romana o
italiana, legata a gruppuscoli presenti in città. «Per noi è difficile accettare che venga dai
nostri ambienti, non si era mai fatta una cosa del genere, ci sembra troppo. Può darsi
che della gente fuori dalla nostra cerchia voglia strumentalizzare», si spiega Oltretevere.
La linea del Papa, ad esempio nei confronti dei migranti, non è solo materia di dibattito
nella Chiesa. «La situazione italiana è confusa, tanti possono volersi immischiare per
trarne vantaggio».
LA REPUBBLICA
Pag 7 Il Papa al Super Bowl in spagnolo sfida Donald con un videomessaggio di
Vittorio Zucconi
Washington. Nella lingua di quelli che dovrebbero restare chiusi oltre i Muro,
nell'occasione sportiva che dovrebbe celebrare il Te Deum della Religione Americana a
Houston, il Papa punge il Presidente con un augurio in spagnolo, per ricordare alla boria
anglo-sciovinista di Trump che l'America non gli appartiene in esclusiva. Mai, nelle 51
edizioni della finale del campionato professionistico di football, come indica la
numerazione romana - LI - utilizzata per dare un tono imperial-gladiatorio a una
semplice partita di palla ovale, un Pontefice di Santa Romana Chiesa aveva riconosciuto
l'esistenza di un evento commercial-sportivo che resta ancora oggi largamente destinato
a tifosi e consumatori statunitensi. Immaginare che nel 1967, quando fu disputata la
prima finalissima, il Papa del tempo, Paolo VI cardinal Montini, potesse occuparsi di
campionati di football in Usa, misura la distanza del tempo e le ansie del Pontefice
romano. E se già il riconoscimento del SuperBowl, della Super Coppa di football, sarebbe
in sè fuori dall'ordinario, l'avere scelto lo spagnolo per celebrarlo tradisce l'intenzione
benevolmente, ma pugnacemente polemica di Bergoglio. Quando augura, nella propria
lingua materna che è la stessa ormai di quasi la metà degli abitanti del Texas e della
città che ha ospitato la partita, Houston, che il Super Bowl sia un «simbol de la cultura
de encuentro, de paz e de amistad para toto el mundo» , incontro, pace e amicizia,
mentre Trump prospera e coltiva la cultura dello scontro, dell' esclusione e della
discriminazione, il Papa va ovviamente ben oltre l'auspicio di una bella giornata di sport.
Essendo il football americano molto lontano dalle passioni sportive di Bergoglio,
dichiarato tifoso di calcio, lui pensa alle folle degli "altri americani" affollati oltre il muro.
E minacciati di nuovo impoverimento da sanzioni commerciali. La parola chiave nel
brevissimo saluto è «incontro». I due club che si sono disputati il "Trofeo Lombardi", la
supercoppa intitolata a un leggendario "coach" italo-americano, sono i Falcons di Atlanta
e i Patriots di Boston: ma non era a loro che Beroglio si indirizzava. Parlava a quei 13
milioni di texani nati o emigrati oltre il Rio Grande, il fiume che segna l'incerto confine
fra il Sud e il Nord. A quei 700mila houstoniani, su due milioni di residenti che parlano,
come loro prima lingua, lo spagnolo. Quegli «stupratori e assassini» che il candidato
Trump aveva attaccato nella campagna elettorale. «La partecipazione allo sport è il
superamento del proprio interesse egoistico verso il sacrificio, la solidarietà e il rispetto
delle regole», dice il Papa nei 50 secondi del suo discorso. E ogni parola, soprattutto per
la lingua scelta, può essere letta come l'esatto rovescio dell'egolatria, della faciloneria,
del suprematismo e della indifferenza alle regole di questa nuova Amministrazione
americana. Bergoglio sa sicuramente che il voto dei cattolici è andato in maggioranza a
Trump, per il 52% contro il 45% secondo le ricerche post-elettorali, e molti
disapproveranno questo suo intento. Ma altrettanto bene il Papa sa che il voto
"ispanico", dunque messicano e centroamericano, ha bocciato in massa il Candidato del
Muro, per 66 a 28, e gli ispanici sono, fra tutti i gruppi etnici, quelli con il più rapido
tasso di crescita. Il Texas, ancora monopolio repubblicano, ma insidiato dall'aumento
degli immigrati dal Grande Sud, è la "Frontera" del futuro politico americano ed è lo
Stato che dovrà accettare, o subire, il completamento di quella Grande Muraglia che
Clinton e Bush cominciarono a innalzare dal Pacifico verso il Golfo del Messico,
fermandosi proprio al Texas. Il SuperBowl, che è il massimo esempio di
commercializzazione e di egoismo dello sport dove 30 secondi di spot pubblicitario hanno
superato il costo di 5 milioni di dollari e i giocatori incassano milioni ogni anno per
fracassarsi ossa e crani, è stato soltanto un pretesto, per Papa Francesco, un'occasione
per esprimere l'angoscia di un Papa che vuole parlare contro ogni muro. E soprattutto
contro un muro che vuole dividere l'America dei miliardari ipocriti del Nord dalla "sua"
America.
Quella che parla, come lui, spagnolo.
Pag 15 “Coprì gli abusi del prete pedofilo”, denuncia al Papa contro il cardinale
di Elena Affinito e Giorgio Ragnoli
L’arcivescovo di Napoli Sepe al centro dell’esposto di una vittima
Roma. «Con la presente lettera intendo denunciare il cardinale Crescenzio Sepe, per
grave negligenza nell'esercizio del proprio ufficio». Inizia così l'esposto di Diego Esposito
(il nome è di fantasia), inviato al Papa e al prefetto della Congregazione per i vescovi,
cardinale Marc Ouellet, lo scorso 11 ottobre. Si tratta della prima denuncia che si appella
alla lettera apostolica motu proprio "Come una madre amorevole", scritta dal Pontefice e
diventata legge canonica il 5 settembre 2016, che stabilisce la rimozione dei vescovi
colpevoli di grave negligenza nella gestione dei casi di abusi sessuali da parte di
sacerdoti. Per mesi una commissione di giuristi nominati da Bergoglio si è riunita in
segreto per studiare i termini della nuova norma. L'intenzione era quella di rendere più
trasparente la gestione dei casi, limitando il potere dei vescovi e permettendo alle
vittime, nel caso di colpevolezza delle diocesi, di ottenere il giusto risarcimento.
LE VIOLENZE - Nella lettera Diego racconta la sua storia che comincia in un sobborgo di
Napoli nel 1989: «Fui abusato all'età di 13 anni dal mio insegnante di religione, don S.
M.». Vent'anni dopo, nel 2010, Diego è un uomo sposato con figli che fa la guardia
giurata; mentre sta scortando un furgone portavalori, ha un malore e viene portato
d'urgenza al pronto soccorso. I medici non trovano la causa del suo malessere. Mentre è
ricoverato, confessa alla madre e alla moglie, incredule, il suo segreto.
IL REATO PRESCRITTO - Inizia una terapia con uno psichiatra, il dottor Alfonso Rossi,
che per anni ha diretto l' unità malattie mentali dell'ospedale di S. Maria Capua Vetere. I
test psicologici confermano un vissuto di abusi sessuali. Il reato penale è ormai
prescritto, non rimane che appellarsi alla giustizia canonica. Diego chiede un colloquio
con il Cardinale Sepe per denunciare i fatti, ma non ottiene risposta. Dopo un anno, nel
2011, incontra il vescovo ausiliare Lucio Lemmo, ma non viene aperto nessun
procedimento. Quando nel 2013 Diego scopre che il prete continua ad insegnare, decide
di raccontare tutto alla stampa rilasciando un' intervista a "RE le Inchieste" di
Repubblica.it. La sua storia diventa un caso internazionale arrivando sulla prima pagina
dell' edizione domenicale del Washington Post diretto da Martin Baron, l'ex direttore del
Boston Globe ai tempi del caso "Spotlight".
LA LETTERA DEL PONTEFICE - Nel marzo 2014, dopo quattro anni di battaglie contro i
mulini a vento, scrive a Papa Francesco che gli risponde promettendo di occuparsi del
caso. Sei mesi dopo la curia di Napoli è costretta ad aprire un'indagine. A novembre
Diego viene convocato dal vicario giudiziale della diocesi, padre Luigi Ortagli, per una
deposizione, ma non ci sono altri sviluppi. Nel luglio 2015, sull'orlo dell'esaurimento,
invia una mail a don Ortagli nella quale minaccia di spararsi con l'arma di ordinanza
davanti alla curia se non avrà una notizie della sua denuncia. Viene segnalato all'autorità
giudiziaria che gli ritira il porto d'armi. Diego perde il lavoro. Nel maggio 2016 Diego
accetta di sottoporsi ad una visita psichiatrica presso un perito nominato dalla diocesi.
Dopo uno sciopero della fame, ottiene di essere accompagnato dal suo psichiatra. «Non
si è trattato di una perizia medico legale, ma di un interrogatorio in stile Gestapo»,
racconta Alfonso Rossi. «Le stesse domande venivano ripetute fino allo sfinimento con
l'intenzione di dare il carico delle responsabilità delle violenze subite al ragazzo. Io
stesso ho lavorato per il tribunale, ma ho sempre condotto le visite con il massimo
rispetto per le presunte vittime».
LA CURIA E LE VITTIME - Un monsignore, esperto di diritto canonico, che preferisce
rimanere anonimo, conferma che la Curia romana è perfettamente consapevole delle
tattiche usate dalle diocesi per sabotare le denunce. «È raro che le curie si schierino
sinceramente dalla parte delle vittime. La preoccupazione principale non è la giustizia,
ma tutelare la Chiesa, in particolare dal punto di vista economico. La prassi di portare
allo sfinimento una vittima non è nuova», continua la fonte, «fino a logorare la richiesta
di giustizia. Inoltre non è raro che i periti nominati siano collusi con le curie. Sulle
indagini il Papa di fatto non ha alcun potere, tutto viene gestito dai vescovi, senza
alcuna garanzia di imparzialità. Nel caso in questione, la cosa strana è che il denunciante
dopo sei anni non ha ancora ricevuto nessuna comunicazione, né una conclusione
istruttoria, né un giudizio di archiviazione da parte dell' autorità ecclesiastica. Gli indizi di
negligenza sembrano seri, ci sono tutti i presupposti per iniziare l'indagine». Qualora il
Papa giudicasse verosimili le prove presentate, nominerà una commissione ad hoc per
svolgere l'indagine. E poiché si tratta di un procedimento a carico di un cardinale, sarà
Bergoglio stesso, a pronunciarsi dopo la conclusione delle indagini. Sepe rischia la
rimozione dall' ufficio di arcivescovo, mentre la vittima potrà chiedere alla diocesi e alla
Santa Sede un risarcimento per i danni materiali e psicologici subiti. Solo la soluzione di
questo, come di altri casi, rivelerà se gli intenti del motu proprio saranno effettivamente
efficaci.
AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016
Pag 4 L’economia di comunione contro la cultura dello scarto
Il Papa: il profitto fine a se stesso è idolatria
Pubblichiamo il testo integrale del discorso del Papa ai partecipanti all’Incontro
«Economia di Comunione», promosso dal Movimento dei Focolari. Di seguito le parole
del Papa.
Cari fratelli e sorelle, sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al
quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto
cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, professor Luigino Bruni, per le sue
cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze. Economia e comunione. Due
parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole
che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara
Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San
Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere
creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di
comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete
iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non
solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può
promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle
quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche
la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando
diventa comunione di beni, di talenti, di profitti. Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi
oggi tre cose. La prima riguarda il denaro. È molto importante che al centro
dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione
è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho
parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima
azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio
(cfr 2,1321). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera
dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti
che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso
dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine.
L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di
denaro per sé diventa il fine del proprio agire. È stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria
di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o
il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate
a questo. Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di
diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la
nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta
distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo
culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…)
invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne
immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte. Si capisce, allora, il valore etico e
spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più
concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri,
soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione
idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo
un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei
signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta
teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non
dimenticare questo! La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema
centrale nel vostro movimento. Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private,
per combattere la povertà. E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella
Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati
con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero,
quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società
restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri,
e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La
ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed
elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare
della vita: il reciproco soccorso. Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il
capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema
etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli
per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a
vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti. Gli aerei inquinano
l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per
compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per
curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi
finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà
raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia! L’economia di comunione, se vuole essere
fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove
le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché
l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la
comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.
Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale.
Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o
una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e
magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua
azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto
prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che
producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del
suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione
occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a
casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa
con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da
tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è
chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa,
possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i
porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande. Infine, la
terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione
e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un
piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma
i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi
numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il
lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci
hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino,
l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo. Non occorre essere in
molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande
lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non
fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma
salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e
persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno
prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia,
restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il
passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’“enzima” della
comunione? Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si
donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo
il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva
ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche
moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la
maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore,
e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo
telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore.
E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti
e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai
giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono
ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti
delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il
vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è
accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno
bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della
vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro. Il capitalismo conosce la
filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza
abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo
cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la
nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.
Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere
l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti;
donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che
uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri,
usa i profitti per creare comunione. Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con
coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri
profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più. Vi auguro di
continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno,
dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.
Francesco
Pag 12 Manifesti anonimi contro il Papa a Roma, ma i passanti li strappano via di
Mimmo Muolo
Roma. Manifesti anonimi contro il Papa in diverse vie della capitale. Ieri mattina decine
di poster con la foto del Pontefice, colto in un’espressione non sorridente, sono stati
affissi sui muri di Roma – in zone anche centrali come in Prati, Piazza Risorgimento,
l’Aracoeli, il Colosseo - nel chiaro intento di contestare il suo operato. Sotto la foto,
infatti, compare una scritta che a partire da recenti vicende (come quelle che hanno
portato alle dimissioni del gran maestro dell’Ordine di Malta e alla nomina, proprio ieri,
del sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu a delegato
pontificio per affiancare i cavalieri nell’elezione del nuovo gran maestro) apostrofa
Francesco in un romanesco maccheronico. I manifesti non riportano sigle o simboli,
come già era avvenuto nel mese di dicembre all’indirizzo del ministro dell’Istruzione,
Valeria Fedeli. E la polizia municipale ha provveduto a 'oscurarli' coprendoli con un foglio
bianco recante la scritta che indica come si tratti di affissione abusiva. Più di 200 i
manifesti rimossi. Ma già in precedenza molti poster erano stati strappati in tutto o in
parte dai passanti, in chiaro segno di rifiuto di quanto vi è sostenuto. Sulla vicenda sono
in corso anche indagini della Digos di Roma, che sta passando in rassegna le
registrazioni delle telecamere nelle zone interessate, per cercare di risalire agli autori
della singolare e deprecabile presa di posizione (anche se le prime verifiche non hanno
dato esito). Non è difficile comunque ipotizzare che si tratti di una iniziativa nata negli
ambienti fortemente minoritari contrari all’insegnamento del Papa, alla sua vigorosa
azione di riforma e alla linea di trasparenza seguita da Francesco. Numerose le
attestazioni di affetto per il Papa, anche sui social. Secondo il direttore di Civiltà
Cattolica, padre Antonio Spadaro, «questi attacchi non toglieranno serenità a
Francesco». In un tweet il gesuita scrive: «A Roma sono apparsi manifesti anonimi finto
popolari e ben pagati contro #PapaFrancesco. Segno che sta agendo bene e sta dando
molto fastidio». Sempre su twitter, c’è chi definisce la cosa una «miseria umana»; chi
parla di «fascisti» o di «demoni in trasferta a Roma». Per altri si tratta di una «gran
cafonata». «Scritti in dialetto a sottolineare che anche la gente semplice la pensa così?
Illusi! Forza #Papa-Francesco», si legge in un altro tweet, mentre c’è chi non manca di
rilevare che quel manifesto è in realtà come «una medaglia per il suo impegno contro
muri e razzismo».
Pag 19 Ordine di Malta, Becciu nominato delegato del Papa di Andrea Galli
Aiuterà il cammino verso il Capitolo: “Curerà il rinnovamento spirituale”
Considerando una storia lunga mille anni, passata per le Crociate e la Battaglia di
Lepanto, la tempesta in cui l’Ordine di Malta si è venuto a trovare può apparire poca
cosa. Da un punto di vista più contingente, di settimane come le ultime – a partire dallo
scorso 6 dicembre, data della destituzione del Gran Cancelliere Albrecht von Boeselager
che ha segnato lo scoppio della crisi – non se ne vedevano da un bel po’ in una realtà
caratterizzata da una presenza discreta e dal passo felpato. Ieri un nuovo capitolo della
vicenda. Con una lettera divulgata dalla Sala Stampa vaticana, firmata giovedì scorso, il
Papa ha nominato l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, attuale Sostituto per gli affari
generali della Segreteria di Stato, suo delegato speciale presso – così recita il nome
ufficiale – il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di
Rodi e di Malta. Nella missiva Francesco spiega allo stesso Becciu che è chiamato ad
agire «in stretta collaborazione» con fra’ Ludwig Hoffmann von Rumerstein, il
«Luogotenente interinale», colui che ha preso il posto del Gran Maestro dimissionario
fra’ Matthew Festing, e a farlo «per il maggior bene dell’Ordine e la riconciliazione tra
tutte le sue componenti, religiose e laicali». In particolare, scrive sempre Bergoglio,
«Ella affiancherà e sosterrà il Luogotenente nella preparazione del Capitolo straordinario,
e insieme deciderete le modalità di uno studio in vista dell’opportuno aggiornamento
della Carta costituzionale dell’Ordine e dello Statuto melitense». Capitolo straordinario in
cui dovrà essere eletto appunto il nuovo Gran Maestro, ma anche una Costituzione che
verrà quindi revisionata: quella attuale fu promulgata nel giugno del 1961 e riformata
appena 20 anni fa, dal Capitolo generale straordinario dell’aprile 1997. «Lei in
particolare – continua il Pontefice rivolto al Sostituto per gli affari generali della
Segreteria di Stato – curerà tutto ciò che attiene al rinnovamento spirituale e morale
dell’Ordine, specialmente dei membri professi, affinché sia pienamente realizzato il fine
“di promuovere la gloria di Dio mediante la santificazione dei membri, il servizio alla fede
e al Santo Padre e l’aiuto al prossimo”, come recita la Carta costituzionale». Il Papa ha
già un suo rappresentante presso i Cavalieri di Malta con il compito, recitano le
Costituzioni, «di promuovere gli interessi spirituali dell’Ordine e dei suoi membri ed i
rapporti fra la Santa Sede e l’Ordine», un cardinale patrono che è attualmente Raymund
Leo Burke. Tuttavia, scrive Bergoglio a Becciu, «fino al termine del suo mandato, cioè
fino alla conclusione del Capitolo straordinario che eleggerà il Gran Maestro, Lei sarà il
mio esclusivo portavoce in tutto ciò che attiene alle relazioni tra questa Sede apostolica
e l’Ordine. Le delego, pertanto, tutti i poteri necessari per decidere le eventuali questioni
che dovessero sorgere in ordine all’attuazione del mandato a Lei affidato». Questa
investitura del Delegato pontificio quale «unico portavoce» del Papa all’interno
dell’Ordine, era già stata annunciata giovedì scorso dal Gran Cancelliere Boeselager,
pienamente reintegrato nelle sue funzioni, nella conferenza stampa tenuta insieme ad
altri rappresentanti dell’Ordine. Boeselager che aveva ribadito la piena «lealtà e fedeltà»
al Pontefice, il cui intervento «non ha violato la sovranità dell’Ordine».
Pag 19 Ora di religione, materia per crescere
Il Messaggio della presidenza Cei: è chiave di lettura per la nostra realtà
Pubblichiamo il testo integrale del Messaggio che la presidenza della Conferenza
episcopale italiana invia alle famiglie impegnate nell’iscrizione dei propri figli alla prima
classe di ogni ordine e grado della scuola, affinché scelgano per i propri figli di avvalersi
dell’insegnamento della religione cattolica.
Cari studenti e cari genitori, in occasione dell’iscrizione al prossimo anno scolastico, siete
chiamati anche a scegliere se avvalervi o non avvalervi dell’insegnamento della religione
cattolica. Da più di trent’anni si ripete questa richiesta che consente di mantenere o di
escludere una parte significativa del curricolo di studio. È infatti ben chiaro a tutti che
questa scelta non è una dichiarazione di appartenenza ad una religione, né è un modo
per influenzare la coscienza di qualcuno, ma vuole esprimere solo la richiesta alla scuola
di voler essere istruiti anche su quei contenuti religiosi previsti dalle Indicazioni
didattiche e che costituiscono una chiave di lettura fondamentale della realtà in cui noi
tutti oggi viviamo. Papa Francesco ripete spesso che stiamo vivendo non solo un’epoca
di cambiamenti e trasformazioni, ma proprio un “cambiamento di epoca” e anche la
società italiana può ormai definirsi plurale e multiculturale, ma la storia da cui veniamo è
un dato immodificabile e le tracce che in essa ha lasciato e continua ad offrire la Chiesa
cattolica costituiscono un contributo alla crescita della società di tutti. In queste
settimane, poi, è stato pubblicato il volume Una disciplina alla prova. Quarta indagine
nazionale sull’insegnamento della religione nella scuola italiana a trent’anni dalla
revisione del Concordato, che presenta la si-tuazione dell’Irc a partire dalle risposte a dei
questionari molto articolati fornite da circa 3.000 insegnanti di religione e da oltre
20.000 studenti di ogni ordine e grado di scuola. Il volto attuale dell’Irc è assai diverso
da quello delineato dalla situazione sociale e culturale dell’Italia del 1985, quando fu
firmata la Prima Intesa sull’Irc dopo la Revisione del Concordato. L’indagine si colloca,
infatti, a trent’anni da quel nuovo modo di insegnare la religione cattolica e misura
quanto si sia realizzato il dettato concordatario di collocare questa disciplina “nel quadro
delle finalità della scuola”. La “prova” di cui parla il titolo del volume, infatti, è quella
della scolarizzazione della disciplina, cioè della compatibilità dell’Irc con finalità e metodi
della scuola, e gli autori della ricerca ritengono che si tratti di una prova superata in
maniera egregia. All’epoca della firma del nuovo Concordato pochi avreb-bero
scommesso sulla tenuta di questo insegnamento, che oggi invece mostra di essere
ancora vitale, con un tasso di adesione globale di poco inferiore al 90% di tutti gli
studenti italiani. La ricerca ha anche verificato il sapere religioso degli studenti, rilevando
che le cose vanno meno peggio di quanto si possa immaginare: le conoscenze bibliche,
almeno sui contenuti fondamentali, sono buone; la consapevolezza etica degli studenti
cresce col crescere dell’età; alcune conoscenze sulle altre religioni appaiono discrete. Vi
invitiamo, perciò, a compiere questa vostra scelta non solo a partire dalle vostre
posizioni religiose e dalla consape-volezza del valore dell’Irc, ma anche e soprattutto
sulla base di una reale conoscenza dei contenuti propri di questa disciplina scolastica.
Avvalersi delle opportunità offerte dall’insegnamento della religione cattolica a scuola
permette inoltre di trovare negli insegnanti delle persone professionalmente molto qualificate, ma anche testimoni credibili di un impegno educativo autentico, pronti a cogliere
gli interrogativi più sinceri di ogni persona e ad accompagnare ciascuno nel suo
personale ed autonomo percorso di crescita. Ci auguriamo che possiate cogliere con
generosità questa occasione di crescita, così da poter iniziare o continuare tra voi e con i
vostri docenti un proficuo dialogo educativo.
La presidenza della Conferenza episcopale italiana
CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 15 “N’do sta la tua misericordia?”. I poster dei conservatori. E il Papa:
serenità e distacco di Luigi Accattoli
Decine di manifesti nella Capitale. John Allen jr.: “Ricorda i volantini contro Wojtyla. In
Vaticano il coraggio divide”. Ordine di Malta, il vescovo Becciu nominato delegato papale
Città del Vaticano. Il fatto è senza precedenti, seppure solo romano, anzi romanesco:
decine di manifesti con l’immagine di papa Francesco e una scritta di contestazione in
dialetto sono apparsi ieri mattina in vari punti della Capitale. «A France’, ma n’do sta la
tua misericordia?» dice la scritta dopo aver elencato alcune decisioni del Papa che gli
anonimi accusatori segnalano come autoritarie e dunque - a loro giudizio - in contrasto
con la predicazione della misericordia che caratterizza il pontificato. In Vaticano
minimizzano e fanno sapere che Francesco, informato della comparsa della scritta,
avrebbe reagito alla notizia «con serenità e distacco». Questo ragguaglio sul suo
atteggiamento è verosimile, stante il fatto che quando gli viene chiesto - nelle interviste
- come valuta le contestazioni che riceve da varie fonti, compresa una parte della Curia
e compresi alcuni cardinali, usa rispondere: «Non ci perdo il sonno». O anche: «Fanno il
loro lavoro e io faccio il mio». Potrebbe essere un atteggiamento minimizzante che
nasconde una vera preoccupazione, ma a renderlo credibile c’è l’ininterrotto flusso delle
iniziative bergogliane di segno innovatore: se fosse spaventato si può immaginare che
ne rallenterebbe il ritmo. Il manifesto non è firmato, non riporta sigle o simboli, ma solo
la foto del Papa ripreso durante un’udienza nella piazza, incappottato e con l’aria scura,
quasi adirata. Questa la scritta: «A France’, hai commissariato Congregazioni, rimosso
sacerdoti, decapitato l’Ordine di Malta e i Francescani dell’Immacolata, ignorato
Cardinali... ma n’do sta la tua misericordia?». Il fatto più recente a cui allude la scritta è
l’intervento del Papa tra dicembre e gennaio per un cambio al vertice dell’Ordine di
Malta: Francesco - dopo un’inchiesta di cui non sono note le risultanze - ha imposto al
Gran Maestro di dare le dimissioni e ha rimesso nella vecchia carica il Gran Cancelliere
che il Maestro aveva dimissionato. I Francescani dell’Immacolata sono una
congregazione religiosa nata recentemente, con venature tradizionaliste e forti divisioni
interne, che Francesco ha commissariato poco dopo la sua elezione, dando seguito a
un’inchiesta che era stata avviata già da Papa Benedetto XVI. Quando il manifesto dice
che Francesco ha «ignorato Cardinali» fa riferimento al fatto che non ha dato risposta
pubblica - fino a ora - ai «dubbi» sull’esortazione Amoris laetitia che gli sono stati
sottoposti da quattro cardinali (Brandmüller, Burke, Caffarra, Meisner) che la ritengono
pericolosa per l’apertura verso i divorziati risposati. La scritta fa riferimento a questioni
che vengono spesso agitate dagli ambienti cattolici che resistono alle riforme e alle
decisioni di papa Bergoglio. L’iniziativa può dunque essere venuta da un piccolo gruppo
di quell’area. L’uso del dialetto fa pensare a una caratterizzazione e anche a una mira
localistica di chi ha composto la scritta. È la prima volta che appaiono in Roma manifesti
contro un Papa da quando fu risolta nel 1929 la «Questione Romana» (in precedenza
erano abituali), ma non è la prima volta che un‘immagine di papa Bergoglio appare sui
muri della Città eterna. Le cronache hanno parlato di due murales simpatizzanti, autore
Mauro Pallotta, comparsi nella zona di Borgo, vicinissima al Vaticano, nel 2014 e nel
2016. Ma prima ancora era comparso un altro murale - ancora visibile - su un muro di
cinta nelle vicinanze della stazione Cipro della Metro A, anch’essa vicina al Vaticano, che
rappresentava papa Bergoglio con un riflesso di sangue negli occhi e la scritta «Petrus
Romanus», che nella cosiddetta «Profezia di Malachia» è il motto dell’ultimo Papa dopo il
quale verrebbe la fine del mondo. Di sicuro questo non era un messaggio amichevole.
Roma. «L’apparizione di manifesti antipapali in Roma non mi meraviglia: siamo in un
mondo polarizzato e in una società della comunicazione che permette di esprimere per
intero la polarizzazione e anche la stimola. Potrebbe capitare che domani appaiano altri
manifesti contro questo Papa o contro il prossimo»: è l’opinione di John Allen che è stato
per sedici anni corrispondente da Roma e ora dirige Crux , il maggior portale
statunitense di informazione cattolica.
Però il fatto dei manifesti è senza precedenti...
«Non del tutto. Quando Papa Wojtyla fece la prima Giornata interreligiosa di Assisi, nel
1986, furono distribuiti per Roma volantini che l’accusavano di eresia e prima dell’ultimo
Conclave vedemmo anche, intorno al Vaticano, manifesti murali che dicevano “Vota
Turkson” (cardinale del Ghana, ndr). Dobbiamo abituarci all’irrompere delle novità
multimediali anche in ambito ecclesiastico».
Che dice dell’opposizione montante al Pontefice?
«Ci sono cattolici scandalizzati dalle novità portate da Francesco ma il fenomeno non va
né minimizzato né esagerato. Vedo che il favore dell’opinione pubblica sia cattolica sia
generale verso questo Papa è molto alto: in America è dell’80%, simile a quello di cui
godeva Giovanni Paolo II e leggermente superiore a quello che aveva Benedetto XVI».
Oggi negli Stati Uniti gli scontenti di papa Francesco sono di più che in Italia?
«Quelli che sono scontenti per ragioni di Chiesa sono forse pari, ma da noi sono più
numerosi che da voi gli scontenti per l’atteggiamento anticapitalista di Bergoglio e per il
suo favore alla cultura ecologica».
Se gli oppositori del Papa oggi non sono più numerosi che in passato, però sono più
attivi...
«Le differenze sono due. La prima è che i Papi generalmente erano contestati da sinistra
mentre questo lo è da destra e ciò rende la contestazione più interessante per i media.
La seconda è che oggi ogni contestazione, di un Papa o di un politico, ha più canali per
esprimersi, e così capita che sia più visibile anche quando non è maggiore».
È azzardabile un paragone tra la contestazione a Bergoglio e quella a Trump?
«Paragone istruttivo. Sono ambedue leader forti, ambedue hanno un sostegno quasi
fanatico in alcuni settori dell’opinione pubblica e un’opposizione altrettanto accesa in
altri. Ambedue sono polarizzanti così che non ci sono verso di loro molte opinioni fredde:
o sono amati, o sono odiati».
Forse ambedue cavalcano la polarizzazione?
«Ovviamente seguono regole diverse, l’uno è un pastore e l’altro un politico, ma al fondo
sono due populisti: non si rivolgono alle élites ma al popolo. E non si impressionano se
non raccolgono il consenso delle élites ».
Papa Francesco ha nominato l’arcivescovo Angelo Becciu, attuale sostituto per gli Affari
delegati alla Segreteria di Stato, suo delegato speciale presso il Sovrano Militare Ordine
di Malta. È stato lo stesso Bergoglio a comunicarlo con una lettera inviata al monsignore,
all’inizio del cammino di preparazione «in vista del Capitolo straordinario che dovrà
eleggere il nuovo Gran Maestro del Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni
di Gerusalemme, di Rodi e di Malta». Becciu «agirà in stretta collaborazione» con Ludwig
Hoffmann von Rumerstein, Luogotenente Interinale, «per il maggior bene dell’Ordine e
la riconciliazione tra tutte le sue componenti, religiose e laicali». Becciu e Hoffmann
decideranno insieme, scrive ancora papa Francesco, «le modalità di uno studio in vista
dell’opportuno aggiornamento della Carta Costituzionale dell’Ordine e dello Statuto
Melitense». Monsignor Becciu, nato in provincia di Sassari nel 1948, per volere di
Francesco «curerà tutto ciò che attiene al rinnovamento spirituale e morale dell’Ordine»,
fino «al termine del Suo mandato». In questo modo Bergoglio ha voluto metter fine,
senza farne menzione nella lettera, ai dissidi interni all’Ordine.
LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 17 Il giallo dei manifesti che attaccano il Papa: “E’ la destra cattolica” di
Paolo Rodari e Alberto Melloni
A chi fa paura la svolta di Bergoglio
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L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 7 Padri di speranza non professionisti del sacro
Il Papa chiede ai religiosi e alle religiose di mettere Cristo in mezzo al popolo
Vincere «la tentazione della sopravvivenza» che inaridisce i cuori e e li priva della
capacità di sognare: è l’impegno che il Papa ha chiesto ai consacrati e alle consacrate
durante la messa celebrata nella basilica vaticana venerdì pomeriggio, 2 febbraio, festa
della presentazione di Gesù al tempio.
Quando i genitori di Gesù portarono il Bambino per adempiere le prescrizioni della legge,
Simeone, «mosso dallo Spirito» (Lc 2, 27), prende in braccio il Bambino e comincia un
canto di benedizione e di lode: «Perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo
popolo, Israele» (Lc 2, 30-32). Simeone non solo ha potuto vedere, ma ha avuto anche
il privilegio di abbracciare la speranza sospirata, e questo lo fa esultare di gioia. Il suo
cuore gioisce perché Dio abita in mezzo al suo popolo; lo sente carne della sua carne. La
liturgia di oggi ci dice che con quel rito, quaranta giorni dopo la nascita, «il Signore si
assoggettava alle prescrizioni della legge antica, ma in realtà veniva incontro al suo
popolo che l’attendeva nella fede» (Messale Romano, 2 febbraio, Monizione alla
processione di ingresso). L’incontro di Dio col suo popolo suscita la gioia e rinnova la
speranza. Il canto di Simeone è il canto dell’uomo credente che, alla fine dei suoi giorni,
può affermare: è vero, la speranza in Dio non delude mai (cfr. Rm 5, 5), Egli non
inganna. Simeone e Anna, nella vecchiaia, sono capaci di una nuova fecondità, e lo
testimoniano cantando: la vita merita di essere vissuta con speranza perché il Signore
mantiene la sua promessa; e in seguito sarà lo stesso Gesù a spiegare questa promessa
nella sinagoga di Nazaret: i malati, i carcerati, quelli che sono soli, i poveri, gli anziani, i
peccatori sono anch’essi invitati a intonare lo stesso canto di speranza. Gesù è con loro,
è con noi (cfr. Lc 4, 18-19). Questo canto di speranza lo abbiamo ricevuto in eredità dai
nostri padri. Essi ci hanno introdotto in questa “dinamica”. Nei loro volti, nelle loro vite,
nella loro dedizione quotidiana e costante abbiamo potuto vedere come questa lode si è
fatta carne. Siamo eredi dei sogni dei nostri padri, eredi della speranza che non ha
deluso le nostre madri e i nostri padri fondatori, i nostri fratelli maggiori. Siamo eredi dei
nostri anziani che hanno avuto il coraggio di sognare; e, come loro, oggi vogliamo anche
noi cantare: Dio non inganna, la speranza in Lui non delude. Dio viene incontro al suo
popolo. E vogliamo cantare addentrandoci nella profezia di Gioele: «Effonderò il mio
spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani
faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3, 1). Ci fa bene accogliere il sogno dei
nostri padri per poter profetizzare oggi e ritrovare nuovamente ciò che un giorno ha
infiammato il nostro cuore. Sogno e profezia insieme. Memoria di come sognarono i
nostri anziani, i nostri padri e madri e coraggio per portare avanti, profeticamente,
questo sogno. Questo atteggiamento renderà fecondi noi consacrati, ma soprattutto ci
preserverà da una tentazione che può rendere sterile la nostra vita consacrata: la
tentazione della sopravvivenza. Un male che può installarsi a poco a poco dentro di noi,
in seno alle nostre comunità. L’atteggiamento di sopravvivenza ci fa diventare
reazionari, paurosi, ci fa rinchiudere lentamente e silenziosamente nelle nostre case e
nei nostri schemi. Ci proietta all’indietro, verso le gesta gloriose - ma passate - che,
invece di suscitare la creatività profetica nata dai sogni dei nostri fondatori, cerca
scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte. La psicologia della
sopravvivenza toglie forza ai nostri carismi perché ci porta ad addomesticarli, a renderli
“a portata di mano” ma privandoli di quella forza creativa che essi inaugurarono; fa sì
che vogliamo proteggere spazi, edifici o strutture più che rendere possibili nuovi
processi. La tentazione della sopravvivenza ci fa dimenticare la grazia, ci rende
professionisti del sacro ma non padri, madri o fratelli della speranza che siamo stati
chiamati a profetizzare. Questo clima di sopravvivenza inaridisce il cuore dei nostri
anziani privandoli della capacità di sognare e, in tal modo, sterilizza la profezia che i più
giovani sono chiamati ad annunciare e realizzare. In poche parole, la tentazione della
sopravvivenza trasforma in pericolo, in minaccia, in tragedia ciò che il Signore ci
presenta come un’opportunità per la missione. Questo atteggiamento non è proprio
soltanto della vita consacrata, ma in modo particolare siamo invitati a guardarci dal
cadere in essa. Torniamo al brano evangelico e contempliamo nuovamente la scena. Ciò
che ha suscitato il canto di lode in Simeone e Anna non è stato di certo il guardare a sé
stessi, l’analizzare e rivedere la propria situazione personale. Non è stato il rimanere
chiusi per paura che potesse capitare loro qualcosa di male. A suscitare il canto è stata
la speranza, quella speranza che li sosteneva nell’anzianità. Quella speranza si è vista
realizzata nell’incontro con Gesù. Quando Maria mette in braccio a Simeone il Figlio della
Promessa, l’anziano incomincia a cantare, fa una propria “liturgia”, canta i suoi sogni.
Quando mette Gesù in mezzo al suo popolo, questo trova la gioia. Sì, solo questo potrà
restituirci la gioia e la speranza, solo questo ci salverà dal vivere in un atteggiamento di
sopravvivenza. Solo questo renderà feconda la nostra vita e manterrà vivo il nostro
cuore. Mettere Gesù là dove deve stare: in mezzo al suo popolo. Tutti siamo consapevoli
della trasformazione multiculturale che stiamo attraversando, nessuno lo mette in
dubbio. Da qui l’importanza che il consacrato e la consacrata siano inseriti con Gesù
nella vita, nel cuore di queste grandi trasformazioni. La missione - in conformità ad ogni
carisma particolare - è quella che ci ricorda che siamo stati invitati ad essere lievito di
questa massa concreta. Certamente potranno esserci “farine” migliori, ma il Signore ci
ha invitato a lievitare qui e ora, con le sfide che ci si presentano. Non con atteggiamento
difensivo, non mossi dalle nostre paure, ma con le mani all’aratro cercando di far
crescere il grano tante volte seminato in mezzo alla zizzania. Mettere Gesù in mezzo al
suo popolo significa avere un cuore contemplativo, capace di riconoscere come Dio
cammina per le strade delle nostre città, dei nostri paesi, dei nostri quartieri. Mettere
Gesù in mezzo al suo popolo significa farsi carico e voler aiutare a portare la croce dei
nostri fratelli. È voler toccare le piaghe di Gesù nelle piaghe del mondo, che è ferito e
brama e supplica di risuscitare. Metterci con Gesù in mezzo al suo popolo! Non come
attivisti della fede, ma come uomini e donne che sono continuamente perdonati, uomini
e donne uniti nel battesimo per condividere questa unzione e la consolazione di Dio con
gli altri. Metterci con Gesù in mezzo al suo popolo, perché «sentiamo la sfida di scoprire
e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in
braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che [con il Signore]
può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un
santo pellegrinaggio. [...] Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto
buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da se
stessi per unirsi agli altri» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 87) non solo fa bene, ma
trasforma la nostra vita e la nostra speranza in un canto di lode. Ma questo possiamo
farlo solamente se facciamo nostri i sogni dei nostri anziani e li trasformiamo in profezia.
Accompagniamo Gesù ad incontrarsi con il suo popolo, ad essere in mezzo al suo popolo,
non nel lamento o nell’ansietà di chi si è dimenticato di profetizzare perché non si fa
carico dei sogni dei suoi padri, ma nella lode e nella serenità; non nell’agitazione ma
nella pazienza di chi confida nello Spirito, Signore dei sogni e della profezia. E così
condividiamo ciò che ci appartiene: il canto che nasce dalla speranza.
AVVENIRE di sabato 4 febbraio 2016
Pag 2 La speranza immensa (risorgeremo e vedremo) di Marina Corradi
Il Papa e “l’attesa di qualcosa che è stato già compiuto”
Nelle ultime Udienze generali il Papa insegna la speranza cristiana. Mercoledì scorso ha
parlato della comunità dei Tessalonicesi, fondata nella fede, con cui Paolo si rallegrava.
La Resurrezione di Cristo per i Tessalonicesi era ancora memoria viva, e nessuno ne
dubitava. Ma già l’ombra di un dubbio sorgeva in quella giovane cristianità: la difficoltà,
ha spiegato il Papa, era credere che i morti risorgano. Già allora dunque, e pure nella
certezza di Cristo vivo, l’impatto devastante della morte di una persona amata era tale
che anche una fede viva poteva tremare. Ogni volta, del resto, che ci troviamo di fronte
alla nostra morte, o a quella di una persona cara, veniamo messi alla prova, dice
Francesco. Quell’urto, il grido delle madri e dei padri e dei figli, continua nella storia, e
ogni volta ne sorge una cocente domanda. Poi magari, quando il tempo mitiga le ferite –
e non sempre ci riesce – la domanda si fa meno bruciante, ma resta latente. Mio padre,
mia madre, li rivedrò davvero? Quanti, anche cristiani, tremano nella certezza che pure
vogliono avere, davanti alla immensità di questa promessa. Ai fratelli di Tessalonica,
Paolo parlava della speranza della salvezza come di un «elmo». Immagine guerresca: un
elmo di acciaio, che protegga da ogni freccia o colpo del nemico. La speranza della
salvezza, ha detto con nettezza papa Francesco, «è l’attesa di qualcosa che è stato già
compiuto»; «è certezza che io sto in cammino verso qualcosa che c’è, non che io voglio
che sia». E quanto è bella questa parola perentoria, quanto fa bene a chi, dentro al
rumore e alla smemoratezza delle giornate, è toccato dal tarlo di quel dubbio antico: li
rivedrò? Davvero? Non pare a volte impossibile, davanti a una lapide muta, trovare la
certezza testimoniata dal Papa, e sentirsi addosso l’elmo di Paolo? Il fatto è, che bisogna
imparare a sperare. Francesco dice che bisogna imparare dalle donne incinte: quando
una donna sa di esserlo, «impara a vivere nella attesa di vedere lo sguardo di quel
bambino che verrà». Sperare, dunque, significa «vivere nell’attesa». Certi che
incontreremo il volto di Cristo, e con Lui ritroveremo tutti coloro che abbiamo amato,
come una gestante lo è di vedere gli occhi del figlio che ha nel ventre. Una sola cosa
impedisce questa speranza, avverte Francesco: chi è già pieno di sé e dei suoi averi, non
sa riporre la sua fiducia in nessun altro se non in se stesso. E anche questa è una
provocazione, come di uno che ti porga uno specchio e ti dica: guardati. Guardati
veramente. In che cosa speri? Non sei forse già sazio? Ma, ha confidato infine il Papa,
c’è una parola «che a me riempie della sicurezza della speranza». Ancora Paolo, ai
Tessalonicesi: «E così per sempre saremo con il Signore». Al che, sorridendo, benevolo
ma insistente, ha domandato alla folla: «E così per sempre saremo con il Signore. Voi
credete questo? Vi domando: voi credete questo?». Credere che incontreremo lo
sguardo di Cristo, così come una donna è certa di vedere quello del bambino che
aspetta, di quel «già e non ancora» che è in lei. Ci crediamo noi? Ci crediamo, davanti
allo schiaffo della morte di chi ci è caro? Che grazia, che armatura sarebbe una tale
incrollabile speranza – in questo mondo di fatica e di dolore, di cui leggiamo ogni
mattina sui giornali.
