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De Iustitia
DE IUSTITIA - Rivista di informazione giuridica – www.deiustitia.it
Fondata da: Dott. Carlo Giordano - Dott.ssa Fabiana Iorio - Dott. Angelo
Rubano
Diretta da: Avv. Francesco Boccia (Direttore scientifico) - Dott. Carlo
Giordano (Condirettore Scientifico) - Dott. Angelo Rubano (Vicedirettore)
Direttore responsabile: Avv. Francesco Boccia
Comitato scientifico: Prof.ssa Carla Acocella - Dott. Andrea Aniello
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Redattori: Dott.ssa Fabiana Iorio - Dott. Luigi Lalla - Dott. Flavio Alessio
Clemente
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Registrazione: presso il Tribunale di Napoli con decreto n. 2683 del
11.02.2015
1
De Iustitia
INDICE
Editoriale
Pag. 4
PARTE I – DIRITTO AMMINISTRATIVO
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico …
Brevissime
osservazioni
a
margine
della
recente
giurisprudenza “consultiva” del Consiglio di Stato in tema di
trasposizione.
di Alessandro AULETTA.
Un anno dopo il Decreto Semplificazioni (D.lgs. 175/2014): la
tematica della retroattività dell’art. 28 e le soluzioni della
giurisprudenza.
di Ferdinando MIGLIOZZI.
Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza pubblica:
l’atavico duello tra forma e sostanza.
di Valentina FERRARA.
Pag. 6
Pag. 18
Pag. 28
PARTE II – DIRITTO CIVILE
La tutela del credito e la c.d. azione esecutiva anticipata ex
art. 2929bis c.c.
di Marco FRATINI.
Pag. 41
La crisi delle banche e il bail-in.
di Fabio SCORZELLI.
Pag. 55
2
De Iustitia
Compensazione legale e credito di nuovo sub iudice. Brevi
note a margine dell'ordinanza delle Sezioni Unite n.
18001/2015.
di Marina SFARZO.
Pag. 70
PARTE III – DIRITTO PENALE
La tutela dei diritti dei terzi di buona fede sui beni oggetto di
confisca antimafia.
di Ilaria MANNA.
Pag. 88
La natura della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di
bancarotta propria tra elemento costitutivo del reato e
condizione obiettiva di punibilità.
di Antonio SCOTTO ROSATO.
Pag. 104
Consigliere giuridico e responsabilità penali del Comandante in
teatro d’operazioni.
di Armando NOTARO.
Pag. 122
PARTE IV – IL FOCUS SOCIO-GIURIDICO
No more linguistic obfuscation: plain language to bridge the
gap between the law and the people.
di Adrian BEDFORD.
Pag. 141
3
De Iustitia
EDITORIALE
L’inizio del 2016 è segnato da una significativa accelerazione del processo
riformistico, con riguardo a settori “cruciali” dell’ordinamento.
Se è vero, come da più parti rilevato, che la riforma è ormai una funzione
pubblica permanente e che molte delle riforme più recenti (anche perché
repentinamente doppiate da ulteriori riforme) sono state prevalentemente
animate dall’intento di “conteggiare” un percorso di ammodernamento delle
strutture istituzionali del nostro Paese di fronte ai controllori europei, percorso
che però spesso si è arrestato al mero “effetto annuncio”, lo scenario che si
para innanzi per i mesi a venire è quello di una radicale trasformazione (che si
spera essere questa volta autentica) di molti complessi normativi.
Esemplifichiamo.
Quanto al diritto amministrativo, l’imperativo categorico, nell’ottica di rendere
più competitivo il c.d. sistema Paese, è quello di “alleggerire” la disciplina dei
procedimenti amministrativi diretti al rilascio di titolo abilitanti all’esercizio di
attività di rilievo economico, fino al limite massimo della liberalizzazione di
alcune di esse (e quindi della totale obliterazione dello schema del previo
provvedimento di assenso).
Vanno lette in questa chiave le deleghe contenute nella legge Madia: deleghe
di imminente attuazione, tant’è vero che sono stati già varati (ed in attesa
dell’ulteriore corso del procedimento di approvazione) gli schemi di decreti
legislativi.
Senza entrare nel merito (anche in considerazione del carattere provvisorio di
questi testi) va salutata con favore la semplificazione (se non altro sintattica)
della disciplina della conferenza di servizi – ma andranno dettate norme di
coordinamento con il nuovo art. 17-bis, introdotto dalla stessa legge Madia
con immediata efficacia precettiva –, mentre lascia insoddisfatti il sostanziale
“nulla di fatto” in relazione alla «precisa individuazione dei procedimenti
oggetto di scia, silenzio assenso, di autorizzazione espressa e di
comunicazione» (art. 5, l. Madia), definizione allo stato affidata a successivi
decreti.
Ma altre e più radicali riforme riguarderanno il pubblico impiego e, soprattutto,
la disciplina degli appalti pubblici (è recentissima l’approvazione della legge
delega che il Governo dovrà attuare con la dettatura di un nuovo Codice degli
appalti).
Sul versante penalistico va segnalata la “depenalizzazione” di una nutrita serie
di illeciti di carattere “bagatellare”, nell’ottica di alleggerire il carico giudiziario,
in molti Tribunali ormai al collasso.
4
De Iustitia
Nello stesso solco dovrebbero porsi (ma sul punto si può al momento solo
congetturare) le ulteriori modifiche al Codice di procedura civile, di cui da
tempo si parla negli ambienti giudiziari.
Cambiando versante, nel momento in cui si scrive, è al vaglio dell’aula
parlamentare la riforma sulle unioni civili, indotta dalle prese di posizione
della giurisprudenza della C.E.D.U.
Ebbene, tanto agli osservatori quanto agli addetti ai lavori, ci si propone di
fornire, già da questo numero, uno strumento che agevoli la lettura di
fenomeni evolutivi dell’ordinamento non sempre lineari.
E i contenuti di questo fascicolo – che in quest’opera di sussidio fanno il paio
con il costante aggiornamento giurisprudenziale operato sul sito web
attraverso la pubblicazione, in massima e per esteso, delle più rilevanti
pronunce delle Corti – stanno ampiamente a dimostrare l’animo di chi vi ha
contribuito: comprendere, spiegare, proporre, favorire il dibattito e lo scambio
costruttivo di idee, principalmente (ma non solo) tra giovani studiosi del
diritto.
