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PRIMO PIANO
Venerdì 27 Gennaio 2017
13
I suoi avversari credevano che, una volta giunto al potere, avrebbe diluito il suo programma
Trump fa quello che ha promesso
Mentre negli Usa cresce ancora il sostegno della gente
da Washington
ALBERTO PASOLINI ZANELLI
D
onald Trump mantiene le promesse. Più
controverse esse sono,
tanto meglio. Per lui.
Non per i suoi avversari,
così impegnati a cercare
di linciarlo da dimenticarsi che lui non ha dimenticato le promesse che ha
fatto fin dal primo giorno
di un’interminabile campagna elettorale e che, in
poco più di una settimana, lo trasformarono da
scherzo di cattivo gusto in
candidato serio o almeno
temibile, leader inatteso
del Partito repubblicano, flagello del candidato
democratico e presidente degli Stati Uniti. Era
parso non dico dimenticarsene ma di essere un
po’ distratto dal tumulto
dell’ascesa al trono, dei sorrisi
e delle dimostrazioni ostili su
un vasto terreno, tranne, apparentemente, su quello che
aveva dato il via al suo blitz.
Invece il quarto giorno
della prima settimana di
Casa Bianca lui le ha ritirate
fuori tutte le promesse e gli
allarmi. Tutte in poche ore.
Aveva esordito promettendo,
o minacciando, di far costruire
un muro per tenere fuori gli
immigrati dal Messico e dintorni. I rivali nelle primarie
repubblicane e i commentato-
Donald Trump
ri avevano risposto con risate
scandalizzate e lui era parso
tirarsi indietro.
Adesso ha riaperto l’occhio
e ha riconfermato: il muro si
farà, da un Oceano all’altro e
lui cercherà di farlo pagare al
Messico. E sarà solo il primo
passo in una serie di leggi e
regolamenti che dovrebbero, almeno lui dice, non solo
spezzare le reni agli immigranti clandestini ma anche
limitare drasticamente quelli legali e rafforzare così la
sicurezza nazionale. Senza
limitazioni né razziali né
geografiche: rimarranno
fuori anche quelli in fuga
dalla Siria o dagli altri
Paesi terrorizzati dalla
guerra civile e, appunto,
dal terrorismo. Non solo
con quel muro, ma anche
dal ritorno a pratiche da
emergenza poliziesca.
Per esempio a Guantanamo, che Obama non
ha fatto in tempo a chiudere, anche se ha ridotto
il numero di quei detenuti
senza processo che adesso
con ogni probabilità torneranno ad aumentare. Li
minacciano anche i Posti
Neri, pratiche di detenzione e di interrogazione comprese, pare ovvio, quelle definibili
come torture. Lo lascia intendere in un ennesimo Tweet,
contemporaneo all’annuncio
dell’arrivo a Washington del
ministro degli Esteri messicano in preparazione della visita
del presidente Enrique Pena
Nieto, entro il mese.
La conferma della decisione di murare la frontiera
meridionale degli Stati Uniti
compare nel testo come distrattamente: «…tra molte altre cose costruiremo il muro».
Pena Nieto dovrebbe pagarne
le spese e questo non è detto
che accadrà.
Ma l’esile annuncio ha suscitato critiche da piazza, con
scritte tipo «Accogliamo gli immigranti, deportiamo Trump».
Ma l’appoggio dell’opinione
pubblica riprende robusto e
non solo per l’angoscia del terrorismo, ma anche per la convinzione che il protezionismo
di ogni sorta serva a rilanciare
l’economia. Nello stesso filone un altro annuncio: andrà
avanti la costruzione degli
oleodotti ma, aggiunge Trump
dovranno essere costruiti con
acciaio americano e non di
importazione, anche se così
costerebbe un po’ meno.
Altro segno è un ulteriore incoraggiamento a Netanyahu per il suo programma di nuovi insediamenti in
Palestina. In contrasto con
l’accresciuta freddezza nei
confronti di Vladimir Putin,
lasciato cadere il suo invito
alla partecipazione americana
alla conferenza di pace in Kazakistan sulla Siria, declinato
a Washington.
Politica interna, economia
e finanza hanno per ora la
precedenza su tutto o quasi,
escluse forse la polemica surreale sui voti fasulli nell’elezione presidenziale. Trump
adesso precisa che un elettore
su sette non sarebbe neppure
cittadino americano. Una favola messa in circolazione, per
la verità dall’opposizione democratica e mescolata con la
favola di un intervento russo
nella campagna elettorale.
Fantascienza ma che il
nuovo inquilino della Casa
pare voler fare propria. Non ci
sono molti precedenti per un
vincitore che contesta il risultato, ma di bizzarrie da ambo
le parti questa competizione
ha abbondato fin dalla prima
ora.