Pag 3 La Chiesa e il Mezzogiorno, storia di impegno e vicinanza di Angelo Scelzo
Dal 1948 ad oggi un cammino di attenzione mai interrotto
«In quest’ora di gravi trepidazioni, di violenti contrasti e di decisive battaglie, mentre
uomini di tutte le tendenze puntano il loro sguardo sul Mezzogiorno d’Italia (...) noi
arcivescovi e vescovi dell’Italia meridionale...». L’incipit tradisce gli anni, ma la solennità
del tono lascia capire quale e quanta urgenza vi fosse dietro un testo che, pagando il
poco dazio richiesto allora alla cronaca, passava subito alla storia; e non solo per
l’importanza e lo spessore del contenuto, ma per quelle firme, 73 vescovi, due prelati e
tre abati, poste a garanzia di un documento finalmente collettivo, affidato sì nella
stesura, a un leader del tempo, l’arcivescovo di Reggio Calabria, Antonio Lanza, ma
segno di una volontà e di un sentire comune. Qualcosa di molto vicino a un’unità che sul
versante Chiesa-società, nel Mezzogiorno non è stata mai scontata. Datata 25 gennaio
1948, la 'Lettera collettiva dell’episcopato dell’Italia meridionale su: i problemi del
Mezzogiorno' aprì il lungo corso degli interventi della Chiesa sulla realtà della parte più
povera del Paese. Nello stesso anno l’Italia si dava la Carta costituzionale. I cantieri della
ricostruzione, con la guerra appena alle spalle, si aprivano sulle strade ma anche nelle
aule e in tutti quei luoghi della cultura e del sapere dove i segni del progresso davano
alla ricostruzione la forma più nobile di rinascita. Una distinzione sottile che non
riguardava però una metà del Paese al quale non era certamente bastato il tratto
unitario, iniziato quasi novant’anni anni prima, per liberarsi almeno di qualcuno dei suoi
mali antichi: la miseria, la corruzione, in tutte le sue forme, la criminalità,
l’analfabetismo; e con il lavoro e le infrastrutture visti come traguardi di mondi lontani. I
termini della «questione meridionale», erano quindi già tutti presenti e ognuno di essi
minava a fondo, fino talvolta a distorcerla verso elementi di superstizione e vera e
propria magia – come testimoniato largamente dagli studi di Gabriele De Rosa – la
religiosità di un popolo sul quale la Chiesa, invece, faceva largo affidamento. Un segno
furono anche i molti vescovi provenienti dal Nord messi a capo di diocesi meridionali.
Vista dalla parte della Chiesa, l’arretratezza finiva per tarpare le ali anche a una crescita
più armonica della propria comunità. La 'lettera', in uno dei suoi passaggi più innovativi,
metteva su carta una condizione che creava innanzitutto inquietudini 'ad intra' sulla
purezza del sentimento religioso, tant’è – si affermava – che, di fronte a «forme
parassitarie e superstiziose, lo stesso vizio, osa, a volte, porsi sotto le ali della religione
e del culto». Spianato il terreno dagli equivoci di una contaminazione, restava la visione
spettrale di un Mezzogiorno cosparso di una povertà che arrivava ad uniformare e quasi
omologare il panorama complessivo. Terreni e ancora terreni, coltivabili e no, dai quali si
ricavava ricchezza per pochi e vite di stenti, e miseria in abbondanza per i più. Erano
stati proprio i problemi della terra, e la vita grama di coloni, braccianti, i feudi del
latifondo, a scuotere in maniera 'collettiva' i vescovi del mezzogiorno. La spinta decisiva
venne dalla « XXI Settimana sociale dei cattolici», tenuta l’anno prima a Napoli e su un
tema che non lasciava scorciatoie: «I problemi della terra e del lavoro nella dottrina
sociale della Chiesa». A nche questa era stata una strada a lungo preparata, e alla quale
aveva dato un contributo forte e originale don Luigi Sturzo. Al prete di Caltagirone riuscì
di mettere al servizio della «questione meridionale», due – apparentemente – opposte
direttive del magistero papale sull’impegno sociale dei cattolici: il «Non expedit» di Pio
IX e le indicazioni della «Rerum novarum» di Leone XIII che, all’inizio del nuovo secolo,
diedero forma e nuova sostanza alla dottrina sociale della Chiesa. Il divieto imposto ai
cattolici di partecipare alle elezioni politiche fu visto da don Sturzo (ma non solo) come
un’opportunità favorevole anche per il clero locale, per sottrarsi a forme di vecchio
clientelismo. Sul terreno parzialmente bonificato dal disimpegno finì per avere maggior
presa il clima della 'Rerum novarum'. La 'Lettera collettiva' fu in questo senso un punto
di arrivo, anche perché rendeva ragione dell’impegno isolato, ma di grande prospettiva,
di vescovi – come per esempio Nicola Monterisi – per i quali i problemi sociali non erano
una cosa a parte dell’azione pastorale delle chiese locali. Nel quarantotto il Concilio
Vaticano II era ancora lontano ma il timbro pastorale di quella 'Lettera' ne anticipava
quantomeno i toni. A richiamarli fortemente, anche nella forma di un linguaggio nuovo
(«la questione meridionale è questione di Chiesa e posta anche alla Chiesa») e nel nesso
tra evangelizzazione e promozione umana, fu il commento ufficiale che i vescovi italiani,
nel ventennale del documento e dunque negli anni immediatamente successivi alla
chiusura del Vaticano II, affidarono all’arcivescovo di Lecce, Michele Mincuzzi. Si voltava
pagina, nel senso di una più forte compromissione e vicinanza della Chiesa con il suo
popolo e, nel caso del Mezzogiorno, con un popolo vessato da molti problemi e tenuto
fuori, anche per qualche precedente silenzio della Chiesa, dai circuiti di sviluppo e di
progresso già innescati nel resto del Paese. Neppure negli anni del boom economico, i
mitici Sessanta, il divario tra le due Italie si è fatto più leggero. Anzi. Al Mezzogiorno è
toccato di pagare larghe quote di un benessere che non lo riguardava da vicino. La
'Questione', col tempo, ha cambiato l’ordine dei fattori, ma non il risultato: niente più
'patti agrari' e lotte per le terre, ma uno dopo l’altro, pur con la nascita di organismi di
sostegno – primo fra tutte la Cassa per il Mezzogiorno – i fallimenti di industrie che, in
cambio delle molte illusioni, hanno poi lasciato la realtà di una devastazione e di un
impoverimento del suolo. Aggiungendosi ad altre 'calamità' come la disoccupazione, la
malavita organizzata e le forme di corruzione, tuttora di ogni tipo; senza contare la
cronica carenza di infrastrutture e di servizi, a partire da una sanità che incoraggia
sempre più i 'viaggi della speranza' altrove per l’Italia o per il mondo. E la Chiesa? Il
Mezzogiorno aveva cambiato pelle sotto i suoi occhi; e una formula più di ogni altra
metteva a fuoco la nuova condizione: quella della 'modernità senza sviluppo' che
rivestiva il Sud della patina falsa di un benessere di facciata, privo del fondamento di
un’economia salda e che quindi esponeva tutta l’area alle insidie nuove di un
consumismo esasperato. La corsa ai consumi, mentre contribuiva a dilapidare le residue
risorse, erodeva anche i pilastri di una cultura di vita modellata largamente dall’aspetto
religioso. Veniva meno, in questo campo, la trasmissione naturale della fede e si apriva,
per gli operatori pastorali, la difficile prospettiva di un Mezzogiorno come terra di nuova
evangelizzazione e di vera e propria missione. Pur cambiando volto e riferimenti, l’antica
'questione' non scompariva certo dall’orizzonte della Chiesa meridionale; e anzi ne
diventava il tema più dibattuto, mobilitando Pastori e studiosi, diocesi e centri
universitari e, in prima linea, i numerosi istituti teologici dell’Italia meridionale. Anche tra
i vescovi, dopo gli anni dei Lanza, dei Monterisi, dello stesso Mincuzzi, padre spirituale di
don Tonino Bello, si formò un nuovo nucleo di pastori particolarmente attenti al tema
Mezzogiorno, come Nicodemo e Motolese, i cardinali Ursi a Napoli e Pappalardo a
Palermo, l’arcivescovo Sorrentino a Reggio Calabria. Tutti vescovi meridionali ma
ognuno di essi al centro di un’opera di largo respiro: era l’intera Chiesa italiana, ora, a
prendersi carico, nel suo insieme, di una questione che non riguardava solo più un’area
ma tutto il Paese. A sancire significativamente questo cambio di passo, un altro
documento dei vescovi italiani dell’ottobre ottantanove: 'Sviluppo nella solidarietà:
Chiesa italiana e mezzogiorno'. Per la prima volta si rendeva esplicito, ponendo
l’affermazione quasi a titolo di tutto il documento, che «Il Paese non crescerà se non
insieme». Si esprimeva l’intera Chiesa italiana e solenne era anche il mandato per quel
documento, sollecitato già dal larghissimo spazio che i problemi del Mezzogiorno
conquistarono all’interno del primo Convegno ecclesiale nazionale su «Evangelizzazione
e promozione umana» nel 76, e 'rafforzato' nel clima del successivo Convegno di Loreto
nell’ottantacinque su 'Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini', quando alla
Chiesa italiana venne chiesto un impegno deciso e visibile nella realtà sociale del Paese.
Non più quindi solo un impegno collettivo ma corale, di tutta la Chiesa sulla spinta
dell’incessante magistero di Giovanni Paolo II, sia attraverso i suoi numerosi e prolungati
viaggi pastorali nelle regioni e nelle città meridionali che nei discorsi per le «Visite ad
limina» degli episcopati meridionali. E con la memoria di quel drammatico e solenne
'Basta!' gridato in faccia ai mafiosi nel viaggio in Sicilia, ad Agrigento, a sottolineare la
forza dei gesti: come quello che, con non minore efficacia, replicò Papa Francesco a
Cassano Jonio, nel giugno di tre anni fa, e poi a Napoli nella memorabile visita in cui si
scagliò a suo modo (la «corruzione spuzza») contro il malaffare e ogni forma di violenza
organizzata. I pastori e accanto ad essi, a rafforzarne la voce, i papi, Wojtyla e
Bergoglio, ma anche Benedetto il quale si recò a Bari, per il Congresso eucaristico
nazionale, appena quaranta giorni dopo la sua elezione, prima di visitare poi Lametia
Terme, Il brindisino, Cagliari, Napoli e Pompei. E proprio da Napoli, nei giorni prossimi,
la Chiesa italiana riprenderà il discorso mai interrotto del suo impegno per il
Mezzogiorno. Come a dire, e a ribadire, che il Sud non può essere, tantomeno per la
Chiesa, un problema a sé.
Pag 17 Padrini, ruolo da rivedere. Ma ora bisogna fare presto di Luciano Moia,
Francesco Dal Mas, Filippo Rizzi e Alessandra Turrisi
Le diocesi in capo con proposte di rinnovamento. E continuano le polemiche scatenate
dal caso Riina
Padrini, un ruolo da rivedere. E senza perdere tempo. Il caso di Giuseppe Salvatore
Riina, figlio del boss pluri ergastolano, ammesso a fare il padrino di Battesimo alla
nipotina, a Corleone – per una serie di equivoci e “nulla osta” forse concessi in modo
affrettato – impone di avviare urgentemente il ripensamento di una funzione a cui la
fede e la tradizione assegnano grande rilievo. Occorre fare presto, sia perché i percorsi
di educazione alla fede dei bambini e dei ragazzi dovrebbero risultare tra le prime
preoccupazioni di una comunità, sia perché il rapporto di fiducia con le famiglie non può
essere scalfito da situazioni sgradevoli come quella verificatasi appunto tra Veneto e
Sicilia. Ecco perché da almeno un ventennio la Chiesa italiana riflette sulla necessità di
attualizzare la funzione del padrino, tra auspici di nuovo impegno e di maggior
coinvolgimento dei candidati nei percorsi di formazione – andava in questa direzione per
esempio il documento dei vescovi piemontesi del 2004 – e di ridefinizione più profonda
della figura di padrini e madrine come indicato negli Orientamenti per l’annuncio e la
catechesi in Italia, Incontriamo Gesù (2014), della Commissione episcopale Cei per la
dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi. In quel testo si raccomandava si scegliere
con grande cura le persone che avrebbero affiancato i genitori nella preparazione del
Battesimo e della Cresima, per accompagnarli a riflettere «sull’assunzione di
responsabilità connessa con questo ruolo e con la testimonianza di fede». Ma non solo.
Di fronte ai troppi casi di inadeguatezza dei candidati e alle situazioni in cui i parroci non
possono fare altro che constatare la distanza tra stili di vita ed esigenze di coerenza, i
vescovi ipotizzavano la creazione di due figure distinte, quella dei padrini di cui investire
però «operatori pastorali o altre figure significative dei gruppi familiari che operano in
parrocchia e conoscono i ragazzi», e quella dei “testimoni del rito sacramentale”, indicati
dalle famiglie, «che pur non avendo i requisiti richiesti, esprimono pur sempre una
positiva vicinanza parentale, affettiva ed educativa». Ipotesi lasciata alla valutazione
delle diverse Conferenze episcopali regionali che, a quasi tre anni, stenta ancora a
decollare. Prendono corpo invece – come già riferito su Avvenire di mercoledì scorso –
decisioni più radicali da parte di singole diocesi. Il vescovo di Melfi-Rapolla-Venosa,
Gianfranco Todisco, ha firmato un decreto con cui ha abolito per tre anni le figure di
padrini e madrine per Battesimo e Cresima, avviando allo stesso tempo «un urgente
rinnovamento della pastorale». Nel frattempo, la funzione di paternità e di maternità
nella fede, in occasione di Battesimi e Cresime, sarà assunta dall’intera comunità.
Decisione simile a quella che sta per essere varata dall’arcivescovo di Rossano-Cariati,
Giuseppe Satriano. Una scelta che non prevede la cancellazione dei padrini ma punta a
privilegiare chi, come educatori e catechisti, ha già avuto un ruolo significativo nel
cammino di preparazione.
Anche nel Nordest ci si chiede se i padrini o le madrine siano un’opportunità piuttosto
che un problema. Se lo sta domandando, ad esempio, don Paolo Cester, parroco di
Santa Lucia di Piave, provincia di Treviso r diocesi di Vittorio Veneto, con la Basilica del
beato fra’ Claudio, e di Sarano. «Il tempo che, come parroco, dedico a questo
argomento non è certo perso, ma è sempre più sproporzionato rispetto a questioni
essenziali – è la preoccupazione che don Paolo ha affidato in questi giorni al settimanale
diocesano L’Azione –. Infatti quasi la metà delle persone che chiedono l’idoneità a
svolgere questo ruolo si trova nella situazione di non poterlo fare, a norma del Diritto
canonico, e le chiacchierate che ne seguono sono spesso complesse». Una
preoccupazione, quella di don Paolo, condivisa da altri parroci. «Innanzitutto mi pare che
abbiamo smarrito il senso del ruolo dei padrini – ammette don Cester –. Non c’è quasi
più traccia, nella coscienza delle persone, che essi sono espressione della comunità che
accompagna i genitori nel difficile compito di educare alla fede. Invece sono percepiti
come persone che godono della stima dei genitori. E così è opinione consolidata che
debbano essere i criteri dei genitori quelli che contano, non quelli della Chiesa». Questa
opinione, poi, ha reso ormai prive di significato – secondo don Paolo – le indicazioni della
Chiesa su chi è idoneo al compito. Disposizioni che non provocano più una riflessione
sulla propria vita, sul valore del sacramento, sulla capacità di accogliere i limiti e le ferite
della propria storia personale, «ma sono percepite semplicemente come una bigotta
ingerenza sulle scelte delle famiglie». Conclusione? Piuttosto amara quella del parroco di
Santa Lucia di Piave. «Un po’ per provocazione, un po’ per convinzione, mi chiedo se
oggi la figura del padrino dica davvero qualcosa di buono alla nostra gente. Non mi pare
si esprima più il desiderio della comunità di stare a fianco ai genitori. Forse siamo noi
preti incapaci di trasmetterne il senso… o forse si tratta di una figura che ormai ha
smarrito il suo significato. Se così fosse, non credo sarebbe un tradimento sopprimerla».
«Porre la famiglia come soggetto evangelizzante, perché le famiglie cristiane ci sono e
rappresentano testimonianze importanti». Don Alerio Montalbano è parroco di San
Michele Arcangelo, una chiesa nella zona centrale di Palermo, ma da anni ricopre anche
l’incarico di direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale familiare assieme ai coniugi Lia e
Giuseppe Re. La questione della scelta dei padrini e del ruolo che queste figure devono
svolgere è, dunque, il suo pane quotidiano. Ma don Alerio non è un catastrofista. In base
alla sua esperienza, si sente di dire che «il ruolo dei padrini, in questi ultimi anni, sta
assumendo sfaccettature diverse. Mentre prima si coinvolgevano persone più per
tradizione, per rapporto di amicizia o di parentela, negli ultimi anni noto una presa di
coscienza maggiore di ciò che questo compito significa. Prova ne è che alcuni ragazzini,
che hanno ricevuto la Cresima, hanno preferito avere lo stesso padrino o la stessa
madrina del Battesimo, perché hanno visto in quella persona un punto di riferimento dal
Battesimo appunto e durante tutta la loro crescita». Don Montalbano non nega che ci
siano tante storie negative, «di persone con cui, dopo il Battesimo, non ci sono state più
relazioni, ma non sono la maggior parte». In teoria, il padrino assume un ruolo che
viene conferito dalla stessa comunità, ma quando, invece, questa relazione con la
comunità non c’è «ci può essere sempre la possibilità di cogliere l’intenzione iniziale.
L’avvicinarsi per chiedere il Battesimo per il proprio figlio o per fare da padrino può
essere l’inizio per un’accoglienza, per intraprendere un cammino di frequentazione della
stessa comunità. È davvero importante oggi che queste figure siano veramente inserite
nella loro parrocchia, che facciano un cammino di fede, che abbiano fatto nella loro vita
scelte conformi a quel ruolo». E il parroco osserva che il vero errore, forse, è che «i
sacramenti vengono vissuti a intervalli nella vita e manca un cammino progressivo nella
fede, non c’è una continuità, un inserimento in una comunità che diventi soggetto. Ma
non si può delegare tutto al parroco. Se qualcuno non ha nessuna persona da scegliere
come padrino, la comunità può essere responsabile davanti a questo bisogno ed
esprimere la persona giusta, che può essere un catechista, per esempio. Ma bisogna
porre la famiglia come soggetto evangelizzante. Le famiglie si facciano angeli che
accompagnano altre famiglie».
«Credo che per accompagnare a Sacramenti così importanti come il Battesimo e ancor di
più la Cresima sia necessario in particolare per i bambini ma anche per gli adolescenti
individuare dei testimoni credibili di unVangelo vissuto e non di comodo». È il
suggerimento che arriva dal sacerdote abruzzese dell’arcidiocesi di Chieti-Vasto, don
Emiliano Straccini, su come individuare e rintracciare la miglior figura di padrino o
madrina per accompagnare «nel modo più degno» i bambini e gli adolescenti a
Sacramenti che li vedono protagonisti. Da anni don Emiliano, classe 1978, ha in cura
due importanti realtà ecclesiali, incastonate nelle montagne d’Abruzzo, come le
parrocchie di Fara San Martino e di Civitella Messer Raimondo. «Cerco sempre di
confrontarmi con i genitori – è l’argomentazione – per scegliere i candidati migliori dove
soprattutto nel caso del Battesimo devono farsi “custodi” della fede futura e
dell’educazione cristiana di questi bambini». E aggiunge: «Quando è possibile io stesso
invito non solo i genitori ma anche i padrini a partecipare ai corsi che preparano al
Battesimo per far capire la simbologia di questo rito e “preparare” in questo modo anche
loro a questo importante Sacramento». Il giovane sacerdote individua in virtù come la
pratica frequente dei Sacramenti, come l’Eucaristia, la Confessione ma anche in «uno
stile e un modello di vita simile a quello impresso dai papà e dalle mamme al
battezzando » la via più sicura per rintracciare i candidati più appropriati a questo
delicato ruolo. «Frequentemente noi parroci – è la confidenza – ci troviamo di fronte a
scelte imposte dai genitori: alcune volte vengono individuate persone che non hanno
una coscienza sacramentale adeguata per accompagnare questi piccoli nel difficile
cammino di educazione cristiana ». Una scelta – quella dei padrini e delle madrine – che
deve corrispondere anche a un modello educativo per i bambini. «Spesso insisto con i
genitori ma anche con i candidati a questo importante ruolo – è l’argomentazione – a
capire il valore quasi “vicario” che hanno per i bambini proprio per far scoprire loro i
tesori nascosti che ci sono nella vita cristiana e di come proprio con il loro esempio
possano instillare nei piccoli l’importanza di essere dei veri “discepoli di Gesù” ». Una
scelta che – a giudizio del sacerdote abruzzese – deve rispettare alcuni criteri minimi.
«Credo che la strada più indicata – è l’annotazione – sia sempre quella di trovare
persone che vivano con coerenza la loro vita di cattolici e che soprattutto assieme ai
genitori possano rappresentare modelli credibili nell’accompagnamento dei bambini che
hanno bisogno di riferimenti forti in una società complessa come la nostra». Don
Emiliano è convinto che questa sia la via da imboccare per cercare i candidati adatti.
«Ritengo che questo sia un criterio utile – è la riflessione finale – anche perché così i
nostri stessi ragazzi riconosceranno in queste figure delle persone non solo adeguate e
degne ma anche in ascolto delle tante domande di senso sulla fede e sulla vita che
spesso crescendo rivolgono al cosiddetto mondo degli adulti. La soluzione? Puntare su
persone serie e credibili – che siano anche buoni conoscitori del Catechismo della Chiesa
cattolica – ma soprattutto innamorate del Vangelo e in sintonia con le nostre realtà
parrocchiali».
CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 19 “Racconto il cardinale Martini. Un dono che non va disperso” di
Giangiacomo Schiavi
Ermanno Olmi: è stato uno spirito profetico che invitava gli uomini a essere inquieti
Comincia dall’umanità di una sofferenza ingigantita dal vuoto della cameretta,
all’Aloisianum di Gallarate, la dedica cinematografica di Ermanno Olmi al cardinal
Martini. In un luogo che non è un luogo ma uno stato dello spirito, con la flebo che
sgocciola, il tic tac di una sveglia, il crocifisso sul muro e una finestra aperta sul bosco
che evoca libertà e misteri, silenzi e addii. La prima sequenza evoca quasi una
trascendenza, con la voce del regista che sembra quella affaticata e lenta del cardinale
malato, e si sovrappone a essa per diventare l’io narrante di un testamento etico nel
quale la forza della parola, fin dall’inizio, supera e salva ciò che muore. «La sua
esistenza profetica è un dono che non va disperso», dice il regista finalmente libero da
un impegno preso quattro anni fa. La scelta di essere lui stesso interprete e lettore dei
messaggi del cardinale, mette subito in chiaro il significato del titolo dato al film
documentario che sarà presentato venerdì 10 febbraio nel Duomo di Milano, Vedete,
sono uno di voi , prodotto da Istituto Luce Cinecittà con Rai Cinema. Olmi racconta il
cardinale come una parabola del Novecento, la sua umanità illuminata dalla fede, il
lungo ministero a Milano attraversato da dubbi e inquietudini, la figura alta e carismatica
del biblista capace di ascoltare e interpretare le ansie del presente, cercando una
risposta nel Vangelo e nelle Sacre scritture. «Dalla prima intervista ci siamo intesi,
abbiamo capito che coltivavamo da ambiti diversi lo stesso orticello. Il suo Vangelo è
anche il mio, la sua capacità di interrogare le coscienze, di mettersi in ascolto, di
guardare agli umili con lo stesso rispetto che si deve dare a ogni figlio di Dio, è una
grande lezione, lascia un’eredita pesante alla Chiesa e a tutti noi». C’è voluto molto
tempo, tanta fatica, un grande entusiasmo per completare il film. Scrutando nel passato
e cercando il filo di una vocazione che ha sorpreso prima di tutto una famiglia della
borghesia piemontese, il regista ha ritrovato l’Italia, con i suoi demoni e i suoi squarci di
luce: dietro il futuro cardinale c’è la Torino tra le due guerre, il liceo D’Azeglio,
l’educazione nel rigore che scandisce i tempi dello studio e delle vacanze, il benessere
non ancora stravolto dagli orrori del conflitto. Foto d’epoca e immagini da cinegiornale
documentano le domeniche al Valentino, i tuffi in riva al Po, la vastità sinistra delle
adunate in camicia nera, l’annuncio del Duce che irrompe via radio nel salotto di casa,
deserto, come un presagio di morte.
La vocazione e la famiglia stupita - E poi c’è la lettera di Leonardo Martini, ingegnere,
padre del futuro arcivescovo, che ricorda lo straniamento suo e della moglie,
annunciando al fratello Pippo «una grande ma non troppo lieta novità»: l’intenzione del
figlio Carlo Maria di votarsi alla vita religiosa. «I Martini erano un nucleo molto unito, con
quel pudore sabaudo che invitava a dirsi per iscritto ciò che coinvolgeva la casa», ricorda
Marco Garzonio, biografo del cardinale e coautore della sceneggiatura. Un figlio che sta
per farsi prete induce a raccontare quanto di più profondo la persona ha nel cuore,
magari di inconfessabile. «Il pensiero di staccarmi per sempre da un ragazzo così buono
e così caro mi rattrista profondamente», scrive il papà. Il 25 settembre 1944, a 17 anni,
Carlo Maria Martini entra nel collegio della Compagnia di Gesù a Cuneo. Sul portone, a
salutarlo, c’è solo la madre. Olmi indugia sugli studi e sulla formazione teologica del
futuro cardinale che giganteggia con le lauree, le edizioni in greco e latino del Nuovo
Testamento, le scritture ebraiche che lo avvicinano sempre più a Gerusalemme e lo
portano a diventare rettore della Pontificia università Gregoriana. Fissa con lo sguardo le
immagini di una Milano irriconoscibile, livida, impaurita, dove si spara e si muore in
solitudine nell’auto per un’overdose, una città alle prese con i miti perduti, avvelenata
dal terrorismo e dal banditismo economico. Fa vedere un vescovo polacco che entra nel
destino di Martini con l’invito a esporre, nei Paesi europei ancora divisi dal Muro, le tesi
sul dialogo interreligioso.
Vescovo negli anni Ottanta - Sarà lui, Karol Wojtyla, diventato Papa, a chiamarlo alla
cattedra di Ambrogio il 29 dicembre ‘79, vincendo le resistenze del gesuita che mai e poi
mai pensava di fare il vescovo senza apprendistato. Appena insediato Martini deve
inginocchiarsi sul corpo crivellato di colpi del giudice Galli e trovare le parole per lenire il
dolore alla messa funebre di Walter Tobagi, il giornalista assassinato dai folli epigoni del
brigatismo. È li che la sua parola scuote, rovescia rassegnazione e indifferenza, diventa
il grido di una città ferita. «Mi ricordo quella Milano degli anni 80 - aggiunge Olmi -.
Uscivi di casa e ti bollivano i piedi, c’era disagio e smarrimento, la ricchezza navigava
solo nella categoria dei ricchi». Con le sue lettere pastorali il cardinale diventa
seminatore di speranze, vescovo del dialogo, sollecita l’attenzione verso gli altri, gli
umili, le persone dimenticate o ferite nella dignità, invita i giovani a comunicare con il
silenzio e spiazza tutti quando chiama chi non crede in Duomo, per interrogare e
interrogarsi. «La Cattedra dei non credenti diventa una nuova agorà e Martini è il
defensor civitatis», scriverà Claudio Magris: esce dal buio dei tempi con la forza della
parola. Quando dice «l’uomo è più di quanto possiede», «la politica sta rubando la
speranza ai giovani», « Milano è una citta che sa risorgere, orgogliosa di sentirsi
comunità», «l’Europa non può essere solo quella dei mercati», «chi ha responsabilità
pubbliche deve anche saper sognare», non anticipa i temi di oggi?
Le aperture sui temi etici - Vedete, sono uno di voi, è un film manifesto che tiene accesa
la fiaccola della speranza impugnata da Martini davanti alle ingiustizie del mondo, alle
sopraffazioni, all’umiliazione dei diritti, alla corruzione, alla carenza di linguaggi. Flash
che segnano un’epoca: la visita a San Vittore, l’incontro con i detenuti, il battesimo per
la figlia di una brigatista e le armi che i terroristi gli fanno avere in tre grosse borse,
all’Arcivescovado, in segno di resa. Racconta Olmi: «Nulla lo spiazzava, lo sorprendeva.
Immediatamente trovava una risposta nella Bibbia». Anni intensi, vissuti, sofferti. Con le
gerarchie di Roma in aperta ostilità per le aperture sui temi etici, dalla comunione ai
divorziati al testamento biologico. «Un giorno mi ha detto: la Chiesa è rimasta indietro di
200 anni. Condivido. Prima di papa Francesco si stava dimenticando di Gesù». Martini,
Olmi, Milano, la ragione, l’anima, il cuore. Il cardinale dialoga con il mondo ma la città
resta metafora di un impegno che sollecita l’attenzione verso gli altri. C’è Tangentopoli.
Passano le immagini del crollo morale di un sistema, politici e imprenditori in manette, il
lancio di monetine a Bettino Craxi. Olmi fa sentire un audio con la voce di Silvio
Berlusconi: è crollata la Prima Repubblica e il nuovo corso inizia con la filosofia
immobiliare di Milano Due… Tira un grosso sospiro il regista che in questi mesi non si è
risparmiato. «Era un atto dovuto per il cardinale che ha predicato il risorgimento morale
e ci ha invitato a essere inquieti». Si ritorna nella cameretta, «a quell’istante in cui c’è
ancora un futuro ma appena dopo è passato», dice Olmi. La sua voce si interrompe. La
staffetta è finita. Ma l’addio non è triste. «Martini se n’è andato con eleganza». C’è il
sentimento dell’uomo nelle ultime parole del cardinale davanti al rabbino Laras. Sembra
davvero dire: vedete, sono uno di voi.
Pag 20 La Chiesa resterà unita nell’epoca di Trump di Andrea Riccardi
Casa Bianca e Vaticano
Il confronto verrà presto fra Trump e papa Bergoglio, solo altro leader in Occidente: lo si
pensa anche negli ambienti vicini alla Casa Bianca. Ma papa Francesco è prudente, come
si vede nell’intervista a El País : non polemizza con il presidente, aspetta, perché non
farà da contraltare a Trump. Il confronto tra i due si potrebbe spiegare - alcuni lo fanno
- come scontro tra un presidente di destra (anche con la ripresa di temi cari ai cattolici,
come la lotta all’aborto, fatta nella lettera del vicepresidente Pence alla marcia antiaborto) e un papa di sinistra. Trump, in uno scontro, potrebbe aggregare settori di
cattolici e vescovi americani, legati alle battaglie culturali sui valori non negoziabili. Così
s’incuneerebbe all’interno della Chiesa cattolica, indebolendo il Papa e allargando il
consenso. Ma le categorie destra/sinistra non spiegano molto. Anche perché, il Papa sta
facendo i conti in modo rispettoso con i tradizionalisti, cioè la «destra» nella Chiesa.
Sono sorprendenti le dichiarazioni del superiore dei lefebvriani, mons. Fellay, secondo
cui sarebbe vicino un accordo con il Papa. Roma formerebbe una prelatura personale
tradizionalista, rispettandone l’identità e il rito preconciliare. I lefebvriani dichiarerebbero
la sottomissione al papa. Questi ha già dato loro il potere di confessare in modo valido
per la Chiesa. L’operazione, non riuscita a Giovanni Paolo II (vincitore del comunismo) e
a Benedetto XVI (il teologo della tradizione), sarebbe invece condotta in porto da
Francesco, che ha meno credenziali dei predecessori. Ma il Papa è aperto al pluralismo di
posizioni nella Chiesa, quindi anche ai lefebvriani. Inoltre questi ultimi subiscono
l’estremizzazione di alcuni loro segmenti e il logorio tipico di un movimento privo di un
riferimento autorevole. L’unione con il Papa rafforzerebbe l’autorità di Fellay sulla
galassia tradizionalista, anche se ci sarà qualche rottura. È un fatto su cui dovrebbero
riflettere le personalità ecclesiastiche critiche su Francesco: come sia possibile per un
cattolico invocare la tradizione ed essere in contraddizione con il Papa. Pio IX disse
polemicamente ad alcuni vescovi orientali al Vaticano I: «La tradizione sono io».
L’assenza di legame con il papa genera una posizione difficile da tenere e provoca derive
settarie e rotture. Un papa, considerato «di sinistra», si riconcilierebbe con la «destra»
tradizionalista. È un primo paradosso. Però i provvedimenti di Bergoglio nei confronti
dell’ordine di Malta, il cui patrono è il cardinal Burke, espressione forte dell’opposizione
curiale e americana, mostrano che egli non intende lasciare questa istituzione (attiva e
ricca) preda di possibili sbandamenti o nelle mani dei tradizionalisti. Francesco, che ha
tollerato la permanenza delle opposizioni ai vertici curiali, è capace di decisioni ferme,
quando si tratta del futuro di parti della Chiesa. È vero che l’opposizione nella Chiesa,
nostalgica di Wojtyla e Ratzinger, guarda ormai con distacco al Papa; tuttavia forse
dovrebbe riflettere sulla grande partita che oggi si gioca nella tenuta interna della Chiesa
e a livello internazionale e – direi - di scelta di civiltà. È in gioco, in questi momenti,
l’eredità dei due predecessori di Bergoglio. Il confronto con il presidente americano non
è solo su scelte politiche, ma su cultura e ideologia, che saranno riprese ovunque a
seguito dell’effetto Trump. Il nazionalismo «eccessivo» - avrebbe detto Pio XI tra le due
guerre - di Trump va in altro senso rispetto all’universalismo e alla teologia delle nazioni
di Wojtyla, ma anche alla visione di Ratzinger. Questi, nel 2008, in piena crisi georgiana,
disse: «Occorre approfondire la consapevolezza di essere accomunati da uno stesso
destino, che in ultima istanza è un destino trascendente, per scongiurare il ritorno a
contrapposizioni nazionalistiche…». Tale è stato il sentire dei papi del Novecento:
l’affermazione della «famiglia delle nazioni» contro l’esasperazione della supremazia
dell’uno o l’altro popolo. Francesco è l’erede di questa storia. Sarebbe un’ingenuità,
strana per un realista come Trump, sopravvalutare le opposizioni al Papa da parte di
vescovi americani e pensare di dividere la Chiesa con un’azione anti Francesco. Una
voce, circolata alcuni giorni fa, parlava d’incontri diretti tra Trump e qualche cardinale
americano non filoBergoglio. Non sembra però fondata. Invece i cardinali statunitensi
vicini a Francesco fanno sentire la loro voce con sistematicità sui provvedimenti di
Trump. Quello di Chicago, Cupich, ha parlato di «un momento oscuro per la storia degli
Stati Uniti». Con lui, i cardinali O’ Malley e Tobin. Quest’ultimo ha stigmatizzato il
«rigurgito di massa di fronte a una sorta d’isolazionismo etnico di matrice razzialebianca…». Si è aggiunto il nuovo presidente dei vescovi americani il card. DiNardo (non
un bergogliano, anzi al sinodo sul matrimonio firmò la lettera dei tredici, preoccupati
delle procedure e dei cedimenti). DiNardo rivendica il valore dell’accoglienza allo
straniero e il legame tra cristiani e musulmani. Il Papa testimonia, a fronte di Trump,
una concezione «cattolica» condivisa. Si legge nell’appello, firmato ad Assisi da
Francesco con i leader religiosi nel settembre scorso e ripreso nel discorso papale ai
diplomatici, quasi una base per un’alleanza tra le religioni: «Si apra finalmente un nuovo
tempo, in cui il mondo globalizzato diventi una famiglia di popoli. Si attui la
responsabilità di costruire una pace vera… attenta ai bisogni autentici delle persone e dei
popoli, che prevenga i conflitti con la collaborazione, che vinca gli odi e superi le barriere
con l’incontro e il dialogo. Nulla è perso, praticando effettivamente il dialogo». Per il
Papa, first è il bene comune della famiglia delle nazioni, non l’interesse o la supremazia
di una nazione, fosse la più potente e civile. Qui si sentono pulsare le fibre profonde
della visione cattolica, che ha resistito a crisi anche in periodi tempestosi.
LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 16 Preti e disprezzo per le donne, andiamo oltre lo sconcerto di Sandro G.
Franchini
La faccenda dei due preti padovani dovrebbe essere dimenticata e rinchiusa nella
penombra del confessionale e non si vuole qui riprenderla se non per farne pretesto per
compiere un passo successivo: andando oltre allo sconcerto dell’opinione pubblica, che
ha reagito in modo diverso passando da parole di ferma condanna all’indifferenza, dalla
minimizzazione al giudizio sommario, e prendendo atto della reazione della gerarchia,
ora penitente e riflessiva, ora sicura nella ferma condanna di fatti giudicati aberranti il
cui argine va trovato nella fermezza e nella severità della selezione dei candidati. Quanto
ai preti, pare di poter registrare un generale silenzio, a parte alcune appassionate e
dichiarazioni di amore e fedeltà alla Chiesa. Del resto che potrebbero dire? La maggior
parte di loro compie un duro lavoro senza suscitare mai l’attenzione dei media, nella
personale difficile ricerca di dare risposte adeguate alla vocazione e al mandato ricevuto.
Eppure in alcuni lontani e pur distratti e distaccati lettori di queste vicende, sono sorti
pensieri che è difficile ignorare. Molti di quelli che hanno avuto una pur minima
esperienza di parrocchia e di catechismo sono cresciuti assorbendo il modello ideale del
sacerdote come persona sacra per antonomasia, angelicata, “alter Christus”, che
consacra e benedice ex opere operato, in virtù di un sacramento specifico che lo separa
dal mondo e in qualche mondo lo separa anche da se stesso, un modello che però
scricchiola da tutte le parti e dal quale deriva quasi immediatamente l’obbligo e
l’esaltazione del celibato. Le tradizionali sicurezze che sostenevano il prete (un prestigio
sociale che implicava un isolamento, la ben nota “solitudine dei preti”, tema caro a tanta
letteratura del Novecento, di cui solo qui si ricordano le pagine del cattolico Bernanos) e
il modello sacerdotale definitivamente impostosi nell’Ottocento, oggi vacillano nella
coscienza dei preti stessi e soprattutto non è più esportabile: la cultura occidentale, con i
suoi parametri, poteva essere mostrata ad esempio e paradigma in ogni parte del
mondo, ma oggi non è più così e anche la figura del prete deve fare i conti con modelli e
sensibilità nuove. In alcuni seminari si sta cercando di reagire riproponendo pari pari il
modello sacerdotale ottocentesco: tonache, colletti inamidati, mani giunte, liturgie
attentissime alle genuflessioni e agli inchini, riproposizione di esempi di castità angelica
come quella di San Luigi Gonzaga, esaltazione del culto mariano (materno e
rassicurante), ritorno al rosario con rinnovate e a volte fantasiose formule devozionali.
Ma tutto ciò non porterà lontano. Non è tanto e non è solo il problema del celibato
(cartina di tornasole di uno “stato della fede”), ma è un “problema prete” in generale.
Sarà difficile per la Chiesa e per le comunità dei fedeli anche solo affrontarlo, non
parliamo di accennare a una soluzione. Bisognerebbe passare per una nuova
generazione di vescovi, che educati alla collegialità siano più colti e coraggiosi, meno yes
men di una Santa Sede che sembra sempre meno propensa a dettare ricette
precostituite per tutti e già pronte; bisognerebbe passare per un clero capace di farsi
sentire. Se il concilio Vaticano I nell’Ottocento ha innalzato alle stelle la figura del papa,
il concilio Vaticano II ha ridato voce e rilievo ai vescovi, in precedenza schiacciati in un
ruolo di funzionari esecutori. Forse un Vaticano III saprà, stemperando la visione
rigidamente gerarchica della Chiesa, valorizzare i preti? Quei preti che oggi già, spinti da
zelo ammirevole, cercano di rinnovare le loro comunità pur tra le mille difficoltà poste da
una struttura ecclesiale spesso rigida e spaventata. Ma poi, alla fine, pesa il silenzio
inspiegabile sulla questione del posto delle donne nella chiesa. Quello che più ha colpito
dei fatti padovani, non sono tanto le relazioni affettive e sessuali, quanto il disprezzo
dimostrato per le donne, tipico degli ambienti maschilisti più esasperati. Il tema del
sacerdozio alle donne prima o poi verrà affrontato seriamente, non c’è dubbio, ma se ne
deve fare di strada! Se pensiamo che solo fino a pochi anni fa le suore, se non erano
chiuse nei conventi di clausura, erano considerate capaci solo, e nelle migliori ipotesi, di
fare da infermiere o da maestre per i bambini, quando non erano altro che le cuoche e le
lavandaie dei preti. Il ministero del prete è uno dei punti dolenti e al tempo stesso una
delle glorie più pure e quindi uno dei momenti più problematici della nostra storia
religiosa e i fatti padovani non possono essere considerati soltanto un fatto di lenzuola
(e in quanto tali andrebbero dimenticati e taciuti dopo l’iniziale can can). La realtà è
molto più complessa. Niente di ciò che appartiene alla storia degli uomini è solo volgare:
nelle pieghe c’è sempre qualcosa di alto e profondo e, anche nelle colpe più
apparentemente basse, vi è qualcosa di nobile perché generato dalla sofferenza.