Buon anno.
Dott. Alessandro Auletta
Magistrato ordinario
Dottore di ricerca in Diritto amministrativo
5
De Iustitia
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico…
Brevissime osservazioni a margine della recente giurisprudenza
“consultiva” del Consiglio di Stato in tema di trasposizione
di Alessandro AULETTA*
SOMMARIO: 1. A mo’ di introduzione. 2. La trasposizione tra favor
iurisdictionis ed esigenze del “giusto processo”.
1. A mo’ di introduzione.
Proprio mentre andava consolidandosi l’idea che il ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica 1 sia (diventato) un rimedio di carattere
*
Magistrato ordinario e dottore di ricerca in diritto amministrativo.
La letteratura in argomento è vastissima. Senza alcuna pretesa di fornire una rassegna
completa della gran messe di contributi dedicati al tema, si v.: V. BACHELET, Ricorso
straordinario al Capo dello Stato e garanzia giurisdizionale, in Riv. Trim. Dir. Pubbl.,1959, p.
788 (al quale si rinvia per gli ampi richiami di dottrina e giurisprudenza della prima metà del
secolo scorso); N. BASSI, Applicabilità dell’art. 295 c.p.c. ai rapporti fra ricorso straordinario al
Capo dello Stato e ricorso giurisdizionale amministrativo , in Dir. Proc. Amm.,1999, 2, p. 549; A.
BERTOLDINI, La connessione tra provvedimenti impugnati con ricorso straordinario estende il
1
regime dell’alternatività ex art. 8, comma 2, d.P.R. n. 1199 del 1971, alla trasposizione del
ricorso in sede giurisdizionale, in Foro amm., C.d.S.,2005, 6, p. 1768; L. BUSICO,
L’ammissibilità del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione dei decreti del Capo dello Stato
decisori dei ricorsi straordinari, in Annali Genova, 2003, 4, p. 1467; A. CORSARO, Ricorso
straordinario? Istituto ibrido. Via libera al giudizio di ottemperanza , in Diritto e Giustizia, 2003,
p. 43, p. 92; M.T. D’ALESSIO, N. PECCHIOLI, Ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica e rinvio pregiudiziale: la logica “fuzzy” della Corte di Giustizia, in Riv. it. Dir. pubbl.
comunit.,1998, p. 3-4, p. 699; E. D’ARPE, Il ricorso straordinario al Capo dello Stato: un antico
istituto destinato ad un rapido tramonto , in Foro amm., T.A.R., 2004, p. 10, p. 3224; N. DI
MODUGNO, Ricorso straordinario e incidente di legittimità costituzionale: un problema risolto? ,
in Dir. Proc. Amm.,2005, p. 3, p. 779; M. ESPOSITO, Si aprono le “porte del cielo” :
dall’arbitrato al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in Giur. Cost.,2001, p.
3789; F. FRENI, Quando l’abito fa il monaco. Sull’ammissibilità del giudizio di ottemperanza per
l’esecuzione delle decisioni dei ricorsi straordinari, in Foro amm., Cons.St., 2005, p. 12, p.
3737; F. GAFFURI, L’esecuzione delle decisioni sui ricorsi straordinari al Presidente della
Repubblica attraverso il giudizio d’ottemperanza: analisi del nuovo orientamento del Consiglio
di Stato, in Dir. Proc. Amm.,2001, p. 3, p. 805; M. GIOVANNINI, Il ricorso straordinario come
strumento alternativo alla giurisdizione amministrativa: il difficile percorso di un rimedio
efficace,in Dir. Amm.,2002, p. 61; M. GOLA, Nuovi sviluppi per le funzioni consultive del
Consiglio di Stato: il “caso” del parere per la decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della
Repubblica,in Dir. Proc. Amm., 1999, p. 1, p. 144; P.G. LIGNANI, Il ricorso straordinario tra
diritto ed equità, in Foro amm.,1980, p. 534; L. MAZZAROLLI, Riflessioni sul ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica,in Dir. Amm., 2004, p. 4, p. 691; ID., Ricorso
straordinario e amministrazioni indipendenti, in Dir. Amm., 2002, p. 393; V. PALEOLOGO,
6
De Iustitia
giurisdizionale, si registra un contrasto giurisprudenziale in merito ad un
profilo finora poco studiato.
Il contrasto riguarda la trasposizione del ricorso innanzi al T.A.R. da parte del
soggetto nei cui confronti lo stesso sia stato proposto 2 con riguardo alla
Ricorso straordinario, in Enc. Giur., XXVII, Roma, 1991, ad vocem; N. PIGNATELLI, La natura
del ricorso straordinario e la nozione di “giudizio”: la Corte Costituzionale e l’ ”ircocervo”, in
Giur. cost.,2005, p. 2149; A. TARASCO, Revocazione per errore di fatto del decreto decisorio
del Capo dello Stato: un’interpretazione restrittiva delle sezioni consultive , in Foro amm.,
Cons.St. ,2003, p. 10, p. 3118; ID., La funzione consultiva come attività (para) giurisdizionale:
questione di costituzionalità deferibile anche nel ricorso straordinario al Capo dello Stato, in
Foro amm., Cons.St., 2003, p. 12, p. 3874; ID., La funzione consultiva e la proponibilità
dell’incidente di costituzionalità: la Corte Costituzionale si pronuncia sulla natura del ricorso
straordinario, in Foro amm., Cons.St.,2004, p. 9, p. 2461.
Sul tema, con riferimento ai contributi intervenuti dopo le novelle del 2009-2010, cfr. almeno:
L. MARUOTTI, Il ricorso straordinario dalle origini fino alle modifiche di cui al decreto legislativo
2 luglio 2010, n. 104. La concorrenza con il giudizio civile, in www.giustamm.it ; F. FRENI,
Spigolature de jure condendo: il “nuovo” ricorso straordinario al capo dello Stato nel d.l. 1082 ,
ivi; MARTINI, Il “ricorso straordinario’” al Capo dello Stato dopo la riforma introdotta con la L.
