Visualizza in PDF

Download Report

Transcript Visualizza in PDF

6
Giovedì 2 Febbraio 2017
PRIMO PIANO
Nominato per la Corte suprema. È un protestante episcopale ma ha studiato dai gesuiti
Chi è il nuovo giudice di Trump
Alla corte suprema ci sono 3 giudici ebrei e 5 cattolici
DI
I
ANTONINO D’ANNA
l nuovo giudice scelto da
Donald Trump per la
Corte Suprema, Neil Gorsuch, ha un curriculum di
tutto rispetto, è a favore di uno
spazio pubblico per le religioni (cosa che in America non è
d’uso comune) e ha difeso le
suore cattoliche contro l’Obamacare che le ha obbligate a
pagare le spese di contraccezione e aborto per le loro dipendenti. In compenso, ha sempre
respinto gli appelli promossi
dai condannati a morte perché
evitassero l’esecuzione, sugli
immigrati sembra essere sulla
linea di Trump ma, pur essendo protestante di confessione
episcopal, ha studiato dai Gesuiti, è sposato e con figli.
In conclusione una figura (così come la tratteggia tra
gli altri John Allen su Crux,
prestigiosa rivista yankee
dedicata al mondo del vaticano) che non necessariamente
potrebbe essere del tutto gradita Oltretevere. In effetti,
il Catholic Herald sostiene
che, in fondo, siamo tornati
alla composizione della Corte Suprema di quando c’era
Antonin Scalia, il giudice
conservatore italoamericano
messo lì da Ronald Reagan
nel 1986, quella corte che ha
votato il diritto al matrimonio
omosessuale sotto Barack
Obama. Ma al mondo cattolico conservatore americano,
aggiungiamo noi, quello che
mangia bistecche e ha le idee
molto chiare in testa, che ha
votato The Donald malgrado
la sconfessione aerea papale
(Francesco dixit: «Chi costruisce muri non è un buon
cristiano»), gradita riuscirà
sicuramente.
Volete un esempio? È il
14 luglio 2015 quando le Piccole sorelle della Povera casa
per gli anziani, di Denver, Onlus del Colorado, davanti al X
circuito della Corte d’Appello
degli States, proprio dove fino
ad oggi ha lavorato Gorsuch,
decidono di ricorrere alla Corte Suprema contro le spese
dell’Obamacare. Ma il 23 la
Corte d’Appello decide di votare a maggioranza se concede
l’en banc hearing. Un’udienza,
cioè, in cui il caso in oggetto
viene discusso innanzi a tutti
i giudici della corte anziché
ad un piccolo gruppo di essi.
L’en banc si usa per i casi
eccezionalmente complessi,
ma l’istanza viene respinta.
Gorsuch però non si arrende
e sottoscrive le considerazioni di un suo collega a favore
dell’en banc, Hartz.
Ecco che cosa scrive:
«Quando una legge chiede
che una persona faccia qualcosa che il soggetto ritiene
peccaminoso, e la sanzione,
nel caso si rifiutim, è una
grossa sanzione pecuniaria,
allora la legge impone un
sostanziale impedimento alla
libera professione religiosa del
soggetto in questione». Quindi,
parlando delle suore, aggiunge: «Tutti i ricorrenti in questo caso credono sinceramente
che violeranno la legge di Dio
se faranno quanto chiesto dal
Governo. E la sanzione, se si
rifiuteranno, potrebbe essere
di milioni di dollari». Per cui:
«Non è lampante che la legge
sostanzialmente ostacola la libera professione religiosa dei
ricorrenti?». Pensate ora alla
faccia sorridente del cardinale
Timothy Dolan, l’arcivescovo
di New York che ha invocato il
Signore alla nomination e poi
all’inaugurazione di Trump e
che si è battuto contro l’Obamacare: la troverete più sorridente.
Gorsuch non è un giurista di scarso livello. Ha
studi ad Oxford e alla Columbia, ma è imbevuto di
cultura cattolica avendo stu-
diato a Bethesda dai Gesuiti (e alla Corte Suprema ci
sono ad oggi 3 giudici ebrei e
5 cattolici). Uno dei suoi maestri è stato l’ispiratore della
Veritatis Splendor, enciclica
del 1993 di Giovanni Paolo
II, il filosofo del diritto John
Finnis: nientemeno. È noto
per il senso dell’umorismo e
attenzione: è uno che in tribunale non molla.
Una volta, da avvocato, difendeva un cliente
che aveva perso i suoi soldi
e non era certo un grosso industriale: ad un certo punto,
concluse l’arringa rivolgendosi alla giuria tirandosi
fuori le tasche dei pantaloni. «Ecco, il mio cliente è ridotto così», disse chiudendo
col coupe de theatre. Vinse
la causa e una giurata l’abbraccio: «Lei è come Perry
Mason», gli disse. Manco
Totò e Peppino.
© Riproduzione riservata
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA - PIERLUIGI MAGNASCHI
hanno ampiamente trattato ieri. Il
licenziamento di Sally Yates dal
ruolo di viceministro della Giustizia
americana. La Yates svolgeva questo ruolo su nomina specifica
dell’amministrazione Obama. Essa
quindi era a fine mandato: sarebbe
infatti stata in carica ancora per tre