Pag 37 Così parlano i papi e nella parola è il loro vero potere di Alessandro
Barbero
Il rapporto tra la Chiesa e il mondo nei secoli
In principio era il Verbo, dice il Vangelo di Giovanni. Io sono l’Alfa e l’Omega, dichiara il
Signore nell’Apocalisse. Come dire: Dio è l’alfabeto, dall’A alla Z. Il Verbo, ovvero il
logos, che è Dio e il figlio di Dio, vuol dire il discorso e il ragionamento. La parola regna
sovrana nella religione cristiana, come nelle altre fedi monoteiste, che non per niente i
musulmani chiamano religioni del Libro. Certo, la Chiesa medievale, che regnava su una
maggioranza di analfabeti, li istruiva anche con le immagini, raffigurando le storie della
Bibbia sulle pareti delle chiese. Ancora ai nostri tempi il papa che i giornalisti amavano
definire il Grande Comunicatore, Giovanni Paolo II, comunicava col gesto e col viso
ancor più che con la parola. Di lui ricordiamo qualche frase, magari proprio riferita con
umorismo ai problemi del linguaggio («se sbalio mi corigerete!»), ma soprattutto le
espressioni del volto: radiose nei primi anni, poi, verso la fine, tramutate in una
maschera di sofferenza, un’icona del sacrificio. E ancora: c’è stata un’epoca in cui i papi
mobilitavano eserciti e proclamavano guerre, anzi è un’epoca vicina a noi, finita solo nel
1870: solo nel contesto del Novecento si può capire la battuta di Stalin, «Quante
divisioni ha il papa?». Ma anche quando sconfiggevano imperatori e bruciavano eretici,
l’arma più forte dei papi non è mai stata la cavalleria del re di Francia, l’oro dei Medici o
le spie dell’Inquisizione. I papi si sono sempre presentati al mondo attraverso la parola:
per comandare, maledire, argomentare, consigliare, sedurre. E dunque il linguaggio dei
pontefici è un indicatore sensibilissimo del loro atteggiamento nei confronti del mondo, e
del rapporto fra la Chiesa e l’epoca in cui vive. Lungi dall’essere immutabile, come si
potrebbe ingenuamente credere giacché proviene da un’istituzione millenaria, il
linguaggio del papa cambia con i secoli ed è ogni volta testimone di un’epoca. Ecco
perché Sorrentino può stupire il pubblico attribuendo al suo young Pope un linguaggio
d’una durezza che non è più del nostro tempo, e papa Francesco può far discutere
minacciando di tirare un pugno a chi offende sua mamma. Nel Medioevo i papi dicevano
ben altro, e nessuno si scandalizzava; ma oggi non possono più farlo. E d’altra parte, se
i papi del Novecento avessero usato verso Hitler il linguaggio con cui i loro predecessori
schiacciavano Federico di Svevia sarebbe stato un miracolo, e forse avrebbe cambiato la
storia. Un viaggio attraverso le parole dei papi è dunque un modo per scoprire come si è
trasformato nei secoli l’atteggiamento della Chiesa verso il mondo. I papi del Medioevo
erano sicuri di aver ricevuto da Dio il mandato di governare non solo la Chiesa, ma
l’umanità, e di brandire non solo la spada spirituale, ma anche quella temporale. Dopo
tutto, argomenta papa Bonifacio VIII, quando Pietro tagliò l’orecchio a Malco Gesù gli
intimò «metti via la tua spada». Tua, disse: e dunque anche la spada temporale, con cui
si tagliano le orecchie e le teste, appartiene al successore di Pietro. I papi del Medioevo
davano ordini a re e imperatori, e quando costoro disubbidivano li fulminavano con
poderosi anatemi biblici; ma si preoccupavano anche di spiegare e dimostrare ai fedeli
che avevano il diritto di farlo. Poi, comandare diventò un’abitudine, e la supremazia
terrena del papa un dogma, che non c’era più bisogno di dimostrare. I papi del
Rinascimento sanno ancora mobilitare una sontuosa retorica biblica, ma hanno perso
l’abitudine di argomentare: quando Leone X scomunica Lutero, non si prende la briga di
dimostrare che le sue tesi sono sbagliate, si limita a ricordare ai fedeli che devono
obbedire a lui, il papa, così ciecamente che non dovrebbero credere neanche al Vangelo
se non ci fosse la Chiesa a ordinarlo. Non era l’atteggiamento migliore per affrontare la
modernità, la riforma protestante, l’illuminismo: per secoli i papi sono schiacciati sulla
difensiva, e all’inizio dell’Ottocento la loro parola è ridotta a un piagnisteo. I papi
piangono i velenosissimi errori che si sono diffusi nel mondo per colpa del diavolo: la
libertà di pensiero, di coscienza, di stampa, il liberalismo e la democrazia... Sembrava
che la Chiesa non avesse più un posto nel mondo moderno, e invece non sarà così:
verrà Leone XIII con la Rerum Novarum a parlare di capitale e lavoro, scioperi e lotta di
classe; verrà papa Giovanni con la Pacem in terris a parlare di diritti e di libertà. Fin qui
arriva lo storico: dove porterà la Chiesa la parola di Francesco, è ancora tutto da
scoprire.
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4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016
Pag VI Azione Cattolica, il patriarca nomina Alessandro Molaro nuovo presidente
Il nuovo presidente dell'Azione cattolica veneziana è Alessandro Molaro, 55 anni, che
prende così il posto di Teresa Scantamburlo al termine del mandato triennale. La nomina
è giunta oggi dal Patriarca Francesco Moraglia dopo aver raccolto, come previsto da
Statuto, il parere del Consiglio diocesano rinnovato di recente nella XVI Assemblea
Elettiva e convocato il 2 febbraio scorso. Molaro è sposato, padre di due figli, lavora in
banca e proviene dalla parrocchia di San Giorgio di Chirignago. E' aderente all'Azione
cattolica veneziana dal 1980. «Sono contento della fiducia che mi è stata dimostrata - le
prime parole del neopresidente - e intendo così confermare il mio impegno e il mio
servizio in Azione cattolica. Ci metterò, come sempre, grande passione. Quella passione
per il Signore e per il servizio nella sua Chiesa che vorrei appartenesse sempre di più a
tutti noi». L'assistente unitario dell'Ac veneziana, don Danilo Barlese, ha così
commentato la nomina: «Ringraziamo il Signore per questo dono e continuiamo ad
accompagnare con la preghiera e la testimonianza l'Azione cattolica, la vita della nostra
Chiesa e del nostro Paese». L'Azione cattolica veneziana (che conta 1040 iscritti ed è
una presenza stabile in 21 parrocchie del territorio diocesano) esprime con una nota
grande gioia «Per la scelta del suo Pastore e ringrazia Alessandro Molaro per la generosa
disponibilità. Il Consiglio Diocesano attende di essere presto riconvocato per dare volto
ai componenti della presidenza che affiancheranno Alessandro nello svolgimento del suo
servizio. Con i propri percorsi formativi e la sua passione per il mondo, l'Azione Cattolica
non mancherà di offrire il necessario contributo laicale».
Pag XII Nuovo laboratorio e giovani diplomati. Doppia festa per l’Istituto
Salesiano
É stato un grande giorno per gli studenti dell'Istituto Salesiano San Marco. I giovani
professionisti del domani hanno ora a disposizione un nuovo Laboratorio Energie, un'aula
didattica donata e allestita con prodotti dell'azienda Vaillant a energia rinnovabile.
L'inaugurazione è avvenuta nei giorni scorsi nel contesto della celebrazione che l'Istituto
organizza in occasione della consegna degli attestati di qualifica e delle borse di studio
per gli studenti del Centro formazione professionale e dell'Istituto tecnico tecnologico a
indirizzo grafico e meccatronico San Marco. Sono stati premiati 22 studenti con la borsa
di studio di 500 euro, 11000 euro distribuiti grazie al supporto di aziende, associazioni di
categoria, amici dell'Opera Salesiana che credono nella missione educativa. Presenti
autorità e aziende che da sempre collaborano con il San Marco. Nel corso della
manifestazione la preside dell'Itt Claudia Cellini ha tagliato il nastro del nuovo
laboratorio di Energie, allestito con sistemi di alimentazione ad energie rinnovabili e
laboratorio metrologico per l'analisi degli impianti in ambiente controllato grazie a
termotelecamere, sonde e datalogger. L'aula didattica è stata donata dall'azienda
Vaillant come investimento per i futuri tecnici del settore. «Il San Marco è arrivato ad
accogliere quasi 700 studenti e i numeri sono in aumento. C'è bisogno della nostra
esperienza e passione educativa, ma anche del supporto di istituzioni, aziende,
associazioni e singoli cittadini» ha affermato don Enrico Gaetan, direttore dell'Istituto.
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 17 Molaro presidente dell’Azione cattolica di n.d.l.
Succede a Teresa Scantamburlo
Cambio ai vertici dell'Azione cattolica veneziana. Il neo presidente è Alessandro Molaro e
succede a Teresa Scantamburlo che aveva appena concluso il suo mandato triennale. È
stato nominato ad triennium dal patriarca Francesco Moraglia dopo aver raccolto il
parere del Consiglio diocesano, rinnovato di recente nella XVI assemblea elettiva dello
scorso 15 gennaio e convocato il 2 febbraio, che ha scelto come espressione guida per il
documento triennale "Fare nuove tutte le cose. Radicati nel futuro, custodi
dell'essenziale". Il neo presidente Molaro ha 55 anni; sposato con due figli lavora in
banca e proviene dalla parrocchia di San Giorgio di Chirignago; è aderente all'Azione
cattolica veneziana sin dal 1980. Il primo commento del neo presidente: «Sono contento
della fiducia che mi è stata dimostrata e intendo così confermare il mio impegno e il mio
servizio in Azione cattolica. Ci metterò, come sempre, grande passione. Quella passione
per il Signore e per il servizio nella sua chiesa che vorrei appartenesse sempre di più a
tutti noi». In una nota l'Azione cattolica veneziana - l'assistente unitario è don Danilo
Barlese - esprime grande gioia «per la scelta del suo pastore e ringrazia Alessandro
Molaro per la generosa disponibilità con la quale accoglie tale chiamata del Signore. Il
Consiglio diocesano attende di essere presto riconvocato per dare volto ai componenti
della presidenza che affiancheranno Alessandro nello svolgimento del suo servizio. Con i
propri percorsi formativi e la sua passione per il mondo, l'Azione Cattolica non mancherà
di offrire il necessario contributo laicale per annunciare la gioia del Vangelo». Nella
diocesi lagunare conta 1040 iscritti e una presenza stabile organizzata in 21 parrocchie.
In Italia è attiva da 150 anni.
IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016
Pag II O Malta o morte di Matteo Matzuzzi
Non solo polemiche. Dall’assistenza ai profughi al lavoro negli ospedali. Cosa fa il più
antico Ordine religioso laicale della chiesa
La povertà, il bisogno e la malattia non sono solo privazione. Sono isolamento. Un
giorno senza cibo è spesso sufficiente per spezzare l'unità di una famiglia. Il continuo
doversi occupare di un malato che si ha in casa - e il più delle volte con pochi mezzi
finanziari a disposizione - è sì un esercizio di pazienza e amore, ma a volte distrugge
quel minimo di gioia di vivere, trasformando anche i gesti d'amore in un esercizio che
può guastare l'anima". Parte da questa considerazione Riccardo Paternò di Montecupo,
presidente dell'Associazione dei Cavalieri italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta per
spiegare in cosa sia impegnato, oggi, il più antico Ordine religioso laicale della chiesa
cattolica, essendo stato fondato nel lontano 1113. "A queste innumerevoli situazioni di
disagio sociale che quotidianamente ci circondano - aggiunge Paternò, appartenente a
un'antichissima millenaria principesca famiglia siciliana da sempre legata all' Ordine di
Malta - si aggiunge ormai il drammatico tema dei rifugiati. Guerre, povertà, persecuzioni
e cambiamenti climatici hanno indotto milioni di persone ad abbandonare le loro case. E'
bene che si sappia che sono circa 180 milioni le persone colpite da conflitti e calamità
varie, cosa che si traduce in sessanta milioni di sfollati al mondo, venti dei quali sono
rifugiati, trentotto sono sfollati e circa due milioni sono richiedenti asilo". I numeri,
dopotutto, spiegano più d'ogni saggio la situazione sul terreno, drammatica e spesso
ignorata: "Solo i rifugiati siriani registrati in Libano agli inizi del 2016 erano più di un
milione. Tutti accolti in villaggi costruiti per duecento persone e che ora accolgono
spesso più di duemila rifugiati", spiega Paternò. "E situazioni simili le troviamo in Mali,
Sud Sudan e Pakistan. Nella Repubblica Democratica del Congo, migliaia di donne
fuggono dalle violenze sessuali e circa tre milioni di sfollati cercano di sopravvivere". E,
ancora, la Repubblica Centrafricana, visitata poco più d'un anno fa dal Papa, con
l'apertura della Porta Santa nella cattedrale di Bangui. Un paese che è al penultimo
posto al mondo quanto ad aspettativa di vita. Attraverso l'ambasciata a Bangui, l'Ordine
sostiene quattordici centri sanitari aiutando centomila persone. Ogni anno, Ordre de
Malte France fornisce cibo a tremila bambini malnutriti ed esegue novantamila esami
medici nelle strutture sanitarie che esso finanzia. Ma non serve andare così lontano per
comprendere la portata del problema: si guardi al numero dei migranti sbarcati sulle
nostre coste nel 2015, quasi 154 mila. "Tutto ciò crea problemi umanitari senza
precedenti per coloro che fuggono e per coloro che accolgono: cibo, riparo, sostegno
medico e psicologico, inserimento". Ebbene, aggiunge il nostro interlocutore, "in questo
contesto così drammatico, fatto di quotidiani fenomeni di bisogno e di straordinari eventi
che comprendono anche quelli causati dai nostri recenti disastri naturali, l'Ordine di
Malta, con le sue innumerevoli attività sparse in tutto il mondo, dà un aiuto che credo
sia inimmaginabile ai più. La maggior parte della gente probabilmente non sa cosa sia in
realtà il nostro Ordine, cosa esso rappresenti a livello globale, come sia strutturato e
quante e quali energie metta quotidianamente in campo all'ombra di un principio che è
scolpito nelle sue carte, ma ancor prima nelle coscienze dei suoi membri: tuitio fidei et
obsequium pauperum". Ma che cos'è l'Ordine? Chi ne fa parte? Nell'immaginario
collettivo, si tratta di una sorta di club elitario, aristocratico e poco sintonizzato con la
quotidiana realtà che affligge questo mondo. Per molti, un gruppo fuori dal tempo,
residuo di un'epoca finita e che non può tornare. A scorrere le cifre dell'attività
(anch'essa quotidiana) dei Cavalieri, le cose stanno in maniera ben diversa. E' sempre
Paternò a spiegare che i membri dell' Ordine sono poco più di tredicimila, di cui tremila
solo in Italia. Allargando l'orizzonte, nei cinque continenti si aggiungono oltre centomila
volontari permanenti, divisi in vari corpi, "fra i quali uno è di soccorso internazionale che
interviene a seguito di catastrofi naturali o di conflitti". L'Ordine gestisce in tutto il
mondo venti ospedali, 1.500 centri medici e posti di pronto soccorso, molti dei quali in
zone di crisi umanitarie, centodieci case per anziani. Ha, in tutto, 25 mila dipendenti:
medici, paramedici, assistenti sociali, esperti di soccorso in situazioni d'emergenza". E'
fondamentale ricordare, spiega Paternò, "che il nostro Ordine, in virtù di quanto sancito
nella nostra Costituzione all'articolo 2.2, aiuta tutti senza distinzione di religione, razza,
origine ed età e mette in piedi circa cento progetti speciali all'anno in circa venticinque
paesi". La storia è antichissima, affonda le radici in epoche di crociate, di difesa dei
luoghi santi, di Mediterraneo teatro di guerre (anche se non soprattutto su base
religiosa). La nascita dell'Ordine (allora di San Giovanni di Gerusalemme) risale al 1048,
quando alcuni mercanti di Amalfi ottennero dal califfo egiziano il permesso di edificare a
Gerusalemme una chiesa, un convento e un ospedale. Fine dell'opera: assistere i
pellegrini di ogni fede. Più tardi, con la bolla del 15 febbraio 1113 di Papa Pasquale II,
l'ospedale viene posto sotto la tutela della chiesa, con diritto di eleggere liberamente i
suoi superiori, senza interferenza da parte di altre autorità laiche o religiose. Tradotto:
l'ospedale diventa un Ordine religioso laicale. Tutti i cavalieri erano religiosi. La
costituzione del Regno di Gerusalemme, poi, costrinse l'Ordine ad assumere la difesa
militare dei malati e dei pellegrini e a proteggere i propri centri medici e le strade
principali. Passaggio fondamentale: alla missione ospedaliera, l'Ordine aggiunge la difesa
della fede. E poi gli anni delle grandi traversie, il trasferimento a Cipro, quindi a Rodi e
nel 1530 - dopo aver abbandonato Limassol in seguito alla battaglia contro l'esercito di
Solimano il Magnifico - a Malta. Qui i cavalieri, nel 1565, furono impegnati nella difesa
dell'isola dall'assedio ottomano. Vinsero e costruirono la città e il porto della Valletta,
che prese il nome del Gran Maestro dell'epoca, fra' Philippe de Villiers de l'Isle-Adam.
Furono costruiti palazzi, giardini, bastioni; fu avviata la facoltà di Medicina nonché uno
dei più grandi e avanzati ospedali del mondo. Nel 1578 la Sacra Infermeria era
l'ospedale più grande e attrezzato del Mediterraneo, nel 1912 la nave ospedale Regina
Margherita gestita dall' Ordine trasportò dodicimila feriti durante la guerra di Libia. "Nel
corso della Prima guerra mondiale, i nostri treni ospedale, sui vari fronti e in modo
imparziale, hanno assistito 800 mila feriti", sottolinea Paternò, e le immagini in bianco e
nero tratte dalla storia, mentre in Europa infuriava il guerrone profetizzato da Pio X,
sono a testimoniarlo. Come l'istantanea che ritrae un treno ospedale del Gran Priorato di
Austria e Boemia, uno dei tanti che percorse in lungo e in largo il continente per portare
soccorso. O come la foto dell'ospedale ausiliare di Verdun, teatro di uno dei più
sanguinosi massacri del Primo conflitto mondiale. Bombardato, spostato più volte,
divenuto trappola per decine di pazienti e medici. Venendo ad anni più recenti, dove la
storia si mescola con l'attualità, c'è una data che è ben impressa nella memoria dei
Cavalieri: il 1990, quando nacque "il primo bambino nell'ospedale dell'Ordine a
Betlemme. A oggi, lì sono nati oltre 65 mila bambini, per lo più palestinesi", aggiunge il
presidente dell' Associazione dei Cavalieri italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta.
Un'attività continua a ogni latitudine, il che spiega bene perché, pur non avendo né
territorio né popolazione (e cioè due delle tre condizioni che uno stato deve soddisfare
per essere considerato soggetto di diritto internazionale), l'Ordine di Malta intrattiene
relazioni diplomatiche con 106 stati, con l'Unione europea (attraverso lo scambio di
ambasciatori) e relazioni ufficiali con altri sei stati. Ha osservatori permanenti presso le
Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate, nonché presso le principali organizzazioni
internazionali. "La nostra sovranità è riconosciuta per le attività grazie alle quali abbiamo
guadagnato l'ammirazione di 106 stati sovrani che intrattengono con noi regolari
relazioni diplomatiche. Il rispetto che il mondo ci dà costituisce perciò la nostra maggiore
forza e il miglior viatico per guardare al futuro". Ma non c'è solo l'assistenza in terre
piagate da guerre senza fine, quasi eterne, la cui soluzione non si intravede. L'elenco di
questi casi è lunghissimo, è noto nella sua triste costanza. In Italia, ad esempio, tra le
numerose attività di volontariato ci sono la mensa serale due giorni a settimana per i
senzatetto a Roma, presso le stazioni Termini e Tiburtina. Ventiduemila pasti serviti in
media ogni anno. Poi c'è la gestione della mensa sociale nel Santuario di Pompei, che
ogni giorno serve cento pasti agli indigenti. "Le attività ospedaliere gestite
dall'Associazione dei Cavalieri italiani sono costituite da dodici centri medici specializzati
che operano in diverse città italiane e dall'ospedale San Giovanni Battista a Roma". Vi è
poi l'attività ambulatoriale, con le tredici strutture distribuite tra Lazio, Campania,
Liguria e Puglia che erogano complessivamente circa due milioni di prestazioni all'anno.
Impegno anche sul fronte migranti. "Nel 2015 sono stati 153 mila i migranti sbarcati
sulle coste dell'Italia meridionale. A prestare soccorso ai superstiti c'erano in prima linea
i medici e gli infermieri del Corpo italiano di Soccorso dell' Ordine di Malta, con squadre
permanenti a bordo delle navi della Guardia costiera e della Guardia di finanza italiane".
"Attualmente - aggiunge Paternò - il nostro personale sanitario è attivo nelle operazioni
di soccorso con cinque team sanitari, formati da un medico e da un infermiere, tre dei
quali a Lampedusa a disposizione della Guardia costiera e della Guardia di finanza, e due
a bordo delle unità navali maggiori della Guardia costiera". Inoltre, "da gennaio 2016 a
oggi sono stati tratti in salvo dalla Guardia costiera più di 28 mila migranti, 13 mila dei
quali hanno necessitato di cure mediche da parte del nostro personale sanitario". Dal
2008 a oggi, i volontari impiegati sono 1.109, con una media di circa 123 l'anno. C'è,
meno conosciuta, l'opera che viene compiuta negli Stati Uniti, dove quasi due milioni e
mezzo di individui affollano le locali prigioni. L'assistenza e il sostegno psicologico ai
detenuti sono una delle principali attività dell'Associazione americana dell'Ordine di
Malta. Si tratta d'un progetto su cui converge da anni l'impegno delle altre associazioni
dell'Ordine nel nord America, da quella federale a quella occidentale, fino a quella
canadese. A oggi sono trentuno gli stati che vedono membri e volontari dell'Ordine
operare con programmi di sostegno ai detenuti e ai loro familiari. A fronte di un tasso di
recidività molto alto - il 65 per cento degli ex carcerati finisce prima o poi di nuovo in
prigione - l'Ordine di Malta è particolarmente impegnato nell'agevolare il reinserimento
degli ex detenuti nella società con un percorso di sostegno alla formazione professionale
e per la ricerca di un alloggio, immediatamente dopo il rilascio. Basta poi andare in
Libano per vedere che lo stereotipo del club elitario per nobili non corrisponde alla
realtà. Qui l'Ordine realizza campi estivi per ragazzi disabili. Strutture che sono un
laboratorio di creatività, socializzazione e ascolto per centinaia di ragazzi e ragazze,
assistiti da un gruppo internazionale di giovani (sempre dell' Ordine) provenienti da
Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia, Austria, Svizzera, Spagna, assieme ai loro
coetanei libanesi. "La religione non è un problema nei nostri centri, né per le persone
che servono né per i pazienti che qui vengono: la domanda su quale Dio preghino non
viene neanche formulata", dice suor Maria Josepha, responsabile del centro d'assistenza
dell'Ordine a Kefraya, nel nord del Libano. Un villaggio a maggioranza musulmana
sunnita, dove gli ambulatori socio-sanitari dell'Ordine di Malta si prendono cura di
pazienti provenienti da oltre quaranta villaggi circostanti. Qui, l'Ordine gestisce una rete
di ventotto diverse iniziative umanitarie che raggiungono cristiani e musulmani in egual
misura, gestite in collaborazione con congregazioni o fondazioni religiose di fedi diverse.
"L'atmosfera è di profondo rispetto", dice infatti l'ospedaliere dell'associazione libanese,
Paul Saghbini. "I visitatori ci chiedono sempre con entusiasmo come possono diventare
membri o volontari dell' Ordine di Malta, spiegano Monica Lais e Valérie Guillot, curatrici
del Visitors Centre, nella sede del Palazzo Magistrale di via Condotti, a Roma: questa,
osservano, "è la prima indicazione del successo del Centro. Italiani, americani, spagnoli,
tedeschi, francesi, giapponesi, taiwanesi, russi: ci confrontiamo con nazionalità diverse,
e già centinaia di persone hanno visitato il Centro dalla sua apertura". I visitatori,
appena vedono le foto dell' opera quotidiana dell'organizzazione, chiedono cosa essa
faccia oggi. "La finalità dell'Ordine di Malta può solo essere quella di aiutare chi soffre,
pertanto esso non ha bisogno né di frontiere né di territorio".
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 25 La rivincita degli antipatici di Elvira Serra
Spesso impopolari tra i colleghi perché troppo esigenti e poco inclini ai compromessi. Ma
portano efficienza e meritocrazia
Sono quelli più esigenti, non fanno mai sconti, a cominciare da se stessi. Pretendono,
non si accontentano, talvolta sono così testardi e poco malleabili da risultare
«impossibili». Antipatici, insomma. Come Lucy Kellaway, ancora per pochi mesi
columnist del Financial Times (lo lascerà d’estate per insegnare matematica nelle scuole
più disagiate di Londra con la sua nuova Fondazione). Sul quotidiano economico qualche
giorno fa ha scritto un commento dal titolo eloquente: «Sono una persona difficile al
lavoro e felice di esserlo». Lei puntualizza che - guarda caso - sono solo i colleghi maschi
a giudicarla così «faticosa». Ma si è dovuta arrendere all’evidenza, facendone però un
bandiera, quando sua figlia le ha detto: «Mamma, tu non ti rendi conto di quanto puoi
essere difficile». Eppure, oltre che per una questione di autostima, essere esigenti,
soprattutto in posizioni di comando, è l’unico modo per raggiungere determinati risultati.
«Gli studi sulla leadership fin dagli anni Cinquanta hanno dimostrato che un modello
troppo democratico non sempre è funzionale: quando si hanno poco tempo e scarse
risorse, la guida autoritaria risulta quella più efficace», spiega Vincenzo Russo, docente
di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni allo Iulm di Milano. «Gli antipatici, se
vogliamo chiamarli così, sono quelli che adottano sì una logica molto autoritaria, ma
anche molto meritocratica. L’ideale, come teorizzarono Robert Blake e Jane Mouton nel
1964, sarebbe un mix tra il leader socio-affettivo più attento alla dimensione relazionale
e quello più orientato all’obiettivo». Essere poco inclini al compromesso, per esempio, è
servito all’imprenditore bolzanino Patrizio Podini a realizzare l’impossibile: 711 punti
vendita in tutta Italia, più di due miliardi di fatturato nel 2015 e 5.900 dipendenti con
MD Spa, terzo gruppo dell’hard discount in Italia. «Ho fondato l’azienda a Napoli nel
1994. Riesce a immaginare che cosa vuol dire esportare nel Mezzogiorno la cultura
austroungarica precisa e rigorosa con la quale mi sono formato?». Podini non si
considera antipatico nell’accezione caratteriale: «Sono simpaticissimo». Però ammette
che le cose che chiede «non devono essere discusse», semmai «fatte». «Nel 1997 di
fronte alla divergenza di punti di vista con i miei soci ho acquistato tutte le loro quote e
sono diventato l’unico proprietario». E invece non ha nessuna difficoltà ad ammettere di
essere proprio «rompiscatole» Angela Formaggia, titolare milanese della ormai
trentenne Sartoria Angela Alta Moda, sei dipendenti a Milano oltre alle collaboratrici e a
uno svariato numero di fornitori con i quali litiga senza problemi arrivando alle minacce:
«Di non pagare, funziona sempre...». «Mi rendo conto di apparire molto antipatica in
certi momenti, magari vicino a una consegna o a un evento. Lì non ammetto scuse, le
parole “non è possibile” o “non ce la faccio” non esistono nel mio vocabolario, sono
cancellate». Anche lei, come Lucy Kellaway, ha una figlia, Michela, che glielo ricorda
piuttosto spesso. «Diciamo pure ogni giorno: “Mamma sei impossibile”. Però credo sia
questo il segreto del passaparola che ci fa arrivare clienti da Londra, Zurigo, Sudafrica».
«L’importante è che il rigore venga applicato in maniera funzionale, e non per creare un
clima di terrore», avverte Caterina Gozzoli, docente di Psicologia del conflitto e della
convivenza organizzativa alla Cattolica. «Essere “difficili” in contesti di lavoro che
tendono all’omologazione è una buona cosa, consente di avere idee nuove. Poi ci sono i
top manager, che possono permettersi di osare di più, di essere innovativi e così
stimolare anche gli altri. L’importante è che il capo detti la linea e non detti legge.
Perché in questo caso sarebbe “antipatico” e basta. Senza attenuanti».
LA NUOVA
Pag 1 Servono dati e proposte, non appelli di Michele A. Cortelazzo
Lingua italiana
Ha fatto rumore l’appello «contro il declino dell’italiano a scuola», firmato da 600
professori (più o meno l’1% dei professori delle Università italiane; tra questi, 34
dell’Università di Padova, sei dell’Università di Venezia, tre dei quali emeriti, uno dello
Iuav). Io non l’ho firmato, anche se me l’hanno chiesto più volte (tra l’altro citando
l’auctoritas di un reputatissmo collega, che però non figura tra i firmatari). Ho ritenuto
debole la base di partenza (sull’incapacità di molti studenti a usare l’italiano esistono
impressioni, aneddoti, leggende, ma non dati testati) e ancor più deboli le proposte di
soluzione, che non dicono nulla su come si possono potenziare le competenze
linguistiche dei giovani. Il punto di partenza esplicito del documento è che gli studenti
universitari di oggi non conoscono bene l’italiano, non sanno scrivere, non sanno
neppure parlare correttamente. Quello implicito è che una volta non era così e che la
colpa è, quindi, dell’involuzione della scuola che non prepara, perché non verifica, e
quindi non seleziona. Non abbiamo dati sulle capacità linguistiche dei giovani universitari
(la vituperatissima Anvur, però, negli anni scorsi ha promosso il Teco, un’indagine
valutativa delle capacità trasversali degli universitari: se elaborasse e pubblicasse i dati
che ha così raccolto, avremmo un quadro preciso della situazione, come in pochi altri
Paesi). In mancanza di dati, ognuno può portare la sua esperienza. La mia non è così
drammatica. Certo, gli studenti non sanno scrivere testi complessi, adeguati alla
complessità delle competenze che acquisiscono negli studi universitari. Ma questa abilità
di scrittura dovrebbe essere conseguita all’università, non prima. Uno dei miei
insegnamenti è proprio un corso di Tecniche di scrittura: riscontro grandi debolezze nel
focalizzare il testo sulle informazioni importanti, l’incapacità ad adeguare la scrittura alle
caratteristiche dei tipi di testo e a dominare con proprietà il lessico più elaborato. Ma
errori da terza elementare proprio non li vedo. Sono un privilegiato? Molti colleghi mi
raccontano le nefandezze scritte dai loro studenti, lamentandosi che quando
frequentavano loro l’università non succedeva nulla del genere. Ne sono sicuri? Ricordo
che nel 1979 Leonardo Benevolo aveva pubblicato un libro, “La laurea dell’obbligo”, che
riportava gli svarioni estratti dai compiti dei suoi allievi: nulla di diverso da quello che mi
raccontano oggi i colleghi scandalizzati. Possiamo immaginare che chi partiva da una
situazione sociale svantaggiata, poteva arrivare all’università, ma l’istituzione scolastica
non era in grado di portarlo allo stesso livello di competenze del “figlio del dottore”. Oggi
accade la stessa cosa, in una Università che, grazie al cielo, ha aumentato il numero di
iscritti. Non mi pare che le proposte del documento dei 600 aiutino a superare questo
insuccesso dell’istituzione scolastica. Dal documento traspare una vera e propria ansia di
controllo: si chiede di fare test severi e uguali in tutta Italia (ma non c’è già l’Invalsi?),
di far giudicare i ragazzi del ciclo inferiore dai docenti del ciclo superiore. Ma tutto
questo ci permetterà di certificare meglio l’insuccesso. Non ci potrà portare al successo.
L’altra proposta è: cambiamo le Indicazioni nazionali, cioè i programmi. Su questa linea
si è posto anche Francesco Sabatini, il quale, intervistato da Rainews24, ha lamentato la
scarsa attenzione prestata dai programmi della scuola primaria ai problemi concreti
dell’apprendimento linguistico. Ho riletto i programmi, e a me pare che queste
indicazioni ci siano, sia pure scritte in “ministeriese”. Quando i programmi dicono che
“l’acquisizione della competenza strumentale della scrittura, entro i primi due anni di
scuola, comporta una costante attenzione alle abilità grafico-manuali e alla correttezza
ortografica” vuol dire che i bambini, entro la seconda elementare, devono imparare a
scrivere a mano (uno dei temi sollevati da Sabatini) e senza errori di ortografia. Cosa c’è
da cambiare? Forse il modo di scrivere i programmi, ma non i contenuti. In sintesi: i
meno capaci, da sempre, scrivono in maniera selvaggia, anche all’università; i
programmi dicono cose giuste, ma le dicono malissimo; le proposte avanzate portano
solo a misurare lo sfacelo, non a migliorarlo. Cosa se ne conclude? Innanzi tutto, che
l’appello del gruppo di Firenze è una magnifica mossa comunicativa, ma sul piano
propositivo non serve a nulla. Poi, che la questione è tutta politica: tra le “i” che negli
scorsi anni costituivano il fulcro dell’insegnamento non c’era l’italiano; ma se manca una
buona competenza della lingua nativa, come può esserci una buona competenza delle
altre “i”, a cominciare dall'inglese? Infine, che un buon insegnamento si fonda su buoni
insegnanti. Ma gli insegnanti devono essere formati e selezionati bene (negli ultimi
concorsi, dei candidati alle cattedre di italiano si è testato il dominio dei principi letterari,
non quello dei principi linguistici; e per assumere professori di altre materie, si è
verificato se sanno l’inglese, non se sanno l’italiano); devono essere messi nelle
condizioni di insegnare bene (per insegnare a scrivere sono necessari tempi dilatati e
classi con pochi studenti); e, non ultima cosa, occorre dare loro un forte riconoscimento
del ruolo sociale che ricoprono. Nel documento dei 600 non ho letto nessuna parola su
tutto questo. Ecco perché io, tra quei 600, non ci sono.
Le firme da Padova e da Venezia
Università di Padova: Daniela Andreatta, Guido Baldassarri, Caterina Barone, Anna Laura
Bellina, Mario Bertolissi,Luciano Bossina, Alessandro Calegari, Giorgio Carnevali,
Alessandra Coppola, Sergio Durante, Ambrogio Fassina, Filippo Focardi, Roberto E.
Kostoris, Alba Lazzaretto, Andrea Maccarini, Manuela Mantovani, Costanza Margiotta,
Marco Mascia, Mirco Melanco, Michele Moretto, Ivano Paccagnella, Bruno Maria Parigi,
Elena Pariotti, Alessandra Petrina, Cecilia Poletto, Anna Pontani, Federica Ricceri, Mario
Andrea Rigoni, Silvio Riondato, Vittoria Romani, Stefano Solari, Carlotta Sorba, Fabrizio
Tonello Giovanni Zanzotto. Di Padova sono anche Guido Galesso, insegnante di arte, e
Anna Fabriziani, professoressa in pensione. Università di Venezia: Francesco Casarin,
Giovannella Cresci Paolo Pagani. Hanno firmato anche Francesco Bruni, Mario Isnenghi,
Carmelo Vigna , emeriti. Dallo Iuav ha firmato il professor Guido Vittorio Zucconi.
CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 17 Seicento docenti universitari: i ragazzi non sanno l’italiano di Orsola Riva
L’appello al governo: vediamo errori da terza elementare
Possibile ritrovarsi a correggere una tesi di laurea dovendo usare la matita rossa e blu
come in un temino della scuola elementare? Purtroppo sì. Basta leggere alcune delle
testimonianze dei 600 professori universitari che hanno sottoscritto un accorato appello
al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo
studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo dai fondamentali:
«Dettato, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi
grammaticale e scrittura corsiva». Può sembrare un ritorno indietro ma, come spiega
Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di
Firenze che hanno promosso la lettera, «forse stiamo risentendo anche di una
svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70». E invece, come
già si diceva in un film diventato di culto dopo gli anni del riflusso, «chi parla male pensa
male». O, come preferisce ricordare Ragazzini citando Sciascia, «l’italiano non è
l’italiano, è il ragionare». «Alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male
in italiano e faticano a esprimersi - si legge nella lettera -. Da tempo i docenti
universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi,
lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio,
alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». Anche
dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa che misura le competenze dei quindicenni di mezzo
mondo i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte. E, a sorpresa, è soprattutto in
italiano che andiamo male. Con buona pace della stanca retorica anti-crociana. Dal 2000
a oggi non abbiamo recuperato mezza posizione, mentre in matematica, dove pure
eravamo molto più indietro, abbiamo fatto enormi passi avanti. Tra i firmatari della
lettera si contano otto accademici della Crusca, quattro rettori, il pedagogista Benedetto
Vertecchi, gli storici Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora e Mario Isnenghi, e poi
filosofi (Massimo Cacciari), sociologi (Ilvo Diamanti), la scrittrice e insegnante Paola
Mastrocola, da sempre in prima linea per una scuola severa e giusta (giusta anche
perché severa). Tutti uniti nel denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una
parte degli studenti. Come racconta bene questa testimonianza: «Mi è capitato di
incontrare in treno una studentessa che non sapeva quale fosse la “penultima” lettera
del codice di prenotazione del suo biglietto».
Ecco alcune testimonianze dei docenti che hanno firmato l’appello:
«Circa tre quarti degli studenti delle lauree triennali sono di fatto semianalfabeti».
«Ahimè, ho potuto constatare anch’io i guasti che segnalate, dal momento che il mio
esame è scritto e ne vengono fuori delle belle...».
«È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che scrivono come se stessero
redigendo un sms o inciampano sui congiuntivi».
«Dedico ormai buona parte della mia attività di docente a correggere l’italiano delle tesi
di laurea».
«Nelle tesi non usano il congiuntivo o lo confondono col condizionale, sbagliano la
“consecutio temporum”, ignorano i periodi ipotetici».
Pag 21 “Vi spiego chi sono i vostri figli. Mai fatto sesso senza amore. E
nemmeno le mie amiche” di Aldo Cazzullo
Sofia Viscardi ha 18 anni e 2 milioni di follower: “In Rete siamo più sinceri”
Sofia Viscardi, lei non ha ancora 19 anni e ha un milione e mezzo di follower su
Instagram, 500 mila su Twitter, 200 mila amici su Facebook. Giampiero Mughini ha
scritto che questi numeri non significano assolutamente nulla, e ha ricordato le 80 copie
in cui Giuseppe Ungaretti stampò la prima edizione del Porto sepolto .
«Chi è Mughini?».
Un giornalista molto bravo. Non ce l’ha con lei, intendeva dire che l’era Internet è
effimera.
«Ma non sono numeri; sono persone. Conquisto la loro attenzione, mica la loro anima.
Comunque, dovete aggiungere le centomila copie del mio primo romanzo, Succede . Ora
ne faranno un film, sto scrivendo la sceneggiatura».
Alla Mondadori raccontano che un giorno a Roma lei ha firmato libri dalle 3 del
pomeriggio a mezzanotte.
«È vero. Molti erano per genitori che attraverso di me vogliono conoscere i loro figli».
Appunto: chi sono i nostri figli? Chi siete?
«Ragazzi che hanno bisogno di essere incoraggiati, rincuorati, divertiti».
Come mai tanti suoi coetanei si sono riconosciuti in lei?
«Per la mia semplicità e la mia sincerità. Sono un po’ matta, ma non mi nascondo, non
mento; per questo mi trovano empatica. La rete non è il luogo della post-verità. Nel
mondo virtuale a volte siamo più sinceri che in quello reale».
È vero pure che ha dovuto rinunciare ai meet-up perché veniva troppa gente?
«Purtroppo sì. L’ultima volta a Roma in piazza del Popolo mi hanno portata via i
carabinieri. Ero con Michele Bravi e sono arrivati un sacco di ragazzi infoiati. Gli agenti
mi hanno protetta, ma mi hanno anche detto di non farlo più».
Michele Bravi il vincitore di X Factor?
«Lui. Ora va a Sanremo. Cercherò di dargli una mano, anche se non ne ha bisogno: è
bravissimo».
Chi altri conosce della sua generazione?
«Bebe Vio. Una tipa super. Incredibile. Anche se, come molte mie amiche, non sa nulla
dei social».
E Chiara Ferragni, la fashion blogger?
«Lei ha dieci anni in più. Ha lavorato con mia mamma, che si occupa di comunicazione,
però non la conosco».
Com’è cominciato tutto?
«Alle elementari avevo già il telefonino. Prima ancora, a nove anni, con mia cugina
abbiamo fatto un video con un computer portatile. Ho uno zio fotografo che mi ha dato
lezioni. Poi, quand’è nato Youtube, guardavo gli sketch di Zelig con mio fratello Giuseppe
e la mia sorellina Maria, e mi sono detta: perché non provarci?».
Qual è stato il suo primo video?
«Sui regali di Natale, tra cui un biglietto per gli One Direction. Poi un altro su San
Valentino. Le insicurezze, le sconfitte, le paure, le goffaggini».
A scuola come va?
«Ora bene. Ma fin dalle medie ho sempre avuto 6 in condotta».