69/2009, ivi; P. QUINTO, Il Codice e la giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario ; ID., Le
Sezioni Unite: la “giurisdizionalità” del ricorso straordinario e l’azionabilità del giudizio di
ottemperanza, ivi; ID., Consiglio di Stato e Cassazione, d’accordo, rilanciano il ricorso
straordinario, ivi; ID., L’onerosità del ricorso straordinario: il prezzo per la
giurisdizionalizzazione, ivi; ID., Le Sezioni Unite certificano “la funzione giurisdizionale” del
ricorso straordinario, ivi; sia consentito inoltre rinviare a: A. AULETTA, Giurisdizionalizzazione
del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: una partita chiusa? , in
www.giustamm.it; sul tema, da ultimo, cfr. A. CARBONE, Corte costituzionale e ricorso
straordinario come rimedio giustiziale alternativo alla giurisdizione, ivi; M. CALABRÒ, Ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica e modelli di A.D.R. nelle controversie tra cittadino e
amministrazione, ivi.
2
La disciplina dell’istituto va ricavata, oggi, dal combinato disposto degli artt. 10, d.P.R. n.
1199 del 1971 (ancora in vigore) e 48 c.p.a.: come rilevato anche dall’Adunanza Plenaria
(sentenza 6 maggio 2013, n. 9), si tratta oggi di una «speciale forma di traslatio iudicii che
anche sul piano terminologico mostra di considerare il ricorso straordinario come la
continuazione del medesimo giudizio incardinato con il ricorso al Giudice amministrativo.
Tradizionalmente, come meglio si dirà, l’istituto trovava la propria ratio nel favoriur isdictionis
ossia nella preferenza accordata dal Legislatore al (l’unico) rimedio di carattere giurisdizionale,
presso cui il ricorso poteva essere “spostato” innanzi al T.A.R.. La legittimazione a proporre
istanza di trasposizione è riconosciuta ai “controinteressati”. La Corte cost. (sentenza 29 luglio
1982, n. 148) ha ritenuto che la disposizione contenuta nel primo comma dell’art. 10, d.P.R. n.
1199 del 1971 dovesse essere considerata incostituzionale nella parte in cui non equiparava ai
“controinteressati” l’ente pubblico diverso dallo Stato che rivestisse la qualifica processuale di
“amministrazione resistente” (tale dovendo essere considerata l’amministrazione emanante
l’atto impugnato). La ragione della distinzione tra enti pubblici non statali e amministrazioni
statali va colta in ciò, che i primi, similmente ai controinteressati “privati”, non avrebbero
potuto avere alcuna influenza, neppure virtuale, sulla decisione del ricorso diversamente da
quanto accade(va) per le amministrazioni statali alla luce del rilievo che l’organo emanante il
provvedimento e quello chiamato a decidere o ad istruire il ricorso potevano appartenere allo
stesso apparato organizzatorio: di qui la necessità di estendere alle amministrazioni non statali,
7
De Iustitia
dubbia compatibilità dell’istituto (così come attualmente conformato) con i
principi del giusto processo ed in specie con quello del Giudice naturale
precostituito per legge, in quanto, a seguito dell’opposizione del
controinteressato, il ricorrente sarebbe distolto (senza possibilità di
contraddire sulla questione) dal proprio “Giudice naturale”.
Le prospettive seguite dalla giurisprudenza “consultiva” sono due.
Partendo dall’assunto (ormai del tutto prevalente) che il rimedio in esame
abbia carattere giurisdizionale3, l’istituto della trasposizione, potrebbe porsi in
in quanto non titolari della posizione privilegiata di cui godevano quelle statali, lo stesso
trattamento assicurato ai “controinteressati privati”. Di recente, peraltro, la giurisprudenza
riconosce la legittimazione a richiedere la trasposizione anche all’autorità statale emanante
l’atto impugnato (Cons. St., sez. I, 14 ottobre 2015, n. 2786): l’art. 48 c.p.a. infatti fa
riferimento, ai fini della legittimazione, alla parte “nei cui confronti sia stato proposto il ricorso
straordinario”. La ragione dell’estensione va ricercata, oltre che nel ricordato elemento
testuale, nell’esser venuto meno il presupposto che il ricorso straordinario «si svolgesse
interamente a livello governativo».
3 In questo senso si esprimono la giurisprudenza in atto prevalente e la dottrina dominante.
Per una sintesi del dibattito, sia consentito rinviare a: A. AULETTA, Il Legislatore muove un
passo (l’ultimo) verso la giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, in Foro amm. T.A.R., 2009, pp. 1619 e ss.; ID., Giurisdizionalizzazione del ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica: una partita chiusa?, cit.; ID., Le recenti vicende
del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (ovvero dell’incerta natura di un
ipotetico rimedio giurisdizionale), in Rivista Nel Diritto, 2014, p. 958.
Qui sia solo sufficiente richiamare, per punti, i vari snodi in cui si è articolata l’evoluzione in
senso giurisdizionale della natura del rimedio in esame: A) la l. n. 69 del 2009 ha introdotto nel
d.P.R. n. 1199 del 1971 due modifiche: da un lato, ha reso vincolante il parere del Consiglio di
Stato, innovando al regime previgente secondo cui l’organo decidente poteva discostarsi da
tale parere sulla scorta di una decisione in tal senso da parte del Consiglio dei Ministri,
dall’altro, ha riconosciuto alle sezioni consultive del Consiglio di Stato (allorché sono chiamate a
rendere tale potere) la legittimazione a sollevare incidenti di costituzionalità che, invero, la
Corte costituzionale aveva negato sul rilievo della natura amministrativo-giustiziale del rimedio
(Corte cost., 21 luglio 2004, n. 254); B) il Codice del processo amministrativo, all’art. 7, comma
8, ha stabilito che il ricorso straordinario può essere esperito nelle materie ove sussista la
giurisdizione del G.A., e non, come pure si ammetteva sulla scorta di una prassi consolidata, in
materie dove tale giurisdizione fosse del G.O. (tipico il caso del pubblico impiego privatizzato);
all’art. 48, invece, si dispone che, in caso di trasposizione, il giudizio “segue” innanzi al T.A.R.
