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19 gennaio 2017 delle ore 09:03
L’America della cultura dice no a Trump
L’insediamento del neo presidente alla Casa Bianca è accolto con uno sciopero di molte istituzioni
culturali. Perché da noi una cosa del genere non avrebbe mai funzionato?
Oggi Obama se ne va, e con lui il sogno Yes,
we can che tanto ci coinvolse otto anni fa. Lascia
la Casa Bianca che, come dice il nostro Igino
De Luca, si appresta a diventare la Casa Bionda,
confacente al nuovo inquilino: il biondissimo e
imparruccato (forse è solo un toupet o forse
sono proprio suoi) Donald Trump. Ma
l’America, l’America che non ama Trump e che
per la prima volta, dopo l’esito del voto su chi
sarà il prossimo presidente non si ricompatta,
l’America della cultura entra in sciopero.
Strike! È la parola d’ordine. Chiudere in segno
di protesta musei, fondazioni, gallerie, cinema,
teatri, scuole di musica e di danza, biblioteca e
qualunque luogo dove circoli un po’ di pensiero
e di passione. Soprattutto, non volersi arrendere
ai prossimi (poco luminosi, nonostante il
biondo) quattro anni. L’elenco di chi ha aderito
allo sciopero è lunghissimo e si allunga ogni
giorno di più. Da giovani e imbufaliti collettivi
di artisti, da piccole gallerie d’arte a corazzate
Potemkin del mercato dell’arte, come Lisson e
Mary Boome. Da centri no profit a musei, come
il Saint Louis Art Museum, che negano il
prestito di un’opera per le celebrazioni
dell’insediamento, e sono quasi 2mila i
sottoscrittori che hanno firmato questa
petizione lanciata dall’artista Ilene Berman. Da
scuole d’arte molto accreditate, come la CalArts
nella California del Sud, alle migliaia di
studenti di altre scuole che si sono uniti allo
#J20 Art Strike. Hashtag che sta talmente
dilagando da diventare #J20 events.
Una posizione radicale e trasversale che rischia
di lasciare al buio una buona fetta d’America,
quella per cui in tanti ci vanno, per i suoi grandi
musei, i suoi grandi music hall, i teatri, e tutto
quel mondo che ci pare vivo, mobile, reattivo e
che ci fa amare l’America. Un’opposizione che
viene da lontano, e che ha già coinvolto diversi
protagonisti culturali, non sempre al top del
buon gusto: dai pugni che Robert de Niro gli
voleva rifilare, al sesso promesso da Madonna
a chi andava a votare. Ma è gente di spettacolo,
e le boutade sono pane quotidiano. Non tutti
hanno la classe di Meryl Streep che, senza
ricorrere a minacce o promesse, ha denunciato
l’atteggiamento razzista, ancor prima che
indegno di un politico che dovrebbe
rappresentare un popolo, del Trump che irride
un disabile. Tra luci ed ombre, insomma, lo
sciopero rischia di diventare una cosa seria, il
primo della storia. E forse questa posizione
dura, ma articolata, esprime una coscienza
appropriati a una rivista d’arte on line, anche se
lo sciopero americano di oggi li riporta a galla,
almeno per un giorno.
Adriana Polveroni
maggiore di quanto dimostrato dal mondo
intellettuale americano durante la campagna
elettorale. Forse hanno metabolizzato l’implicita
lezione uscita dal risultato che l’aveva
improvvisamente collocati ai margini di una
società molto diversa da loro e che loro
capivano poco o niente.
Bene, a me personalmente è venuto il seguente
pensiero: da noi cosa sarebbe successo se a
Palazzo Chigi fosse andato un Trump italiano?
Probabilmente non sarebbe successo un bel
niente. Tutti a mugugnare, a gufare, a tirare giù
previsioni apocalittiche, ma tutti zitti. Silvio
Berlusconi non è certo Donald Trump, il
presidente americano è un personaggio
veramente pericoloso a livello internazionale.
Berlusconi, sul piano internazionale, è stato
soprattutto l’apripista della società dello
spettacolo approdata alla politica, eppure è stato
sicuramente odiato da una buona fetta d’Italia,
ma non c’è stato – non dico uno sciopero – ma
neanche una protesta seria, solida contro di lui
da parte del mondo della cultura. Eppure
Berlusconi possedeva (e possiede) tv e Trump
no, aveva (e ha) la maggioranza di una casa
editrice, la Mondadori, che è una delle maggiori
case editrici italiane che al suo interno ne ha
anche un’altra, Electa, molto cara a chi per
esempio si occupa d’arte e, da quel che so,
Trump non possiede nessuna casa editrice.
Eppure non è successo niente.
Come mai? Come mai i nostri intellettuali,
senza distinzioni tra scrittori, artisti, registi o
drammaturghi, salvo alcuni rari casi (soprattutto
nel cinema) sono così proni, così minoranza
silenziosa e alquanto rancorosa? Perché
nessuno si è mai sentito in dovere di lanciare
una campagna aggregante con l’ambizione di
diventare massa critica? Perché la critica da
molti anni è marginalizzata nelle varie periferie
dei nostri sistemi culturali, spesso esercitata in
maniera minoritaria e facilmente malvista
perché espressione di frange antagoniste,
ritenute non affidabili e non rappresentative se
non di se stesse? Qualcuno risponderà che
vent’anni di berlusconismo hanno prodotto
questo sfascio. Ma semmai hanno aggravato
una situazione che preesisteva. C’è un nodo,
meglio un buco, nella storia italiana che va dal
Crocianesimo all’intellettuale organico di
Gramsci, mai risolto. Dove l’essere intellettuale
non è mai maturato in coscienza civica e
collettiva. Discorsi impegnativi, forse non
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