Perché?
«Rispondevo; e questo ai professori non piace. Poi ogni tanto scappavo per sentire un
concerto».
Quali concerti?
«Sono andata in treno a Bologna per Justin Bieber, senza biglietto e senza dirlo a mia
madre: ho scavalcato e raggiunto la prima fila. Ma sono cose che non si fanno, lo so. Per
gli One Direction ho scalato il Principe di Savoia…».
Scalato?
«C’è un punto in cui è facile. Così abbiamo evitato la sorveglianza. Li aspettavo al bar
con una mia amica, quando è arrivata una signora delle pulizie, ma forse era una fata, a
dirci: gli One Direction stanno facendo ginnastica con mio figlio, alla palestra del decimo
piano. Così siamo salite. Stava già piombando la sicurezza a portarci via, quando è
uscito Harry Styles. Abbiamo parlato due minuti, ci siamo anche fatti una foto».
E lei l’ha postata.
«Qualcuno ha detto che è un fotomontaggio, ma non è vero! Per raccontare la storia ho
girato un video, che ha avuto più di un milione di visualizzazioni. Poi ho fatto
un’intervista a Saviano, che si è fermata a centomila».
Che rapporto ha con gli haters, gli odiatori?
«Mi divertono. Ho la pelle dura e sono cocciuta, come mio padre. Siamo nati entrambi
sotto il segno del toro».
La protagonista del suo romanzo, Margherita, è timida, goffa, insicura. Non pare il suo
ritratto.
«Infatti non è il mio alter ego. Mi assomiglia fisicamente. E poi anch’io agli inizi ero un
po’ impacciata, in particolare con gli adulti».
Alle superiori cos’ha studiato?
«Mi sono iscritta al Berchet e mi hanno bocciata. Mi sarebbe piaciuto finire il Classico,
però non amo concentrarmi troppo su una cosa sola; così l’ho lasciato per le scienze
umane. I professori non hanno mai cercato di capirmi, non volevano che mi prendessi
un tempo per le mie attività sui social. Ho fatto un anno al Besta, un altro al Virgilio,
prima di approdare finalmente al Voltaire».
Quest’anno ha la maturità?
«Da privatista. Sono terrorizzata».
Farà l’università?
«Sì, ma non so ancora cosa. Vorrei studiare comunicazione, oppure filosofia».
Quali filosofi la affascinano?
«Kierkegaard, Feuerbach. Quelli convinti che l’amore sia la chiave di tutto. Mi fa paura
Schopenhauer: un depresso che vede l’amore come sofferenza perpetua».
Chi sono stati i suoi maestri su Youtube?
«Ho guardato molto Tyler Oakley: vivace, divertente; gay dichiarato. Anche Jack&Finn
sono gay secondo me, ma non lo dicono, ora hanno pure la fidanzata… di sicuro sono
belli e bravi. Connor Franta è profondo, riflessivo».
E tra gli italiani?
«Guglielmo Scilla, in arte Willwoosh, fa morir dal ridere. E poi Claudio Di Biagio e Cane
Secco, che si chiama in realtà Matteo Bruno».
Lei sa che per noi padri o nonni questi sono puri nomi, vero?
«Certo. Ma per noi figli sono importanti».
Manca il suo ex fidanzato, Lorenzo Paggi.
«È stata una bella storia. Ci siamo conosciuti in metropolitana, scontrandoci con le
nostre sacche piene di regali…».
Regali di chi?
«I fan mi portano sempre qualcosa. Io chiedo le foto da appendere in camera, ma loro
mi donano anche cartelloni, poesie, pupazzetti».
Pupazzetti?
«Soprattutto orsi, ma pure coniglietti, gattini, cagnolini, elefanti, opossum. A Napoli mi
hanno regalato due giganteschi unicorni rosa e un ippopotamo. E poi specialità
gastronomiche: mozzarelle, cannelloni, salumi, guacamole, caramelle…».
Come mai è finita con Lorenzo?
«Siamo giovani, è normale. Abbiamo litigato tutto il tempo. Però ci siamo lasciati di
comune accordo. Ora siamo amici».
Ha un nuovo fidanzato?
«Sì. Uno scrittore: Francesco Sole. L’autore di Stati d’animo su fogli di carta e Mollato
cronico ».
In «Succede» non ci sono scene di sesso.
«Non ne ho paura. Ma non è vero che le ragazze lo facciano senza pensarci. Io non
concepisco il sesso slegato dai sentimenti, e anche per la maggioranza delle mie amiche
è così. So che esiste il sesso occasionale, però non mi è mai capitato. Non è una cosa
che mi appartiene».
Legge i giornali?
«No. Leggo i siti dei giornali».
Conosce i cantautori?
«La musica italiana non mi dice molto, a parte Vasco e Tiziano Ferro. Preferisco The
Chainsmokers, due dj molto in gamba».
Va al cinema?
«Per anni non ci sono andata, ora ho preso l’abitudine».
Quali sono i film della sua vita?
«Tutta la serie di Star Wars : volevo essere Padmé Amidala; e il mio grande amore è
Luke Skywalker, quando ha i capelli lunghi. Riguardo spesso Forrest Gump . E la regia di
La La Land è pazzesca».
I libri?
«Il mondo di Sofia. L’erba cattiva di Ago Panini, un amico di mio padre che ha
raccontato la storia della band dove papà faceva il manager e mio zio cantava. I romanzi
di Bianca Pitzorno, che ho conosciuto ad Alghero: una grande donna. E le favole, quelle
con il disco che cominciava: “A mille ce n’è, nel mio cuore di fiabe da narrar…”».
I viaggi?
«Adoro il Marocco: Essaouira, Marrakech. Le Cicladi: Paros, Antiparos, Naxos, Mykonos,
Sifnos. Le spiagge ventose della Spagna e del Portogallo, per fare kitesurf. E
Amsterdam».
Compresi i coffee-shop?
«La droga non mi interessa. E il vino mi disgusta. Al massimo, una birra».
Cosa pensa di Trump?
«Non mi piace particolarmente, ma sono troppo ignorante per parlare di politica».
Al referendum ha votato?
«Ho votato. Il professore di diritto ci ha spiegato come sarebbe cambiato il Parlamento,
in caso di vittoria del Sì».
E lei ha votato No, come quasi tutti i suoi coetanei?
«Mi hanno insegnato anche che il voto è segreto».
Ha ancora tutti e quattro i nonni?
«Un nonno è mancato. È stato il mio primo impatto con la morte, e anche se ero
preparata si è rivelato molto peggio di quanto pensassi. Non abbiamo fatto il funerale,
ma un aperitivo con un po’ di musica: lui aveva voluto così. Il giorno dopo un vicino è
venuto a scusarsi: “Pensavo fosse una festa, così ho mangiato e bevuto senza neppure
farvi le condoglianze”».
Crede nella vita dopo la morte?
«Credo che ci sono cose che non possiamo sapere».
E in Dio?
«No. Non sono religiosa».
Le piace la storia?
«Mi affascina ma mi annoia studiarla: troppe date, troppi luoghi».
E Ungaretti?
«Ungaretti non l’abbiamo ancora fatto. Siamo arrivati a Pirandello».
AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016
Pag 12 Scuola, teatro gender: l’altolà del ministro di Paolo Ferrario
“Le famiglie devono essere informate”
Milano. Continua la mobilitazione delle famiglie contrarie alla visione scolastica di
“Fa’afafine Mi chiamo Alex e sono un dinosauro”, spettacolo teatrale che racconta la
storia di un bambino che nei giorni pari si sente maschio e in quelli dispari femmina. In
due settimane, una petizione su citizengo.org, promossa da Generazione Famiglia - La
Manif Italia, ha raccolto oltre 102mila firme di genitori e nonni preoccupati che i propri
figli e nipoti siano portati dagli insegnanti a vedere questa rappresentazione che sta
girando l’Italia. «Chiedo che il Ministero dell’Istruzione emani immediatamente un
decreto urgente per impedire che le scuole portino gli alunni a vedere lo spettacolo
“Fa’afafine” sul bambino-bambina transgender”, si legge nella petizione al ministro
Valeria Fedeli. Che, nei giorni scorsi, ha, indirettamente, risposto attraverso una lettera
all’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donazzan, che si era fatta
portavoce delle preoccupazioni dei genitori scrivendo, a sua volta, una lettera al
ministro. In sintesi, Fedeli ribadisce che il Miur non è coinvolto «nella realizzazione dello
spettacolo, né nella sua promozione» nelle scuole e che «le istituzioni scolastiche sono le
uniche che, nel rispetto delle norme dell’autonomia scolastica, possono stabilire
l’opportunità di partecipare agli spettacoli teatrali». Ribadendo la validità delle norme e
procedure già a conoscenza delle scuole, il ministro Fedeli ricorda che il Miur «ha più
volte ribadito alle istituzioni scolastiche che la partecipazione a tutte le iniziative
extracurricolari, inserite nel Ptof, è per sua natura facoltativa e prevede la richiesta del
consenso dei genitori per gli studenti minorenni o degli stessi se maggiorenni». E non
solo. Se la proposta fosse considerata irricevibile dalle famiglie, come nel caso dello
spettacolo Fa’afafine, che, ovunque vada, raccoglie le proteste dei genitori (vedi anche
articolo sotto), è sempre possibile «astenersi dalla frequenza ». Non esiste, insomma,
alcun obbligo di presenza, mentre le scuole devono sempre avvertire le famiglie con
congruo anticipo. Cosa che non sempre avviene, come denunciato dai promotori della
raccolta firme, che suggeriscono di contattare il dirigente della scuola dei propri figli, per
sapere se ha aderito a questa iniziativa. Da parte sua, conclude la lettera del ministro
Fedeli, il Miur, per prevenire «ogni azione che possa essere stata attivata in maniera
illegittima e in contravvenzione alle leggi dello Stato e alle norme del sistema di
istruzione e formazione nazionale», continuerà «con costanza a monitorare qualsiasi
situazione che possa essere oggetto di specifiche violazioni». «Soddisfazione» per il
chiarimento del ministro, è espressa dal Movimento per la vita italiano. «Per fortuna – si
legge in una nota – in Italia resiste ancora la consapevolezza del ruolo e delle
prerogative di mamma e papà. Ci auguriamo – prosegue il Mpv – che in futuro nessuno
dimentichi più che la responsabilità educativa dei figli appartiene alle famiglie e non allo
Stato, specialmente su temi così delicati».
L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 5 febbraio 2016
Pag 3 Vittime del karoshi di Cristian Martini Grimaldi
Il fenomeno del superlavoro tra i giovani giapponesi
Il governo giapponese ha recentemente annunciato misure per ridurre la quantità di
straordinari che i dipendenti possono fare, nel tentativo di contrastare il fenomeno delle
morti da super lavoro (karoshi). In Giappone la morte da superlavoro non è affatto un
evento raro. Nel 2015 il governo ha ufficialmente riconosciuto circa 2000 casi e si stima
un numero ancora maggiore per il 2016. Ma se karoshi è diventata una parola ricorrente
nei discorsi dei giapponesi lo si deve al caso di una ragazza ventiquattrenne che si è
tolta la vita prima di Natale. La giovane si era gettata dal terzo piano della stanza del
dormitorio nel quale viveva. I media internazionali non hanno evidenziato abbastanza
questo particolare. Il luogo del suicidio la dice lunga, infatti, sul reale significato del
lavoro per un giovane giapponese: mangiare e dormire nello stesso posto dove si lavora
(soprattutto nei primi anni dopo l’assunzione) è una prassi quasi scontata. Il suicidio
della ragazza è avvenuto in un’azienda tra l’altro già tristemente famosa per il
trattamento disumano a cui sottoponeva da anni i propri dipendenti. Il grande clamore
suscitato, e non solo in Giappone, da questo caso è dovuto ad alcuni messaggi diventati
virali sui social media. La giovane, che totalizzava una media di 105 ore di straordinari al
mese, aveva infatti condiviso su Twitter, senza giri di parole ed eufemismi, il proprio
stato d’animo: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica.
Ho seriamente voglia solo di farla finita». Si leggeva in uno dei suoi tweet poco prima di
compiere il gesto estremo. Un sondaggio del governo giapponese ha rivelato che un
quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro. Il
22,7 per cento delle imprese impiegano personale che produce più di 80 ore di
straordinario al mese. Queste 80 ore - circa quattro ore al giorno da aggiungere ai
normali orari di ufficio - sono ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio
di morte si moltiplica in modo drammatico. Ma nel 12 per cento delle aziende i
dipendenti producono ben oltre le 100 ore mensili di straordinarie. Quasi il 30 per cento
di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore dell’It e delle
comunicazioni, come in quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto. Il
governo sta cercando di attuare un cambiamento di mentalità all’interno delle aziende
per incoraggiare maggiore flessibilità e, conseguentemente, ridurre lo stress. «Il
Giappone ha bisogno di ridurre le ore dedicate al lavoro allo scopo di indirizzare il tempo
alla famiglia, ai figli e anche alla cura degli anziani», ha ribadito recentemente un
portavoce dell’esecutivo. Il primo ministro, Shinzo Abe, e il suo governo alla ricerca di
un metodo efficace per imporre un limite allo straordinario stanno per varare un sistema
chiamato «Premium Venerdì». La campagna, guidata dalla Japan Business Federation,
permetterà ai lavoratori di lasciare presto l’ufficio l’ultimo venerdì di ogni mese. Ma i
critici di questa iniziativa non hanno tardato a farsi sentire, mettendo in evidenza come
con questa misura non si stabilisce in alcun modo un migliore equilibrio tra ore dedicate
alla propria vita privata e quelle destinate al lavoro, tanto più che la Japan Business
Federation ha relativamente pochi membri: 1300 aziende su oltre 2,5 milioni di imprese
registrate. Allo stesso tempo il Giappone si ritrova a essere uno dei paesi al mondo
meno generosi per quanto riguarda le ferie. I dipendenti hanno mediamente diritto a
dieci giorni di ferie pagate, ma a zero festività nazionali retribuite (l’Australia, in
confronto, offre 20 giorni di ferie pagate e otto giorni di festività pubbliche pagate). Non
solo. Molti lavoratori non utilizzano nemmeno la metà dei giorni di ferie che hanno a
disposizione. Allo stato attuale il governo giapponese punta a ridurre la percentuale di
dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana a meno del cinque per cento della
forza lavoro totale, ed entro il 2020 (data non certo casuale, in quanto è l’anno delle
Olimpiadi che si svolgeranno a Tokyo, ovvero quando gli occhi di tutto il mondo saranno
puntati sul paese) intende convincere i lavoratori a prendersi almeno il 70 per cento
delle vacanze a cui hanno diritto. Ma il problema delle morti da superlavoro difficilmente
potrà essere risolto dall’alto: attraverso una legislazione tra l’altro già sperimentata in
anni passati e con scarsi risultati. Il karoshi è un problema che nasce innanzitutto dalle
dinamiche sociali all’interno della società giapponese: la pressione sociale in
combinazione con il desiderio di non deludere le aspettative da parte di familiari, colleghi
e superiori rende difficile convincere i lavoratori a compiere scelte più “salutari”. E lo è
ancor di più quando per tutta la vita è stato loro insegnato che ciò che conta non è il
proprio stato d’animo - di un progetto di vita vagamente felice neppure si parla - ma la
sicurezza materiale, ovvero ottenere un buon posto di lavoro e mantenerlo a tutti i costi,
anche i più estremi.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 19 Ca’ Fornera: recapito a singhiozzo, il don scrive alle Poste di g.ca.
Jesolo. Corrispondenza in ritardo, il parroco scrive alle Poste. Anche “Avvenire”, il
quotidiano dei vescovi, arriva solo 2 o 3 volte la settimana. Speriamo che almeno la
lettera di don Mario Porcù, parroco della vivace frazione di Ca’ Fornera, sia stata
recapitata in tempo. Il don si dice «indignato nei confronti delle Poste Italiane, il cui
servizio è addirittura scandaloso». Il sacerdote non perdona questi disservizi: «Sono
indignato al punto che mi viene un travaso di bile ogni volta che vedo in tivù la loro
pubblicità», spiega il prete, «La chiesa di cui ho la responsabilità si trova a Ca’ Fornera,
frazione di Jesolo che dista tre chilometri, e non trecento, dal centro città e dove la
posta viene consegnata con questa scadenza: una settimana tre volte e la settimana
dopo due volte. Aggiungo che il sottoscritto è abbonato al quotidiano “Avvenire” che mi
viene consegnato “a pacchi” con la scadenza di cui sopra. Sono anche abbonato a un
settimanale che mi arriva quando capita e sempre in ritardo rispetto alle notizie e alle
riflessioni che vengono pubblicate». «Come se ciò non bastasse, da un po’ di tempo la
mia corrispondenza viene consegnata a un vicino che ha naturalmente un civico diverso
dal mio. So che è un’abitudine diffusa almeno in questa frazione», continua il don, «Non
posso neanche prendermela con i portalettere che vengono cambiati spesso e mi dicono
essere sotto organico». Don Mario Porcù si è già rivolto alle Poste di Jesolo per esternare
il suo malumore. Gli è stato risposto che il problema non dipende da Jesolo e che il
personale a disposizione è ridotto. «A causa di questi ritardi, arrivano anche fatture
abbondantemente oltre la scadenza», conclude il prete, «Io stesso ho sperimentato
disagi non da poco con le bollette della luce. In questo modo gli utenti vengono costretti
a usare per forza la domiciliazione bancaria».
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 5 febbraio 2016
Pag IV Famiglie povere, soldi in cambio dell’impegno a uscire dal disagio di
Vettor Maria Corsetti
Servizi sociali, i nuovi criteri più “mirati” per l’assegnazione dei contributi
Ammonta complessivamente a 280mila euro l'impegno di spesa riconosciuto dal Comune
per il 2017 in materia di interventi diversi di natura economica per persone e famiglie
disagiate. A chiarirlo è la relativa determina firmata da Alessandra Vettori, responsabile
della direzione Coesione sociale, servizi alla persona e benessere di comunità. Come si
può evincere dalla lettura del documento, la cifra iscritta nel bilancio di Ca' Farsetti si
riferisce specificamente all'erogazione dei minimi vitali, dei contributi economici
straordinari, dei minimi economici di inserimento e alla terza annualità del programma
statale Ria (Reddito di inclusione attiva), finalizzato al reinserimento sociale e/o
lavorativo delle fasce deboli. Per l'assessore alle Politiche sociali, Simone Venturini, «un
quadro preciso sul numero di assistiti lo avremo tra qualche giorno: i conti li stiamo
facendo ora, e fornire in anticipo cifre non aggiornate sarebbe scorretto. Mentre la
determina dirigenziale si configura come un atto dovuto, limitandosi a precisare
l'impegno di spesa senza spendere una parola in più sulle metodologie d'intervento e le
caratteristiche tecniche di assegni sociali e altri contributi economici già competenza
delle Municipalità, e ora in carico a una sola direzione comunale. Nel merito, molto altro
ci sarebbe da dire. Ad esempio, sulla volontà dell'Amministrazione Brugnaro di rendere
più efficiente e rapido il servizio mediante un referente unico, e sul nuovo software che a
breve consentirà all'assessorato di avere per ogni soggetto o gruppo familiare un quadro
preciso della situazione e delle prestazioni erogate. Il tutto, con l'intenzione di
trasformare dove possibile il mero assistenzialismo in solidarietà attiva. Cosa, d'altro
canto, che è stata richiesta con forza dal ministero a tutte le amministrazioni comunali».
Da qui la particolare attenzione rivolta dall'assessore e dai suoi collaboratori «al nuovo
regolamento per l'assegnazione dei minimi vitali, affinché il riconoscimento di un
particolare status e le modalità di erogazione facciano riferimento a criteri omogenei per
tutto il territorio del Comune. Oltre alla creazione di un ufficio specificamente dedicato ai
progetti d'inserimento o reinserimento lavorativo e alle iniziative a livello formativo. In
altre parole, e ovviamente solo con i soggetti idonei per età anagrafica e condizioni di
salute, vogliamo superare la logica del sostegno economico a fondo perduto ai più
bisognosi. Stringendo una sorta di patto con il maggior numero possibile di richiedenti
aiuto, affinché dimostrino con i fatti la volontà di uscire dalla condizione di disagio
economico e d'isolamento sociale in cui loro malgrado sono caduti. Da soli o insieme ai
propri cari». A tale proposito, grande fiducia è riposta da Venturini sulla carta Sostegno
inclusione attiva, collegata all'omonimo programma ministeriale: «Si tratta di una carta
acquisti per generi di prima necessità, attualmente utilizzata da circa quattrocento
famiglie e introdotta in via sperimentale solo nella nostra città conclude l'assessore Il
progetto vale per Venezia la bellezza di un milione e mezzo di euro: soldi che ci fanno
comodo, considerato che anno dopo anno il settore necessita di un'attenzione sempre
maggiore. E come previsto dagli ideatori di Ria e Sia, rigorosamente subordinato
all'accettazione di un lavoro o di un percorso formativo, ritagliato su misura dai servizi
sociali in base alle caratteristiche dei singoli soggetti».
Sono quattro le tipologie d'intervento in essere anche a Venezia per le famiglie e
persone in condizioni economiche disagiate. La più nota è l'erogazione del minimo vitale,
un assegno sociale riconosciuto a soggetti in comprovata difficoltà e spesso non
autosufficienti, per il diritto a un'esistenza fisica, economica, culturale e sociale
rispettosa della persona umana. In secondo e in terzo luogo, i contributi economici
straordinari e il minimo economico d'inserimento, previsto per i titolari di un reddito al di
sotto della soglia di povertà e da interpretare come contributo per uscire da tale
condizione: a tal fine è legato a un percorso di reinserimento sociale, che prevede da
parte dell'interessato l'accettazione di un lavoro o la frequentazione di un percorso
formativo. Infine, il reddito d'inclusione attiva, dove il rilascio di un beneficio economico
è subordinato all'adesione di un progetto personalizzato di attivazione sociale e
lavorativa individuato dai servizi sociali.
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 35 Jesolo, divieto assoluto di burqa di Giovanni Cagnassi
Il sindaco Zoggia sta studiando un’ordinanza per la prossima estate
Jesolo. Burqa vietato a Jesolo, per la prossima estate il sindaco sta già pensando
all’ordinanza che vieti tassativamente di circolare con il volto coperto. Valerio Zoggia non
ha aspettato le iniziative della Regione Veneto dopo che la maggioranza leghista ha
proposto un progetto di legge nazionale per allargare anche al burqa, o al velo integrale,
il divieto nei luoghi pubblici, come per caschi o passamontagna. La questione burqa al
Lido era esplosa fragorosamente la scorsa estate dopo che il consigliere comunale della
Civica Jesolo, Daniele Bison, aveva segnalato una famiglia di origini arabe con donne,
mature e adolescenti, al seguito rigorosamente con il volto coperto. E aveva trovato
anche una foto di un’altra donna in burqa all’interno di un negozio. Si era così acceso il
dibattito, rilevando come ad esempio, all’Outlet di Noventa, burqa o velo integrale
avessero diritto di cittadinanza, magari accompagnati da portafogli belli pieni per gli
acquisti. Non a Jesolo, dove invece i cittadini e politici si sono dimostrati assai meno
elastici e liberali in materia di usi e soprattutto costumi. Così, mentre nel mondo, e
anche a Jesolo, torna di moda la tolleranza zero e la nuova ondata trumpiana si sta
abbattendo in tanti Paesi, ecco che il viso coperto sta per essere davvero vietato con
tanto di sanzione della polizia locale. Parola di Zoggia che, infatti, non nega
assolutamente: «Se dovesse ripresentarsi il problema prima della stagione, con la
presenza di donne in burqa, scatterebbe l’ordinanza specifica. La legge è chiara e il volto
coperto non è consentito, come vale per passamontagna o caschi. Non vogliamo certo
diventare censori severi e intolleranti, è una questione di sicurezza. I burkini saranno
consentiti, ad esempio, purché il viso sia scoperto. Quindi le donne mussulmane
potranno tranquillamente prendere il sole, se così si può dire, con l’abito completo che
coprirà tutto il corpo e la testa, ma con il viso sempre scoperto. E non ci saranno divieti
per il velo, purché non integrale. Mi sembrano concetti semplici e regole che tutti
potranno condividere per motivi di sicurezza perché oggi dobbiamo fare i conti»,
conclude il primo cittadino di Jesolo, «con situazioni di costante pericolo in cui anche un
volto nascosto può celare qualsiasi persona». La scorsa estate erano già iniziate le
proteste e Salvatore Esposito di Sinistra Italiana che aveva parlato di «incoscienza
politica» del sindaco, ricordando che mai sono stati perpetrati attentati in burqa.
CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 8 Il sindaco abbatte i cubi del parco: “I cittadini diventino protagonisti” di
Gloria Bertasi
Polemica sulla decisione della giunta. Ruspe in azione all’alba. Più luci contro lo spaccio
Mestre. Non ci abbatterete mai, hanno scritto in uno dei cubi di parco Bissuola. Il
sindaco sorride, poi la ruspa dà il primo colpo di piccone. Poi arriva il secondo, il terzo...
E il cubo non c’è più. Ieri mattina c’era ancora la nebbia quando poco dopo le 8 è iniziata
la demolizione dei cubi e in poche ore la struttura centrale, tra la gradinata e il secondo
parallelepipedo, è stata abbattuta. «Non c’è niente da festeggiare - ha detto Luigi
Brugnaro -. I cubi sono il simbolo del fallimento di una certa ideologia che pensava
bastasse costruire spazi per creare socialità ma non è così, bisogna costruire contenuti
ed è questa la cosa più difficile da fare, ora noi li togliamo e riportiamo le persone, se ci
riusciamo». Il parco è stato realizzato tra il 1975 e il 1980: i cubi, il teatro e il centro
civico erano stati pensati per realizzare una piazza pubblica dove ospitare anche un
mercato. In quell’area sono state ospitate manifestazioni ma da anni i residenti e chi
frequenta il parco denuncia la presenza di spacciatori. Così, in parallelo a blitz anti-droga
della polizia municipale e delle forze dell’ordine, la giunta ha deciso di demolirli.
L’intervento durerà quaranta giorni (il costo è di 62 mila euro), ma non sarà demolita
l’intera struttura, rimarrà lo scheletro svuotato degli spazi dove è facile nascondersi per
spacciare. Nei giorni scorsi vedendo gli operai recintare il cantiere qualche ragazzo ha
storto il naso: «Si poteva pensare di riutilizzarli con iniziative culturali, gli spazi per la
cultura non sono mai abbastanza». Martedì hanno manifestato contro la scelta della
giunta anche i centri sociali. «Sono sempre stato contrario - interviene il presidente della
Municipalità di Mestre Vincenzo Conte -. I problemi non si risolvono così, lo abbiamo già
visto altrove, tolte le panchine in via Dante e in via Sernaglia non è cambiato nulla».
Molti però sono d’accordo, vedendo in quelle strutture solo una forma di degrado. I vigili
dall’inizio del 2016 ad oggi hanno effettuato 114 servizi, sequestrando quattro chili e
mezzo di droga e fermato quattordici spacciatori. Finite le demolizioni, saranno anche
sistemati otto nuovi punti luce per aumentare l’illuminazione all’ingresso. «Togliamo per
ricominciare, dobbiamo avere umiltà e sapere riconoscere ciò che funziona e ciò che non
funziona - ha spiegato il sindaco -. Chiediamo a tutti i cittadini di essere protagonisti, di
riappropriarsi degli spazi riempiendo i parchi, le strade, le piazze, di partecipare in modo
costruttivo e propositivo alla rinascita della città». Aggiunge l’assessore ai Lavori pubblici
Francesca Zaccariotto: «Abbiamo dato una risposta ad una situazione di degrado che
creava grossi problemi sia ai residenti che ai frequentatori del parco. È inoltre una
dimostrazione della capacità operativa di questa amministrazione, che ha fatto proprie le
esigenze espresse dai cittadini dando loro risposte concrete per garantirne la sicurezza».
Il Comune non ha abbandonato l’idea di recintare tutto il parco ma vanno trovati i soldi
(l’intervento costa 300 mila euro) e va capito come fare. «Se il sindaco voleva togliere lo
spaccio poteva accogliere le richieste di Auser regionale e provinciale che chiedeva di
usare un cubo come ufficio aperto otto ore al giorno e dell’associazione dei carabinieri in
congedo che cercava una sede», commenta Conte. Oltre ai cantieri dei cubi, gli operai
sono al lavoro negli altri 33 ettari. «Ci sono dieci interventi di manutenzione ordinaria in
corso», ha spiegato il presidente dell’Istituzione Boschi e grandi parchi Giovanni
Caprioglio. E nel bilancio di previsione del 2017, ci sono altri 145 mila euro.
Pag 9 “Mazzacurati ancora lucido nel 2013”. E le accuse restano nel processo
Mose di Alberto Zorzi
Acquisiti i verbali: la malattia era imprevedibile. Ma sarà guerra sull’attendibilità
Venezia. «Noi abbiamo sostenuto Orsoni sulla campagna elettorale e abbiamo speso
quella cifra (poco prima aveva parlato di 400-500 mila euro, ndr )». E poi: «Abbiamo
avuto un presidente del Magistrato alle Acque, Piva, che ci ha dimostrato subito una
pesante ostilità e quella noi l’abbiamo corretta con... portandole dei soldi». E ancora:
«La Lia Sartori mi aveva detto che aveva bisogno di fondi. Mi ha incontrato per quello
(...) le portai 50 mila euro». Le dichiarazioni che l’ex presidente del Consorzio Venezia
Nuova, Giovanni Mazzacurati, ha reso ai pm lagunari Paola Tonini e Stefano Ancilotto, in
5 interrogatori tra il 25 e il 31 luglio e il 9 ottobre del 2013 restano nel processo Mose.
Così ha deciso il tribunale di Venezia sulle centinaia di pagine di verbali, che portarono
alla grande retata del 2014 con l’arresto, tra gli altri, dell’ex governatore Giancarlo Galan
e dell’assessore Renato Chisso. Verranno acquisite anche nel processo in corso, dove tra
gli 8 imputati ci sono l’ex sindaco Giorgio Orsoni e l’ex eurodeputata Lia Sartori
(finanziamento illecito), l’ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva e
l’ex ministro Altero Matteoli (corruzione). I giudici hanno bocciate tutte le richieste delle
difese. Gli avvocati degli imputati, preso atto – sulla base dell’approfondita perizia del
dottor Carlo Schenardi – che Mazzacurati non poteva più essere interrogato in aula
perché affetto da una demenza senile che gli impedisce di ricordare con precisione i fatti
del passato, avevano chiesto di non acquisire i verbali dal fascicolo, appigliandosi a una
norma del codice secondo cui questo può avvenire solo nel caso in cui il motivo di salute
sia «imprevedibile». Nell’udienza di una settimana fa c’è stato uno scontro pesante sulle
cartelle cliniche del 2013, per dimostrare che la procura non poteva non aver capito che
il teste era «a rischio» e che quindi, per garantire anche alle difese di poterlo
interrogare, doveva chiedere l’incidente probatorio subito dopo gli arresti. «Non vi erano
elementi oggettivi che potessero fondatamente indurre a ritenere impossibile la
ripetizione delle stesse, ma solo modeste evidenze», scrivono però i giudici, che
ricordano le difficoltà nel camminare, le cadute, i deficit di memoria, ma anche il fatto
che i ricoveri del 2013 avvennero tutti per motivi cardiologici. Ci sono poi i numerosi
testi (dipendenti del Cvn e altri grandi accusatori, tra cui Piergiorgio Baita e Pio Savioli)
che hanno parlato di un Mazzacurati «lucido e padrone del Consorzio» anche in quelle
settimane dell’arresto e delle confessioni. Quanto all’incidente probatorio, ricorda il
collegio, lo stesso fu disposto successivamente, ma fu negativo proprio per i problemi di
salute di Mazzacurati. Respinte anche le richieste di una perizia per stimare l’inizio della
malattia e dell’ascolto in aula delle bobine degli interrogatori, che saranno però messe a
disposizione delle difese. «Ora la guerra si sposta sull’attendibilità dei verbali e sui
riscontri», commenta uno dei legali più agguerriti, Alessandro Moscatelli, difensore di
Sartori, colui che era riuscito a ottenere dall’Usl tutte le cartelle cliniche dell’ex
presidente degli ultimi dieci anni. «Sarebbe stato clamoroso il contrario - dice il collega
Carlo Tremolada, difensore di Orsoni - Non condividiamo soprattutto la parte
sull’incidente probatorio, perché noi lo chiedemmo pochi giorni dopo l’”interrogatorio
americano” del 17 settembre 2014, ma fu fissato solo a marzo e concluso a maggio».
D’altra parte il tribunale stesso ricorda che la Cassazione impone di valutare con tutte le
cautele del caso le dichiarazioni assunte in assenza del contraddittorio. «Anche l’accusa
è privata della possibilità di assicurare al processo dichiarazioni dallo stesso rese nella
pienezza della prova dichiarativa», osservano i giudici: ma senza verbali per i pm
sarebbe stato più difficile.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 4 febbraio 2016
Pag VIII Da convento ad albergo, il Comune nega il cambio di Lorenzo Mayer
Lido. Nuova tegola per l’imprenditore calabrese Antonio De Martino nella realizzazione
dell’hotel
Il Comune dice no alla realizzazione di un hotel superlusso al posto dell'ex convento
delle suore Elisabettine a Città Giardino. Gli uffici dell'assessorato all'Urbanistica hanno
fermato il progetto già in fase di realizzazione, in quanto il Piano regolatore per il Lido
non prevede, in quella zona, la possibilità di strutture ricettive. E così si dovrà ripartire
da zero. A questo punto, tramontata l'ipotesi albergo, potrebbe essere rilanciata la
proposta iniziale: quella di farne una Casa di riposo. Intanto, però, l'edificio è stato
interessato, nei mesi scorsi, da interventi di manutenzione straordinaria, in vista di
un'apertura come hotel di alto livello che avrebbe dovuto essere classificato quattro
stelle superiore. Invece, ben prima dell'apertura della nuova attività, è stata ritirata dal
Comune la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) in quanto la destinazione non
sarebbe conforme al piano urbanistico e tutto si è bloccato. A rimanere con il cerino in
mano è l'impresa De Martino Srl che ha acquistato l'edificio, situato in via Sandro Gallo
92, rilevando in toto il progetto di trasformazione presentato, a suo tempo, dalla
Congregazione religiosa delle suore elisabettiane. Un Piano elaborato su progettazione
della Tecnostudio srl di Padova, con la direzione Lavori e progettazione dell'architetto
Danilo Turato, il progettista della Nave de Vero a Marghera e coordinatore della
Conferenza dei servizi del Lido ai tempi del commissario governativo, Vincenzo
Spaziante. Quando le suore elisabettiane hanno deciso che non potevano più stare al
Lido hanno fatto fare un progetto di riconversione dell'edificio per poter mettere sul
mercato la loro casa che non serviva più. Interpellati sulla questione i privati non hanno
voluto rilasciare alcuna dichiarazione in merito, e sono assistiti dall'avvocato Pier Vettor
Grimani che segue la vicenda. Un addio, quello della Congregazione religiosa dell'ordine
terziarie francescane di Padova, avvenuto a malincuore, nell'estate 2015, a causa della
carenza di nuove vocazioni. Le religiose erano arrivate al Lido nel novembre del 1929,
stabilendosi a fianco della chiesa di Sant'Antonio, quando la attuale chiesa in muratura
ancora non c'era e rimanendo al Lido per quasi novant'anni di onorato servizio.
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8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 9 Falso profilo su Facebook. Don Contin: faccio causa
Padova, preso di mira l’ex parroco indagato per favoreggiamento della prostituzione
Padova - Qualcuno ha creato in rete un falso profilo Facebook di don Andrea Contin, l'ex
parroco di San Lazzaro a Padova indagato per favoreggiamento della prostituzione e
violenza privata. Trovarlo è semplicissimo: basta accedere a Facebook e digitare don
Andrea Contin, compare una pagina con la foto del prete e l'immagine di una statuetta
di donna nuda con le ali. Sotto la scritta don Andrea Contin è riportata la parola
motivatore. Il falso sacerdote ha già iniziato a chattare con gli internauti che lo credono
veramente don Contin. Risponde a tutti, scrivendo che è umano peccare e desiderare il
sesso. Sul profilo, il falso don Contin, ha postato video di fiction i cui protagonisti sono
preti e suore, e copertine di libri sulla Santa inquisizione e sui segreti del Vaticano. Ma il
falso don Contin ha postato anche due foto di altri due preti invischiati in vicende
compromesse dal sesso. C'è don Roberto Cavazzana, l'ex parroco della chiesa di
Carbonara di Rovolon che, interrogato per oltre sei ore dal sostituto procuratore Roberto
Piccione, ha ammesso di avere partecipato alle orge organizzate dal vero don Contin. Ma
nel falso profilo Facebook c'è anche l'immagine di don Sante Sguotti, l'ex parroco della
chiesa di Monterosso ad Abano Terme, che ha svestito l'abito talare per sposarsi e
diventare papà. Ora è un camionista attivo in provincia di Vicenza. Il finto profilo
Facebook è stato comunque intercettato dal vero don Andrea Contin. Il sacerdote,
attraverso il suo legale Gianni Morrone, ha assicurato che a breve presenterà denuncia
per il reato di furto d'identità. Insomma, il falso don Contin rischia di beccarsi una
querela. L'unico passaggio dove l'internauta può capire che si tratta di una bufala, è
nell'aver postato la frase «ha diffuso il seme divino. Ha fatto penare i suoi parrocchiani.
Più siamo e più ci divertiamo. Il simpatico motto». In Facebook è presente anche un
altro profilo dedicato a don Contin, dal nome molto volgare, mentre un secondo che
invitava gli internauti a unirsi per partecipare a un'orgia nella parrocchia di San Lazzaro
è stato rimosso. Ieri la parrocchia di Carbonara di Rovolon, orfana da tre settimane di
don Roberto Cavazzana, ha ricevuto la visita del vescovo, monsignor Claudio Cipolla, che
ha celebrato la santa messa festiva. «Siamo insieme - queste le sue parole ai fedeli anche io non cambio la mia fiducia e la mia certezza in quello che il Signore ci ha
insegnato. Sono venuto oggi proprio per dire che siamo nei banchi insieme a pregare.
Quindi andiamo in mezzo a tutte le bufere, teniamo dritta la prossima rotta che
conosciamo e davvero la pace sia con voi». Il vescovo ha voluto essere tra la gente, in
modo discreto, senza tanto clamore. «Anche io mi sento qualche mal di schiena per i
colpi che abbiamo ricevuto. Più grossi di quelli che meritavamo, molto più grandi - ha
detto nell'omelia - non so dare spiegazioni, so soltanto dire che le abbiamo prese
insieme. Questo sì Volevo farvi un grande augurio, una grande benedizione perché
possiate trovare la pace».
LA NUOVA
Pag 1 Il referendum e i voti non usati di Francesco Jori
Repetita iuvant? Sarà, ma il rischio è di perdere tempo. Il parere che Luca Zaia intende
chiedere ai veneti sull’autonomia della regione, ce l’ha già in tasca da due anni: da
quando cioè, nella primavera del 2015, è stato trionfalmente eletto, anzi rieletto, alla
presidenza dalla maggioranza assoluta dei votanti, relegando gli avversari a distanze
abissali. E con una campagna giocata in modo massiccio proprio sul tema
dell’autonomia, pur cavalcato da altre forze che nelle urne hanno raccolto solo le
briciole. Che un voto politico conti almeno quanto uno referendario, se non di più, è
indiscutibile: certo, andava speso da subito sul piano politico. Cosa che invece il
governatore intende fare solo dopo la prossima consultazione, come ha spiegato
nell’affollato confronto con il ministro Enrico Costa promosso da questo giornale a
Padova. C’è un rischio, oltretutto, in questa scelta. Sull’esito del referendum, vista la
domanda formulata sulla scheda, la previsione non può che ispirarsi alla filosofia
enunciata trent’anni fa con probanti esempi da Massimo Catalano in “Quelli della notte”:
è meglio avere più autonomia che averne di meno o non averla del tutto. Il punto sta
nella quantità dei consensi: se l’afflusso alle urne non fosse così massiccio come Zaia
confida, e i sì pur ampiamente maggioritari risultassero meno della metà del totale dei
veneti, la sua battaglia non ne uscirebbe forse indebolita in partenza? Come ricordato, il
governatore ha in tasca da due anni il disco verde di oltre un milione di persone su due
milioni di votanti per aprire il tavolo con Roma da una posizione di forza. Cosa che non
ha mai fatto non solo egli stesso (già in carica dal 2010), ma neppure il suo
predecessore Giancarlo Galan, che in quindici anni ha dedicato alla questione una
quantità di proclami inversamente proporzionale alle azioni concrete. Certo, per trattare
bisogna essere in due; e la controparte è sicuramente la più coriacea, refrattaria,
antiautonomista che ci sia. Ma sarà pure il caso di ricordare che nei vent’anni e passa di
forzaleghismo incontrastato in Veneto, per oltre metà del periodo in quella Roma c’erano
governi amici; oltretutto con autorevolissimi leader leghisti in ruoli-chiave. Da cui ci si
poteva aspettare oggettivamente di meglio. Il referendum comunque ci sarà, e la partita
vera si aprirà dal giorno dopo. Nel giocarla, i partiti veneti (si spera uniti, almeno su
questo punto-chiave) non dovranno tuttavia farsi mancare una riflessione autocritica su
un nodo strategico: perché questa regione si batte per ottenere autonomia dal momento
stesso in cui è entrata a far parte dell’Italia, vale a dire da 150 anni, senza mai essere
riuscita a portarne a casa se non qualche irrisoria briciola? Ci sono stati e ci sono anche
degli errori o dei limiti in casa, o si pensa di cavarsela scaricando tutta la colpa su
Roma? In particolare nel secondo dopoguerra, dalla Dc al Pci, da Forza Italia alla Lega al
Pd, gli esponenti veneti dei vari partiti non hanno avuto forse in tasca la stessa tessera
dei loro compagni romani? O il loro ruolo era ed è solo quello di portare voti alle casse
elettorali comuni? E come mai due piccole regioni confinanti, oggi guardate con invidia,
sono riuscite invece a incassare un’autonomia robusta, grazie a politici di grande
spessore, da Alcide De Gasperi a Tiziano Tessitori, e ad una sapiente, tenace, concreta
battaglia condotta anche dai loro successori non per anni, ma per decenni? È recente,
non preistorico, l’esempio di Riccardo Illy, che da presidente del Friuli-Venezia Giulia una
decina di anni fa ha portato a casa un risultato di tutto rispetto sul piano dell’autonomia,
inclusa la materia fiscale. Più di un secolo fa un’esemplare quanto sconosciuta figura di
vero autonomista, il trevigiano Piergiovanni Mozzetti, criticava aspramente le “barufe in
famegia” dei veneti, che toglievano loro ogni autentico peso contrattuale nei confronti
dello Stato. Nel post-referendum, sarà fondamentale evitare che a Roma il Veneto sia
confuso con Chioggia.