(mentre nell’ipotesi in cui l’opposizione per la trasposizione sia inammissibile gli atti sono
restituiti «per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria»), ciò che implica, ad avviso di
molti, che il giudizio sia un unicum che può essere trasposto da una sede all’altra secondo un
meccanismo assimilabile a quello della traslatio. Sugli artt. 112 e 113 c.p.a. (e su come gli
stessi siano applicati con riguardo all’ottemperanza del decreto decisorio v. infra); C) l’37,
comma 6, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, come modificato dalla l. 14 settembre 2011, n. 148, di
conversione del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, e dall’art. 1, l. 24 dicembre 2012, n. 228 (c.d.
legge di stabilità) la proposizione del ricorso straordinario è stata assoggettata al versamento
del contributo unificato, analogamente a quanto accade per il ricorso in sede giurisdizionale
(sul tema, e sulle varie problematiche connesse, V. QUINTO, L’onerosità del ricorso
straordinario: il prezzo per la giurisdizionalizzazione, in www.giustamm.it).
A fronte di tale evoluzione normativa si sono verificati significative svolte giurisprudenziali:
8
De Iustitia
A) in punto di ammissibilità dell’azione di ottemperanza (tradizionalmente negata: Cass. S.U.,
18 dicembre 2001, n. 15978 e, prima ancora, Cass. S.U., 2 ottobre 1953, n. 3141), cfr., in
primo luogo, Cass. S.U., 28 gennaio 2011, n. 2065, su cui sia consentito rinviare al mio Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione e l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato si
pronunciano sulla natura giuridica del ricorso straordinario al Presidente delle Repubblica: luci
ombre ed implicazioni “di regime” della compiuta (?) giurisdizionalizzazione del rimedio , in
Rivista Nel Diritto, 2011, 759 e ss.. In senso conforme alla citata pronuncia, v., tra le tante,
nell’ambito della giurisprudenza delle Sezioni Unite: Cass. S.U., 10 marzo 2011, n. 5684; 28
aprile 2011, n. 9447; 19 luglio 2011, n. 15765; 13 ottobre 2011, n. 21056; 22 dicembre 2011,
n. 28345; 28 dicembre 2011, n. 29099; 15 marzo 2012, n. 2129; si è poi discusso, una volta
ammessa l’esperibilità dell’azione di ottemperanza, sui profili relativi alla individuazione del
Giudice competente a conoscerne: se in specie dovesse trattarsi di un Tribunale amministrativo
regionale, in applicazione del combinato disposto dell’art. 112, lett. d) e 113 c.p.a. (Cons. St.,
sez. III, 4 agosto 2011, n. 4666/o.; sez. I, parere 7 maggio 2012, n. 2131, sez. VI, 1° febbraio
2013, n. 636 e, in dottrina, S. TARULLO, Il giudizio di ottemperanza alla luce del Codice del
processo amministrativo, in www.giustamm.it e A. AULETTA, Giurisdizionalizzazione del ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica: una partita chiusa? , cit.), ovvero del Consiglio di
Stato, alla stregua del combinato disposto dell’art. 112, lett. b) e 113 c.p.a. (come infine
ritenuto da Cons. St. A.P. 6 maggio 2013, n. 9);
B) in punto di ammissibilità del ricorso per motivi di giurisdizione cfr. Cass. S.U., 19 dicembre
2012, n. 23464, che va in contrario avviso alla giurisprudenza un tempo consolidata: Cass.
S.U., 14 dicembre 2004, n. 23236; Cass., S.U., 4 ottobre 1974, n. 2601; Cass. S.U., 11
novembre 1988, n. 6075;
C) la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla q.l.c. dell’art. 7, comma 8, c.p.a., ed in
specie sulla censura relativa all’eccesso di delega in quanto, innovando rispetto al passato, il
Legislatore delegato avrebbe disatteso il criterio direttivo di operare un mero “riordino” della
normativa in materia processuale, condotto tenendo conto della giurisprudenza delle
giurisdizioni superiori, l’ha rigettata, in base alla considerazione che «la disposizione censurata
non si riferisce ad un oggetto estraneo alla delega per il riassetto della disciplina del processo
amministrativo, contenuta nell'art. 44 l. n. 69 del 2009, la quale include, fra l'altro, il riordino
delle norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre
giurisdizioni; e il Legislatore delegato ha inteso coordinare i rapporti fra la giurisdizione
amministrativa e l'ambito di applicazione di un rimedio giustiziale attratto per alcuni profili
nell'orbita della giurisdizione amministrativa medesima, in quanto metodo alternativo di
risoluzione di conflitti, pur senza possederne tutte le caratteristiche; né la medesima
disposizione produce un effetto innovativo incompatibile con la natura della delega, che
autorizza l'esercizio di poteri innovativi della normazione vigente, a condizione che siano
strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita con
l'operazione di riordino o riassetto, mentre la disposta limitazione del ricorso straordinario alle
sole controversie devolute alla giurisdizione amministrativa ha superato il precedente assetto
elaborato "praeter legem" dalla prassi e fondato sulla presupposta natura amministrativa di
tale rimedio, che ne consentiva l'esperibilità, in regime di concorrenza e non di alternatività,
anche per controversie devolute alla giurisdizione ordinaria; sicché, venuto meno tale
presupposto in seguito alle novità normative, il Legislatore delegato ha evitato un'inammissibile
sovrapposizione fra un rimedio giurisdizionale ordinario e un rimedio giustiziale amministrativo,
che è a sua volta alternativo al rimedio giurisdizionale amministrativo e ne ricalca solo alcuni
tratti strutturali e funzionali (sent. n. 162 del 2012)». Sull’arresto della Corte costituzionale si
veda, se si vuole, A. AULETTA, Le recenti vicende del ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica (ovvero dell’incerta natura di un ipotetico rimedio giurisdizionale) , in Rivista Nel
9
De Iustitia
contrasto con gli artt. 47 e 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.4.
È questa la posizione espressa dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato
con il parere del 15 luglio 2015, n. 2609.
Rovesciando i termini del ragionamento – e quindi negando che il rimedio
straordinario rivesta il carattere della giurisdizionalità – si orienta in senso
diametralmente opposto la Prima Sezione del Consiglio di Stato, con il parere
18 dicembre 2015, n. 3496.
2. La trasposizione tra favor iurisdictionis ed esigenze del “giusto
processo”.
Entrambe le prospettive, sebbene per ragioni e con intensità diverse, non
sono, a giudizio di chi scrive, pienamente appaganti, malgrado l’autorevolezza
dei Collegi decidenti.
