Povertà giovanile: c`è futuro per questa generazione?

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giovedì 12 gennaio 2017, 17:30
La società di domani
Povertà giovanile: c’è futuro per questa generazione?
A colloquio con Chiara Saraceno, tra le cause del fenomeno ed uno sguardo al futuro della nostra società
di Cesare Germogli
Il rapporto Ocse di novembre 2016 su povertà e disuguaglianza dei redditi mostra dati preoccupanti riguardo il
tasso di povertà tra i giovani e giovanissimi del nostro paese: si parla di indigenza per 1 bambino su 5 e 1 lavoratore su 9
in Italia. Analisi questa che trova conferme anche dagli ultimi dati Istat, che mostrano come la povertà ormai sia
inversamente proporzionale all’età: degli oltre 4,5 milioni di poveri totali, il 46,6 per cento ha meno di 34 anni. Un livello
di discussione su questo tema, cruciale per il futuro del paese, consiste nel chiedersi i perché della situazione attuale, cosa si
sarebbe dovuto fare e le misure che al più presto vanno prese, per far uscire dalle sabbie mobili di un tasso di
disoccupazione che continua a salire quella generazione che vuole raggiungere un’indipendenza economica rispetto a quella
precedente, con la speranza di un futuro senza le valige in mano verso terre straniere. Un altro invece sta nel riflettere sulle
ripercussioni future, non solo a livello socioeconomico, ma anche sotto il profilo della mentalità collettiva, che ci
aspettano quando una generazione cresciuta a contatto con povertà e disuguaglianze maggiormente rispetto a quella dei
propri genitori diverrà adulta. Proprio su una prospettiva bidimensionale della questione, tra possibili vie d’uscita ed uno
sguardo al futuro, abbiamo discusso con la nota sociologa Chiara Saraceno, membro onorario del Collegio Carlo Alberto di
Torino, e autrice – tra gli altri - del libro ‘Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi’.
Professoressa Saraceno, crede che quelle mostrate dai dati Ocse siano tendenze sintomatiche ed inevitabili
delle dinamiche economiche dentro cui ci troviamo o vi è una responsabilità di chi si è alternato alla guida del
paese dallo scoppio della crisi nel 2009? Per certi versi la crisi ha accentuato caratteristiche della povertà italiana che
erano già presenti da tempo, come la sua concentrazione nel Mezzogiorno e nelle famiglie numerose, in particolare con figli
minori. Ho fatto parte negli anni ’90 della Commissione governativa sugli studi sulla povertà, e già allora avevamo segnalato
come i minori stessero superando gli anziani tra le persone più vulnerabili rispetto all’indigenza. Così come il problema del
basso tasso di occupazione femminile, in particolare al sud, aggravato quando ci sono due o più figli e quindi famiglie con un
solo reddito o comunque un reddito basso, le quali sono sempre state a rischio povertà. È dunque un fenomeno con radici
profonde nel tempo, causato anche dalla mancanza di politiche di conciliazione, in particolare nel meridione. Con la crisi
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/poverta-giovanile-qualee-futuro-questa-generazione/
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questo si è accentuato perché la perdita di lavoro ha acuito la povertà, anche dei minori, in particolare al sud ma pure nelle
regioni del nord. E l’occupazione femminile, che già andava avanti lentamente, si è fermata. Contemporaneamente è
aumentato il fenomeno dei lavoratori poveri, come dice l’Ocse ma non solo, ovvero si ha un numero crescente di maschi
adulti che pur avendo un lavoro non dispongono di un reddito sufficiente: già alcuni anni fa l’Eurostat mostrava come in
Italia il numero di lavoratori poveri fosse più elevato rispetto a quello degli altri paesi sviluppati. Questo perché sono più
frequenti le famiglie monoreddito, che chiaramente sono più vulnerabili in quanto l’avere un'unica entrata può essere
rischioso. Dobbiamo infatti ricordare che la maggioranza dei poveri, anche quelli assoluti, non vive in famiglie in cui nessuno
lavora ma, al contrario, vive in nuclei in cui qualcuno lavora ma non guadagna abbastanza. Detto ciò, c’è anche il fatto che
noi da sempre non abbiamo politiche di sostegno al costo dei figli, né di tipo universalistico né che riguardino coloro che
versano in situazioni economiche modeste, come per esempio succede in Francia dove c’è un assegno sistematico per i figli
a partire dal secondo. Noi abbiamo misure come assegni al nucleo famigliare che però valgono solo per i lavoratori
dipendenti, un assegno per il terzo figlio ma mentre tutti i figli sono minori, un bonus bebè che riguarda solo i bambini fino ai
tre anni di età… e in questo modo abbiamo anche sprechi perché può succedere che uno possa avere diritto, in base alle
categorizzazioni tracciate, a più misure assistenziali contemporaneamente, mentre magari c’è chi, come per esempio un
lavoratore autonomo precario con partita Iva più o meno obbligatoria, non rientra tra i soggetti che possono beneficiare di
misure come quelle citate. Abbiamo quindi questo paradosso, e ciò nonostante qualcosa si sia provato a fare, ma purtroppo
sempre sotto forma di spot. Come il bonus degli 80 euro che basandosi sul reddito individuale e non familiare ha creato
situazioni di disuguaglianza assurde tra famiglie monoreddito ma sopra la soglia stabilita e altre con più redditi che però
rientravano nei paletti fissati, che tra l’altro escludevano per principio gli incapienti. Cosa si sarebbe dovuto fare? Per
prima cosa si sarebbe dovuto fare una riforma delle misure di sostegno al costo dei figli, mettendo in fila tutto quello che c’è
e iniziando ad organizzare il tutto senza i vincoli categoriali che ci sono stati finora finora. Si può fare a scalare considerando
quindi l’entità del reddito e non il tipo di reddito, o il numero di figli. Poi un reddito minimo per i poveri più decoroso del SIA
(Sostegno per l’inclusione attiva), e anche qui con il governo Letta e il ministro Giovannini era stata fatta una commissione,
di cui ho fatto parte, in cui una misura di questo tipo era stata proposta dal ministro ma senza esiti positivi poiché c’erano
altre priorità. Si dice che non ci sono abbastanza soldi per un reddito minimo decente che tocchi tutta la platea dei poveri
assoluti, ma intanto si è deciso di fare la quattordicesima per esempio. È una questione di scelte, perché è vero che i soldi
non crescono sugli alberi, ma lo è anche il fatto che quelli che ci sono si decide di spenderli in un modo piuttosto che in un
altro. Si riferisce a un reddito di cittadinanza? No, mi riferisco a un reddito minimo garantito per i poveri. Non sto
pensando a un reddito di cittadinanza, anche se mi piacerebbe dal punto di vista teorico così come a fior di studiosi che
teorizzano che sarebbe più utile e meno dispendiosa una misura di carattere universale e quindi a prescindere dal reddito.