CORRIERE DEL VENETO di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Luce nelle notti della Repubblica di Alessandro Russello
Schio e la riconciliazione
C’è una foto, di loro due, che spiega già tutto. La mano di lui, mano di
novantaquattrenne ex operaio fatta di sentieri e increspature, di nodi stretti sulla pelle e
nodi stretti in gola, mano grande che ha fatto il bene e ha fatto il male e che ora si posa
con dolcezza sul viso di lei, quasi a proteggerlo quel viso che lo guarda e gli sorride. E la
mano di lei, mano di settantaquattrenne psicoterapeuta che si alza verso il braccio di lui
e lo sta per abbracciare, e sembra l’abbraccio di una figlia a un padre nel giorno del suo
ritorno, inghiottito dal tempo e riemerso da un’altra vita. Solo che non è suo padre. La
mano di quest’uomo è quella che si alzò per impugnare un’arma e uccidere il suo padre
vero, trucidato assieme ad altre decine di uomini e donne che stavano «dalla parte
sbagliata» o pagavano la colpa di trovarsi semplicemente lì. Perche lui è Teppa, il
partigiano Teppa, nome di battaglia che ha oscurato l’identità di Valentino Bortoloso, che
fra il 6 e il 7 luglio del 1945, due mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale,
assieme ad altri partigiani fece irruzione nel carcere di Schio per compiere l’eccidio in cui
un morirono in 54 tra fascisti e criminali comuni. Fra questi, Giulio Vescovi, l’allora
trentacinquenne podestà di Schio e padre della piccola Anna. Anna Vescovi. Tutti uccisi
«fuori tempo massimo», con la rabbia e i fucili ancora caldi, la rabbia di chi nelle guerre
si nasconde dietro la «parte giusta» anche quando fa cose sbagliate. Anche orrende.
Teppa, assieme ad altri quattro compagni, fu condannato all’ergastolo ma gli fu
commutata la pena in dieci anni. Che scontò. Ciò che invece non ha mani finito di
scontare è il peso della condanna autoinflitta, la ragione che in qualche modo si fa torto,
il sangue dei «vinti» che non si lava mai anche se quei vinti, quand’erano dalla parte dei
vincitori, seminarono ingiustizia, morte, terrore. Così la pensa il partigiano Teppa, che
non si è mai apertamente pentito perché a guidare la sua mano - dice lui - è stata la
Storia. Chi non c’era e non ha visto certe cose non può capire, ha sempre sostenuto. Pur
vivendo settant’anni con dentro un macigno. La vera «grazia» per ciò che fece - al di là
dei torti e delle ragioni - al partigiano Teppa l’ha concessa alla fine la figlia del podestà
che lui uccise. Anna lo ha «liberato» e si è «liberata» offrendogli un personale patto di
pace scritto a due mani. Con quelle due mani. «Noi Valentino Bortoloso e Anna Vescovi,
consapevoli che è giunto il momento di pacificare le tragiche contraddizioni della stessa
storia di 70 anni orsono (...) con grande atto di coraggio da entrambe le parti, ci siamo
incontrati in un commosso abbraccio di grazia e di perdono». Molti altri parenti delle
vittime dell’eccidio di Schio non riescono a parlare di perdono, invocando al massimo la
«misericordia» (concetto molto caro a papa Francesco) rivendicando la loro di Storia. Ma
ognuno ha diritto di metabolizzare (o meno) il male ricevuto con i propri tempi e i propri
percorsi. Serve un profondo rispetto pure per loro che chiedono «almeno» un
pentimento mai pronunciato. A noi piace sottolineare la forza e il valore «politico» oltre
che umano del gesto di Anna Vescovi e Valentino Bortoloso, gesto fuori da ogni retorica
e da ogni compiacimento «buonista» che può provare chi non conosce la convivenza col
profondo dolore del male. Oltre alla carica religiosa e spirituale, la pacificazione di
Valentino e Anna è una luce nella lunghe notti della repubblica di un Paese dove dopo
settant’anni certe ferite sono ancora aperte e dove non c’è ancora (ci sarà mai?)
condivisione di memoria. Un gesto, il loro, «politico» anche nel mettere nelle mani
dell’altro la propria storia, il proprio pudore, la propria fragilità, la propria paura, le
proprie ragioni, il proprio dolore e il suo superamento. È la forza carsica e interiore che
tra dolore provocato e ricevuto dice quanto possa essere infinita la nostra umanità. E
quanto possibile - pur tra difficoltà e contraddizioni - la ricongiunzione fra vittime e
carnefici. È successo anche con il terrorismo rosso e nero, l’altra notte buia della nostra
repubblica, i cui segreti resistono alla storicizzazione dei fatti riemergendo ogni tanto
come risvolti di cronaca (che dire dell’infinito e semi fallimentare processo di Piazza
Fontana?). Perdono e pacificazione sono parole pronunciate negli ultimi tempi anche fra
le vittime e i carnefici degli «anni di piombo». Con contrapposizioni all’interno delle
stesse famiglie: fratelli e sorelle degli uomini (politici, giornalisti, manager) trucidati
dalle Br su opposti fronti. Ognuno con le proprie ragioni. A dimostrazione del difficile
passaggio dal percorso individuale a quello condiviso e collettivo. Ma se vittime e
carnefici (e i loro parenti) hanno il diritto di far decantare le loro tragedie e su di esse
dividersi, è la politica che ha il compito di fare sintesi di questi sentimenti favorendo il
processo di pacificazione e ricomposizione di questo Paese. Che spesso galleggia,
ancora, tra nuovo odio e strumentali divisioni. Da quell’eccidio e da quella Storia, fatta di
nazionalismi e di baratri che hanno fatto toccare il fondo all’umanità, sono passati 70
anni e sembra che poco si sia imparato. Anzi, magari con armi diverse - oggi più
economiche che militari - spira forte il vento di un neo-nazionalismo la cui facciata è la
demolizione della globalizzazione e la cui anima porta l’incognita di un mondo che rischia
di riedificare una nuova memoria di dolore.
Pag 5 Il partigiano Teppa e la figlia del podestà, l’abbraccio divide i parenti delle
vittime di Michela Nicolussi Moro e Elfrida Ragazzo
L’eccidio di Schio: l’eredità della storia. Su perdono e riconciliazione non c’è ancora
accordo
Schio. La porta al perdono l’aveva aperta nel 2011 la figlia di Guido Rossa, il sindacalista
della Cgil ucciso nel 1979 dalle Br. Sei anni fa i suoi assassini, Vincenzo Guagliardo e la
moglie Nadia Ponti, ottennero la libertà condizionale e Sabina Rossa commentò: «Un
gesto di civiltà. Nel nostro Paese nessuna pena può essere a vita, è un principio di
democrazia». Quella mano tesa e stretta sei anni dopo dalla vicentina Anna Vescovi con
l’abbraccio «di grazia e misericordia» a Valentino Bortoloso, il partigiano «Teppa» che le
ammazzò il padre Giulio, il podestà, nell’eccidio di Schio del 6 luglio 1945, continua a
suscitare voglia di emulazione ma anche fastidio e rabbia in altri familiari delle vittime
«dei giustizieri rossi». Anche se parliamo di momenti storici e protagonisti totalmente
diversi. «Tanta gente non smette di odiare ed esprime commenti feroci nei miei
confronti, che non capisco - rivela Anna, psicoterapeuta -. La sera dell’abbraccio
pubblico ho ricevuto la telefonata di un anziano che mi ha insultata e mi ha detto: non
sai a chi hai stretto la mano, quello era uno stupratore e un assassino. Ma io vado dritta
per la mia strada, non mi pento di ciò che ho fatto. La mia famiglia non mi ha cresciuta
nel rancore, nonostante il grande dolore e quando, per mia volontà, ho conosciuto
Bortoloso, ci siamo abbracciati e abbiamo pianto insieme. Io gli ho sconvolto la vita,
come lui aveva sconvolto la mia 72 anni fa, quando ne avevo solo 2. Non ha dormito per
mesi. Capisco che il suo possa essere stato un colpo di testa dei 20 anni, però il mio non
è perdono, non ho mai pronunciato questa parola, che implica una rabbia e un odio a me
sconosciuti. E’ un atto di misericordia - precisa Vescovi - che tocca il cuore e il cervello.
Lui vuole essere giustificato, dice: i tempi erano quelli e l’eccidio è stata una
conseguenza di altri gravissimi episodi. Io lo comprendo, benché più di qualcuno mi
ritenga una sconsiderata». Oggi i due si sentono regolarmente, venerdì è andata a
prenderlo lei per accompagnarlo in Curia a Vicenza, teatro dell’«abbraccio», e lui ha
voluto conoscerne i figli. «Ci ha invitati a casa e ha fatto i gnocchi - racconta Anna -. Gli
ho liberato il cuore da un macigno e non sa come ricambiare». Oggi Bortoloso, che nel
1985 ha ricevuto un diploma dall’allora presidente della Repubblica Pertini per «aver
combattuto per la libertà d’Italia» ma che la scorsa estate su richiesta del sindaco di
Schio, Valter Orsi, si è visto revocare la medaglia al valor partigiano concessa dallo
Stato, ha 94 anni. Inizialmente condannato a morte dal governo militare, dopo tre
processi ha goduto dell’amnistia concessa nel 1946 da Palmiro Togliatti per i crimini di
guerra commessi da entrambe le parti in causa. Ne beneficiarono anche gli autori
dell’eccidio e così «Teppa» finì per scontare 10 anni di carcere. Ha definito la sommaria
esecuzione di 54 presunti fascisti (lo erano solo 27), compiuta nel carcere di Schio dalla
brigata garibaldina comandata da «Romero» e «Teppa», «un atto inutile e doloroso».
«Come può liquidare così una strage? - s’infervora Silvana Capozzo, che all’epoca aveva
2 anni e vide il padre Dario, vicecommissario prefettizio, salvarsi per miracolo — Ma
stiamo scherzando? E’ stato un momento storico devastante, d’accordo, ma la
vigliaccheria di entrare in una prigione e far fuori gente inerme non può essere
giustificata. E atti come l’abbraccio non fanno che fomentare la rabbia. Mio padre era in
cella sotto copertura, con una falsa denuncia, per trattare la tregua coi partigiani. Si è
salvato saltando su una finestra. Quando è morto, 15 anni fa, ho trovato lettere a lui
indirizzate da partigiani che lo ringraziavano per averli salvati dai fascisti». «Bortoloso
non dovrebbe chiedere perdono nell’anno della misericordia?», incalza Matilde Sella,
presidente dell’associazione dei parenti delle vittime. Quel 7 luglio perse il nonno
Antonio, farmacista e podestà a Valli e a Magrè: «Se Teppa avesse detto: mi dispiace,
mi pento di quell’atto inutile e doloroso, avrei potuto perdonare. Così faccio fatica». Il
dramma maturò a nove settimane dalla Liberazione, in una Schio che aveva pagato a
caro prezzo lo spirito antifascista: negli occhi di tutti c’era ancora la mattanza di
Pedescala, con gli 82 innocenti massacrati dai tedeschi in ritirata nel maggio 1945. «Chi
non ha vissuto allora non può capire - dice Bortoloso -. Io ricordo tutto lucidamente,
come ricordo i vent’anni nella steppa russa, ma non riesco più a parlarne. C’è sempre un
prima e un dopo. Ho perso il sonno in questi mesi di discussioni, ma la notte
dell’abbraccio per la prima volta ho dormito dieci ore filate. Questo finale poteva essere
vissuto molti anni prima, per quanto mi riguarda. Quei tempi sono ormai lontani ed è
assurdo continuare a odiarsi». Concorda Meri Bernardi, che perse le zie Quinta e
Settima, di 28 e 21 anni, mentre una terza zia, Caterina Sartori, si salvò. «Finì sotto gli
altri cadaveri, che le fecero da scudo - rivela la nipote -. Raccontò del fiume di sangue
che dal secondo piano, dov’erano le celle, colava fino in strada. Ognuno elabora il lutto a
modo suo, è un percorso intimo e lento, che per me sta evolvendo verso il perdono.
Dopo 72 anni non può più esistere rancore, c’è bisogno di messaggi positivi. Non è stato
facile: anche il nonno fu ucciso dai partigiani. Una sera lo prelevarono da casa, dicendo
che aveva parlato male di loro, e il suo corpo venne trovato solo un anno dopo la fine
della guerra». La prossima settimana l’associazione farà il punto. «Abbiamo sofferto
abbastanza - dice Dario, il cui padre Pietro scampò alle raffiche di mitra gettandosi a
terra e fingendosi morto - bisogna voltare pagina e ricostruire. Il perdono reciproco è la
via per trovare la serenità del cuore».
Schio (Vicenza). «Non potrò mai perdonarlo». Giorgio Ghezzo, ristoratore scledense di
71 anni, si riferisce al partigiano «Teppa». Il padre Emilio, camicia nera, coperto dai
cadaveri, rimase ferito gravemente la notte dell’eccidio e morì qualche anno dopo.
Signor Ghezzo, cosa nel pensa dell’atto di pacificazione tra Anna Vescovi e Valentino
Bortoloso?
«L’abbraccio tra Anna Vescovi e Valentino Bortoloso è umanamente comprensibile e lo
rispetto, ma non posso condividerlo - dice Ghezzo -. Lo considero un gesto non solo
inutile ma anche dannoso. La riappacificazione c’era già stata nel 2005, con la firma
dell’atto di concordia civica (favorito dall’amministrazione comunale, ndr) , non ne
serviva un’altra».
Firmò anche lei quell’accordo?
«Sì, era l’unico modo per riuscire a ottenere dall’allora giunta di centrosinistra una lapide
che ricordasse le vittime. Deposta la stele, prima nelle ex carceri e ora nella biblioteca
civica, sono uscito dall’associazione dei familiari e ho creato un comitato, che poi si è
sciolto. Non vado nemmeno alla messa ufficiale che celebrano al duomo ad ogni
anniversario».
Potrebbe mai perdonare e abbracciare «Teppa?»
«No, non perdonerò mai un massacro avvenuto in tempo di pace. Se Anna voleva
riconciliarsi con Bortoloso avrebbe dovuto tenerlo per sé, farlo in forma privata, non
renderlo pubblico. L’eccidio è della gente di Schio, tutta. La città, prima che per
l’industria laniera, è conosciuta nel mondo per quell’atto infame».
Bortoloso e Vescovi hanno reso pubblica la loro riconciliazione perché, come hanno
sottolineato in una lettera, sia da «monito ed esempio per tutti, soprattutto per le nuove
generazioni».
«Io spero invece che i ragazzi possano ricordarsi di quello che è successo, ciò che è
stato è stato».
Ha mai incontrato Bortoloso?
«L’ho visto ma non gli ho mai parlato, è più forte di me».
CORRIERE DEL VENETO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 La “religione” della mafia di Massimiliano Melilli
Salvuccio cresimato
Può un mafioso fare il padrino di battesimo? Giuseppe Salvatore Riina, condannato a
otto anni e otto mesi per associazione mafiosa - pena interamente scontata - corleonese
di nascita e padovano d’adozione, figlio dell’ex capo dei capi di Cosa Nostra Totò, ha
ottenuto tutti i permessi necessari dalla Chiesa per battezzare la nipotina, figlia della
sorella Lucia. Come ex membro di Cosa Nostra, per la Chiesa il rampollo Riina è da
considerarsi scomunicato e quel battesimo non si sarebbe dovuto fare. La vicenda
rimanda ad una storia più drammatica: il rapporto (pagano) tra mafia e cattolicesimo.
Fin dalle origini, la mafia ha attinto alla simbologia cattolica per rinsaldare i legami tra i
suoi associati e attribuire dignità alle proprie azioni attraverso una religione a propria
misura, cercando compiacenza tra i ministri del culto. In dialetto siciliano «parrinu»
significa prete ma anche padrino, inteso come capo del clan. I mafiosi devoti adorano
sopra ogni cosa le processioni, idolatrico è il loro culto di certe Sante: ecco i riti di
iniziazione con le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato
sopra il proprio sangue. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita
battesimale a nuova vita. Il 6 giugno 1997 le forze dell’ordine fanno irruzione nel covo
del boss di Cosa Nostra Pietro Aglieri, soprannominato «u signurinu», uno dei mandanti
delle stragi di Capaci e via D’Amelio: trovano una cappella privata. Aglieri, poi
condannato all’ergastolo, è uno degli esempi di religiosità mafiosa. Come gli affiliati alla
‘ndrangheta e la storica devozione alla Madonna di Polsi, il cui santuario sorge nel
comune di San Luca. Si deve a Nicola Gratteri, coraggioso magistrato calabrese,
un’analisi che fa riflettere: «Di fronte ai capimafia, ci sono preti che chiudono un occhio
e preti che li chiudono tutti e due. Nel santuario di Polsi i capimafia si riuniscono ogni
anno a settembre per discutere le strategie criminali. E’ accertato che i killer della
‘ndrine calabresi prima di uccidere preghino la Madonna di Polsi». «Ho ucciso io Giovani
Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il
giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e
della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo: «aveva 13 anni quando fu rapito e 15
quando fu ammazzato (sciolto nell’acido n.d.r.). Ho commesso e ordinato personalmente
oltre 150 delitti». L’autore di questa agghiacciante confessione è Giovanni Brusca, killer
dei corleonesi, soprannominato ‘u scannacristiani’ per la sua ferocia, collaboratore di
giustizia che sta scontando diversi ergastoli. Nel suo covo furono trovati crocifissi, il
Vangelo, immagini di Santi e Madonne. Resiste ancora oggi una Chiesa dalle molte
anime, in cui l’opera dei sacerdoti impegnati a diffondere una pastorale antimafiosa si
scontra spesso con l’atteggiamento di condiscendenza che altri religiosi mostrano per le
ragioni del popolo di Cosa Nostra. Contro l’idolatria è insorto Papa Francesco. Il 21
marzo 2014 gridò tre volte «Convertitevi»” ai mafiosi. Giovanni Paolo II nella Valle dei
Templi, il 9 maggio ’93, richiamò alla conversione i mafiosi, prospettandogli l’inferno. Di
contro, Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1965, gli anni cosidetti della
Chiesa del silenzio, dichiarò: «La mafia è un’invenzione dei comunisti per ostacolare la
Dc». Non esiste una sola mafia come non esiste una sola Chiesa.
Pag 6 Riina jr.: “Alla mia nipotina insegnerò cos’è l’amore” di Andrea Priante
Cresimato a Padova, padrino a Corleone. La Chiesa: “C’è il perdono, ma doveva evitare”
Padova. «Ho sofferto», assicura Giuseppe Salvatore Riina. Il figlio di Totò u Curtu per la
prima volta parla della decisione di fare da padrino al battesimo della nipotina, ma anche
delle polemiche che ne sono seguite, della sfuriata del vescovo di Monreale e di come sia
possibile coniugare la fede con un cognome che ormai è diventato sinonimo di mafia. A
39 anni, Riina Jr l’ha messo in conto: qualsiasi cosa faccia viene analizzata, alla ricerca
della prova definitiva di come nessuno possa sfuggire al proprio destino. E il suo, di
destino, pareva segnato fin da bambino: nato a Corleone, in quella che fu la roccaforte
del potere mafioso, è il figlio terzogenito del «capo dei capi», condannato a sedici
ergastoli. E quando, poco più che ventenne, «Salvuccio» fu arrestato per associazione
mafiosa, sembrò chiaro chi sarebbe stato il prossimo boss di Cosa nostra. Invece,
scontata la condanna a 8 anni di carcere, Riina jr spiazzò tutti scegliendo di andare a
vivere a Padova. «Voglio costruirmi un futuro lontano dalla Sicilia», disse. Da allora sono
passati quattro anni. Ha scritto un libro sulla sua famiglia, continua a lavorare per una
Onlus di Padova che aiuta gli emarginati e a dover rispettare i legacci previsti dal regime
di sorveglianza speciale al quale è sottoposto. Sempre inseguito dai riflettori e dalle
polemiche. L’ultima è quella innescata da monsignor Michele Pennisi, il vescovo
antimafia di Monreale, andato su tutte le furie alla notizia che al rampollo di casa Riina è
stato concesso di fare da padrino alla nipotina. Nel mirino sono finiti il parroco di
Corleone, che il 29 dicembre ha celebrato il battesimo della piccola, e don Daniele
Marangon, che guida la parrocchia del Sacro Cuore di Padova e ha «certificato» che
Riina aveva le carte in regola per partecipare al rito.
Monsignor Pennisi ha definito il via libera a fare da padrino a sua nipote una scelta
«censurabile e quantomeno inopportuna». Se l’aspettava?
«È una polemica senza fondamento: le scelte religiose di ciascuno dovrebbero meritare
riservatezza, sono decisioni troppo personali per essere date in pasto all’opinione
pubblica. Ho sofferto perché la critica, ancora una volta, è arrivata da una persona che
non mi conosce e non sa nulla del percorso, anche spirituale, che ho fatto in questi
anni».
Quale percorso?
«Mi riconosco nei principi cristiani. Con il mio parroco di Padova ho seguito un percorso
di riflessione che ha comportato lo studio della Bibbia e del catechismo, e che
soprattutto mi ha portato a ricevere il sacramento della cresima. Con questo sacerdote
credo di aver instaurato un bel rapporto, tra noi c’è fiducia. Anche per questo mi
dispiace moltissimo che pure lui sia finito in mezzo alle polemiche».
Ammetterà che un conto è la sua personale scoperta della fede, un altro è presentarsi a
Corleone - in quello che fu il feudo di Totò Riina - come padrino di sua nipote…
«È stata mia sorella Lucia a chiedermelo. Tra me e lei c’è un legame fortissimo, pensi
che rinviò le nozze perché voleva che fossi io ad accompagnarla all’altare, visto che
nostro padre non poteva farlo. Nel 2008, quando uscii dal carcere e tornai a Corleone
per un periodo, organizzò in tutta fretta il matrimonio in modo tale che potessi esserle
accanto. Anche all’epoca si sprecarono le critiche. Quando lo scorso anno mi disse che
aspettava una bimba, e poi quando mi ha annunciato che la mia nipotina era nata, ho
provato una gioia immensa».
E suo padre, come ha reagito?
«Era felice, è ovvio. Ma anche consapevole che non potrà vedere crescere la sua
nipotina».
Di recente l’ha incontrato, su autorizzazione del tribunale di Venezia. Come è andata?
«Ho rivisto mio padre per la prima volta dopo 14 anni e mezzo, era ricoverato in
ospedale. E’ stato un incontro molto emozionante».
Monsignor Pennisi lamenta il fatto che lei «non ha mai espresso parole di
ravvedimento».
«Ripeto: il vescovo sa solo quello che legge sui giornali, non mi conosce. Ad ogni modo
ho pagato fino in fondo il conto con la giustizia italiana, e in parte lo sto ancora facendo
visto che sono sottoposto a delle limitazioni».
Ma un padrino dev’essere anche un esempio. Che valori cristiani può insegnare a sua
nipote?
«Il valore dell’amore, perché io le vorrò bene per sempre».
Venezia. La Chiesa veneta si divide sul caso Riina. «E’ molto difficile commentarlo riflette monsignor Adriano Tessarollo, vescovo di Chioggia - da una parte c’è
l’opportunità di redenzione concessa dalla nostra religione, dall’altra l’impatto
sull’opinione pubblica del passato di questa persona. Se il suo percorso di conversione è
autentico e non di facciata, Salvatore Riina avrebbe potuto evitare di fare il padrino,
magari considerando questo sacrificio la penitenza finale del suo percorso interiore». «Il
perdono e la possibilità di pentirsi non si possono negare a nessuno - conviene don
Marino Callegari, responsabile di Caritas Triveneto - però è opportuno che alcune
redenzioni rimangano private. Troppa visibilità rende faticoso all’opinione pubblica
comprenderle, quindi Riina doveva essere più accorto nel gestire la vicenda. Il sacerdote
padovano che lo ha cresimato non ha nessuna colpa». Ha una posizione diversa don
Albino Bizzotto, presidente dell’associazione padovana Beati i costruttori di pace: «Mi
sembra inutile alzare un polverone sul nulla. Le figure del padrino e della madrina hanno
perso totalmente la loro valenza storica, che era quella di sostituire i genitori in caso di
morte prematura. Oggi non è più così perciò, pur non entrando nel merito della vita di
una persona che non mi sento di giudicare col codice di diritto canonico o penale in
mano, invito tutti a fare i conti con la realtà». Prudente don Dino Pistolato, numero due
del Patriarcato di Venezia: «Va considerato l’elemento del perdono e della misericordia,
che fa parte della storia della Chiesa - spiega -. Però bisogna appurare che la redenzione
sia autentica e non solo di facciata, casuale o di natura opportunistica. Se Riina ha
dimostrato il suo reale cambiamento spirituale, senza sminuire la gravità dei reati che ha
commesso, nulla avrebbe potuto impedirgli di fare il padrino al battesimo della nipote.
Del resto - chiude don Dino - anche San Paolo cacciava i cristiani e poi si è convertito ed
è diventato uno degli apostoli».
LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 15 Nordest bloccato, la mobilità sociale non funziona più di Daniele Marini
Con la crisi sono aumentati l’indice di povertà l’esclusione
Il fenomeno della polarizzazione delle condizioni è uno dei lasciti della crisi finanziaria ed
economica avviata nel 2008. Quello più evidente ha investito il sistema produttivo: le
imprese si sono divise in modo sempre più netto fra chi ha ottenuto performance
positive e chi ha manifestato difficoltà sempre più marcate. Generalmente, le prime sono
quelle che hanno investito nei processi di innovazione e si sono aperte alle relazioni con i
mercati esteri. Le seconde, invece, sono quante non hanno saputo/potuto innovare e
hanno operato sul mercato domestico. Fra questi due poli, lo spazio di manovra ispirato
a un'attesa passiva in vista di un miglioramento, ha prodotto solo esiti negativi e fatto
scivolare fuori dal mercato. Ora questo processo di divaricazione si sta spostando dal
piano del sistema produttivo a quello delle famiglie e degli individui. E tutto fa pensare
che avrà una velocità relativamente elevata, di cui già oggi avvertiamo i segnali. È
sufficiente consultare gli ultimi dati per verificare l'accentuarsi di un fenomeno di
recrudescenza della povertà e di polarizzazione nelle condizioni economiche delle
famiglie. Secondo l'Istat, nel 2015 l'incidenza della povertà assoluta aumenta al Nord sia
in termini di famiglie (da 4,2 del 2014 a 5,0%) sia di persone (da 5,7 a 6,7%). Questi
dati ci collocano lontano dalla soglia individuata dalla strategia Europea 2020 che ha
indicato per l'Italia una quota poco inferiore ai 13 milioni di individui, e oggi superiamo i
17 milioni. E mentre in Europa mediamente si assiste a un calo della povertà, noi
scaliamo verso l'alto la classifica, purtroppo unico caso in cui saliamo nelle graduatorie
internazionali. E non solo aumenta l'esclusione sociale, ma anche la distanza fra ricchi e
poveri. L'Istat evidenzia come fra il 2009 e il 2014 il reddito in termini reali cali in misura
maggiore per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando così la distanza da
quelle più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte rispetto alle più povere. La
polarizzazione delle condizioni economiche, investe anche le famiglie nordestine e, come
sottolinea l'ultimo rapporto Caritas del Nordest, scardina le tradizionali categorie sociali
che - in precedenza - erano quelle più a rischio di esclusione. Il 50,3% delle persone
accolte nelle strutture residenziali delle 15 Caritas sono italiani, gli stranieri comunitari
sono il 5,6%, gli extracomunitari il 44,1%. Non è un caso che dopo il voto in Gran
Bretagna (Brexit), l'elezione di Trump e il diffondersi di movimenti populisti che
intercettano parti significative di elettorato appartenente al ceto medio, l'attenzione delle
istituzioni e della politica verso il tema della coesione sociale stia rientrando nell'agenda
politica. Come sia modificata l'appartenenza ai diversi gruppi sociali da parte della
popolazione è l'oggetto dell'ultima rilevazione di Community Media Research in
collaborazione con Intesa Sanpaolo - Cassa Risparmio del Veneto. L'esito rimarca la
polarizzazione nelle condizioni economiche percepite. Se nel 2011 poco più della metà
dei nordestini (54,3%) si ascriveva al ceto medio-alto e alto, oggi solo il 26,4% si
colloca nei medesimi ceti sociali. Viceversa, se aumenta la quota di quanti si identificano
nel ceto basso (9,0%, era il 2,7% nel 2011), accrescono quanti vanno a ingrossare le
fila del ceto medio-basso che dal 43% (2011) passano al 64,6% (2016). Dunque, è
soprattutto una parte consistente del ceto medio a subire una divaricazione nelle
condizioni economiche percepite, sospinte a una mobilità verso il basso. È un fenomeno
che investe l'intero Nordest, ma che presenta esiti diversi nelle tre regioni. I trentini e gli
alto atesini detengono il record del Pil pro capite più elevato d'Italia con 34.856 euro, in
leggero calo fra il 2008 e il 2014 (-3,5%), mentre i veneti si collocano all'8° posto (9,4%) della classifica nazionale e i friul-giuliani al 13° (-11,9%). Pur tuttavia, molto
meno degli altri ritengono di appartenere ai ceto medio-alti e alti, sia nel 2011 (29,8%),
che nel 2016 (12,0%). A segnalare come la percezione e l'immaginario si costruiscano in
modo disancorato dalla realtà oggettiva. Confrontando le auto-collocazioni nei due
periodi è possibile definire la mobilità sociale percepita dei nordestini, ovvero come e se
funziona l'ascensore sociale. L'esito ci consegna un Paese in gran parte bloccato. Per
quasi i due terzi (67,6%) l'ascensore sociale rimane sempre allo stesso piano: nel
periodo esaminato (2011-16) non hanno conosciuto scostamenti significativi, al più
hanno avuto una mobilità orizzontale. Ciò è avvenuto, in particolare, in Trentino Alto
Adige (80,8%), per i più giovani (68,2% fino a 34 anni), i laureati (69,4%), chi
appartiene ai ceti medio-alto e alto (86,6%). Invece, per un terzo (31,5%) l'ascensore
sociale è sceso verso il basso, in particolare in Friuli Venezia Giulia (39,4%). Tale discesa
coinvolge le persone al crescere dell'età (41,% oltre 65 anni), chi ha un titolo di studio
medio-basso (35,8%) ed è disoccupato (49,6%). Soprattutto, interessa chi appartiene al
ceto medio-basso (41,7%) e basso (67,4%). Sono molto pochi (0,9%) coloro che hanno
conosciuto una mobilità sociale ascendente e in modo pressoché esclusivo fra chi
apparteneva al ceto medio-alto (11,1%). Dunque, per la maggioranza dei nordestini
l'ascensore sociale è bloccato. Ma se in Trentino Alto Adige (80,8%) rimane per lo più
fermo, in Veneto (31,9%) e Friuli Venezia Giulia (39,4%) diversi sono coinvolti in una
discesa. Così, non solo siamo di fronte a una polarizzazione delle condizioni economiche,
ma è evidente come - in assenza di possibilità di mobilitazione sociale ascendente - si
palesi anche un "effetto spirale" che sospinge verso una marginalità ulteriore chi già si
trovava in difficoltà, da un lato. E, dall'altro, risucchi verso l'alto solo quanti occupavano
già posizioni elevate. Parafrasando il compianto sociologo Bauman, più che "liquido",
viviamo in un paese "vischioso", dove l'ascensore sociale funziona poco o, quando
funziona, è altamente selettivo. Ripresa economica lenta e mobilità sociale bloccata sono
due ostacoli da rimuovere velocemente per costruire il futuro del Nordest.
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Illusioni elettorali a sinistra di Paolo Mieli
Le leggi e il voto
Colpisce che entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra, ritengano sia
venuto il momento per riproporre le primarie. Quelli di destra non le hanno mai fatte e,
per loro, potrebbe essere una bella esperienza, pur se realizzata fuori tempo massimo.
Ma a sinistra sanno di cosa si tratta. Qui l’Ulivo si presentò nel 1996 come un soggetto
unitario contrapposto al Polo delle Libertà e le primarie, dieci anni dopo, servivano ad
indicare il candidato della coalizione alla guida del governo. Adesso, in assenza del
ballottaggio, è ben difficile che un qualsiasi sistema elettorale possa produrre una
maggioranza parlamentare autosufficiente. E quindi avrà un senso solo simbolico
designare in anticipo il capo del governo. Anche se tutti quelli del Pd restassero nel
partito madre e riuscissero a portare dalla loro qualche gruppo confinante, appare assai
ambizioso ritenere che quel partito o coalizione possa ambire a conquistare il 40%.
Potrebbe legittimamente provarci e forse tra due o tre tornate elettorali anche riuscirci.
Ma al momento quelli usciti dalle primarie sarebbero solo candidati di bandiera. Stesso
discorso vale per il centrodestra, per la Destra da sola e per i Cinque Stelle. Diversa,
dicevamo, sarebbe stata la situazione con una qualunque forma di ballottaggio, un
sistema che però, prima ancora che dalla Corte costituzionale, è stato abbandonato per
strada da tutti coloro che per un trentennio ne avevano fatto la loro bandiera. È stato
sufficiente che i pentastellati prevalessero nei ballottaggi alle elezioni comunali perché
schiere di politici e studiosi che fino al giorno prima unanimi ne avevano esaltato le
virtù, smettessero anche di parlarne. E non è stato, ammettiamolo, uno spettacolo
edificante. Senza ballottaggio, i sistemi elettorali più o meno si equivarranno dal
momento che, nell’Italia tripolare, finiranno per avere, più o meno tutti, effetti
proporzionali. La trattativa per produrre un sistema nuovo di zecca o per armonizzare
ciò che è passato attraverso il setaccio della Consulta rischia così di essere (o di
apparire, che in politica è la stessa cosa) un espediente volto esclusivamente a
guadagnare tempo. Ed è difficile immaginare che per dieci mesi si resti a fischiettare
discutendo di vantaggi e svantaggi di questo o quel metodo d’elezione dei parlamentari
(cosa che del resto si sta facendo da un’abbondante trentina d’anni). Perciò se si
desidera che la legislatura duri fino all’inizio del 2018, le si devono dare traguardi
realistici, credibili e ambiziosi in campi diversi da quello delle tecniche di voto. Altrimenti
la vittoria delle forze antisistema, già probabile se si votasse a giugno, potrebbe, tra un
anno, essere travolgente. Quanto alle alleanze preelettorali, ne verranno escogitate di
stravaganti per allargare ognuno il proprio bacino e trainare piccoli partiti che
rischierebbero altrimenti di infrangersi sulla soglia di sbarramento: «coalizioni» tattiche,
oltremodo friabili, destinate a dissolversi un attimo dopo l’ingresso in Parlamento come
accadde per il patto tra Veltroni e Di Pietro nel 2008 e poi nuovamente, nel 2013, per
quello tra Bersani e Vendola. Per non parlare dell’altro - altrettanto caduco, nello stesso
2013 - tra Pdl, Lega e Fratelli d’Italia. È andata così nell’ultimo decennio e adesso
probabilmente andrà peggio dal momento che le alleanze vere, quelle destinate a dar
vita al governo non verranno sottoposte agli elettori e si potranno fare solo in
Parlamento, sulla base di alchimie in partenza inimmaginabili. Per giungere infine a
qualcosa che con molta buona volontà ribattezzeremo Grande Coalizione ma che, lo si
può stabilire fin d’ora, tale non sarà. Grandi Coalizioni possono dirsi solo quelle
imperniate sui due più consistenti partiti rivali che stabiliscono tra loro una tregua in
vista di un successivo ritorno alla competizione. Non possono essere definite tali (e non
è solo questione di nomi) quelle che danno vita ad un governo che si regge su poco più
del 50% dei parlamentari e che, per giunta, potrebbe essere costretto a lasciare
all’opposizione il partito di maggioranza relativa: esperimento inedito e, si presume,
tutt’altro che stabilizzante. Oggi sembra che si sia dimenticato cosa accadeva prima
degli anni Novanta, quando non erano gli elettori a decidere chi dovesse governare. Le
maggioranze si facevano e si disfacevano in Parlamento ricorrendo a modalità che, con il
passar del tempo, produssero nell’elettorato un effetto straniante. Ma quello era ciò che
da noi era sempre capitato fin dal 1861 quando nacque lo Stato italiano. L’Italia è stato
l’ultimo Paese democratico in cui si è data l’alternanza per via elettorale, senza passaggi
parlamentari intermedi (come quello che si ebbe a metà anni Novanta con il governo
presieduto da Lamberto Dini). L’ultimo. Qui, a partire dal 1861 fu solo nel 2001 che una
maggioranza (in quel caso di centrosinistra) venuta fuori cinque anni prima dalle urne,
cedette il passo ad una (di centrodestra), in seguito al responso delle stesse urne. Poi la
cosa si ripeté nel 2006 e nel 2008 ma già nel 2013 il sistema entrò in crisi e i governi
ripresero ad esser fatti in Parlamento senza un decisivo contributo degli elettori.
Probabilmente questo accadde perché avevamo scelto di non andare al voto nel 2011
quando la legislatura era già in evidente agonia e conseguenza di questa scelta fu nel
2013 la valanga per il movimento Cinque Stelle. Adesso, indipendentemente da quando
si andrà al voto, è probabile che la prossima legislatura non sarà tra le più stabili nella
storia dell’Italia repubblicana. E non è da escludere che successivamente saremo
chiamati a tornare alle urne in tempi brevi, come è accaduto recentemente in Grecia e in
Spagna. In questa prospettiva è bizzarro che, a sinistra, sia stato resuscitato l’Ulivo.
Forse lo si è fatto perché l’immagine della creatura di Romano Prodi evoca successi e
unità. Già, l’unità. Nel Novecento i gruppi che venivano espulsi o si scindevano dal
Partito socialista presero l’abitudine di inserire nella loro denominazione il termine
«unità» ad occultare il fatto che la loro comparsa sulla scena annunciava la divisione
della sinistra in ulteriori tronconi. Per primi, nell’ottobre del ’22, si definirono Partito
socialista «unitario» i compagni di Filippo Turati e Giacomo Matteotti espulsi dal Psi nei
giorni della marcia su Roma. Nel ’48 si chiamarono «Unità socialista» le due formazioni
ex Psi - guidate da Giuseppe Saragat e da Ivan Matteo Lombardo - che avevano rifiutato
la scelta frontista alle elezioni del 18 aprile. Nel ’49, pretesero di darsi nuovamente il
nome di Partito socialista «unitario» i seguaci di Giuseppe Romita e Giuseppe Faravelli
fuorusciti dal Psi. Si autoproclamarono invece Partito socialista di «unità» proletaria
coloro che, nel ’64, con Tullio Vecchietti e Lucio Libertini, abbandonarono il Psi al
momento dell’ ingresso nel primo governo di centrosinistra organico. E per la terza volta
vollero denominarsi Partito socialista «unitario» quelli che, guidati da Mauro Ferri (ma
regista dell’operazione fu Giuseppe Saragat, all’epoca Presidente della Repubblica) nel
luglio del 1969 ruppero con il Partito socialista unificato e provocarono la caduta del
governo guidato da Mariano Rumor. Unità, unità, unità: ogni volta che lasciavano il
partito madre quei grandi della sinistra storica si definivano «unitari». Ed è un segnale
interessante che queste nuove formazioni della sinistra prendano l’abitudine di
proclamarsi «uliviste». Pur se è improbabile che, in virtù di questo cambio di
denominazione, gli scissionisti del nuovo millennio abbiano prospettive di successo
maggiori di quelli che nel secolo scorso si dicevano «unitari».
LA REPUBBLICA
Pag 1 Il rischio dell’Italia a due velocità di Massimo Giannini
Il ministro del Tesoro Padoan che a Palazzo Madama parla di Europa a un'aula
mestamente vuota, dove bivaccano annoiati tredici senatori, fotografa la miserabile
ipocrisia della politica tricolore. Sempre pronta allo strepito usa-e-getta da studio
televisivo, mai capace di elaborare un pensiero lungo in una sede istituzionale. Il futuro
dell'Ue sarà il tema dominante delle prossime campagne elettorali. In Olanda, in Francia,
in Germania e anche in Italia (che si voti a giugno o nel 2018). Dall'Europa che verrà
dipenderanno le vite di noi cittadini che la abitiamo. La crescita e il lavoro, il welfare e le
tasse. Ma nel Paese, al di là delle schermaglie tattiche e delle sparate strumentali,
manca la percezione della posta in gioco. Il Fronte Popolare anti-sistema ha un
programma drammaticamente chiaro. Truppe grilliste e destre "sovraniste" gridano sì
alle piccole patrie, no alla moneta unica. Come Grillo e Salvini, ora anche Marine Le Pen
infiamma il suo "popolo" evocando Trump, e propone una pericolosa saldatura culturale
tra la deriva nazionalista europea e la pretesa anti-globalista americana. Cosa
rispondono le forze progressiste e riformiste? Poche idee, molto confuse. Angela Merkel
ha finalmente capito che l'attendismo non è una politica. La proposta di un'Europa "a
due velocità" apre uno scenario inedito, ma tutt'altro che irrealistico. Le due velocità
esistono da sempre, nei fatti e nei numeri. Dai tempi di Maastricht (febbraio 1992)
l'Europa del Nord, trainata dalla Germania, viagga in business class, mentre l'Europa del
Sud, il famoso Club Med, viaggia low-cost. Il modello esplicitato dalla Cancelliera di ferro
rende strutturale questa differenza. L'Europa va avanti con le geometrie variabili, con chi
ci sta e soprattutto con chi ce la fa. E qui si apre la grande questione, che ci riguarda più
da vicino. L'entusiasmo con il quale il premier Gentiloni è salito sul carro della Merkel è
comprensibile. L'Italia, Paese fondatore, vuole restare nel gruppo di testa. Ma la
proposta della Cancelliera implica un cambio di passo politico, istituzionale ed
economico, che l'Italia in questo momento non sembra in grado di garantire. Veniamo
da due anni di scontro permanente con la Commissione di Bruxelles, abbiamo
beneficiato di 19 miliardi di flessibilità, abbiamo appena sforato i vincoli di deficit per 3,4
miliardi e tuttora pende su di noi il rischio di una procedura di infrazione. Abbiamo una
crescita allo 0,8% (quattro volte meno della media Ue), e un debito al 134% del Pil (due
volte il parametro dei Trattati). Abbiamo una produttività cresciuta del 4% dal 2000 ad
oggi (contro il 19,2% della Germania e il 25,2% della Francia). Nelle condizioni date,
l'Italia non sta nel blocco dei paesi che corrono, ma nel gruppone di quelli che
arrancano. A meno che non sia pronta ad assumere impegni ancora più stringenti.