A)
Principiamo dalla pronuncia più recente, che, negando la natura
giurisdizionale del rimedio (per far salva la compatibilità con il sistema della
trasposizione), è quella che desta maggiori perplessità.
In primo luogo, desta perplessità la constatazione che, a leggere il parere in
questione, l’annoso dibattito sulla qualificazione del rimedio straordinario
sembra non aver lasciato alcun segno, dacché si richiama a sostegno della
Diritto, 2014, pp. 958 e ss.; in termini sostanzialmente adesivi sulla intrinseca ambiguità di
questa argomentazione M. CALABRÒ, Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e
modelli di A.D.R. nelle controversie tra cittadino e amministrazione, in www.giustamm.it;
D) sono rimaste oggetto di dibattito le seguenti questioni:
1) all’applicabilità dell’art. 295 c.p.c. in caso di concorrenza tra il rimedio
giurisdizionale e quello straordinario (in senso affermativo: T.A.R. Campania,
Napoli, sez. IV, 12 luglio 2011, n. 3736);
2) all’applicabilità del termine di sospensione feriale (in senso affermativo: T.A.R.
Veneto, Venezia, sez. II, 11 dicembre 2013, n. 1406);
3) all’applicabilità dell’istituto della traslatio iudicii (in senso affermativo: C.G.A.R.
Sicilia, sez. riun., parere 10 luglio 2012, n. 1581);
4) alla possibilità di investire l’Adunanza Plenaria della soluzione di contrasti
interpretativi evidenziatisi in sede di decisione di un ricorso straordinario (in senso
affermativo: C.G.A.R. Sicilia, 10 maggio 2013, n. 462);
5) all’applicabilità della legge Pinto in caso di irragionevole durata del procedimento
decisorio (in senso negativo: Cass. civ., sez. I, 6 ottobre 2006, n. 21567);
6) all’applicabilità della legge Vassalli sulla responsabilità dei magistrati.
4 Laddove si sancisce, rispettivamente, il diritto di ogni individuo a che la sua causa sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice
indipendente ed imparziale, precostituito per legge (art. 47, che trova parziale testuale
corrispondenza anche nell’art. 6 C.E.D.U.) e il divieto di abuso del diritto sotto forma di divieto
di interpretare le disposizioni della citata Carta in senso limitativo rispetto alle libertà ivi
disciplinate (art. 54).
10
De Iustitia
presa di posizione sulla relativa natura amministrativo-giustiziale il parere n.
2553 del 2014 che rappresenta, nell’ambito dell’attuale panorama
giurisprudenziale, un precedente del tutto isolato.
Ad esempio, anche a voler tralasciare tutte le “puntate precedenti” 5, non si fa
alcuna menzione della recente ordinanza con cui l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato6 ha rimesso alla Corte costituzionale la delicata questione
concernente una normativa che intacca, determinandone il travolgimento,
decreti decisori emessi in epoca anteriore al 2009-2010.
Non è il caso di ripercorrere qui la complessa vicenda.
Basti dire che la premessa da cui parte l’Adunanza Plenaria è che, con
riguardo ai decreti emanati dopo le suddette riforme, non si può seriamente
dubitare del carattere giurisdizionale del ricorso e, quindi, del decreto
decisorio, con tutto quanto ne discende (così come rilevato da una
giurisprudenza ormai solida sul punto) in relazione alla esperibilità del rimedio
dell’ottemperanza e del ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione7.
Detto questo, anzi malgrado questo (malgrado il fatto, cioè, che i soli decreti
decisori emanati nel vigore della nuova disciplina rivestono i suddetti
caratteri), la Plenaria dubita della compatibilità con la C.E.D.U. (e quindi con
la Costituzione) dell’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, l. n. 388
del 2000 nella parte in cui tale norma, sancendo la portata retroattiva
dell’abrogazione dell’art. 4, comma 9, l. n. 425 del 1984 (norma che a sua
volta aveva riconosciuto ai ricorrenti uno “scatto di anzianità” che
l’amministrazione si era rifiutata di corrispondere), prevede che detta
abrogazione possa travolgere posizioni individuali suggellate in decisioni rese
in sede straordinaria e dotate del crisma della definitività.
In specie, la norma censurata ha previsto che l’effetto abrogativo non
colpisce le decisioni “giurisdizionali”, e quindi avrebbe implicitamente escluso
dalla copertura di tale “scudo” le decisioni che (per essere adottate in un
regime anteriore alla giurisdizionalizzazione) non rivestano tali caratteri.
La presa di posizione della Plenaria sulla questione di principio è quindi netta
e perentoria: il ricorso straordinario esibisce, a seguito delle riforme (cui si
Sintetizzate supra in nota 3.
Si tratta di Cons. St., A.P., 14 luglio 2015, n. 7, in Rivista Nel Diritto, 2015, 2066 e ss., con
mie brevi osservazioni.
7 V. retro nota 3.
5
6
11
De Iustitia
annette natura sostanziale ed innovativa 8 ), i caratteri di un rimedio
giurisdizionale o comunque ad esso assimilabile, ponendosi solo per ricorsi
decisi anteriormente alla riforma la difficoltà di ritenere che si tratti di
decisioni “giurisdizionali”, ai fini dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo
comma, l. n. 388 del 2000.
Stupisce, invero, che la Prima Sezione non spenda neppure una parola per
mettere in discussione tale orientamento, o quanto meno non operi alcun
“distinguo” volto a restringerne la portata (con riferimento all’aspetto
specificamente trattato dalla Sezione consultiva).
Il parere del dicembre 2015 desta, come si diceva, perplessità non solo per
ciò che non dice, ma anche (e forse soprattutto) per ciò che dice.
Ad avviso della Sezione consultiva, tanto per cominciare, “la Corte E.D.U. ha
escluso che il procedimento per ricorso straordinario ricada nell’ambito di
applicazione dell’art. 6 C.E.D.U. con le sentenze nei casi Nardella in data 28
settembre 1999, Naselli Rocca in data 31 maggio 2005, Tarantino in data 2
aprile 2013”.