Penso a quello che è già presente in tutta Europa ad esclusione di Italia e Grecia, dove però hanno avviato progetti in questo
senso. Quindi un reddito di garanzia per i poveri, cioè per chi è sotto al livello di povertà assoluta, che in Italia corrisponde a
4.600.000 di abitanti. Persone a cui, in una società democratica e tutto sommato ricca come quella in cui viviamo, dovrebbe
essere garantita un’entrata minima. I dati fanno intuire un’alta percentuale d’indigenza tra i giovani a prescindere
dal fatto che abbiano un lavoro o ne siano alla ricerca. Senza un cambio di rotta, che prospettive ci sono nel
futuro, non solo a breve termine, per una generazione in una situazione più precaria di quella che l’ha
preceduta? Questa situazione si configura come una mancanza di investimento sociale in capitale umano, termine che non
amo molto ma che funziona. Una società che lascia una quota ampia dei propri giovani in una situazione di grandissima
precarietà e di assoluta dipendenza dalle risorse della propria famiglia è una società non solo profondamente disuguale ma
che non investe nel proprio futuro. Una società dove addirittura si pensa che se i giovani non ce la fanno è colpa loro, come
si è sentito dire da qualche ineffabile ministro. Dentro un contesto simile è necessario che siano i giovani stessi inizino ad
attrezzarsi perché le cose cambino. Il rischio all’interno di questa generazione non è equamente distribuito, quindi questa
situazione acuisce le disuguaglianze di origine sociale in assenza di correttivi all’interno della scuola e del mondo del lavoro.
Penso alla Spagna, anch’essa messa malissimo: durante la crisi non ha tagliato, come abbiamo fatto noi, sulla formazione.
Quali riflessi ci potranno essere nel tessuto sociale italiano di domani, e anche nella mentalità collettiva,
quando quella fascia di popolazione attualmente under 18 con un tasso di povertà così alto diverrà adulta? Tra
i zero e i ventiquattro anni ci sono la metà di tutti i poveri assoluti, diversamente dalle percentuali tra gli anziani dei quali
invece si parla sempre. Questi sono ragazzi che, maggiormente rispetto alle generazioni precedenti, imparano che tutto
dipende dai genitori che hanno, fattore che in Italia ha comunque fatto sempre moltissima differenza. Quindi sono giovani
che imparano molto presto la disuguaglianza come un fatto ineluttabile e non come qualcosa che con l’impegno si può
sovvertire, come avveniva ad esempio per la generazione precedente alla mia, caratterizzata da fortissime disuguaglianze
ma dove c’era l’impressione che comunque si poteva migliorare la propria situazione rispetto a quella dei genitori. Oggi la
cosa un po’ disperante è che abbiamo la prima generazione di figli giovani adulti per la quale le chance di migliorare o
tenere le posizioni dei propri genitori sono inferiori rispetto a quelle di peggiorarla. E questo nonostante sia una generazione
più istruita rispetto quella precedente, su cui le famiglie hanno investito di più in termini di formazione e occasioni concesse.
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Non si potrà migliorare sempre dal punto di vista economico, ma allora almeno si potrebbe farlo sotto altri aspetti, come
livello di democrazia e qualità della vita, ma in realtà anche qui non è che ci siano molti progressi. La percezione è quella di
essere in una società non solo immobile ma che offre anche meno possibilità rispetto al passato. Crede che, per questa
nuova generazione, l’essere cresciuti in un contesto con più disuguaglianze, al punto dall’essersi abituati a
questo, vorrà dire essere meno solidale una volta diventata adulta, o al contrario potrebbe esserlo di più? Il
rischio di minor solidarietà di sicuro c’è. Ma questa è certamente una domanda molto interessante e aperta. Dipende molto
da come si comporteranno loro, le loro famiglie e le istituzioni, perché se il messaggio che passa è “ognuno per se”, si
rischia di incentivare quello in passato che venne definito come familismo amorale. Al contrario la comunanza nel vivere in
una situazione precaria potrebbe produrre l’opposto. Ma molto dipende da chi saprà cogliere ed elaborare un discorso su
questo, e dal come lo farà. Al momento sul piano politico, gli unici discorsi pubblici che toccano la questione sono quelli
populisti, dove c’è più una solidarietà contro, spesso alla facile ricerca di un capro espiatorio. Il problema è la mancanza di
un discorso collettivo, il quale manca aldilà di quello populista che anzi spesso viene rincorso. Bisogna dare una speranza
alle persone, e non solo indicare un capro espiatorio, sia esso la politica, l’Europa o l’immigrazione.
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