Siamo pronti a farlo, o anche solo a discuterne? Grillo e Salvini, i pifferai magici che
ascoltano l'eco di Trump, sanno che musica suonare, e come farsi seguire da cittadinielettori esausti da un ventennio di sacrifici e di austerità. Sfasciamo questa Europa,
torniamo alla liretta, che metteva al riparo le famiglie a suon di aste dei Bot e le imprese
a colpi di svalutazioni competitive. I partiti "responsabili", di fronte a questa bolla
narrativa, che altro "racconto" sanno proporre? L'unione monetaria, da sola, è
pericolosamente "zoppa" (come diceva Ciampi). Il Patto di stabilità, fatto solo di vincoli
numerici, è maledettamente stupido (come diceva Prodi). Ma c'è qualcuno, a partire dal
Pd, che spiega perché l'euro va comunque difeso, visto che all'Italietta dell'inflazione e
dei tassi di interesse a due cifre è servito come il pane? C'è qualcuno che racconta come
e perché, invece di fare l'Europa a due velocità, è indispensabile riscrivere i Trattati, e
prevedere che il tetto del deficit va portato a quota zero per la parte corrente, lasciando
il 3% per finanziare la sola spesa per investimenti? Trump introduce i dazi per difendere
l'occupazione: qual è il modello europeo, a parte i mini-jobs tedeschi o i voucher italiani?
Trump smonta la riforma sanitaria di Obama: qual è il modello europeo, oltre ai tagli
lineari al Welfare? Domande senza risposta. Implicherebbero una "visione", che al
momento le classi dirigenti di questo Paese (non solo l'establishment politico, ma anche
quello imprenditoriale) non sembrano avere. Le domina la confusione e la paura. Noi e
l'Europa, noi e l'euro. Questa sarà la "faglia" che attraverserà il prossimo voto.
Bisognerà trovare risposte serie e credibili. Anche a chi, come il ministro tedesco
Schaeuble, lancia l'attacco frontale a Mario Draghi, contestando la politica monetaria
"troppo accomodante" della Bce, che non fa più l'interesse della Germania. Una linea che
stringe un Paese come il nostro in una morsa. Che succederebbe al nostro debito
pubblico, alle nostre banche e ai nostri portafogli se la Bce rialzasse i tassi di interesse, o
chiudesse anzitempo i rubinetti del "Quantitative easing"? Sarebbe un passo verso
l'abisso. Ma servirebbe qualcuno che spiegasse a Schaeuble che senza l'ombrello di
Draghi il tasso di crescita nell'eurozona tra il 2011 e il 2016 sarebbe stato inferiore del
5,6% (con un - 10,4 in Germania, - 7,4 in Italia, - 5,9 in Francia). Il totale degli occupati
sarebbe stato inferiore di 6,6 milioni di persone (mentre i disoccupati sarebbero stati 5,6
milioni in più). E il debito pubblico sarebbe stato pari a 10.572 miliardi (quasi 1.000
miliardi in più di quello attuale). Di tutto questo, nel Belpaese, non si parla. Siamo fermi
alla post-verità di Renzi e alle fake-news della Raggi. Un tempo eravamo tutti euroentusiasti. Ora siamo divisi, tra euro-combattenti in piazza ed euro-indifferenti nel
Palazzo. Chiunque vinca, sarà un disastro.
LA STAMPA
Costi e benefici del dialogo con Donald di Marta Dassù
Dopo la prima telefonata fra Donald Trump e Paolo Gentiloni sappiamo che il presidente
americano sarà a Taormina per il G7 italiano. Bene. Ma è anche bene discutere come
impostare le relazioni con un Presidente rivoluzionario. In epoca di «deal» bilaterali,
Roma non può più dare per scontato la vecchia regola aurea della propria diplomazia,
secondo cui atlantismo ed europeismo si rafforzano a vicenda. E neanche la vecchia subregola, secondo cui l’appoggio di Washington è sempre servito a rafforzare il potere
negoziale dell’Italia verso i grandi Paesi europei. Se il passato è passato, l’Italia deve
valutare in modo neutro, non ideologico, costi e benefici del rapporto con
un’amministrazione americana che appare intenzionata - per ora a parole, poi si vedrà a rilanciare il rapporto con una Gran Bretagna in uscita dall’Ue, ad appoggiare le forze
politiche sovraniste rispetto a quelle europeiste e a vedere nella Germania un problema,
piuttosto che la soluzione del problema. Guardiamo brevemente ai costi potenziali.
Primo: è particolarmente delicato, per l’Italia, il tema del «burden-sharing» nella Nato
(la divisione degli oneri della difesa). Per un Paese ad alto debito pubblico, con una
crescita anemica e già in seria difficoltà rispetto ai vincoli europei, è difficile immaginare
un rapido aumento delle spese militari verso l’obiettivo del 2% del Pil (la spesa militare
italiana è ancora di poco superiore all’1%, nonostante gli impegni che abbiamo assunto
sui tavoli Nato). Sempre nella colonna dei costi potenziali: se a Washington prevalesse
davvero un orientamento protezionista, ne soffrirebbe non solo la Germania ma anche
un Paese export-driven come l’Italia, che ha forti interessi economici sia nel mercato
interno europeo che nel mercato americano. In genere, e come ha dimostrato il
travagliato dibattito sul Ttip – l’accordo sul commercio e gli investimenti fra i due lati
dell’Atlantico, ormai gettato alle ortiche -, l’Italia ha sempre qualcosa da perdere di
fronte a una rottura aperta fra Berlino e Washington. È uno scenario che oggi non può
essere escluso. Ai costi economici si sommano, per il governo attuale, costi politici
potenziali, collegati al fatto che le forze «neo-sovraniste» italiane si ritengono rafforzate
dall’ascesa di Trump - oltre che dalla politica di Putin. A torto o a ragione, si vedrà
meglio dopo le elezioni francesi, gli anti-euro nostrani ritengono di potere contare su un
contesto molto più favorevole. Ma vediamo anche i possibili benefici. Una distensione
americana con la Russia (in vista di una collaborazione sul fronte siriano e nella lotta
all’Isis) va nella direzione a lungo auspicata dai governi italiani - in questo caso con un
sostegno bipartisan e un ovvio interesse dei gruppi industriali. Non è scontato, tuttavia,
che l’apertura di Trump a Putin funzioni davvero; l’Italia - senza immaginarsi in ruoli
eccessivi - potrebbe favorire un dialogo con la Russia che non passi completamente
sopra la testa dell’Europa. Secondo beneficio potenziale, da valutare alla prova dei fatti:
l’appoggio americano (confermato da Trump a Gentiloni) ai tentativi italiani di
stabilizzazione della Libia, incluso l’ultimo accordo fra Roma e Tripoli per arginare i flussi
migratori dal Mediterraneo. Il dossier Libia, in chiave di rapporto Italia/Stati Uniti, è in
realtà più complesso di quanto non sembri. Come noto, l’Italia sostiene il premier Fayez
al-Sarraj, al governo di Tripoli dal marzo scorso; e ha deciso, quale unico Paese
europeo, di riaprire la propria ambasciata. Ma questo avviene in un contesto di
persistente debolezza del governo Sarraj, in una Libia ancora fortemente segnata dalla
lotta interna fra fazioni e dall’ascesa in Cirenaica del generale Khalifa Haftar, appoggiato
dall’Egitto, da Mosca e meno apertamente dalla Francia. Come scriveva Maurizio Molinari
su questo giornale, gli attori esterni si trovano quindi di fronte a un bivio: o appoggiare
la spaccatura definitiva della Libia o favorire con Roma un tentativo di conciliazione fra
Tripoli e Tobruk. Le nuove scelte di Washington, dopo la sponda che John Kerry, ex
segretario di Stato, aveva offerto a Roma, saranno rilevanti: l’interesse strategico
dell’Italia è che un accordo eventuale Stati Uniti-Russia sul fronte mediterraneo non
spinga verso una spartizione di fatto della Libia ma in senso opposto. Lo richiedono sia le
nostre priorità in campo migratorio che le nostre priorità energetiche (difesa dei
terminali petroliferi in Libia e sfruttamento del giacimento di Zohr in Egitto, di cui Eni ha
venduto una quota a Rosfnet). Più problematica, per l’Italia, è la questione generale dei
rapporti con l’Islam. Un aumento dell’impegno americano in chiave anti-Isis, e un
accordo Stati Uniti-Russia nello stesso senso, rientrano nei nostri interessi di sicurezza;
ma l’Italia, con le sue basi militari e la sua sovra-esposizione geografica, dovrà
discuterne le modalità. Roma ha invece criticato, anche se in modo soft, il bando
temporaneo deciso da Trump nei confronti dei rifugiati da sette Paesi islamici, fra cui
Libia ed Iran. Sono posizioni che, al di là di qualunque considerazione di principio,
riducono la possibilità che il governo italiano ottenga ciò che persegue da anni: accordi
internazionali ed europei per la gestione dei flussi dal Mediterraneo. La rivoluzione
Trump travolge vecchi assunti su cui si è retta, dal 1945 in poi, la collocazione
internazionale dell’Italia. Al tempo stesso, costringe il nostro Paese a scuotersi dalle sue
vecchie pigrizie mentali, per ragionare - finalmente - in termini di costi e benefici. Letta
in questa prospettiva, la relazione che è appena cominciata con l’amministrazione Trump
è più ambivalente di quanto non sembri. E dovrà essere impostata con molta attenzione
da parte di un Paese come il nostro: pesante e fragile sul piano economico, instabile e
diviso su quello politico, con una posizione geopolitica cruciale sul fronte mediterraneo.
La tenuta dell’Italia sarà decisiva per il destino dell’Europa post-Brexit; e la tenuta
dell’Unione europea - con le riforme che appaiono ormai indispensabili, incluse le
differenti velocità di cui ha appena parlato Angela Merkel - sarà decisiva per l’Italia,
troppo vulnerabile per scegliere un destino solitario. Nella logica Trump del «dealmaking», Roma dovrà argomentare molto chiaramente che il beneficio della relazione
con Washington non può comportare dei costi sul lato europeo. È essenziale, per i nostri
interessi nazionali, che la nuova amministrazione americana ne tenga conto: per
pragmatismo, se non per convinzione.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Roma e G7, occasioni per una nuova Ue di Marco Gervasoni
Sono passati solo tre giorni dal vertice maltese ma da noi si è già molto discusso
dell'Europa a «diverse velocità». Un fermento assente finora negli altri paesi, almeno a
giudicare dallo spazio ristretto dedicato dai media estero alla notizia. L'attenzione
dell'Italia, e del governo, alla proposta non è casuale. Si è infatti capito che non si tratta
della vecchia idea delle «due velocità», che riguardava l'integrazione monetaria e più
generale economica. Qui siamo in uno scenario diverso. Si prevede infatti che si formino
gruppi di paesi più connessi, a seconda di diversi obiettivi, con lo scopo di rendere snelle
le procedure decisionali e di non forzare troppo i paesi recalcitranti. E' un percorso che,
se intrapreso seriamente, significherà l'abbandono delle utopie federaliste e messianiche
degli «Stati Uniti d'Europa» in nome di una realistica presa d'atto delle durezze della
storia e del riconoscimento che gli Stati nazione contano ancora, e molto. Sembra, in
ogni caso, l'ultima chance per l'Europa: l'alternativa sarebbe una disgregazione, con
perdita progressiva di pezzi, e una lenta eutanasia. Il tutto si dipanerà nei prossimi
mesi, ed è per questo che l'esecutivo e l'opinione pubblica del nostro paese sono più
attenti di altri. L'Italia ha infatti non solo la possibilità, ma il dovere di collocarsi nei
paesi di testa che decideranno le modalità di questo reset dell'Europa. E con due vertici
internazionali importanti, quello di marzo a Roma e quella del G7 a Taormina a fine
maggio l'ospite, il governo italiano, ha il diritto di stilare una sorta di ordine del giorno.
Una delle debolezze croniche dell'Europa, ben prima di Maastricht e dell'allargamento,
sta nella politica estera: tutti conoscono la famosa battuta di Kissinger «Who do I call if I
want to call Europe?», chi devo chiamare quando voglio chiamare l'Europa? E allora una
sfida importante, che investe l'Europa o almeno un gruppo di paesi interessati a
cimentarvisi, riguarda la Russia. Ieri su queste giornale Romano Prodi ha esplicitamente
invitato il governo italiano a muoversi con l'obiettivo di far rientrare Mosca nel G7,
magari cercando già di far partecipare Putin come osservatore a Taormina. Gli ostacoli,
come ammette l'ex premier, sono numerosi: ma il senso della politica non è quella di
cercare di rimuoverli? La rottura e le sanzioni, come ricorda giustamente Prodi, furono
volute soprattutto da Washington e da Londra; ma ora Trump sembra pensarla
diversamente da Obama, ed è perciò fondamentale che l'Europa giochi una sua parte,
magari un attimo primo degli Usa, per non apparire subalterna. L'Italia è sempre stata
tra i paesi più critici riguardo a questa deriva anti-russa; è venuto il momento di essere
più espliciti, e magari di sfruttare la vicinanza della socialdemocrazia tedesca a Mosca.
Secondo fronte. Non c'è politica estera senza un esercito degno del nome: la sfida di
questi mesi sta perciò nel gettare le fondamenta di un'armata europea. Come italiani ne
abbiamo in qualche sorta un diritto di primogenitura, visto che la proposta di una
Comunità europea di difesa fu lanciata per primo dal governo De Gasperi e dal ministro
degli Esteri Carlo Sforza nel 1950. Abortita allora per l'ostilità della Francia, oggi
sembrano invece essere mature le condizioni, soprattutto se a Parigi diventasse
presidente Macron. Francia, Germania, Italia e Spagna possono essere il primo nucleo di
«volenterosi», come ha proposto sempre ieri su queste colonne il Ministro della Difesa
Pinotti ma qualche giorno prima anche il presidente del Parlamento Europeo, Tajani. Il
match si giocherà nei prossimi mesi. E non possiamo fare la parte del pugile suonato.
Pag 12 L’agenda di Trump: ecco le altre mine pronte ad esplodere di Flavio
Pompetti
Donald Trump è arrivato a Washington due settimane fa con la promessa di sconvolgere
lo status quo. Bisogna dargli credito di aver centrato l'obiettivo in un tempo brevissimo:
il congresso è paralizzato dall'opposizione democratica al senato, una lunga lista di
cancellerie estere sono ancora sbalordite dagli schiaffi ricevuti, e gli aeroporti americani
sono in uno stato di caos, mentre il potere esecutivo e quello giudiziario si combattono a
colpi di sentenze e di appelli. L'iconoclastia del nuovo presidente si sta definendo come
uno stato di conflittualità permanente, nel quale Trump conquista ogni giorno l'onore
della cronaca e dei titoli di prima pagina sui giornali di tutto il mondo. Cosa ci aspetta
nel prossimo futuro? Sarà mai possibile sostenere il ritmo di queste due prime settimane
di governo? Proviamo ad analizzare punto per punto l'agenda del primo cittadino
americano, in cerca delle prossime mine in attesa di esplodere. Il bando sui visti in
primo luogo. Oltre alle implicazioni sul piano interno con la battaglia ingaggiata con le
toghe, Trump ha un problema crescente di diplomazia estera. L'Iraq ha avuto una
reazione vibrata al provvedimento che ha colpito tra gli altri molti dei suoi cittadini che
hanno collaborato con l'esercito Usa nella lotta contro l'Isis, e che ora chiedono rifugio
negli Usa. Restano le pressioni perché alla lista dei paesi banditi siano aggiunti Arabia
Saudita e Pakistan, e le difficoltà che una simile scelta comporterebbero per le alleanze
nella zona mediorientale. Flynn e lo stesso Trump hanno messo in guardia l'Iran dopo il
lancio balistico di sei giorni fa, e sanzioni sono state levate contro una lista di 13
imprenditori iraniani. La tensione sta montando dietro Rouhani che si trova ad affrontare
il voto per la rielezione di maggio, e che è quindi costretto a rispondere a muso duro alle
iniziative americane. Trump dovrà decidere se questo è il momento di precipitare la crisi
o tirare le redini in attesa di ulteriori sviluppi. Il premier israeliano arriva il 15 febbraio a
Washington a riscuotere le promesse di maggiore rispetto che Trump ha fatto alla lobby
ebraica Aipac durante la campagna presidenziale. Negli ultimi giorni però la critica
lanciata all'Onu dall'ambasciatrice statunitense, e poi un comunicato della stessa Casa
Bianca contro l'espansione degli insediamenti, hanno seminato semi di discordia. Sul
fronte interno, Trump ha annunciato che la riforma del codice fiscale è in arrivo, con la
promessa di una fascia unificata di imposizione al 15%. L'opposizione che è contraria
all'idea ha armi spuntate per combatterla. Il presidente da parte sua deve ancora dire
con quali risorse intende coprire l'enorme buco di bilancio che si verrebbe a creare con il
mancato gettito fiscale. Nell'incontro effettuato con i capi d'azienda della scorsa
settimana il presidente ha anche rivelato che presto comunicherà quali paesi saranno
colpiti da imposte di importazione negli Usa e, soprattutto, anche in quale misura. Ma il
negoziato con i due membri del Nafta, Canada e Messico, non è ancora partito, né è
stato chiarito se il provvedimento toccherà oltre ai paesi asiatici anche gli europei.
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CORRIERE DELLA SERA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Le rimozioni pericolose sull’Europa di Ferruccio de Bortoli
Maastricht 25 anni fa
Il 7 febbraio del 1992 venne firmato ufficialmente, nella cittadina olandese di Maastricht,
il trattato sui criteri economici per essere ammessi alla Comunità europea, vincolanti poi
nell’Unione monetaria. I membri erano solo 12. Tedeschi e olandesi, assai freddi sulla
prospettiva di una moneta unica, imposero l’osservanza di regole inizialmente rigide
temendo di dover condividere in futuro i debiti degli altri. Paura ancora attuale. Quegli
accordi sono stati via via modificati e integrati ma i parametri base - il 3 per cento sul
deficit e il 60 per cento sul debito - sono entrati nel lessico quotidiano come
esemplificazione numerica dei limiti europei. Espressione del rigore necessario per i
Paesi nordici, mordacchia indigeribile per quelli mediterranei. L’inflazione allora era
temuta al rialzo e così i tassi d’interesse di valute nazionali. Oggi la situazione è
semplicemente opposta. Era un altro secolo, un altro mondo e ci si interroga se
quell’impianto, certamente fragile e incoerente, sia ancora attuale. La crisi però è anche
il risultato di regole non rispettate. E di questo si parla poco. Romano Prodi, quando era
presidente della Commissione europea, in una intervista a Le Monde , definì il patto di
stabilità «stupido ma necessario» perché andava applicato con intelligenza e flessibilità e
governato da un’autorità che allora, come oggi, non c’è. Guido Carli, che al momento
della firma era ministro del Tesoro, scrisse che a Maastricht veniva tracciato un confine
tra Stato e cittadini, a favore di questi ultimi che non sarebbero stati più chiamati a
finanziare, con i loro risparmi, disavanzi di bilancio ed eccessi di spesa pubblica. Citò il
Faust di Goethe, Mefistofele che suggerisce al Principe di stampare moneta, senza
badare alla quantità. Nel più prosaico lessico dei giornalisti, che all’epoca seguivano gli
affari europei, Maastricht venne ricordata per un’intossicazione alimentare collettiva che
produsse un generale mal di pancia. I pasti erano indigeribili, il patto lo sarebbe stato
più a lungo. Nell’impianto originale di Maastricht - che superò i referendum francesi e
danesi - vi erano alcune indubbie incongruenze. L’ambiguità di chi era costretto ad
esserci pur non volendolo (la Germania). L’ambizione di chi non voleva essere escluso
sperando che un vincolo esterno avrebbe cambiato le abitudini della politica e del Paese
(l’Italia). Contraddizioni rimaste nel tempo che si ripropongono oggi sotto altra forma. È
caduta invece l’illusione che attraverso la moneta unica si possa arrivare a un’unione
politica. Un’intuizione nobile ma elitaria, peraltro sanzionata subito dagli osservatori più
critici dell’Unione monetaria. Il premio Nobel dell’Economia Milton Friedman scrisse nel
1997 che senza un vero Stato alle spalle e una sola politica fiscale, la valuta unica
avrebbe prodotto la divisione dell’Unione. Profezia che, riletta alla luce del disprezzo di
Trump per l’Europa, fa venire brividi supplementari ma dovrebbe suscitare - come ci
auguriamo - qualche salutare reazione difensiva. Nel suo anno più difficile, dopo lo choc
della Brexit, l’Unione affronta un ciclo elettorale denso di incognite. In Italia non
sappiamo quando voteremo, meglio alla scadenza naturale della legislatura e con una
legge elettorale dignitosa e non suicida, ma la campagna è già in corso. Scomposta.
L’Europa è bersaglio dei sovranisti, ma anche di esponenti della maggioranza che si
illudono di arrestare l’onda populista replicandone i toni. Forse, l’unico modo di
contrastare, sul piano delle idee concrete, questa spinta distruttiva, sta nel coraggio di
rilanciare l’iniziativa europea. Dare risposte concrete a bisogni reali. Il rapporto sulla
riforma del bilancio europeo, voluto da Commissione, Consiglio e Parlamento, scritto dal
gruppo presieduto da Mario Monti, è sul tavolo del commissario Günther Oettinger. Non
prevede nuove tasse, bensì ipotesi su come finanziare beni e progetti comuni, come la
difesa e la sicurezza, la lotta al terrorismo, la gestione dell’immigrazione. Le regole
europee sono soggette a forti critiche, a volte giustificate, e a diffuse amnesie. In Italia
ci scordiamo che al tempo di Maastricht l’impegno era quello di convergere, nella regola
del debito, verso il 60 per cento. Il governo Renzi aveva promesso di ridurre
significativamente il rapporto con il prodotto interno lordo che invece rimane al 132 per
cento. Il tema è stato colpevolmente rimosso per anni dal dibattito pubblico. Forse
perché, grazie alla politica monetaria della Bce, lo finanziamo come se fosse quello
tedesco. Il Quantitative easing (Qe) è anche un anestetico o meglio un metadone. Gli
arcigni censori di Berlino dimenticano, a loro volta, che nel 2003 la Germania e la
Francia non rispettarono la regola del deficit. L’Italia, allora presidente di turno e con
ministro dell’Economia Giulio Tremonti, decise di bloccare ogni sanzione, nonostante la
Commissione, guidata da Prodi, avesse proposto l’inizio di una procedura d’infrazione.
Tanto è vero che poi la delibera del Consiglio venne deferita alla Corte di Giustizia
europea. Berlino dette un pessimo esempio ma, in appena quattro anni, tornò al
pareggio di bilancio. Maastricht ha fatto il suo tempo? Il dibattito è aperto. Certo, dopo
la crisi del 2007 le divergenze fra le economie dell’eurozona sono cresciute.
Armonizzarle è impresa ardua. Le rigidità possono avere effetti recessivi. La domanda,
soprattutto di investimenti, è debole. Angela Merkel ripropone un’Europa a due velocità.
Le cooperazioni rafforzate vanno in questa direzione e fanno parte della storia, ormai
sessantennale, dei trattati europei. Ma proviamo ad immaginare per un attimo, come
vorrebbero i più accesi critici di Bruxelles, che le regole (in deroga alle quali abbiamo
comunque avuto 19 miliardi in due anni) spariscano di colpo. Le leve del bilancio, come
d’incanto sovranista, tornino tutte nelle nostre mani. E che cosa facciamo? Ci mettiamo
a spendere allegramente tornando a deficit del 10 per cento come nei «favolosi» anni
Ottanta nei quali abbiamo compromesso le prossime generazioni? Faremmo per il nostro
Paese quello che non accetteremmo di fare mai per le nostre famiglie? Un extra deficit
temporaneo può essere salutare se si privilegiano gli investimenti e non si ingrossa la
spesa improduttiva. Ma questa visione antipaticamente austera non sembra animare i
propositi dei fautori delle briglie sciolte. Prima di Maastricht nessuno si preoccupava
della crescita impetuosa del debito. Si emettevano Bot e via. In ogni caso, i limiti non
salterebbero del tutto. Ce li darebbe, senza flessibilità, il mercato finanziario al quale
chiediamo, solo quest’anno, circa 450 miliardi per rifinanziare il nostro debito, per circa
un terzo in mani estere. La ritrovata libertà sarebbe, dunque, un’amara delusione.
Pagata a caro prezzo. Un Paese troppo indebitato non cresce più. Come accade per le
aziende in analoghe condizioni: il rapporto di leva nel privato in Italia è doppio di quello
tedesco. Inutile girarci intorno. E nemmeno Mefistofele, con un debito fuori controllo,
può venirci in aiuto.
Pag 4 Non tutti i Trump vengono per nuocere di Paolo Valentino
E se Donald Trump fosse una benedizione urbi et orbi? Se l’insurgent, il ribelle atterrato
alla Casa Bianca, come lo descrive l’Economist, fosse un regalo inatteso per tutti, amici e
oppositori? È un paradosso naturalmente, ma se applichiamo all’ineffabile presidente
degli Stati Uniti l’antico criterio del «cui prodest», non siamo così lontani dalla verità. È
facile e ovvio dire che Trump serva ai populisti d’Europa, da Beppe Grillo a Marine Le
Pen, da Geert Wilders a Frauke Petry, scodinzolanti cagnolini che nel tycoon americano
hanno finalmente trovato l’inattesa sponda di legittimazione e sognano di imitarne le
gesta. Ed è ancora più facile notare che l’elezione di Trump serva a Vladimir Putin,
finalmente retribuito di quella uvazhenije, il rispetto, senza il quale un russo non è un
russo e si vede restituito al ruolo di protagonista in Medio Oriente e altrove. E serve,
Trump, alla Brexit e a Theresa May, che ritrova il rapporto speciale con Washington
quando tutto sembrava compromesso. Meno scontato ma inconfutabile è che Donald
Trump serva alla Ue. Per ragioni diametralmente opposte, ovviamente. Ha di sicuro
ragione Enrico Letta, che nell’intervista odierna al nostro giornale definisce Trump una
«minaccia esistenziale» per l’Europa. E non c’è dubbio che Trump sia il primo leader
americano da 60 anni che dell’Europa non sappia che farsene e che in cuor suo vorrebbe
vederla disintegrarsi. È quello che dice papale papale il suo probabile ambasciatore alla
Ue, Ted Malloch, alla cui nomina, come suggerisce Letta, faremmo bene a opporre un
netto rifiuto. Eppure, a guardar meglio, avete mai visto un’Europa più preoccupata,
reattiva, coraggiosa di quella attuale? Perfino uno normalmente tiepidino come Donald
(singolare omonimia) Tusk, il polacco che presiede il Consiglio europeo, verga parole di
fuoco contro Trump in una lettera nella quale invita i Paesi europei a un sussulto verso
una maggiore integrazione. E poi c’è Angela Merkel, improvvisamente destatasi dal suo
cauto torpore, che rilancia l’idea delle velocità diverse per l’Unione sotto attacco. Dopo
anni di discordie, rifiuti ed egoismi, anche davanti a tragedie vere, la Grecia per tutte, è
esagerato dire che il serrate le file sia tutto merito di «The Donald»? Cui prodest ancora
Trump? Serve alla Cina, regina del dumping, ma che la denuncia del Trattato Trans
Pacifico improvvisamente catapulta nel ruolo di nostra signora del commercio mondiale,
mentre il negazionismo ambientalista della nuova Amministrazione rende Pechino leader
di fatto della lotta ai cambiamenti climatici. E che poi il nostro faccia sul serio o meno,
l’importante è l’effetto di annuncio: «Trump ci spiazza: non sai mai se il suo tweet sia
uno scherzo o una nuova iniziativa politica», dice un diplomatico europeo. Nel dubbio
meglio agire. Ultimo ma non ultimo, Trump serve a noi giornalisti, cinici testimoni dei
fatti, pur maltrattati e disprezzati dalla nuova Amministrazione, che definisce le proprie
bugie «alternative facts»: saranno dei ciarlatani, ma da anni non ci veniva servita una
storia così ghiotta come quella iniziata con la discesa in campo del tycoon. Nel 1935
Sinclair Lewis, premio Nobel per la Letteratura, scrisse un libro, It can’t happen here ,
dove immaginava che un presidente americano, una volta eletto, si faceva dittatore. Non
è questo il caso. Non tutti i Trump vengono per nuocere.
LA REPUBBLICA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 L’Europa sta sotto i piedi di Angela ma nel cuore di Draghi di Eugenio
Scalfari
C'è una miriade di fatti che ingombrano gli schermi televisivi, le pagine dei giornali e
perfino i siti web. Ne volete un sommario esempio per quanto riguarda l'informazione del
nostro Paese? Raggi, sindaca di Roma di marca grillina, i sondaggi sull'andamento delle
maggiori forze politiche italiane, l'accordo fra l'Italia e il governo libico di Tripoli sul tema
degli immigrati, la probabilità che sia molto diminuita l'ipotesi di elezioni entro giugno e
che Renzi abbia in proposito cambiato idea. E poi Trump. Il nuovo presidente degli Stati
Uniti è l'uomo-chiave del momento per due ragioni: la prima è che siede sul palco più
alto dell'impero più forte del mondo; la seconda è che Trump cambia idea almeno una
volta al giorno e a volte ancor più frequentemente: su Putin, sulla Cina, sull'Europa,
sulla Corea del Nord (quella che fa esperimenti sulla bomba a idrogeno e dovrebbe
essere fermata), su Israele, sull'Australia, sulla Nato e via discorrendo. Se continua così
nessuno darà più peso alle sue decisioni e la sola cosa che continuerà a contare saranno
le chiusure di Borsa a Wall Street. Del resto anche in Inghilterra, anzi nel Regno Unito
che non è mai stato così disunito, quella che conta è la City e, per tutt'altra ragione, la
National Gallery. Della Brexit tra poco nessuno parlerà più. L'elenco, come vedete, è
piuttosto lungo e sicuramente incompleto, ma ometto volutamente i fatti veramente
importanti che riguardano l'intero mondo occidentale, Italia ovviamente compresa. Ho
scelto i fatti al plurale ma in realtà è un fatto unico, che ha due attori principali e una
folla di spettatori coinvolti da quanto vedono recitare sulla scena e che li riguarda
direttamente. Il fatto dominante è quanto è stato annunciato dalla cancelliera tedesca
Angela Merkel al vertice che si è concluso venerdì scorso a Malta: alla prossima riunione
di vertice europeo che avrà luogo a Roma nelle prossime settimane per celebrare i
Trattati che istituirono la Comunità europea del carbone e dell'acciaio e che
successivamente diventò Unione politica ed economica, Merkel proporrà un'Europa a due
velocità. La prima velocità riguarda tutti gli Stati dell'eurozona (diciannove) che sono in
grado di marciare verso un'economia dinamica, in costante aumento di produttività, di
scambi, di piena occupazione, di propensione verso un potere federale con organi politici
appropriati. Il centro di questo sistema ad alta velocità sarà ristretto; di fatto (Merkel
non l'ha detto ma è evidente nelle sue parole) avrà il suo perno nella Germania e nei
suoi più stretti alleati: l'Olanda, i Paesi del Nord Europa e - per ragioni strettamente
politiche - la Francia. Gli altri procederanno come potranno. Se si metteranno al passo
potranno sempre entrare nel club dell'alta velocità. Se in teoria al passo giusto ci si
metteranno tutti i 19 della moneta unica, sarebbe un club in grado di dar vita agli Stati
Uniti d'Europa o a qualcosa di molto simile. Altrimenti sarà un piccolo ma potente cuore
e cervello d'Europa che parla e pensa in tedesco, ma niente di più. Ma c'è un secondo
attore in questa che mi viene voglia di definire la commedia degli inganni e si chiama
Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea il cui incarico scadrà nel 2019 ed
ha dunque tutto il tempo necessario per operare, anche se sta coprendo il dissenso che
c'è sempre stato tra lui e il governatore della Bundesbank, che è la Banca centrale
tedesca e fa parte ovviamente del Consiglio della Banca centrale europea ma è
costantemente all'opposizione. Su che cosa? Sul fatto che Draghi - confortato
dall'appoggio del direttorio della Bce e dall'ampia maggioranza delle Banche centrali
nazionali che fanno parte del consiglio - dispone d'una salda maggioranza sulla sua
politica monetaria ed economica espansiva. Come si comporterà adesso Draghi di fronte
alla proposta di Merkel sulla doppia velocità? Si adeguerà? La contrasterà? Con quale
tipo di operazioni? Personalmente sono molto amico di Draghi, fin da quando era uno dei
prediletti collaboratori del più importante personaggio della politica italiana, dopo tredici
anni di governo della Banca d'Italia: Ciampi, dopo aver guidato la nostra Banca centrale
in tempi assai calamitosi, fu in qualche modo obbligato a governare il Paese,
politicamente ed economicamente, da primo ministro d'un governo provvisorio, poi da
ministro del Tesoro del governo Prodi, e infine da presidente della Repubblica. In tutti
questi ruoli, ma soprattutto nell'ultimo, dette il meglio di sé e Draghi collaborò
strettamente con lui, specie nei contatti preliminari che poi condussero il ministro del
Tesoro Ciampi a negoziare l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, sulla quale erano già
d'accordo la Germania di Khol e la Francia di Mitterrand. Da quei tempi Draghi ed io
siamo buoni amici e parliamo spesso delle sue posizioni in quanto capo della Bce ma
soltanto quando lui ne ha parlato pubblicamente. È per dire che non ho mai avuto notizie
da parte sua, che sarebbe una scorrettezza in una delle persone più attente a non
commetterne mai. Però pubblicamente si espone senza alcun timore. Dispone dello
statuto della Bce, redatto da tutti i Paesi dell'eurozona che ne sono azionisti in
proporzione alla consistenza delle proprie economie. Quello statuto e la maggioranza del
Consiglio sono gli organi che sostengono Draghi e la sua indipendenza. I suoi rapporti
con Merkel sono stati sempre buoni, se non addirittura ottimi sebbene in molte occasioni
siano stati anche contrastati dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble (un
"rigorista" per cultura propria ma anche molto legato ai circoli del capitalismo tedesco) e
dalle misure che la Cancelliera dovrebbe prendere convincendo altre Autorità europee a
farle proprie. Merkel, specie in vista delle prossime elezioni, deve usare ancora di più le
opinioni di Schäuble e finché si può deve tentare di convincere anche Draghi, ma lui si
troverà di fronte a una situazione molto difficile. Sarà un incontro-scontro avvincente ed
è già cominciato. Con due pubblici interventi di Draghi: uno rivolto alla politica
economica italiana in occasione del premio che gli è stato conferito in una celebrazione
del conte Camillo Benso di Cavour, che nel 1861 proclamò lo Stato d'Italia, reso
possibile dall'alleanza di Cavour con Napoleone III che sfociò nella guerra d'indipendenza
del 1859, vinta dai francesi e dagli italiani e nell'assegnazione della Lombardia e poi del
Veneto al regno piemontese. Dall'altra parte ci fu l'impresa di Garibaldi e dei Mille che
conquistarono il Mezzogiorno e la cui iniziativa fu nascostamente appoggiata da Cavour.
Il Regno d'Italia ebbe vita da questi due eventi e il perno che lo rese possibile fu
appunto manovrato da Cavour. Per celebrare quegli avvenimenti non ci poteva essere
scelta migliore che quella di Draghi il quale, nel corso di quella celebrazione, è stato per
la prima volta non solo in veste di capo della Bce. Ha dedicato il suo discorso
storicamente a Cavour e subito dopo alla politica economica del nostro Paese. Gli ho già
dedicato una parte del mio articolo di domenica scorsa. Draghi ha parlato della
produttività come elemento indispensabile dell'imprenditoria italiana, sia pubblica e sia
privata, e della lotta contro le diseguaglianze sociali ed economiche che debbono essere
fortemente diminuite con una politica fiscale adeguata che comprenda anche la battaglia
contro l'evasione fiscale e il lavoro nero su cui contano le lobby clientelari e perfino
mafiose. Pochi giorni dopo - e siamo al presente - Draghi ha dedicato un suo intervento
a tutti i Paesi dell'eurozona. Praticamente è stata una risposta preventiva alla politica
della doppia velocità che Merkel ha preannunciato a Malta e che avverrà tra poco a
Roma. Che cosa ha detto Draghi? Poche cose, ma fondamentali. Ha detto che la
Germania non è lontana dall'aver raggiunto il tasso del 2 per cento d'inflazione che è
quello base previsto dallo statuto della Bce. Il raggiungimento di quel tasso è la positiva
conseguenza della politica economica del governo tedesco ed anche della politica di
"quantitative easing" della Banca centrale, praticata verso tutti i Paesi dell'eurozona,
Germania naturalmente compresa. Nel secondo intervento di pochissimi giorni fa Draghi
si è rivolto a tutti i Paesi dell'eurozona. Ha spiegato con piena soddisfazione i risultati
raggiunti dalla Germania e invece ancora lontani per gran parte dei Paesi dell'eurozona,
soprattutto quelli meridionali come la Grecia, l'Italia, la Spagna, la Francia, il Portogallo.
Cioè la costiera mediterranea che, oltretutto, è al centro delle migrazioni sia dai Balcani
sia dal Nord Africa. Ai Paesi dell'eurozona che si trovano davanti al fenomeno delle
migrazioni di massa e a devastanti fenomeni naturali (i terremoti in Italia) e sono di
fronte a politiche economiche insufficienti, Draghi ha raccomandato di rilanciare quelle
politiche ed ha anche assicurato che il "quantitative easing" della Bce continuerà verso
ciascuno dei Paesi suddetti in ragione di quanto sta facendo. La politica di Draghi non ha
nulla a che fare con quella di Schäuble e di Merkel che si identifica con il suo ministro
delle Finanze. Draghi si incontrerà alla fine di febbraio a Berlino con Merkel e lì ci sarà il
bilancio. Immagino i fiori e le rose profumate di quell'incontro sotto le quali la gentilezza
cederà di fronte alla roccia con la quale Draghi espone le sue idee, i suoi impegni e i suoi
doveri. Dovrei ora parlare dei risultati statistici rilevati nei giorni scorsi dal nostro Ilvo
Diamanti. Ne risulta una notevole confusione in tutti i partiti, a cominciare dai grillini, ma
anche nel Pd. Il raffreddamento di Renzi verso le elezioni subito, i buoni risultati del
governo Gentiloni. Mi sembrano dati positivi che possono essere ulteriormente
accresciuti. Mi auguro tuttavia che Renzi condurrà nel suo partito una riforma efficace,
soprattutto nei confronti dell'opposizione interna nella sua parte più saggia che secondo
me è quella interpretata da Cuperlo ed anche, in modi diversi, da Bersani. Renzi però
farebbe un errore a concentrare il suo interesse soltanto su una riforma peraltro
necessaria dei rapporti interni al suo partito. Questo lavoro deve essere, a mio avviso, la
premessa necessaria per presentarsi lui dopo che la legislatura sarà terminata. Renzi ha
carisma come pochi altri oggi; quel carisma però necessita della collaborazione più
ampia nel partito per poter tornare al governo nel 2018 ed è sufficiente un solo punto di
riforma della legge elettorale: affiancare alle eventuali liste uniche anche liste di
coalizione. È con questa possibilità che si accoppiano democrazia, rappresentanza
parlamentare, governabilità. Intanto formuliamo tutti, a cominciare come spero da
Renzi, un ringraziamento al lavoro di Mattarella e di Gentiloni che stanno facendo il
possibile per terminare un ciclo nel 2018 e riaprirne un altro ancor più efficace.