L’esattezza dei riferimenti giurisprudenziali citati, però, non toglie che:
i) si tratta di pronunce anteriori alla “giurisdizionalizzazione” e che quindi
“scontano” il quadro normativo di riferimento vigente al momento in
cui la Corte di Strasburgo si è pronunciata;
ii) la giurisprudenza E.D.U. ha in altre occasioni affermato la piena
cogenza dei principi di effettività (così come ricavabili dall’art. 6
C.E.D.U.) ai provvedimenti “ equated to a Court decision”9.
Ne discende che, pur volendo (per assurdo) ritenere che il procedimento
decisorio del ricorso straordinario abbia natura amministrativo-giustiziale,
l’esclusione del ricorso straordinario dall’ambito applicativo dell’art. 6 C.E.D.U.
8
Il punto era, invero, disputato: a fronte della tesi della natura innovativa della riforma (A.
AULETTA, Giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: una
partita chiusa?, cit.), erano state proposte diverse interpretazioni. In specie, secondo taluno, la
riforma ha avuto carattere meramente interpretativo: L. CARBONE, La revisione del ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica e la riaffermata natura giurisdizionale del rimedio di
tutela, in www.giustizia-amministrativa.it); secondo una diversa e (nella pur avversata
conclusione) più condivisibile prospettazione, la funzione di attuare la “revisione” di un rimedio
che già in nuce possedeva i tratti della giurisdizionalità (Cass. S.U., 19 dicembre 2012, n.
23464).
9 C.E.D.U., 29 aprile 1988, Belilos c. Svizzera; 20 dicembre 2005, Trykhlib c. Ucraina; 15
dicembre 2004, Romashov c. Ucraina, spec. par. 41; cfr. inoltre C.E.D.U., 16 dicembre 2006,
Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romosirov c. Ucraina; 19 marzo 1997, Hornsby c. Grecia,
citate da Cons. St., Ad. Plen., 14 luglio 2015, n. 7.
12
De Iustitia
non appare così pacifica come si potrebbe ricavare dalla lettura del parere.
In ogni caso, la prospettiva più corretta sarebbe stata, a nostro sommesso
avviso, quella di promuovere un giudizio di legittimità costituzionale sul rilievo
che la disciplina del rimedio (della cui natura giurisdizionale la prevalente
giurisprudenza si dice certa) appare (ancora) deficitaria sotto il profilo delle
garanzie del “giusto processo”.
D’altronde, la giurisprudenza che si è occupata approfonditamente della
questione 10 , muovendo dal presupposto (ampiamente dimostrato) della
mutata natura dell’istituto, e pur rilevando che nella disciplina dello stesso
residuano degli aspetti deteriori rispetto al ricorso al T.A.R. quanto al
perimetro delle azioni esperibili11, alle forme di esplicazione del contraddittorio,
alle modalità di svolgimento dell'istruttoria e al novero dei mezzi di prova
acquisibili, ha ritenuto che spetti alla giurisprudenza medesima, nel segno del
principio di effettività, il compito di enucleare, in via interpretativa, delle
soluzioni volte a ricondurre il rimedio nell’alveo dei principi costituzionali
(quando a ciò non provveda lo stesso Legislatore nell’ottica di approfondire il
processo di giurisdizionalizzazione che ha riguardato, dal 2009, l’istituto),
ovvero, laddove non sia praticabile una “lettura costituzionalmente orientata”
delle norme conferenti, di investire della questione il Giudice costituzionale.
Per analoghe ragioni anche la successiva osservazione della Sezione
consultiva prova troppo.
Osserva il Consiglio di Stato che (a riprova di quanto sopra) «nell’ordinamento
interno non risultano neppure pronunce di indennizzo per la irragionevole
durata del procedimento per ricorso straordinario, in quanto l’esclusione
dell’applicabilità a questo istituto dell’art. 6 C.E.D.U. e quindi della legge 24
marzo 2001, n. 89 [...] è frutto di una interpretazione sistematica che tiene
conto del fatto che il procedimento si svolge per una parte notevole in ambito
governativo».
Ebbene, se è vero che non si registrano allo stato pronunce favorevoli ad
ammettere l’estensione della legge Pinto al procedimento decisorio del ricorso
straordinario (estensione invero esplicitamente negata da Cass., sez. I, 6
ottobre 2006, n. 21567 12 ), non è men vero che, a seguito della
10
Cfr. Cass. S.U., 19 dicembre 2012, n. 23464 e Cons. St. A.P., 6 maggio 2013, n. 9.
Si continua, ad esempio, a negare l’ammissibilità della domanda risarcitoria in sede
straordinaria: Cons. St., sez. II, 24 febbraio 2015, n. 8183, e ciò pare contrastare con l’idea,
fatta propria dal Legislatore del Codice del processo amministrativo, di porre il rimedio
straordinario e quello ordinario su di un piano di perfetta alternatività (il che implicherebbe, a
nostro modo di vedere, la necessaria identità delle domande proponibili nell’una e nell’altra
sede).
12 Una soluzione identica (sebbene sulla scorta di motivi in parte differenti) è stata seguita
dalla giurisprudenza della Cassazione con riferimento all’esclusione dei processi in materia
tributaria dall’ambito applicativo dell’art. 6 C.E.D.U. e, quindi, della c.d. l. Pinto. In questo
11
13
De Iustitia
giurisdizionalizzazione,
è
possibile
ipotizzare
un
mutamento
di
giurisprudenza13, così come avvenuto in relazione all’applicabilità dell’istituto
della traslatio iudicii 14 ovvero alla deferibilità all’Adunanza Plenaria della
soluzione di contrasti insorti tra pronunce rese dalle Sezioni consultive,
quando rendono il parere per la decisione del ricorso straordinario, e le
Sezioni giurisdizionali 15 , oltre che con riferimento alle più note questioni
dell’ammissibilità dell’azione di ottemperanza o del ricorso per motivi di
giurisdizione (v. supra).
E ancora il richiamo alla pronuncia n. 73 del 2014 della Corte costituzionale,
ed in specie al passaggio ove si osserva che per effetto delle recenti riforme
«l'istituto ha perduto la propria connotazione puramente amministrativa ed ha
assunto la qualità di rimedio giustiziale amministrativo, con caratteristiche
strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo
amministrativo», oltre a confermare prima facie l’assunto della “mutata
natura” dell’istituto, non tiene conto del fatto che il tenore complessivo della
decisione sia nel senso della tendenziale sovrapponibilità tra il rimedio
ordinario e quello straordinario.