Altri temi possono evidentemente aspettare. Compresa la
Siria, relegata per un paio di
giorni ai tempi ricalcolati ora
per un meteorite che ha fatto
piovere sulla terra ed è esploso 466 milioni di anni fa.
[email protected]
© Riproduzione riservata
LINDA SARSOUR, COPRESIDENTE DELLA MARCIA ANTI TRUMP, SOSTENNE IL MOVIMENTO PRO-SHARIA
A Hillary gran parte del voto delle elettrici nere (94%)e il 68% delle
latinos. A Trump invece la maggioranza dei voti delle bianche, 53%
DI
L
ALESSANDRA NUCCI
a Women’s March, marcia delle
donne su Washington all’indomani dell’insediamento di Donald Trump, ha inaugurato
quella che, nelle intenzioni, sarà una
contestazione che accompagnerà sempre il nuovo presidente Usa.
Per quanto imponente, però, la manifestazione non ha accolto la voce di
tutte le donne, le quali hanno votato
per Hillary Clinton in numero minore perfino di quante avevano votato per Barack Obama (54 per cento
delle elettrici hanno votato per lei,
in confronto al 55 per cento per l’expresidente).
Se Hillary è stata votata dalla quasi
totalità delle elettrici nere (94 per cento)
e dal 68 per cento delle donne latinos,
a Trump è andata la maggioranza dei
voti delle donne bianche (53 per cento)
arrivando, fra le elettrici bianche che
non hanno fatto l’università, a ottenere
quasi il doppio dei voti tributati alla
rivale; per contro, ha votato per Hillary
una maggioranza sottile delle laureate
bianche, il 51 per cento.
Forse perché consapevoli di non
poter comunque parlare a nome di
tutte le donne, le organizzatrici della
marcia anti-Trump, che per l’appunto aveva fra i suoi slogan l’inclusività,
hanno deciso di escludere dall’elenco
dei partecipanti le organizzazioni prolife che si erano registrate.
Sono state quindi depennate le «New
Wave Feminists» per le loro posizioni
dichiaratamente anti-abortiste, e le
donne di «And Then There Were None»
(«E poi non ce n’erano più», dal titolo
di un giallo di Agatha Christie), la cui
attività mira ad aiutare i dipendenti
delle cliniche abortiste a lasciare il
lavoro
La protesta così ha messo a fuoco
il tema che da 32 anni, ad ogni cambio
della guardia alla Casa Bianca, viene
affrontato come prima cosa, e ribaltato:
i finanziamenti alle Ong straniere che
si occupano delle interruzioni di gravidanze
SCOVATI
nei Paesi esteri.
Questo taglio, noto
come Mexico City policy, fu deciso da Ronald Reagan nel 1984,
rescisso dal Presidente democratico Bill
Clinton nel gennaio
1993, ri-istituito dal
repubblicano George
W. Bush nel gennaio
2001, nuovamente rescisso dal Democrat
Barack Obama, il 23
gennaio 2009 e ripristinato infine questo
23 gennaio 2017 da
Donald Trump.
Scrive, sul New
York Times, Asra Q.
Nomani, femminista
musulmana, ex-docente di giornalismo alla
Georgetown University, ex-reporter per il
Wall Street Journal, che avrebbe partecipato volentieri al corteo ma avendo votato per Trump non si sarebbe
sentita accolta. «Sulle questioni che
mi premono in qualità di musulmana,
purtroppo la «Women’s March» si è
schierata con le politiche di parte che
hanno offuscato le questioni dell’estremismo islamico in tutti gli otto anni
di governo Obama», scrive la Nomani.
«Associato alla Marcia è infatti anche il
Council on American-Islamic Relations
NELLA RETE
(Cair - Consiglio sui rapporti americano-islamici), che non solo ha ignorato
le questioni di estremismo islamico
post 11 settembre, ma si oppone all’attuazione delle riforme musulmane che
permetterebbero alle donne di guidare
le preghiere e di pregare davanti alle
moschee, senza indossare il velo come
simbolo di castità.» . «Da notare – prosegue la Nomani - che anche il Cair si
oppone agli aborti, ciononostante al
suo leader è stato mantenuto un ruolo
chiave nel rostro degli interventi.«
La giornalista ha esaminato le politiche dei
403 gruppi che si dichiarano
«partner» della marcia, e la
provenienza dei loro finanziamenti e ha scoperto che
56 di essi sono in relazione
con il finanziere filantropo
George Soros.
Fra questi è anche la
Arab-American Association
di New York, la cui direttrice, Linda Sarsour, co-presidente della marcia, risulta
aver promosso posizioni
pro-sharia. «Quando scrissi un pezzo per sostenere
che le donne musulmane
non sono tenute a indossare il velo come simbolo di
«modestia» – continua la
Nomani - attaccò me e la
sua coautrice definendoci
una ‘frangia’.»
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