AVVENIRE di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Perché no alla tortura di Francesco D’Agostino
La risposta cristiana al male
Dobbiamo essere onesti con noi stessi: il nostro no alla tortura, anche quando è fermo e
assoluto, appare spesso stanco, ripetitivo, male e pigramente argomentato, in una
parola sola 'moralistico'. La posta in gioco è troppo alta per permetterci tutto questo, per
continuare a sfruttare le argomentazioni che il fondatore del diritto penale moderno,
Cesare Beccaria, affidò a quell’esemplare, piccolo libro che è 'Dei delitti e delle pene', in
cui la critica alla tortura appare nitida e razionalmente fondata. Il fatto è che Beccaria
scriveva in un secolo che non è il nostro e usava argomenti che non possono più essere i
nostri. Insomma, se il presidente Trump si dichiara, per ora solo personalmente,
favorevole alla tortura, ribadendo di essere convinto che essa «funzioni», non possiamo
cavarcela dandogli torto rievocando Beccaria e usando i suoi toni illuministicamente
sdegnati. La tortura, ahimè, funziona davvero: non è detto che funzioni sempre, ma
funziona molto spesso. È per questo motivo che tutte le critiche funzionali alla tortura
(come quelle che stanno dilagando in rete) appaiono mosse da ottime intenzioni, ma
lasciano il tempo che trovano, o addirittura suscitano l’irrisione che chi pretende di
essere un «realista» (come appunto Trump) riserva costantemente all’ingenuità delle
«anime belle». Andiamo al cuore del problema ed escludiamo dal nostro discorso le
tante, possibili forme di pratiche, soprattutto giudiziarie, che storicamente sono
correttamente considerate 'tortura', ma che con la tortura, con la quale oggi siamo
chiamati a misurarci, hanno ben poco a che fare. Cercare di ottenere la piena
confessione dell’imputato torturandolo, per consentire in tal modo al giudice di emanare
una sentenza giusta, scevra da qualsiasi rischio di errore giudiziario, è sembrato in
passato più che giustificabile, ma le argomentazioni di Beccaria hanno da tempo, e
definitivamente, rimosso simili contorsionismi dialettici. Quando oggi parliamo di tortura,
facciamo invece riferimento (come appunto fa Trump) a pratiche che si inscrivono nella
logica del contenimento o addirittura della definitiva sconfitta del terrorismo
internazionale. E poiché la violenza del terrorismo è cieca, quantitativamente priva di
limiti, crudele oltre ogni misura, ecco che una tortura che «funzioni» acquista
nell’opinione di molti una sua legittimità. L’osceno modo di dire italiano 'a brigante,
brigante e mezzo', che sempre più spesso sentiamo ripetere con approvazione, ahimè
anche a livello istituzionale, ne è un esempio lampante. Esiste un argomento razionale
(non banale, non pigro, non emotivo) per dire di no alla tortura nell’epoca del terrorismo
internazionale? Se per 'razionale' intendiamo 'funzionale', no. Non riusciremo mai a
dimostrare che la tortura «non funziona »; potremo, tutt’al più, dimostrare che in un
singolo caso essa può non aver funzionato, ma questo è un argomento retrospettivo,
che non convalida alcuna prassi rivolta al presente o al futuro. La verità è che il no alla
tortura non può essere 'razionale', come pensavano gli illuministi alla Beccaria, ma deve
essere 'cristiano'. Dobbiamo dire di no alla tortura non perché essa vada contro il buon
uso della nostra ragione, ma perché altera l’immagine di umanità che con sforzi
straordinari l’Occidente cristiano ha cercato di costruire nei secoli, quell’immagine
secondo la quale il male va vinto non con il male, ma con il bene. Un’affermazione,
questa, che può essere avvalorata solo proponendo alla ragione funzionale di inchinarsi
davanti a un’altra dimensione della ragione, quella che è simboleggiata dalla croce e che
gli illuministi (o almeno molti tra essi) hanno cercato e continuano a cercare di
rimuovere. Il discorso si chiude qui. Naturalmente possiamo anche innestare
sensatamente il discorso cristiano in sofisticate e suggestive prospettive antropologiche,
che ci consentirebbero di mettere tra parentesi il riferimento alla croce. Non è difficile ad
esempio rilevare come la tortura possa sì dare risposta alle esigenze funzionali di cui
abbiamo parlato, ma solo al carissimo prezzo di lasciare ampio spazio alle pulsioni
sadiche dei torturatori (diretti o indiretti). E possiamo anche aggiungere che un prezzo
così esorbitante può destrutturare l’ordine sociale, tanto quanto le aggressioni
terroristiche che si cerca giustamente di combattere. Resta però ferma l’astrattezza di
simili valutazioni, che si muovono su di un piano intellettualistico, a fronte della
concretezza della provocazione cristiana, che si muove invece sul piano dell’esperienza
vissuta, quando esorta la vittima ad amare il proprio nemico e a perdonarlo, fino a
settante volte sette. È una provocazione, quella introdotta nella storia da Cristo, che
infine volte gli uomini hanno rifiutato di accogliere, ma che noi tutti abbiamo il dovere di
reiterare costantemente, non per rendere ossequio allo spirito del diritto penale
moderno, ma per ribadire la nostra fedeltà allo spirito sul quale - ne siano o no
consapevoli gli ingenui fautori del marchese Beccaria - il diritto penale moderno e il suo
no alla tortura di fondano.
Pag 2 Donare senza scandalo di Massimo Calvi
Solidarietà, quando la fiducia è tradita
Fare beneficienza non è mai una cosa semplice. A chi vanno veramente i miei soldi?
Come verranno impiegati? L’organizzazione che ho scelto è efficiente oppure gran parte
delle risorse che gestisce viene sprecata o serve a finanziare la struttura? Queste
domande sono legittime e sorgono spontanee ogni volta che ci apprestiamo a fare una
donazione. Troppe volte ci siamo trovati a leggere e ragionare di fondi mal gestiti,
sottratti, o mai arrivati a destinazione. E ciclicamente vengono condotte (anche su
queste pagine, come i lettori sanno bene) inchieste giornalistiche che sollevano il
coperchio su inefficienze, per non dire di peggio, collegate al grande e bellissimo mondo
della solidarietà. È bene che vi siano controlli e denunce, e che i casi negativi siano
portati alla luce. Purtroppo le azioni di denuncia, per quanto necessarie, rischiano
sempre di sortire un effetto indesiderato: indurre le persone a fare di tutta l’erba un
fascio. Pensare cioè che i pochi casi negativi siano rappresentativi di mille esperienze
positive. Non è così, come dimostra l’impegno di centinaia di organizzazioni serie e
affidabili, e l’esperienza di cooperazione internazionale che raccontiamo oggi a pagina 8
ne è un esempio. Come fare allora ad orientarsi bene? A separare il grano dal loglio? A
scegliere? La solidarietà, la beneficienza, la filantropia, si orientano su stili di gestione
degli aiuti anche molto diversi tra loro, ed è difficile definire un modello migliore di un
altro. Ci sono interventi che richiedono di pagare di più il personale, altri che ricorrono al
volontariato, altri che si fondano sulla sobrietà, altri ancora che hanno bisogno di
maggiori investimenti in comunicazione. Esistono anche diversi strumenti per testare
l’efficienza dell’organizzazione: bilanci trasparenti, valutazioni d’impatto, codici etici,
controlli interni, certificazioni… Tutto serve, ma come l’esperienza insegna, tutto può
anche essere contraffatto. La differenza, se siamo alla ricerca di un metodo di verifica
efficace, la può fare anche il donatore. L’offerta presuppone sempre un atto di fiducia,
una delega forte verso chi abbiamo scelto, che non vuol dire cessione di responsabilità,
anzi. Donare è anche un’opportunità per conoscere meglio la realtà che stiamo
sostenendo, per 'condividere' il senso della sua missione, avvicinarci il più possibile alla
ragione del nostro impegno e di quello di chi è sul campo. Questa relazione e questa
'vicinanza' sono fondamentali perché la solidarietà possa dare buon frutto. Si può donare
con un clic, un sms, o compilare un bollettino e voltarsi dall’altra parte, ma sapendo che
nel tradimento di un’attesa la responsabilità non è a senso unico. Donare è fidarci di chi
restituisce fiducia. E la costruisce.
Pag 3 Perché l’aborto non è un “diritto” di Pier Giorgio Lignani
Una tesi giuridicamente sbagliata
«Abortire è un diritto della donna», lo scrittore Roberto Saviano lo afferma con decisione
in un articolo di pochi giorni fa. A quanto pare, secondo lui, abortire sarebbe uno di quei
diritti universali e fondamentali della persona che – stando alle dottrine affermatesi nel
secolo XX e culminate nelle apposite dichiarazioni sovranazionali – un legislatore
nazionale, per quanto sovrano, non può sopprimere, ma anzi deve riconoscere e
garantire. Parlando di «diritto della donna» Saviano intende dire che si tratta di un
diritto pieno e incondizionato: la donna decide da sola e nessuno può interferire. Cito
Saviano perché è un autore di successo, ma queste idee sono piuttosto diffuse. Vale
dunque la pena di discuterle, e lo faccio ora dal punto di vista non della morale cattolica
ma della scienza giuridica laica. Infatti ogni ragionamento caratterizzato in senso
religioso è, per un verso, scontato per chi condivide le sue premesse, e per un altro
respinto a priori da chi non le condivide, in base alla formula 'questo vale per te se ci
credi, io non ci credo e per me non vale'. Dunque, vediamo la questione del diritto di
abortire dal punto di vista della razionalità laica. Bisogna partire dalla definizione di
quell’entità che è l’essere concepito ma non ancora nato. È un’idea astratta, una cosa,
una persona? Alcuni sostengono che debba essere considerato una persona nel pieno
senso della parola; ma almeno per ora è una posizione minoritaria, mentre la tradizione
giuridica millenaria è in senso contrario. Lasciamo aperta la discussione su questo punto
(anche perché il concetto filosofico e giuridico di persona può ricevere definizioni
differenziate), e diciamo invece che quanto meno è un essere vivente, dotato di una sua
piena individualità biologica e genetica e in qualche misura anche psicologica, e
appartiene alla specie umana – anche se si trova transitoriamente in una situazione
particolarissima, in quanto tutto ciò che gli occorre per vivere lo riceve dal corpo della
madre in cui sta racchiuso. Insomma: forse possiamo non chiamarlo giuridicamente
'persona' ma non possiamo negargli, quanto meno, la qualità di 'essere umano'. Non a
caso, da quando la scienza consente di conoscerne già il sesso è abitudine dei genitori
dargli subito il suo nome e con quel nome parlarne. Non può dunque essere considerato
alla pari di un dente che si toglie e si butta via. Tanto è vero che in qualunque
legislazione del mondo chi provoca (anche involontariamente) un aborto senza il
consenso della gestante è punito non solo per il danno che ha fatto alla madre ma
proprio perché ha violato l’attesa di vita e di futuro che c’era in quell’essere. Il nascituro
è protetto dall’ordinamento giuridico (cioè dallo Stato) come un valore in sé, non come
una proprietà della madre. È per questo che non si può riconoscere alla donna il
«diritto» incondizionato a liberarsene. È anche vero, però, che fra il nascituro e la
gestante vi è una relazione particolarissima, non paragonabile ad alcun’altra, che incide
in modo profondo sull’essere stesso della madre (non solo sul suo corpo, pure se gli
effetti sul corpo sono i più visibili). Quindi neppure i diritti e i doveri della gestante verso
il nascituro possono essere misurati con lo stesso metro con cui misuriamo quelli di
chiunque altro. Per questa ragione la nostra Corte Costituzionale nel 1975 (sentenza
n.27) ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge che allora puniva come reato
l’aborto chiesto o accettato dalla donna, e lo ha reso non punibile se praticato per
salvarla da un pericolo di vita o anche da un pericolo non mortale ma tuttavia «grave,
medicalmente accertato e non altrimenti evitabile». All’epoca questa decisione suscitò
proteste anche nel mondo cattolico, ma comunque la si voglia giudicare rappresentava
lo sforzo di trovare una soluzione senza affermare che la scelta di abortire è un diritto
incondizionato della donna. A tutt’oggi sul piano del diritto costituzionale la regola è
rimasta quella. Ma la legge del 1978 va molto più in là, perché pur fingendo di mettere
limiti e condizioni in realtà non prevede alcuna forma di controllo o di verifica sulla
serietà dei motivi che portano alla scelta di abortire. Non prevede neppure che le
istituzioni – pur senza avere il potere di opporsi a quella scelta – abbiano il compito di
proporre alla donna soluzioni alternative. Per questi aspetti la legge del 1978 può essere
giudicata incostituzionale. Ma neppure essa configura la scelta della donna come un
«diritto» pieno e incondizionato perché quanto meno afferma che l’aborto non può
essere usato come mezzo di limitazione delle nascite. L’equazione aborto-diritto non è
sostenibile.
Pag 7 “Stavo già per essere abortito… Invece sono qui grazie a un film” di Lucia
Bellaspiga
L’incredibile storia di un ragazzo “nato per il rotto della cuffia”
Se sua madre quella sera non fosse andata al cinema, o se in cartellone ci fosse stato un
qualsiasi altro film, Luca Mattei oggi non sarebbe vivo. E nessuno (eccetto forse lei) lo
piangerebbe morto: non sarebbe neanche nato. Venuto al mondo per il rotto della cuffia,
Luca era già pronto in rampa di lancio per essere abortito, uno dei 100mila
desaparecidos che ogni anno in Italia spariscono in silenzio. La storia è sempre quella:
un uomo che volta le spalle, una donna sola, la maternità vista come un peso
impossibile, l’illegalità di chi per legge (la 194) dovrebbe garantirle ogni supporto e
invece emette un frettoloso certificato di morte. «Mio padre se ne andò di casa appena
seppe che mia madre mi aspettava – racconta Luca, nato in Piemonte 35 anni fa –, così
io crebbi senza di lui e a 7/8 anni cominciai a sentirne forte la mancanza. Notavo che
con mia sorella maggiore, che lo aveva avuto in casa fino a 5 anni, per lo meno aveva
un rapporto, con me nulla, il che mi rendeva un bambino molto triste, anche se mia
madre invece mi ricolmava di attenzioni. Con l’adolescenza la mancanza del padre fece
crescere in me una rabbia ingestibile, che scaricavo contro l’innocente mia madre, non le
parlavo, ero aggressivo. Il motivo era che non sapevo più chi fossi io, senza quel punto
di riferimento...». A preservarlo da droga e alcol sono stati lo sport e il desiderio di non
veder piangere sua madre: «Giocavo a calcio e questo mi ha salvato, sfogavo tutto lì, e
poi vedevo l’estrema sofferenza con cui mia mamma discuteva con mia sorella quando
lei difendeva in lacrime quel padre che tanto le mancava, e io non volevo aggiungere
strazio a strazio». Finché un giorno di 20 anni fa lei non seppe più trattenere quella
verità covata a lungo: «Fosse stato per tuo padre tu oggi non saresti qui!», gli sbatté in
faccia in un momento di disperazione. Parole capaci di mordere il cuore. Che Luca ormai
perdona ma che allora rischiarono di ucciderlo. «Sbagliò, non puoi scaricare su un
ragazzino un rancore trattenuto per anni, ma oggi che vivo accanto ai bisognosi ho
imparato a guardare tutto con gli occhi della misericordia e la comprendo. Certo fu
atroce...». Quel giorno Luca apprese tutto d’un fiato che «nemmeno per un secondo ero
stato desiderato», di tutto era frutto fuorché dell’amore: nato da un rapporto
occasionale e distratto, quando i genitori si stavano già lasciando, era pure figlio di un
errore, «il preservativo si è rotto, così sei nato», gli disse la madre. Poi il rifiuto del
padre, «abortiscilo, cara mia, tanto io me ne vado». Per paradosso azzerare quel
bambino per cancellare ogni traccia di un amore mutato in odio diventava l’unico punto
di accordo tra i due. Se non che la sera prima di abortire (è il 1980) Anna entra in un
cinema. «Adoro questa cosa», si illumina il giovane a questo punto del racconto.
Proiettavano un film che in Italia s’intitolava Luca bambino mio e nell’originale spagnolo
Il Cristo nell’oceano, la storia di un bimbo che perde entrambi i genitori e vive con uno
zio alcolista. «Un giorno nel mare trova un crocifisso portato dalle onde e lo nasconde in
cantina – riassume Luca – e questo Cristo gli parla di amore, gli fa scoprire che la vita è
bella. È lì che mia madre ha avuto l’intuizione: se un bambino può essere felice senza
genitori, io che almeno una mamma l’avrei avuta perché non potevo nascere? È uscita
da quel cinema determinata a salvarmi e a chiamarmi come lui». Luca è nato la
Domenica delle Palme ed è stato la resurrezione di Anna. Dieci anni fa ha cercato quel
film e se lo è divorato scena per scena, ma da solo, «mi vergognavo di vederlo con lei e
mostrarle i miei sentimenti...». A dissipare pian piano quella rabbia che dentro lo
divorava sono stato i suoi amici, i disabili, quelli con cui oggi vive in una struttura in cui
accoglie settanta persone: «Grazie a mia madre, che pure agnostica aveva uno spiccato
senso del sociale, ho iniziato a frequentarli a 16 anni e sono cresciuto alla loro scuola,
non mi stancherò mai di dirlo – spiega –. Mi direte: cos’hai da imparare da un disabile?
Sei tu che lo lavi, che lo vesti... Mi hanno insegnato uno sguardo di stupore sulla vita. Io
a 16 anni già non mi meravigliavo più di niente, invece li osservavo e loro erano felici
con poco. Quanto erano fortunati!». Se fino a quel momento la consapevolezza di essere
un aborto sopravvissuto gli scorreva sottopelle, adesso tutto cambiava: «Finché ero
centrato su me stesso la mia vita non mi piaceva e che io fossi nato oppure no mi
pareva ininfluente, ma con gli amici ho trovato il sale nella mia vita e ho capito che
esserci, al mondo, o non esserci non sarebbe stata la stessa cosa. Ho un debito con loro,
mi hanno donato lo stupore senza bisogno di stupefacenti ». In dieci anni nella sua
struttura sono passate anche 32 donne incinte, soprattutto ex schiave prostitute,
convinte di dover abortire. Invece sono nati 32 bambini.
Pag 11 I doveri di un sindaco, la giustizia dei cittadini di Eugenio Fatigante
C’è solo una cosa da sperare ormai, in questa che assomiglia alla giunta 'più pazza del
mondo' o a una sorta di 'cronache marziane'. E non è nemmeno originale: si spera che si
plachino polemiche e indiscrezioni, congetture e veleni (e un po’ anche lo zelo della
Procura, certamente sempre lodevole ma anche degno, forse, di cause e reati più gravi)
in modo che, diminuendo le 'distrazioni', ci si applichi al bene comune di questa
martoriata città. «Abbiamo un grande progetto per Roma», ha ricordato l’altroieri Raggi
in tv. Tutti i romani (e non solo), al di là delle distinzioni politiche, confidano che ci sia
davvero. Perché è proprio quello che manca alla capitale il cui ruolo internazionale va
scemando, al di là delle bellezze storiche. Il sindaco ha ricordato anche che a Roma si è
approvato il bilancio 2017 «in tempi record, prima delle grandi città, ma nessuno ne
parla», e ha ragione (Milano ancora non l’ha fatto). Ma è anche ora di vedere come il
ceto dirigente pentastellato, poi, questi fondi conta di impiegarli sul campo, attraverso
quali scelte, con quale visione. Finora, invece, questa giunta ci ha costretto a diventare
esperti di grovigli burocratici. Sappiamo quasi tutto della segreteria e delle chat del
sindaco, poco o nulla dei suoi piani strategici. Scegliere due stretti collaboratori
'sbagliati' non è certo un bel biglietto da visita, e ancor meno lo è stata l’idea di
promuovere il fratello di Marra, pur facendo la tara all’inesperienza di un 'sindacoportavoce'. Così come un Movimento balzato in fretta sul podio della politica facendo le
pulci agli altri partiti, deve mettere in conto di subire lo stesso trattamento. A discolpa,
tuttavia, va detta anche un’altra cosa: alle tante indagini su Raggi (nemmeno fosse una
criminale) è stato dato un peso abnorme, quasi fossero centrali per le sorti non solo
della città, ma dell’intera nazione. E, soprattutto, non si tiene conto di un dato
fondamentale: la volontà degli elettori. Raggi è stata scelta per governare, oltre che per
mandarla dai pm. Tocca agli elettori, semmai, riservarle - a tempo debito - la 'condanna'
più severa. E se ci rincuora che il sindaco faccia sapere, spesso e volentieri, di aver
«sentito Grillo», ora si ricordi di sentire pure i cittadini.
IL GAZZETTINO di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 L’occasione di riportare la Russia nel G8 di Romano Prodi
Il G8 è il vertice annuale tra i massimi leader dei grandi paesi industrializzati. Iniziato
nel 1975, dopo le trasformazioni del sistema monetario e la grande crisi energetica, tale
vertice si è all'inizio concentrato sulle grandi decisioni di carattere economico. Nelle fasi
successive ha allargato l'agenda a tutti i temi della politica mondiale, dal terrorismo alla
sicurezza, dalla politica ambientale all'aiuto al terzo mondo. Tale summit è stato poi
affiancato dal G20, riunione alla quale partecipano anche i protagonisti della nuova
globalizzazione, a partire dall'India e dalla Cina. Come conseguenza di quest'evoluzione
il G8 ha certo perso mordente riguardo alle decisioni concrete e immediate, ma è
rimasto uno strumento non solo prezioso ma insostituibile per approfondire in un clima
ristretto e confidenziale i grandi problemi del nostro futuro. Come Primo Ministro italiano
e come Presidente della Commissione Europea ho partecipato a ben dieci di questi
vertici: raramente ne sono nate decisioni immediatamente operative ma i due giorni di
discussione libera, ininterrotta e riservata, mi sono sempre apparsi un utilissimo
strumento per alleviare le tensioni e ipotizzare le possibili soluzioni dei problemi più acuti
dell'agenda politica mondiale. Ciò non significa che questi incontri siano sempre pacifici e
idilliaci. Ho ben vivo nella memoria gli scontri fra Blair e Putin sulla guerra in Iraq al
vertice di Sea Island nel 2004 e mi risuona ancora l'eco di tantissime altre discussioni
con un altissimo livello di tensione. Ricordo tuttavia che questi franchi e diretti scambi di
opinione sono sempre stati indispensabili per affrontare con maggiore consapevolezza i
grandi problemi del pianeta. Per il buon successo di questo summit, così rilevante ma
anche così informale, il ruolo della Presidenza risulta di primaria importanza,
indipendentemente dalla forza muscolare del paese chiamato a reggerla. Nel prossimo
maggio quest'esercizio di diplomazia e saggezza tocca all'Italia, che ospiterà i grandi del
mondo nella splendida cornice di Taormina. Ancora prima di quest'incontro, anzi già da
adesso, la Presidenza Italiana si trova tuttavia di fronte ad un problema non semplice: a
partire dal vertice del 2014 i paesi partecipanti non sono più otto ma sette, dato che la
Russia ne è stata esclusa, soprattutto per iniziativa americana e britannica, in
conseguenza delle drammatiche tensioni riguardanti l'Ucraina e la Crimea. Credo
tuttavia che il contesto in cui operiamo oggi sia diverso e che sia compito della
Presidenza Italiana fare il possibile per il progressivo ritorno della Russia nell'ambito del
G8. La prima ragione nasce ovviamente dalla semplice considerazione di quanto poco
l'emarginazione della Russia, comprese le sanzioni, abbia giovato ad una soluzione del
conflitto ucraino e come sia invece divenuto sempre più importante il contributo russo al
raggiungimento della sicurezza e della lotta contro il terrorismo in Europa e in Medio
Oriente. Si può a questo punto obiettare che le stesse ragioni erano valide anche nello
scorso anno ma salta agli occhi di tutti come l'invito alla Russia divenga concretamente
attuabile solo dopo le inattese e quasi incredibili aperture di Trump nei confronti di Putin.
Per essere più semplici sono convinto che una fondamentale ragione per la progressiva
apertura nei confronti della Russia derivi dalla convenienza di prendere posizione prima
che lo faccia il Presidente Americano. Non mi nascondo certo la difficoltà di procedere in
questa direzione. In primo luogo, infatti, occorre vedere se lo stesso Putin potrà
accettare l'invito senza un impegno a cancellare le sanzioni contro la Russia, che
scadranno nel prossimo luglio. Se non vi sarà una diversa decisione, la loro eventuale
abolizione verrà messa all'ordine del giorno solo in occasione del vertice europeo di
giugno, cioè dopo lo svolgimento del G8. Vi è inoltre da riflettere se Francia e Germania
possano mettere in atto questo cambiamento di politica in un clima pre-elettorale che,
per paura della crescita dei partiti antisistema, sembra essere caratterizzato da
comportamenti di eccessiva prudenza, anche se sarebbe più conveniente il contrario.
Un'iniziativa politica europea mi sembra invece non solo doverosa ma anche opportuna.
Si deve inoltre aggiungere che, per gli imprevedibili casi della storia, l'Italia si trova a
presiedere il G8 mentre la Germania ha la presidenza del G20 e, per un caso ancora più
imprevedibile, il Presidente degli Stati Uniti si sta esercitando quotidianamente in una
politica violentemente anti-europea e soprattutto anti-germanica. Ancora più perché
costretta da queste imprevedibili evoluzioni, mi sembra quindi giunta l'ora che l'Unione
Europea elabori una propria autonoma strategia, coerente con i propri obiettivi di
sicurezza politica ed economica. Credo anche che l'Italia, pur tenendo saggiamente
conto delle difficoltà e dei rischi di questa strategia più assertiva, abbia l'interesse e il
dovere di proporla fin da ora. Comprendo le difficoltà e i rischi di questo cammino. Sono
tuttavia convinto che sia un cammino giusto e conveniente e che, anche se dovesse
andare in porto per tappe successive, i primi passi debbono essere cominciati oggi.
LA NUOVA di domenica 5 febbraio 2016
Pag 1 Delegittimati dal ritorno al passato di Fabio Bordignon
Nel caos post-referendario, sono molti i segnali di un ritorno al passato. Il primo e il più
evidente: la riaffermazione di una meccanica politico-elettorale di impronta
marcatamente proporzionale. L’intervento della Corte costituzionale, con l’amputazione
della seconda gamba della Riforma renziana, sembra avere definitivamente invertito il
percorso maggioritario degli ultimi vent’anni. Certo, rimane il premio assegnato
dall’Italicum, ma vincolato alla soglia del 40%, ad oggi difficilmente raggiungibile. E,
comunque, previsto per la sola Camera dei deputati. Mentre al Senato vige il sistema,
puramente proporzionale, ritagliato da un precedente pronunciamento della Consulta:
quello che sentenziò il Porcellum. Insomma, avanti verso la “Prima Repubblica”? Anche
l’attuale governo e l’attuale premier sembrerebbero sottolineare il cambio di stagione.
Basta con la personalizzazione estrema, l’iper-attivismo mediatico, il politico-celebrità.
Sembra quasi un presidente del Consiglio democristiano, Gentiloni: misurato, quasi
invisibile. Al servizio del proprio partito. Ma tutelato da un presidente della Repubblica
rigoroso custode dell’impianto parlamentare della nostra democrazia: lui sì, peraltro,
cresciuto alla scuola della Dc. Anche per queste caratteristiche, l’attuale governo non
dispiace agli italiani. Quantomeno, viene visto come un interludio salutare: un fattore di
stabilizzazione, rispetto alle turbolenze dei mercati, e di pacificazione, dopo la battaglia
referendaria. Eppure, tutto questo, più che la prima stagione della storia repubblicana,
sembra evocare i primi mesi del governo Monti. Anche allora si parlò di un cambio di
paradigma. Anche allora, l’austerità e il basso profilo mediatico del Professore e dei suoi
tecnici rimarcavano la discontinuità rispetto ai fuochi d’artificio del berlusconismo. Si
pensò che quel modello potesse durare, addirittura che da quella esperienza potesse
nascere una nuova balena bianca. La successiva campagna elettorale, verso il voto
2013, mostrò come tali letture fossero fuorvianti. Perché le dinamiche del consenso sono
ormai strettamente intrecciate alle logiche mediatiche. Che a loro volta mettono in scena
la corsa tra i leader: una horse race nella quale il giaguaro di Bersani finì subito fuori
competizione. Gli stessi elettori hanno interiorizzato queste regole non scritte. Così come
si sono abituati all’idea di eleggere il proprio governo e il proprio premier. Lo dimostrano
le polemiche di queste settimane sul “quarto governo consecutivo non eletto”. O il
dibattito sulla necessità - a destra, a sinistra, o nel M5s - di primarie per individuare il
candidato premier. Ma (anche) il prossimo premier non sarà eletto dagli elettori. Magari
- e non è affatto scontato - a conquistare Palazzo Chigi sarà il leader del partito che ha
“vinto” le elezioni. Ma solo dopo essersi costruito una maggioranza: in parlamento e nei
tavoli di trattativa tra partiti. Stringendo alleanze non dichiarate prima delle elezioni,
probabilmente indigeste agli stessi elettori che gli hanno affidato il proprio voto.
Insomma, uno scenario da “Prima Repubblica”, privo però del grado di legittimazione del
quale, per una lunga fase, quel modello ha goduto. Del resto, non ci sono più i partiti di
allora. La statura della classe politica appare lontana. Soprattutto, alle spalle dei partiti e
dei leader, non c’è più la società novecentesca, con le sue coordinate e i suoi riferimenti
valoriali. Quello che potremmo trovarci di fronte è, invece, una sorta di democrazia a
due tempi: un tempo per la campagna elettorale, con finti candidati premier che
fingeranno di poter vincere, rincorrendo il 40%; un tempo per la fase post-voto, nella
quale uno dei tanti sconfitti (o qualche mezzo vincitore) dovrà trovare un accordo con
altri sconfitti. Si tratterebbe di una alternanza, schizofrenica, tra le logiche della Prima e
della Seconda Repubblica. Con il probabile effetto di alimentare la delegittimazione del
sistema.
Pag 1 America, lo spauracchio della “tigre di carta” di Giancesare Flesca
Le ultime notizie in arrivo dal pianeta Trump dovrebbero indurre a riflettere tutti i
protagonisti della scena internazionale, in special modo - vedremo dopo il perché - i
leader dell’Unione Europea. Al momento gli Stati Uniti sembrano la prolunga di una
pretura italiana, dove si decide tutto e il contrario di tutto in base a cavilli che fanno la
gioia (e la fortuna) dei legulei. Cronaca giudiziaria e cronaca politica si intrecciano. Il
giudice James Robart di Seattle ha disposto venerdì la non applicabilità del bando Trump
che vieta l’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini provenienti da sette paesi. Quando l’ha
saputo, il miliardario ha commentato ricorrendo come sempre al tweet: «Ridicolo». Non
ha cambiato idea quando gli hanno spiegato che Robart è un giudice nominato da
George W. Bush e sostenuto nel corso degli anni dal partito repubblicano. E che la sua
ordinanza non mette la parola fine alla campagna per il bando degli islamici, poiché ci
saranno sospensive, contro-deduzioni, appelli e così via. Di ridicolo è rimasto solo un
fatto. La prima persona entrata negli Usa dopo la sentenza è una cittadina iraniana, e
l’Iran, come sappiamo, è il Paese che più sta sulle scatole a Donald Trump da sempre, e
in special modo da quando è arrivato alla Casa Bianca. Lo detesta tanto che si è spinto
fino a minacciare guerra a Teheran. Così facendo ha capovolto la politica di Obama: e
questo, più che la minaccia agli ayatollah, è quel che davvero gli interessa. I suoi
proclami contro l’Obamacare, contro i trattati commerciali internazionali e contro
l’Europa non hanno avuto finora riscontri concreti nella realtà. Ciò nonostante la metà
dei cittadini appoggia ancora Trump, perché crede fideisticamente che egli stia davvero
rispettando le promesse fatte in campagna elettorale. E con questa realtà bisogna
misurarsi senza sopravvalutare i molti bacini di resistenza che il trumpismo sta
incontrando ovunque nel Paese, dove continuano marce, cortei, proteste contro di lui,
sponsorizzati - dice la propaganda di regime - dal finanziere George Soros. L’episodio più
significativo è la decisione di tagliare i fondi federali all’Università di Berkeley, quella di
Marcuse e di Angela Davis, per rappresaglia verso un burrascoso sit-in contro di lui. E il
peggio è ancora da venire. L’arrivo del razzista dichiarato Steve Bannon alla Casa Bianca
in posizione di responsabilità potrebbe riservare tremende sorprese. Ma potrebbe anche
provocare una reazione, stavolta sì di massa, da parte dei cittadini americani. John
Dean, ex consigliere di Nixon, scrive su the Nation che la presidenza Trump «finirà con
una calamità». E dunque prima che il presidente americano consolidi il proprio potere
con le buone o con le cattive, è decisivo che l’Europa ne raccolga la sfida e passi al
contrattacco. Una buona notizia è il “no” all’ambasciatore che Trump aveva mandato a
Bruxelles, Ted Mulloch, che si era presentato con queste parole: «Nella mia carriera ho
aiutato ad abbattere l’Unione Sovietica, adesso mi pare che ci sia un’altra Unione da
scuotere». Trump ha risposto rincarando la dose contro la Ue ma in particolare contro
Angela Merkel, da lui accusata di aver anteposto gli interessi della Germania a quelli
dell’Unione. Un giudizio che sa di miele per la canea populista europea. Ma anche
l’establishment continentale sembra pronto a indossare i guantoni, senza più nascondere
che gli Stati Uniti sono un rivale non un amico dell’Unione. Il campo di battaglia è quello
di opporre i propri valori a quelli di un’America tornata ad una sorta di maccartismo. Fra
i valori c’è quello dell’eguaglianza, per cui c’è da sperare che al prossimo Consiglio
Angela Merkel spieghi meglio il concetto di un’Unione “a due velocità”. A chi minaccia di
mandare l’esercito contro i peones messicani bisogna contrapporre un’Europa
dell’accoglienza e dell’integrazione, approfondendo i concetti espressi a Malta in
embrione. E se accadesse che trattando Trump come una “tigre di carta” e rifuggendo
dalla paura il Vecchio continente ritrovi finalmente se stesso?
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CORRIERE DELLA SERA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 L’equivoco della classe dirigente di Sergio Rizzo
Le ultime rivelazioni su Virginia Raggi, dalla polizza vita stipulata «a sua insaputa»
dall’ex segretario particolare Salvatore Romeo al dossier costruito dagli amici della
sindaca per screditare un potenziale concorrente alla poltrona da lei occupata, rendono
ancor più macroscopico il vero punto debole del Movimento 5 stelle. Così debole da
pregiudicare, come stanno penosamente dimostrando le peripezie nella Capitale, la
stessa capacità di governo: il che, per una forza politica che si propone per guidare un
Paese del G7, non è un dettaglio trascurabile. Parliamo della qualità di una classe
dirigente selezionata con metodi che fanno acqua da tutte le parti. Si dirà che questo
non è soltanto un problema del Movimento di cui Beppe Grillo è garante. La prova è
riscontrabile nella situazione stessa di un Paese bloccato, conseguenza anche di un
progressivo degrado delle classi dirigenti di ogni ordine e grado: dalla politica alla
burocrazia pubblica, alle professioni, alla finanza... Ma proprio per tale ragione un
Movimento con la fondata aspirazione di cambiare l’Italia non dovrebbe commettere un
errore così marchiano come quello di affidare (di fatto) al caso le scelte decisive. Quelle,
cioè, che riguardano le persone alle quali affidare ruoli tali da presupporre competenze,
esperienza, cultura e attitudini. I risultati delle selezioni online sono purtroppo sotto gli
occhi di tutti. La questione era apparsa già evidente con le elezioni dei rappresentanti
del Movimento alle elezioni politiche del 2013. Ma in Parlamento i grillini sono
all’opposizione e tale condizione di solito fa passare in secondo piano certi deficit
qualitativi del personale politico. Ben diversa è la musica nei Comuni, dove amministrare
è in qualche caso ancora più complicato che ai livelli istituzionali superiori. Come
dimostra appunto, al di là delle implicazioni di carattere penale, il caso di Roma. Qui
l’inefficienza del metodo di selezione ha toccato la sua punta massima, se è vero che la
capitale d’Italia era finita nelle mani di «quattro amici al bar», a quanto pare concentrati
più su piccole beghe di potere (anche personale) che sull’aggressione ai guai della città.
Il fatto è che un ceto politico dirigente impreparato, frutto di scelte approssimative e non
meritocratiche, eletto unicamente sulla base dell’adesione a determinati principi, se
chiamato a governare deve necessariamente attingere a esperienze estranee. Con tutti i
rischi del caso, incluso quello di trovarsi a dover riciclare figure compromesse proprio
con il sistema che si vuole sradicare, com’è accaduto con Raffaele Marra. Anche se qui
non è stato soltanto il caso a determinare un sodalizio tanto stretto fra la sindaca di
Roma e l’ex dirigente del patrimonio capitolino dell’epoca di Gianni Alemanno. Per non
parlare poi dell’ex assessore all’Ambiente Paola Muraro, per 12 anni consulente dell’Ama
e indagata per reati ambientali: la sua nomina è stato il primo grave errore di Virginia
Raggi. La storia che si snoda all’ombra del Campidoglio in salsa grillina testimonia
quanto siano pericolosi gli effetti di un meccanismo selettivo modellato sui social media,
che spinge a creare gruppi chiusi di amici e affini. Il sistema incentiva la diffidenza verso
tutto ciò che non appartiene a quel mondo, con il risultato di favorire anche il tanto
deprecato familismo: la forma di selezione in assoluto meno efficiente che si conosca.
Tutto questo, combinato con l’applicazione di regole etiche dettate dall’alto (ma
interpretabili secondo le convenienze) rappresenta uno strumento formidabile di
coesione. Ma anche una comoda arma per evitare le contaminazioni ed emarginare,
quando necessario per i rapporti di potere, i presunti eretici: sacrificando pure, se del
caso, i pezzi migliori. Ne sa qualcosa il bravo sindaco di Parma Federico Pizzarotti. La
morale? L’onestà tanto sbandierata è una condizione certo necessaria, ma purtroppo non
sufficiente. Per cambiare un Paese, e Dio solo sa se l’Italia ne avrebbe bisogno, serve
una classe dirigente onesta e capace. Scelta per i suoi meriti, oltre che per la fedeltà a
determinati ideali. Questi mesi al governo della Capitale hanno messo a nudo il
fallimento assoluto e senza appello di quel metodo di selezione. Urge prenderne atto al
più presto, se non si vogliono dissipare le speranze di milioni di italiani che hanno
puntato sulle 5 stelle.
Pag 1 Berlusconi e i due ministri di Francesco Verderami
Berlusconi è uomo di folgorazioni e delusioni. E se su Renzi ormai è calato il velo, su
Calenda e Franceschini è scattato l’entusiasmo dell’infatuazione. Il Cavaliere ci mette
poco per farsi prendere dal trasporto (politico), e con i due ministri del governo Gentiloni
è stata una fiammata. Del titolare per lo Sviluppo Economico, l’altro ieri diceva: «Com’è
bravo, lo potremmo candidare a premier». Del titolare per la Cultura, ieri ha detto:
«Com’è bravo, potrebbe essere il presidente del Consiglio ideale per un governo di
larghe intese». Ovviamente il fondatore del centrodestra non direbbe simili cose se si
potesse candidare. Ma siccome (per ora) non può, è sempre a caccia di qualcuno per
passare il tempo. Pare si sia intrigato persino del sindaco di Milano, se è vero che l’ha
messo sotto osservazione e ha commissionato su di lui una pila di sondaggi. D’altronde
Sala era «la mia prima scelta», così almeno si fece sfuggire all’indomani del ballottaggio
per Palazzo Marino: «Gli avevo parlato per candidarlo con noi, mi rispose - questa la
versione di Berlusconi - che non poteva perché temeva di finire sulla graticola dei
magistrati». Vista la prospettiva di grandi coalizioni, le strade potrebbero incrociarsi.
Nell’attesa, Calenda e Franceschini hanno un po’ colorato le sue giornate, ingrigite dai
rigurgiti giudiziari: il primo ha aperto il vaso di Pandora in casa Renzi, dicendo che
«sarebbe un rischio per il Paese andare alle urne in giugno»; il secondo ha aperto alla
trattiva con Forza Italia sulla legge elettorale, dicendo che bisognerebbe assegnare il
premio di maggioranza alla coalizione non più alla lista. Progetto a cui mira anche
Alfano. Berlusconi è pronto ad accettare, per evitare la convivenza con Salvini, che a sua
volta - non volendosi «mischiare» con Berlusconi - non ha bocciato la proposta, avendo
l’ambizione di riscoprirsi davanti al Cavaliere all’apertura delle urne. Ma, per dirla con
Verdini, «sulla legge elettorale siamo ancora alle schermaglie»: bisognerà attendere le
motivazioni della Consulta alla sentenza sull’Italicum - secondo il capo di Ala - per
sapere «le reali intenzioni di Renzi», per capire cioè quando e come si andrà a votare.
Tutti gli uomini di Berlusconi vorrebbero capirlo prima, e si interrogano se sia opportuno
alzare il telefono per far parlare il Cavaliere con il leader del Pd, o se invece sia
preferibile attendere lo squillo. Ogni opzione comporta dei rischi: nel primo caso il timore
è che Renzi non risponda, nel secondo che il telefono resti muto. E allora tocca a Letta
tenere un piede nel campo di Agramante, in modo da sapere cosa accade nel Pd. Così al
Cavaliere viene riferito che il Guardasigilli Orlando è favorevole al premio di coalizione,
«anche se ancora da noi è tutto confuso». La confusione è tale - secondo quanto saputo
da Berlusconi - che Delrio sarebbe rimasto sorpreso dall’intervista di Renzi al Tg1:
«Doveva aprire al premio di coalizione e non l’ha fatto». Ogni informazione che riceve,
rafforza nel capo degli azzurri il convincimento che il leader dem non abbia ancora
smaltito la botta referendaria: non tanto perché non ha detto ciò che avrebbe voluto
dire, ma perché ha detto ciò che non avrebbe voluto dire. Per esempio la battuta sul
«vitalizio dei parlamentari», di cui si sarebbe pentito. Ma se al Nazareno piangono, ad
Arcore non ridono. Per esorcizzare la paura dei Cinquestelle, circola la battuta che - se
Grillo vincesse - staccherebbe anche l’antenna della tv a casa del «dottore». La speranza
di ottenere il premio di maggioranza alla coalizione, porta Berlusconi a essere prudente e
a far rilasciare poche dichiarazioni di plauso per la proposta di Franceschini, onde evitare
che finisca schiacciata da un sua pubblica approvazione. Intanto si prodiga nel vecchio
ruolo del federatore. «Più si può allargare l’alleanza, meglio è», ha detto ai suoi sherpa:
«Parlate con tutti». E anche lui ha ripreso a parlare con tutti, riesumando persino la
geniale idea del ’94 che lo portò a Palazzo Chigi: il Polo della Libertà e il Polo del
Buongoverno. Da allora però è cambiato il mondo.
Pag 6 La “cosa” di D’Alema può superare l’8%. Ma la sfida al leader è in salita
dentro il Pd di Nando Pagnoncelli
L’ex premier eroderebbe il 3% dei voti ai dem
Il panorama politico si fa sempre più complesso. In particolare nel momento in cui si
affaccia la concreta possibilità che alle prossime elezioni (sulla cui data il dibattito è
acceso) si vada con una legge sostanzialmente proporzionale, le divisioni nel Pd si
accentuano. La sconfitta referendaria e le dimissioni del premier hanno provocato una
ridislocazione di parte delle sensibilità e delle correnti presenti nel partito, con un
crescere delle critiche al segretario e una presa di distanza dall’ipotesi di votare il prima
possibile. Ancora in discussione il percorso congressuale, naturalmente vincolato alla
data del voto. Sembra prendere quota l’ipotesi delle primarie, anche se non è ben chiaro
quale possa esserne la valenza con una competizione di carattere proporzionale.