Vero è però che la pronuncia del Giudice delle leggi è stata oggetto di critica
in quanto pare a chi scrive che non si possa, da un lato, affermare la
pertinenza della riforma in questione all’oggetto della delega legislativa
(riordino delle norme sulla giurisdizione) e, dall’altro, negare che possa
senso, v. Cass. 24 settembre 2012, n. 16212, nonché Cass. 27 agosto 2004, n. 17139. In
specie, in tale ultima pronuncia, la S.C. ha motivato la suddetta esclusione sulla scorta del
rilievo che la stessa si pone «in conformità delle indicazioni (delle quali occorre tener conto,
attesa la coincidenza dell'area di operatività dell'equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del
2001 con quella delle garanzie assicurate dalla citata convenzione) emergenti dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, indicazioni che si muovono nel senso
della non estensibilità del campo di applicazione del detto art. 6 della convenzione alle
controversie tra il cittadino ed il fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi, stante
l'estraneità ed irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile, cui
ha riguardo il già citato art. 6». La giurisprudenza citata non trova il favore della dottrina
tributarista: MICELI, Giusto processo tributario: un nuovo passo indietro della giurisprudenza di
legittimità, in Riv. dir. trib., 2004, II, 759. Ai nostri fini la menzione di questa giurisprudenza
serve a far constare che l’esclusione di un rimedio dall’ambito applicativo della legge Pinto
(esclusione che, nel caso del ricorso straordinario, si ripete, è stata predicata con riguardo ad
una disciplina positiva diversa da quella attuale e meriterebbe, pertanto, di essere rivisitata)
non può essere assunta ad indice esclusivo (o quasi) della sua natura non giurisdizionale.
13 Per tutti v. R. GAROFOLI - G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo , VIII ed., RomaMolfetta, 2015, spec. p. 1980, nonché, se si vuole, il mio contributo in Focus concorso
magistratura 2015, in Rivista Nel Diritto, 2015, pp. 1718 e ss..
14 C.G.A.R. Sicilia, sez. riun., parere 10 luglio 2012, n. 1581, cit., relativa al caso di un ricorso
straordinario presentato al Presidente della Regione Sicilia – competente a mente dello Statuto
di tale Regione a decidere siffatti ricorsi – anziché al Presidente della Repubblica.
15 C.G.A.R. Sicilia, 10 maggio 2013, n. 462, cit..
14
De Iustitia
parlarsi del ricorso straordinario come di un rimedio perfettamente fungibile,
non solo per quanto attiene alla definizione dell’ambito applicativo, ma anche
per quanto attiene alla relativa natura giuridica, al rimedio giurisdizionale
propriamente detto16.
Infine, il rilievo che l’ammissione delle Sezioni consultive a sollevare questioni
pregiudiziali di compatibilità del diritto interno con quello europeo non attesti
il carattere “giurisdizionale” delle stesse – posto a conclusione dell’impianto
motivazionale del parere – rappresenta un rilievo già proposto dalla dottrina
meno recente17.
Tuttavia questo argomento non può essere riguardato isolatamente (come
poteva esserlo quando mancavano altri indici della “giurisdizionalità” del
rimedio), ma va inscritto nel quadro complessivo degli elementi che
depongono nel senso della natura giurisdizionale del ricorso straordinario: ad
esempio il riconoscimento di identica legittimazione a sollevare incidenti di
costituzionalità che, alla stregua del combinato disposto dell’art. 1, l. cost. n.
1 del 1948 e degli artt. 23 e ss., l. n. 87 del 1953 (norme queste ultime
espressamente richiamate dal novellato art. 13, d.P.R. n. 1199 del 1971),
sono proposti da un “giudice” nell’ambito di un “giudizio”.
B)
Il parere della Seconda Sezione, invece, imposta la questione in
termini differenti (e, tutto sommato, maggiormente condivisibili).
La premessa da cui si parte è che, alla luce del quadro normativo vigente e
dell’orientamento prevalente in giurisprudenza, il rimedio straordinario abbia
carattere giurisdizionale.
Ciò posto, osserva la Seconda Sezione, deve ritenersi superata la originaria
ratio dell’istituto della trasposizione individuata nel favor iurisdictionis, vale a
dire nel riconoscimento del diritto di procurare la instaurazione di un vero e
proprio processo, evidentemente sull’assunto che il rimedio straordinario non
potesse essere qualificato come tale.
Si afferma quindi che «il principio pienamente accolto sia nel diritto
comunitario che in quello costituzionale nazionale, secondo cui nessuno può
V. ancora A. AULETTA, Le recenti vicende del ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica (ovvero dell’incerta natura di un ipotetico rimedio giurisdizionale) , cit.; in termini
16
sostanzialmente adesivi sulla intrinseca ambiguità di questa argomentazione M. CALABRÒ,
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e modelli di A.D.R. nelle controversie tra
cittadino e amministrazione, in www.giustamm.it.
17 G. FERRARI, I ricorsi amministrativi, in Trattato di Diritto Amministrativo , a cura di S.
CASSESE, Milano, 2003, V, p. 4140 secondo cui l’art. 177 del Trattato «mira a ricondurre ad
una categoria unitaria istituti giuridici di provenienza diversa», all’uopo assegnando un rilievo
significativo ad elementi che, valutati nell’ambito degli ordinamenti nazionali, non avrebbero un
peso decisivo in punto di qualificazione della natura giuridica della funzione svolta.
15
De Iustitia
essere distolto al Giudice naturale precostituito per legge, non consente in
alcun modo che l’individuazione dell’ufficio avente giurisdizione e competenza
possa avvenire […] per effetto soltanto di una scelta di parte, e a maggior
ragione per un mero calcolo di convenienza o di tattica processuale a
vantaggio soltanto di una di esse».
Ebbene, pur essendo vera la premessa da cui parte il Collegio (e cioè che sia
mutata, insieme alla natura del ricorso straordinario, la funzione della
trasposizione), sembra si possa evidenziare un contrasto più radicale con i
principi basilari del processo amministrativo rispetto a quello ipotizzato dalla
Seconda Sezione (che in sintesi si risolve nella lesione del diritto del ricorrente
di contraddire alla scelta processuale della controparte di “portare” il ricorso
innanzi al T.A.R.).