giorni e, ciononostante, aveva ufficialmente dichiarato di non poter
difendere nei tribunali Usa il bando
presidenziale appena firmato da
Trump sugli immigrati dai sette
paesi musulmani a rischio di terrorismo, che tra l’altro erano già stati identificati come pericolosi dal
suo predecessore
Barack Obama.
Di fronte alla pubblica dissociazione di
questo viceministro ad
interim (che vuol dire
che stava scaldando la
sedia in attesa di essere
sostituita), John De
Stefano, un assistente
di Trump (non Trump
in persona) con una lettera manoscritta (come
si vede, siamo alle sberle) ha sollevato la Yates
dall’incarico. In pratica,
visto che la Yates doveva lasciare l’ufficio fra
tre giorni, l’ha aiutata
a lasciarlo subito, senza
tanti complimenti. Una
facente funzioni, espressione
dell’amministrazione che è stata
battuta nelle elezioni presidenziali
e in attesa di fare le consegne al
nominato dalla presidenza che è
subentrata, se avesse avuto stile,
avrebbe dovuto evitare di fare politica contro l’amministrazione che
aveva vinto. E invece la Yates ha
approfittato del brandello di potere
formale che ancora conservava per
attaccare la legittima amministrazione, non subentrante, ma che era
già subentrata, con una caduta di
stile che solo coloro che si ritengono
depositari esclusivi dello stile stesso possono permettersi di esibire.
Questo il fatto.
Come è stato presentato, questo
fatto, dalla stampa italiana? Il
Fatto quotidiano ne ha riferito in
prima pagina con questo titolo:
«Trump come in un reality: via la
ministra traditrice». Da questo titolo, se l’italiano ha ancora un valore,
il lettore desume che Trump, a pochi
giorni dal suo insediamento, si è già
pentito di aver nominato il suo
ministro della Giustizia e quindi lo
ha liquidato in malo modo. Il che
non è assolutamente vero perché si
è ancora in attesa della nomina del
nuovo segretario della Giustizia e
la rimossa non è una ministra ma
quello che in Italia chiameremmo
una sottosegretaria.
Anche Repubblica ripete lo stesso errore, che non è da poco. Il
Vignetta di Claudio Cadei
suo titolo a tutta pagina (ma non in
prima pagina, bisogna pur dirlo)
afferma: «Il pugno di Trump, via la
ministra ribelle». Per rimuovere la
Yates invece non c’è stato bisogno
di nessun pugno di Trump (è bastata, come dicevo, la lettera scritta a
mano da un suo collaboratore) perché la sottosegretaria era già in
bilico come un dente da latte che
sta per cadere e inoltre non rappresentava assolutamente l’amministrazione Trump ma quella di Obama che, sia pure facendo dispetti
fino all’ultimo al presidente a lui
subentrante, era stato addirittura
più veloce della Yates a lasciare il
posto. La sottosegretaria quindi era
solo un residuo della precedente
amministrazione che, probabilmente, era stata lasciata alla sua scrivania perché nessuno era interessato all’attività formale che stava
svolgendo (in sostanza, scaldava la
poltrona in attesa di sapere che
l’avrebbe legittimamente sostituita) e che è emersa in superficie solo
quando ha commesso lo sgarbo pleonastico che, deontologicamente,
non avrebbe dovuto permettersi.
Per descrivere quanto è avvenuto (cioè il nulla) Federico
Rampini, che di solito è molto più
avveduto, parla di «Grande Purga»
(con le due maiuscole, addirittura)
usando la terminologia che si adottava per i periodici e sanguinosi
repulisti che faceva Stalin nell’Urss
di un tempo.
Anche il Corriere
della Sera titola a
tutta pagina: «Licenziata da Trump la
ministra ribelle». Pure
in questo caso valgono
le medesime considerazioni che sono state
fatte poc’anzi per la
Repubblica. Onore al
merito dell’oggettivtà
invece al direttore de
la Stampa di Torino,
Maurizio Molinari,
che, da straordinario
conoscitore della politica internazionale, ha
subito fiutato la trappola della bufala politically correct e l’ha
disinnescata, non concedendole la prima pagina (la notizia non ne aveva la dignità) e minimizzandola e riferendone correttamente in una pagina interna del
suo giornale.
Per chiudere con la persistente
disinformazione planetaria,
basterà ricordare che molti media
hanno detto che Trump, nel suo
delirio protezionista, ha cancellato
l’accordo di libero scambio fra gli Usa
e i paesi dell’Oceano pacifico sottoscritto a suo tempo da Obama. È un’altra
bufala. Questo contratto infatti si era
arenato già durante l’amministrazione
Obama perché non aveva trovato una
maggioranza nel Congresso Usa disposta ad approvarlo. L’altro trattato dello stesso tipo (quello interatlantico fra
gli Usa e l’Europa) era già stato
bocciato ma, questa volta, da parte
degli europei.
Pierluigi Magnaschi