Abbiamo quindi testato, come la settimana scorsa per il centrodestra, le primarie Pd,
l’interesse e le intenzioni di voto. L’attenzione coinvolge complessivamente oltre il 20%
degli italiani. Per le primarie di centrodestra la quota era simile, il 17% dei nostri
connazionali. Si tratta di competizioni gradite perché i cittadini si sentono chiamati a
scegliere direttamente il proprio rappresentante, superando i «rituali» della politica .
La partecipazione - L’interesse però non significa partecipazione effettiva: sappiamo che
le ultime consultazioni primarie, quelle tenute nel 2013 dal Pd e vinte da Renzi, hanno
coinvolto poco meno del 6% del totale elettori. Questa attenzione si massimizza
naturalmente nell’elettorato di riferimento: poco meno della metà degli elettori Pd si
dichiara interessato alla consultazione (con il 17% molto interessato), mentre a sinistra
l’interesse si attesta intorno al 20%, con una quota di fortemente interessati analoga a
quella del Pd (16%). Sembra profilarsi una competizione a sinistra, pur se naturalmente
molto sbilanciata, visto il maggior peso dell’elettorato del Partito democratico. La
leadership di Renzi non è messa in discussione. Sul totale degli interessati infatti
raggiunge il 59% dei voti, contro il 10% di Emiliano, l’8% di Rossi, il 5% di Speranza.
Mentre a sinistra trionfa Speranza, con il 60% dei voti, seguito da Emiliano e Rossi
(rispettivamente al 20% e al 15%) e Renzi scompare (solo il 2% degli elettori di
quest’area si esprime per l’attuale segretario), la situazione si ribalta nel Pd, dove l’ex
premier arriva al 67%, con Emiliano al 10%, Rossi all’8% e Speranza solo al 2%. Sono
le misure raggiunte nel 2013, quando l’attuale segretario ottenne circa il 68% dei voti
contro due competitor collocati anch’essi a sinistra (Cuperlo e Civati).
Le scelte - Ai blocchi di partenza, non sembra esserci possibilità concreta di scalzare
Renzi: anche se gli incerti si ricollocassero tutti sugli altri candidati, si assicurerebbe
comunque la maggioranza. Ma è indubbio che nel Pd sia indispensabile un processo di
ricomposizione, di definizione degli obiettivi comuni, di ricostituzione del gruppo
dirigente. Le primarie possono assolvere un ruolo importante in questo senso. Ma, lo
ribadiamo, un leader consacrato dalle urne ha comunque un peso ridotto quando la
competizione è proporzionale. Le insidie per il Pd non finiscono con le primarie. È di
questi giorni l’ipotesi della costituzione di una lista di sinistra collegata a D’Alema, che
potrebbe raccogliere i dissidenti di sinistra. Le stime, come si sa, sono complesse. Si
tratta di una forza non ancora nata, di cui semplicemente si ipotizza la presenza.
Indubbiamente essa ha una buona attrattività anche se, secondo i nostri dati, non nella
misura che qualcuno ha indicato. Infatti la stima di voto evidenzia come ci sia un bacino
già acquisito che si aggira intorno a poco meno del 4% del totale degli elettori, grosso
modo una cifra vicina al 6% sui voti validi. A questo bacino acquisito, ovvero elettori che
sono convinti di votare per questa nuova formazione, va aggiunto un altro gruppo di
elettori potenziali, ovvero molto vicini alla lista, ma ancora indecisi. Un gruppo che vale
poco meno di due punti sul totale degli elettori, circa tre sui voti validi.
Complessivamente quindi si tratta di una lista che potrebbe arrivare, allo stato attuale,
tra l’8 e il 9% dei voti validi.
I voti tolti ai dem - I bacini da cui la nuova formazione potrebbe pescare sono diversi.
Innanzitutto l’elettorato Pd: circa il 40% dei voti proverrebbero da elettori di questo
partito. Ciò significa che il Pd potrebbe perdere circa 3 punti del proprio consenso (oggi
stimato intorno al 30% dei voti validi) a favore della formazione dalemiana. È
interessante il fatto che essa recupererebbe anche nell’area grigia del non voto o degli
incerti. Da qui verrebbe poco meno del 30% dei suoi consensi. Ancora, i consensi
potenziali potrebbero venire da elettori che attualmente si orientano sulle forze di
sinistra: poco meno del 20% dei consensi, pari a circa 1 punto e mezzo sui voti validi.
Dato che nel loro complesso le forze di sinistra sono stimate oggi intorno a poco più del
4%, sembrano esserci degli spazi di ulteriore conquista, anche se in questo caso si
tratterebbe di valutare l’appeal in quest’area del progetto Pisapia. Infine è interessante il
flusso di voti che potrebbe arrivare dal Movimento 5 Stelle, intorno al 15%. Il panorama
è complesso, come detto, e tutto è in movimento, non solo nell’ambito del
centrosinistra. Ma l’ipotesi di strappare a Renzi, per quanto indebolito, la leadership,
sembra per ora una strada davvero difficile.
Pag 7 Salvini in Vaticano dal cardinale filo-Trump di Gian Guido Vecchi
L’incontro di un’ora e mezza con l’ultratradizionalista Burke
Città del Vaticano. A prima vista non potrebbero essere più diversi, il cardinale
americano che ama celebrare in «cappa magna» - un principesco strascico purpureo di
parecchi metri - e il politico padano in felpa e jeans. Ma il cardinale ultratradizionalista
Raymond Burke e Matteo Salvini condividono un’ammirazione per Donald Trump unita a
una certa avversione, diciamo così, per la linea di papa Francesco sui migranti. La
notizia del cardinale che giovedì pomeriggio ha ricevuto il leader leghista nel suo
appartamento, per un’ora e mezza, è rimbalzata ieri dall’agenzia Agi alla Rete senza che
arrivassero conferme né smentite. Ma il «no comment» della Lega è eloquente, finché la
sera Matteo Salvini sorride, «diciamo che sono stato a un incontro riservato in
Vaticano», e spiega al Corriere : «Posso dire solo che è sempre un’emozione discutere di
certi temi a certi livelli, e ne siamo usciti con tanta forza in più...». Un’iniziativa curiosa,
specie per il cardinale, considerato che i rapporti «diplomatici» sono in genere una
prerogativa della Segreteria di Stato e ai piani alti del Vaticano nessuno sapeva. Si è
parlato anche di questioni italiane. Non che il cardinale Burke si faccia problemi. Capofila
dell’opposizione più esplicita a Francesco, nel 2014 è stato spostato da prefetto del
Supremo Tribunale della Segnatura apostolica all’incarico meno prestigioso di «patrono»
dell’Ordine di Malta. Pochi mesi fa, inorridito dalle aperture sui divorziati e risposati
nell’esortazione Amoris Laetitia, dopo il Sinodo sulla famiglia, è arrivato a rendere
pubblica una lettera inviata a Francesco perché i «dubbi» espressi non avevano ricevuto
risposta, e annunciato un «atto formale» per «correggere il Papa», richiamandosi alla
«Tradizione» e a «Giovanni XXII» che «fu corretto» nel Trecento. Del resto c’era lo
stesso cardinale dietro lo scontro interno all’Ordine di Malta, con il Gran Maestro vicino a
Burke che ha opposto la «sovranità» dell’Ordine rispetto al Papa e infine è stato
costretto a dimettersi. Dopo l’elezione di Trump, Burke considerava: «Mi pare che il
nuovo presidente capisca bene quali sono i beni fondamentali per noi importanti».
Salvini, cui già era capitato di rilanciare sui social le uscite del cardinale («L’Islam è una
minaccia, loro scopo è prendere Roma»), ieri scriveva: «Il “Metodo Trump” dovrebbe
essere attuato anche in Italia».
Pag 10 La locomotiva tedesca ha il motore arrugginito (e Schultz è in rimonta)
di Federico Fubini
A prima vista non sarebbe logico che la Germania torni politicamente contendibile ora.
Mentre si avvicina alla fine il terzo mandato di Angela Merkel nella cancelleria, la
Repubblica federale non era mai stata così in pace con se stessa, così prospera e vicina
alla piena occupazione, così competitiva e, in apparenza, finanziariamente solida. Mai
prima nella storia era stata riconosciuta da tutti gli europei come il solo vero Paese
leader anche quando - come ieri - ripropone un sistema «a due velocità».
Il sorpasso nei sondaggi - Eppure i tedeschi non sembrano convinti. L’ultimo sondaggio
mostra che, in un’elezione diretta, il candidato socialdemocratico Martin Schulz
arriverebbe al 50%. La cancelliera sarebbe inchiodata al 34%: per la prima volta da 10
anni, non è il politico più popolare. Naturalmente in Germania si eleggono i partiti, non i
candidati, e l’Unione cristiano-democratica e sociale di Merkel nei sondaggi viaggia
sempre davanti ai socialdemocratici. Eppure anche lì il vantaggio è sceso rapidamente
da 16 a soli 6 punti (34% contro 28%). Né è possibile liquidare i dubbi sulla cancelliera
semplicemente come una reazione contro l’accoglienza dei rifugiati, perché in questo
Schulz è anche più determinato di lei. In parte conta senz’altro la personalità dello
sfidante: da decenni al Parlamento europeo, in Germania Schulz è un uomo nuovo,
duttile e scaltro, capace di costruire una narrazione attorno alla sua figura di ex giovane
promessa del calcio che si rifugia nell’alcol quando un infortunio gli stronca la carriera.
Quindi il riscatto e l’ascesa, da libraio di provincia a presidente dell’Europarlamento a
Bruxelles.
Il malumore tedesco - Ma anche le storie più seducenti non gonfiano le vele di un
candidato, se nel Paese manca un vento di malumore. E in Germania non manca. Perché
se c’è qualcosa che sorprende nella più vasta ed efficiente economia d’Europa non sono i
tassi di crescita attuali (1,9% nel 2019), ma il fatto che non siano più alti. I dati dicono
che nel motore della locomotiva d’Europa qualcosa non va come potrebbe, nelle
condizioni apparentemente perfette di oggi. Il Paese vanta il tasso di partecipazione al
lavoro più alto della sua storia; fra il 2011 e il 2015 ha ricevuto un flusso netto di 400
mila lavoratori giovani e istruiti dall’Europa del Sud e un altro milione dall’Europa centro
(secondo l’agenzia statistica tedesca); gode di tassi sotto zero sul debito, nessun deficit
e 300 miliardi di avanzo sull’estero ogni anno. Eppure, per certi aspetti, la Germania è
fra le economie meno dinamiche: terzultima nell’area euro dopo Grecia e Italia per il
tasso medio di crescita per abitante (0,51%) nei tre anni dal 2014, secondo i dati
dell’Fmi. Austria, Belgio, Finlandia, Olanda e persino la Francia fanno meglio. In parte,
una frenata è solo naturale. Dopo anni di forte ripresa la Germania è più vicina al suo
potenziale dell’Italia o della Francia, dunque ha meno spazio per accelerare. Per di più
negli ultimi 18 mesi ha accolto oltre un milione di rifugiati e questi ultimi non
aggiungono potenziale, ma riducono la crescita per abitante. Anche così, però, non tutto
torna, e non solo perché in passato altri forti flussi di rifugiati non avevano prodotto
simili frenate. Altri indizi segnalano malessere. Dal punto più drammatico della crisi
dell’euro nel 2012, ad esempio, le banche tedesche hanno messo in atto una silenziosa
ritirata dall’Europa. In questo si sono comportate in modo diverso da quelle di qualunque
altro Paese: hanno ridotto la loro esposizione su Italia, Francia, Spagna, Olanda,
Portogallo, Irlanda e Austria per circa 200 miliardi di euro, secondo la Banca dei
regolamenti internazionali. L’esposizione sull’Italia è scesa sotto i minimi di prima
dell’avvio dell’euro, quella sulla Spagna quasi. Il sistema finanziario tedesco sta
disinvestendo dall’Europa, mentre quelli di Francia, Spagna, Italia o Olanda muovono in
direzione opposta.
Gli investimenti in calo - Può darsi che i regolatori in Germania stiano istruendo le
banche a ridurre i rischi nel resto dell’area euro, perché non credono nel futuro della
moneta. Può darsi anche che gli istituti tedeschi siano impediti da una redditività fra le
più basse d’Europa (anche qui, con Italia e Grecia). In ogni caso la grande ritirata
finanziaria tedesca dal resto d’Europa non lascia intravedere niente di buono per la
fiducia e gli investimenti anche nel Paese. Questi ultimi sono scesi di oltre 120 miliardi di
euro l’anno in termini reali dai livelli di avvio dell’euro, secondo l’Fmi. Al netto della
svalutazione degli impianti già costruiti, gli investimenti oggi sono in caduta. Non può
dunque essere un caso se la striscia degli ultimi 4 anni in Germania segna la più debole
dinamica della produttività registrata da decenni, secondo l’Ocse. Tutto questo ricorda
che proprio il governo tedesco - con quello francese - è quello che ha affrontato meno
riforme in Europa negli ultimi dieci anni. Se l’è potuto permettere, per un po’. Ma ora
questo torpore strisciante inizia a diventare percepibile, se non altro, nei sondaggi che
non premiano più Angela Merkel.
LA REPUBBLICA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Il post-renzismo al tempo di Renzi di Ilvo Diamanti
Il sondaggio di Demos per l'Atlante Politico si è chiuso giovedì, in tarda serata. Quando
le polemiche intorno a Virginia Raggi, per la polizza donata "a sua insaputa" e le nomine
di collaboratori discussi (come il fratello di Raffaele Marra) erano già esplose. Ma non
con il clamore che stanno assumendo ora. D'altronde, questa è una fase di instabilità e
di tensioni politiche accese. Che investono non solo il M5S romano. Ma anche il Pd, nel
quale leader storici della sinistra interna hanno minacciato una scissione. In generale,
tutte le forze politiche sono entrate in fibrillazione, dopo la decisione della Corte
Costituzionale, che ha emendato l'Italicum. Dichiarando inammissibile il ballottaggio. E
dopo la bocciatura della riforma costituzionale, al referendum dello scorso 4 dicembre,
che ha determinato le dimissioni del(l'ex) premier Matteo Renzi. Così, siamo entrati in
una fase politica fluida. Nella quale il dibattito si è spostato sulla prospettiva e sulla data
delle prossime elezioni. Il sondaggio riflette questo clima incerto. Anzi (Bauman mi
perdonerà), "liquido". Anche se le intenzioni di voto non appaiono in grande movimento.
Mostrano, tuttavia, alcuni segnali di mutamento. Significativi. Anzitutto, l'indebolirsi,
parallelo, dei due partiti che dominano la scena, ormai da anni. Il Pd, perde poco. Mezzo
punto appena. Ma scivola sotto il 30%. E tocca il livello più basso degli ultimi due anni,
nelle nostre rilevazioni. Il M5s, a sua volta, perde consensi. Quasi due punti, anche se,
nel corso del sondaggio, il "caso Raggi" era appena emerso. Tuttavia, anche il M5s
scivola sui valori più bassi, (stimati) dalla primavera del 2016. Parallelamente, risalgono
i soggetti politici della Destra e del Centro-Destra. Forza Italia, la Lega e, ancor più, i
Fratelli d'Italia guidati da Giorgia Meloni. Come se, come in altri Paesi, fosse in atto un
processo di radicalizzazione. Anche i soggetti a sinistra del Pd, d'altronde, risalgono.
Seppure in misura limitata. In attesa che l'ipotesi di "scissione", avanzata, fra gli altri,
da Massimo D'Alema, divenga maggiormente concreta. Quasi 6 elettori su 10, peraltro,
pensano che il Pd finirà per dividersi. Si tratta di un'opinione cresciuta sensibilmente,
negli ultimi mesi: 10 punti in più rispetto allo scorso ottobre. Ma, soprattutto, questa
idea risulta condivisa, in misura pressoché identica (57%), dagli stessi elettori del Pd.
Tuttavia, Massimo D'Alema, autorevole sostenitore del rischio "secessionista" nel Pd, non
pare aver tratto beneficio sul piano del consenso, da questa posizione. E resta in coda
alla graduatoria dei leader, in base al grado di popolarità (20% di fiducia). In effetti,
siamo in una fase politica strana. La definirei "post-renziana", se Matteo Renzi non fosse
ancora in pista. Nonostante le dimissioni. Perché è evidente che non ha alcuna
intenzione di ritirarsi. Eppure qualcosa è sicuramente cambiato, dopo le sue dimissioni
da premier. E dopo la bocciatura del referendum. Il primo, evidente, segno di
cambiamento nel clima d'opinione è fornito dal grado di fiducia personale espresso dagli
elettori. Nell'ultimo mese, infatti, Renzi è sceso di 8 punti. È il leader che ha subito il
calo più sensibile. Insieme a Salvini e Grillo, che, tuttavia, hanno perduto minore credito
(4-5 punti in meno). D'altronde, il ritiro - temporaneo di un leader si riflette anche sui
principali "antagonisti". Ripeto, si tratta di un momento politico singolare. Il postrenzismo al tempo di Renzi. Nel quale agisce un premier sicuramente vicino a Renzi.
Sicuramente diverso da Renzi. Paolo Gentiloni. "Personifica" un governo "impersonale".
Perché l'attuale premier non ha lo stile di azione e di comunicazione di Renzi. Né di
Berlusconi. È post-renziano e post-berlusconiano. Anche se ha una lunga storia politica
personale. Questo stile "impersonale", in tempo di partiti e di leader "personali", però,
non sembra nuocergli. Almeno fin qui. Anche se la maggioranza degli elettori, il 53%,
ritiene che il suo governo sia destinato a concludersi prima della scadenza naturale del
2018. Tuttavia, un mese fa la quota degli scettici, al proposito, era più elevata di 10
punti percentuali. La fiducia nel governo, inoltre, rispetto al momento in cui si è
insediato, è salita di 5 punti. E oggi ha raggiunto il 43%. D'altronde, Gentiloni, per
quanto "impopulista", oggi è il più popolare fra i leader. Dichiara di aver fiducia verso di
lui il 47% degli elettori. Oltre 10 punti più di Renzi. E poi: 9 più di Giorgia Meloni. E 1314 di più, rispetto a Di Maio, De Magistris, Pisapia e Salvini. I quali, almeno per ora, non
esprimono una possibile alternativa di governo. Probabilmente, lo stile "impersonale" del
premier asseconda una stanchezza diffusa del Paese. Nel quale la maggioranza dei
cittadini invoca l'avvento di un Uomo Forte. Ma solo perché in giro non se ne vede
traccia. D'altronde, molti elettori sono stanchi di miracoli annunciati e di guerre politiche - praticate. E per quanto credano che il voto incomba, in fondo, lo temono.
Perché vorrebbero affrontare le prossime elezioni con regole e soggetti che permettano
di immaginare governi e parlamenti stabili. Ma nessuna alleanza, fra i principali partiti,
raccoglie il consenso degli elettori. E senza alleanze - parlamentari - nessun governo
appare possibile. Visto che non è immaginabile - anche in base ai risultati di questo
sondaggio - che un partito, da solo, superi il 40% dei voti validi, come prevede l'attuale
legge elettorale, per conquistare da solo la maggioranza dei seggi. Così, 7 elettori su 10,
prima di andare al voto, preferiscono attendere. Che si approvi una legge elettorale che
garantisca una maggioranza comune alle due Camere. Solo nella base della Lega e del
M5s la "voglia" di andare comunque al voto "subito" è più ampia. Ma non di troppo. Così,
è possibile che l'era del post-renzismo al tempo di Renzi possa durare più del previsto.
Più di quanto vorrebbe lo stesso Renzi. Alla finestra, ma pronto a rientrare in gioco.
IL FOGLIO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Giudici, decreti, orazioni. La ricompensa di Trump alla destra religiosa di
Mattia Ferraresi
Testo non disponibile
Pag 1 Muri mediterranei di Matteo Matzuzzi
Roma. Alla chiesa non piace l'intesa tra l'Unione europea (con l'Italia in prima fila) e la
Libia dell'instabile governo di Fayez al Serraj per la chiusura della rotta libica. Un muro,
l'ennesimo, in mezzo al Mediterraneo, si suggerisce oltretevere. E' l'idea di un'Europa
che si chiude a riccio, che irrobustisce le frontiere e che, di riflesso, costringe centinaia
di migliaia di disperati a rimanere bloccati tra i campi del Niger e la costa della
Tripolitania. E a poco servono le rassicurazioni sul fatto che non vi saranno blocchi
navali, anzi. Per padre Camillo Ripamonti, del Centro Astalli, la naturale conseguenza
dell'accordo non si tradurrà in meno vittime in mezzo al mare, bensì nell'apertura da
parte dei trafficanti di esseri umani di nuove vie ancora più pericolose per chi cerca
rifugio in Europa. La linea in Vaticano è chiara, il Papa stesso l'aveva spiegata ancora
una volta davanti ai giornalisti che l'intervistavano a bordo dell'aereo che lo riportava in
Italia dopo il viaggio lampo in Svezia per la commemorazione del cinquecentesimo
anniversario della Riforma luterana, lo scorso novembre: "Non è umano chiudere le
porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. Qui, si paga
politicamente; come anche si può pagare politicamente un'imprudenza nei calcoli, nel
ricevere più di quelli che si possono integrare. Perché, qual è il pericolo quando un
rifugiato o un migrante - questo vale per tutti e due - non viene integrato? Mi permetto
la parola - forse è un neologismo - si ghettizza, ossia entra in un ghetto. E una cultura
che non si sviluppa in rapporto con l'altra cultura, questo è pericoloso. Io credo che il più
cattivo consigliere per i paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura, e il miglior
consigliere sia la prudenza". Ancora di più, Francesco aveva detto nei suoi tre discorsi
sull' Europa, a Strasburgo (al Parlamento europeo e al Consiglio d'Europa) e a Roma,
ricevendo il Premio Carlo Magno. In quell'occasione, lo scorso maggio, Francesco aveva
detto: "Sogno un' Europa in cui essere migrante non è un delitto, bensì un invito ad un
maggior impegno con la dignità di tutto l'essere umano". Prima ancora, intervenendo al
Parlamento europeo, il Pontefice era stato ancora più chiaro: "L'Europa sarà in grado di
far fronte alle problematiche connesse all' immigrazione se saprà proporre con chiarezza
la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo
stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l'accoglienza dei migranti;
se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro paesi di
origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni - causa
principale di tale fenomeno - invece delle politiche di interesse che aumentano e
alimentano tali conflitti. E' necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti". Qualche
giorno fa, poi, parlando a proposito dell'intenzione di costruire un muro tra gli Stati Uniti
e il Messico, il cardinale Peter Turkson, presidente del dicastero per la Promozione dello
sviluppo umano integrale, aveva osservato che "non sono solo gli Stati Uniti che
vogliono costruire i muri contro i migranti, accade anche in Europa". Un continente che
vede la sua leadership divisa, tra chi (specie all'est) vuole riprendere il pieno controllo
dei confini - e il presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, è tra questi - e chi si
mostra più disponibile all'integrazione, benché in forme non sempre chiare e senza nitide
visioni programmatiche d'ampio respiro. Chi per anni ha portato avanti la battaglia per
scardinare i muri del Vecchio continente alzati a protezione dello sterile orticello è stato
il cardinale Antonio Maria Vegliò, già presidente del Pontificio consiglio della pastorale
per i migranti e gli itineranti. Un anno fa, Vegliò - creato cardinale da Benedetto XVI nel
2012, nel suo penultimo concistoro prima della rinuncia avvenuta nel febbraio del 2013 parlava non a caso di "un momento molto, molto triste per l'Europa". In un'ampia
intervista al Servizio d'informazione religiosa (Sir), il cardinale osservava che "ci sono
paesi che dovevano accogliere e invece non lo fanno più, come la Germania. Altri che
hanno sospeso il Trattato di Schengen. E' una tristezza questa Europa. Posso capire diceva - la necessità di fare una distinzione con i migranti economici, perché non siamo
più l'Eldorado del passato, ma i profughi che scappano dalla guerra? Come si fa a non
accoglierli?". Nessun buonismo di facciata, anzi: "Non è possibile accogliere tutti i
migranti", precisava lo scorso autunno, ribadendo però che "questo non può significare
chiusura". Anche perché, diceva, "più della metà dei rifugiati nel mondo ha meno di
diciotto anni, mentre cinquanta milioni di bambini stanno vivendo la tragedia della
migrazione e ventotto milioni sono stati costretti a fuggire per i conflitti". Tradotto, "un
bambino ogni duecento nel mondo è un rifugiato". Quanto alla posizione della chiesa osservata speciale soprattutto negli Stati Uniti, dove l'atteggiamento delle alte gerarchie
episcopali verso l'Amministrazione di Donald Trump è guardato con attenzione quasi
quotidiana - Vegliò chiariva che essa "non entra nel dibattito", anche se "bisogna trovare
un equilibrio tra il rispetto dell' identità e il rispetto dei diritti".
IL GAZZETTINO di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Renzi e il labirinto della selva oscura di Bruno Vespa
Il cronista dovrebbe essere il Virgilio del lettore e orientarlo nella selva oscura' della
politica. Ma in queste settimane Virgilio rischia di perdersi egli stesso nel bosco perché,
come nella favola di Alice, gli alberi cambiano forma e quel che è bello diventa brutto e il
brutto può diventare bello. Si prenda Matteo Renzi. E' noto che egli vorrebbe votare a
giugno e riprendersi palazzo Chigi. Ma il Pd non è più il Paese delle Meraviglie. Molto di
quel che sembrava bello e adorante è diventato brutto e borbottante. A Virgilio, per
esempio, è difficile capire quanti di quelli che vogliono prolungare la legislatura fino alla
scadenza di febbraio lo fanno perché temono l'instabilità italiana in un quadro europeo
inquieto anche per le prospettive elettorali altrui o perché puntano al logoramento di
Renzi e alla sua liquidazione politica. Ci sono naturalmente gli uni e gli altri, ma non è
facile sempre distinguerli visto il perverso gioco di specchi in corso nella Selva Oscura. I
problemi del segretario del Pd non sono pochi.
1. La modifica della legge elettorale sembra complessa e probabilmente non è possibile
farla per decreto legge, pur dopo aver raggiunto un eventuale, complicato accordo con
Forza Italia.
2. Renzi (come tutti) è ormai rassegnato al proporzionale. Può farsi strada la proposta
centrista di premiare le coalizioni e non le liste, sostituire il premio di maggioranza con
un premio di governabilità più basso, assegnando alla coalizione vincente un numero di
seggi più ridotto, ma sufficiente a raggiungere la maggioranza assoluta con Berlusconi.
3. Renzi dice che potrebbe rinunciare a palazzo Chigi perché non è sicuro che Berlusconi
lo accetterebbe di nuovo come presidente del Consiglio. Il Cavaliere è generoso, ma non
dimentica lo sgarbo sul Quirinale del 2015 che portò alla fine del Patto del Nazareno.
4. La coalizione di governo con Forza Italia deve essere un punto estremo di arrivo e
certo non un punto di partenza, altrimenti la sinistra se ne va.
5. La sinistra se ne andrebbe comunque, incoraggiata dal sistema proporzionale, se
Renzi restituisse a Bersani lo stesso numero di seggi garantito che Bersani dette agli
amici di Renzi nelle elezioni politiche del 2013, cioè il 12 per cento (più o meno) di quelli
sicuri.
6. Anche per Berlusconi che nel profondo dell'animo vuole rompere con Salvini è meglio
uscire allo scoperto il più tardi possibile visto che andrebbe a rompere una coalizione sì
tormentata, ma viva nel bene e nel male dal 1994.
7. Le primarie del Pd a marzo non sono incompatibili con le elezioni a giugno. La sinistra
si accontenterà di ottenere quel che ha chiesto (primarie, appunto) o dirà che il presepe
non le piace anche cambiando i pastori perché vuole comunque arrivare all'anno
prossimo?
8. Il governo Gentiloni non è affatto debole in sé, ma ovviamente è meno forte di un
governo eletto. Il punto è che da un lato si dice che le elezioni anticipate renderebbero
difficili gli aggiustamenti finanziari chiesti da Bruxelles e non sta bene far guidate il G7
del 27 maggio da un governo dimissionario. Dall'altro si replica che sarebbe
sconveniente per l'attuale maggioranza votare a febbraio dopo una manovra severa (e
quindi impopolare) attesa per la fine dell'anno. Qual è la strada giusta nel labirinto della
Selva Oscura?
Pag 16 Carosello 60 anni dopo, quando nacque la réclame di Paolo Navarro Dina
«Le lì le là, le là che l'aspettava, aspettava Miguel. Miguel son mi. E ti, e ti no ti xe
niente, e ti e ti no ti xe niente». Per i cinquantenni d'oggi è senz'altro un tuffo nel
passato. Di quelli belli. Era il tempo di Carosello. E poi come si diceva nelle famiglie tutti
a letto. Proprio in questi giorni, sessant'anni fa, nasceva il mitico, straordinario
contenitore serale di messaggi pubblicitari e piccole scenette che duravano al massimo
due minuti, pronto al debutto sul Primo Canale Nazionale (l'odierna Rai1). Era il 1957 e
Mamma Rai accompagnava per mano gli italiani nei primi anni del Boom economico e del
consumismo. Il primo short, il cortometraggio pubblicitario, bucò il teleschermo alle ore
20.50 del 3 febbraio. Il battesimo fu affidato ad una ditta triestina, la Stock, con il suo
Stock 84, un brandy tra i più bevuti al bar. E una scenetta: Erminio Macario, comico
dell'avanspettacolo, come protagonista e Giulio Marchetti, spalla d'eccezione. Titolo Le
avventure del signor Veneranda. E poi altri cinque cortometraggi, e altrettante marche
con attori di calibro e di grido allora, come Mario Carotenuto, Carlo Campanini e un
giovanissimo Mike Bongiorno. E fu successo. Nutritissima fu la pattuglia veneta e
veneziana in particolare. Una delle caratteristiche di Carosello era soprattutto quella di
far immedesimare il pubblico regionale col messaggio pubblicitario. Ed ecco quindi il
cummenda milanese, la massaia bolognese e la servetta veneta. Ma non solo. Carosello
fece grande uso di cartoni animati e di scenette di animazione. Come El Dindondero, che
reclamizzava una nota azienda di cioccolato e dolciumi, la Talmone, che si affidava alla
parlata veneziana grazie a quel Miguel son mi cantato sotto il sombrero; così come
l'Amarena Fabbri coi suoi Pirati all'arrembaggio faceva dialogare coi rispettivi accenti
corsari neri siciliani e veneziani pronti a conquistare Venezia durante una Mostra del
Cinema. Memorabile uno spot del 1965 coi pirati che esclamano Miezzica o Ostregheta!
mentre veleggiano in un surreale Canal Grande in viaggio per il Lido (!). E ancora il
successo di Carosello si deve anche a un autore veneziano come Nino Pagot, al secolo
Nino Pagotto, nato nel 1908, morto nel 1972, che all'indomani della Prima guerra
mondiale, a Milano, diventò uno dei pionieri del cinema d'animazione creando
personaggi come I fratelli Dinamite o Calimero. Pagot era uno dei maggiori esponenti
della scuola Disneyana veneziana, ma con lui c'erano altri maestri del cartone animato:
come Paul Campani con Angelino, angelo distratto tra le nuvole per l'Agip e l'Omino con i
baffi per le caffettiere Bialetti, o Guido De Maria con Salomone pirata pacioccone. E poi
come non ricordare l'Ispettore Rock, al secolo Cesare Polacco, veneziano, attore e spalla
di Totò per tanti anni e che trovò il suo massimo successo come investigatore
implacabile di polizia, che ha commesso un solo errore, ovvero il mancato uso della
Brillantina Linetti, celebre marchio veneziano di cosmesi per uomini, che gli ha provocato
la calvizie? Polacco fu solo uno dei tanti, attori e attrici, che si misurarono con Carosello.
Basti pensare a Ernesto Calindri e il suo Cynar contro il logorio della vita moderna e il
tavolo in mezzo al traffico caotico; e tanti altri, da Totò a Eduardo De Filippo; da Vittorio
Gassman ad Alberto Lupo; da Aldo Fabrizi a Dario Fo e poi Bice Valori, Raimondo
Vianello, Sandra Mondaini, Carlo Dapporto, Renzo Arbore fino a Frank Sinatra, Jerry
Lewis, la giunonica attrice Jayne Mansfield fino a Yul Brynner. E i registi. Nomi
altisonanti: da Gillo Pontecorvo a Sergio Leone, da Federico Fellini a Pier Paolo Pasolini.
Ma quelli che più sono rimasti nella mente degli italiani sono stati gli slogan: Nooo, non
esiste sporco impossibile (col chitarrista jazz Franco Cerri immerso nell'acqua per
pubblicizzare un detersivo...); oppure La pancia non c'è più dell'attore Mimmo Craig per
reclamizzare un olio, fino al tormentone di Paolo Ferrari, grande attore di teatro,
costretto a mercanteggiare due fustini di detersivo anonimo con quello di Dash e le
massaie che sdegnate rinunciavano. Ma i gusti del pubblico e pure il mercato
pubblicitario cominciavano ad evolversi. E fu così anche la morte di Carosello: dopo
vent'anni di onorato servizio e ben 7.261 scenette, la Rai l'1 gennaio 1977 decise di
interrompere l'esperienza. Nel 2013, poi, la Tv di Stato tentò un rilancio con Carosello
Reloaded, ma ormai era tutta un'altra cosa.
LA NUOVA di sabato 4 febbraio 2016
Pag 1 Raggi story, fallimento per il M5S di Claudio Giua
Come reagirei se un funzionario di secondo piano del mio Comune facesse in campagna
elettorale un potenziale regalo di trentatremila euro a un accreditato candidato a guidare
l’amministrazione cittadina? E se addirittura questo stesso politico, una volta eletto,
triplicasse lo stipendio e decuplicasse o centuplicasse il potere del suo benefattore?
Pretenderei le dimissioni immediate del primo e il licenziamento in tronco dell’altro
oppure lascerei fare, come nella Napoli delle scarpe spaiate di Achille Lauro? Sono
domande che dovrebbero porsi sia i cittadini di Palermo, di Genova, di Padova, di
Belluno, di Gorizia, di Lucca, di Pistoia e degli altri 984 centri al voto in primavera, sia i
militanti e i simpatizzanti del Movimento 5 Stelle. A Roma, dove l’ultimo atto della
Raggi-story s’è sviluppato nei tempi e modi appena riassunti, se lo stanno chiedendo in
molti. È utile che lo stesso facciano tutti gli italiani. È fuori da ogni dubbio che Virginia
Raggi non possa più restare al Campidoglio pur vantando - come ha detto ieri la
sventurata - «tutta la fiducia di Grillo»: il quale vota a Genova, mica nella capitale. Il
M5S ha regolamenti e strumenti per mettere la parola fine a un calvario politico e
mediatico che dura da troppo. Se non fosse che viene messa in moto solo quando il
fondatore e il figlio di Gianroberto Casaleggio hanno bisogno di un plebiscito alla Todor
Zivkov, la misteriosa piattaforma digitale Rousseau potrebbe essere usata per far
scegliere ai militanti registrati se cacciare o meno la sindaca. Non accadrà. La domanda
ineludibile è invece un’altra: si possono affidare al Movimento 5 Stelle altri comuni di
medie o grandi dimensioni o addirittura il governo del Paese? Per rispondere bisogna
valutare serenamente le loro quattro esperienze in grandi città. La prima in ordine di
tempo è Parma, dove Federico Pizzarotti è stato eletto nel 2012; mai entrato in sintonia
con Grillo, ne ha subito la sconfessione fino al recente divorzio. Nonostante l’isolamento
politico, i numeri e le cronache certificano che Pizzarotti è un sindaco capace e presente,
che ha ridato dignità a un’amministrazione umiliata dai suoi predecessori. Due anni e
mezzo fa il Movimento ha conquistato Livorno, dove ha piazzato l’ingegner Filippo
Nogarin. Politico alle primissime armi, ha inanellato molti errori. Di recente pare aver
trovato qualche sintonia con una comunità pesta, difficile e disillusa. Nel giugno scorso è
andato a segno l’uno-due grillino che ha steso il Pd a Torino con Chiara Appendino e a
Roma con Raggi. La sindaca piemontese ha avuto la fortuna di prendere il posto di un
eccellente amministratore come Piero Fassino, che le ha lasciato in eredità un comune
ben gestito. Roma, finita con Virginia Raggi nell’apparente disponibilità di un comitato
d’affari che rappresenta i poteri forti della destra, è totalmente fuori controllo. In otto
mesi la giunta non ha messo in cantiere nulla, bloccata com’è dai veti reciproci delle
bande del grillismo locale e dall’ecatombe di assessori e funzionari apicali, né affrontato
alcun problema, a cominciare da trasporti e spazzatura. Di rilievo solo i “no” definitivo
alle Olimpiadi e temporaneo allo stadio della Roma e l’approvazione tardiva del bilancio,
salutata come un trionfo dai consiglieri della maggioranza. Va riconosciuto che a Parma,
a Livorno e a Torino non si segnalano danni gravi provocati dalle amministrazioni M5S.
Ma la vicenda Raggi è sufficiente per far temere che, al di sopra della soglia media di
difficoltà, i grillini falliscano. Hanno pochi precedenti l’inesperienza politica, l’inefficienza
amministrativa, l’instabilità personale che la sindaca ha finora mostrato. S’è già
ipotizzato che la prima cittadina sia ostaggio di una cricca di disonesti o incapaci: sarà la
magistratura a dare una risposta. Non bisogna invece attendere inchieste e sentenze per
sanzionare la sua incapacità a scegliere i collaboratori (Muraro, Marra, Romeo).
Insomma, quella romana è una questione morale-criminale oppure una questione di
totale stupidità. Comunque sia, un disastro.
Pag 1 Il radicalismo e la fragilità della Libia di Renzo Guolo
Mentre al Louvre ricompare il fantasma jihadista, a Malta l’Unione europea cerca una
soluzione alla questione libica. Lo fa benedicendo il memorandum siglato da Gentiloni e
Serraj, frutto di lunghi negoziati sfociati nel precedente viaggio del ministro dell’Interno
Minniti a Tripoli. Un doppio passaggio, italiano e europeo, che negli intenti di Roma vuole
significare che la questione Libia è, ora, anche una questione dell’Unione, non solo
dell’Italia. Per una volta, dunque, Italia e Europa, sembrano procedere di comune
intento. L’obiettivo è sigillare la rotta mediterranea, così come l’accordo con la Turchia
ha fatto con la rotta balcanica. Un compito non facile. Il governo Serraj ha escluso che la
missione europea “Sophia” possa spingersi nelle acque territoriali libiche. Misura che
avrebbe impedito ai barconi riempiti dai trafficanti di esseri umani di lasciare le coste del
Paese mediterraneo. Il debole governo tripolino, che non controlla l’intero paese e si
regge su una precaria alleanza con alcune milizie cittadine, non reggerebbe, però, la
prevedibile rivolta che in tal caso, anche in nome dell’antico sentimento anticoloniale, i
suoi nemici scatenerebbero. Il premier imposto dalla comunità internazionale ha così
escluso la possibilità che siano navi europee a praticare il blocco nei porti libici. Così
l’accordo italo-libico prevede opzioni che, sia per orizzonte temporale sia per oggettive
difficoltà nel renderlo efficace, rischiano di vanificare gli obiettivi che stanno a cuore
all’Italia: la fine degli sbarchi e il contrasto in loco al terrorismo di matrice jihadista.
L’intesa prevede, infatti, che l’Italia: offra supporto tecnico e tecnologico alla Guardia
costiera di Tripoli e aiuti la Libia a controllare le frontiere meridionali del paese dalle
quali provengono la maggioranza dei migranti originari dell’Africa subsahariana; finanzi i
campi di “accoglienza temporanea” - che dovrebbero avere standard ben diversi da
quelli dei luoghi dell’orrore nei quali i migranti sono oggi rinchiusi, in condizioni
disumane e sottoposti a efferate violenze, o degli “accampamenti” gestiti dalla
criminalità nei quali sono oggi costretti a attendere l’imbarco. Campi in cui i migranti
dovrebbero restare in attesa del rimpatrio o del rientro volontario. Per evitare che nei
campi si riproduca una situazione critica, l’Italia si è impegnata sia a formare il personale
sia a fornire attrezzature mediche. Un presidio, quello del confine sud, che avrebbe la
funzione anche di impedire che gli jihadisti, cacciati da Sirte e affluiti in zona, possano
diventare una calamita per i gruppi radicali che agiscono in Algeria, in Mali, in Niger e
Ciad. Saldatura che trasformerebbe l’Africa sahariana in un nuovo focolaio radicale. Un
piano, quello italiano, gravoso per impegno e risorse che per riuscire non può che avere
il sostegno della Ue. Per questo a Malta, l’Unione ha presentato un proprio piano, che
integra e asseconda quello dell’Italia, stanziando anche un contributo finanziario per
renderlo esecutivo. Ovviamente, perché un simile piano funzioni, occorre che il governo
Serraj controlli il territorio e non sia minacciato, nella sua stabilità, dalle milizie che
sostenevano il precedente esecutivo tripolino e dal governo parallelo del generale Haftar,
che controlla la Cirenaica ed è appoggiato sia dall’Egitto che dalla Russia, decisa a
divenire sempre più, dopo la vittoria sul fronte siriano e il prevedibile neoisolazionismo
dell’America di Trump, potenza mediterranea. Ma occorre anche che sia posta fine alla
dilagante corruzione che, in una situazione come quella provocata dalla guerra civile e
dalla frammentazione del potere su base locale e tribale, attanaglia il Paese. Sono molti,
compresi numerosi effettivi di quella Guardia costiera che dovrebbe attuare il blocco
delle partenze previsto dal piano italo-europeo, a trarre vantaggio da una fiorente
economia criminale che, per poter agire indisturbata, opera una vera e propria
redistribuzione del reddito accumulato illegalmente. Un fattore che complica le cose nel
già problematico caos libico.
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