Rilevato, infatti, che il termine per proporre il ricorso straordinario è di
centoventi giorni (a fronte dei sessanta entro cui, ordinariamente, lo stesso
va proposto il ricorso al T.A.R.), se il ricorso straordinario fosse proposto tra il
sessantunesimo ed il centoventesimo giorno dalla piena conoscenza del
provvedimento lesivo la eventuale trasposizione dello stesso in sede ordinaria,
chiamato a pronunciarsi sulla domanda di annullamento sarebbe un T.A.R.
che, se fosse stato adito in prima battuta, avrebbe dovuto dichiarare il ricorso
inammissibile perché tardivo.
L’ammissibilità della trasposizione, unita alla conservazione di diversi termini
di decadenza con riguardo alle due tipologie di rimedio, porterebbe (o
potrebbe portare) all’aggiramento del termine decadenziale previsto per
proporre il ricorso al T.A.R., visto che, a seguito della trasposizione, innanzi al
Giudice territoriale vi sarebbe la “prosecuzione” di un giudizio che, se
proposto ab origine in tale sede, non sarebbe mai sfociato in una pronuncia
sul merito della domanda.
Si vuole dire in altri termini che, se pure fossero previsti dei “correttivi”
riguardo alla lesione del diritto al contraddittorio sulla istanza di trasposizione,
mantenendo ferma la diversità dei termini dati per proporre il rimedio
ordinario e quello straordinario, l’istituto in esame (in ipotesi perfezionato
sotto il profilo del contraddittorio) può dar luogo ad una conseguenza ben più
paradossale e distonica rispetto ai principi, come quella più sopra ipotizzata.
Sicché, l’alternativa (evidentemente in una prospettiva de iure condendo)
sempre essere tra:
a) sincronizzare i termini per proporre il ricorso ordinario e quello
16
De Iustitia
straordinario e, al contempo, conservare l’istituto della trasposizione
(quantunque “migliorandolo” sotto il profilo del contraddittorio);
b) mantenere differenziati i termini di proposizione dei due ricorsi e
abolire l’istituto della trasposizione perché potrebbe prestarsi, prima
ancora che ad una violazione dei principi del giusto processo, alla
finalità di aggirare i termini di decadenza, vanificando la indispensabile
esigenza di certezza delle statuizioni provvedimentali cui sono essi
termini sono preordinati.
D’altro canto, un sistema dove sia la parte ricorrente a scegliere innanzi a
quale “Giudice” portare la propria domanda tra quelli precostituiti dalla legge
appare del tutto in linea con la previsione, nel Codice di procedura civile, di
fori alternativamente concorrenti (si pensi ai casi previsti dagli artt. 19 e 20
c.p.c.).
17
De Iustitia
Un anno dopo il Decreto Semplificazioni (d.lgs. 175/2014): la
tematica della retroattività dell’art. 28 e le soluzioni della
giurisprudenza
di Ferdinando MIGLIOZZI*
SOMMARIO: 1. Il d.lgs. 21 novembre 2014 n.175 in breve. 2. L’art. 28, è
vera semplificazione? 3. L’art. 28, prime perplessità: l’ambito oggettivo di
applicazione. 4. L’art. 28, prime perplessità: l’ambito cronologico di
applicazione e l’interpretazione fornita dalla Agenzia delle Entrate. 5. Le prime
soluzioni rese dalle Corti di Merito. 6. L’intervento risolutivo della Corte di
Cassazione. 7. Le soluzioni più recenti. 8. Conclusioni.
1. Il D.lgs. 21 175/2014 in breve.
Il d.lgs. del 21 novembre 2014 n. 175, c.d. “Decreto Semplificazioni” è noto ai
più per aver introdotto il nuovo modello 730 precompilato, con il quale i
contribuenti hanno già avuto modo di interfacciarsi.
Tra le novità spiccano i cambiamenti apportati al regime sanzionatorio previsto
per gli intermediari abilitati nonchè le modifiche alla disciplina sulle società in
perdita sistematica che sono sottoposte a un nuovo periodo di osservazione,
non più di tre mesi ma di cinque mesi.
I cambiamenti introdotti dal Governo sono stati realizzati in adempimento alla
Legge delega 11 marzo 2014 n. 23, con cui il Parlamento ha affidato al
Governo il compito di rendere il sistema fiscale più equo, trasparente ed
orientato alla crescita, sempre nel rispetto dei principi dettati dalla
Costituzione, dall’Unione Europea e dallo Statuto dei diritti del contribuente.
Sostanzialmente, l’obiettivo del Legislatore era quello di revisionare gli
adempimenti delle Amministrazioni finanziarie puntando ad eliminare i
passaggi superflui e le duplicazioni inutili, ed eliminando quindi gli ostacoli che
troppe volte hanno reso difficoltosa l’attività di controllo e di accertamento
espletata dall’Amministrazione finanziaria.
In tal senso, l’introduzione del modello 730 precompilato è apparsa fin da
subito in linea con gli obiettivi del Legislatore, dal momento che il nuovo
modello ha facilitato anche gli oneri a carico dei contribuenti.
Questi ultimi, infatti, non devono ritenersi più “dichiaranti” ma sono diventati
“accettatori” di una dichiarazione precompilata.
2. L’art. 28, è vera semplificazione?
*
Avvocato.
18
De Iustitia
Altrettanto non può dirsi per le novità recate dall’art. 28 del d.lgs. 175/2014
recante “Coordinamento, razionalizzazione e semplificazione di disposizioni in
materia di obblighi tributari”.
Questa disposizione al comma 3 espressamente stabilisce che: «ai soli fini
della validità e dell'efficacia degli atti di liquidazione, accertamento,
contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi,
l'estinzione della società di cui all'articolo 2495 del codice civile ha effetto
trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle
imprese».
In parole povere, il Legislatore ha “allungato” di cinque anni la “vita” delle
società che vengono cancellate dal registro delle imprese, ma solamente per
quanto riguarda l’ambito tributario, salvaguardando l’efficacia degli eventuali
atti di riscossione dei tributi.
Orbene, già da una prima lettura, appare evidente che la suddetta norma non
è in linea con gli obiettivi di semplificazione dettati dal Legislatore, e ciò ha
lasciato a più di qualche operatore il dubbio che la stessa sia affetta da
illegittimità costituzionale per superamento dei limiti dettati dalla legge delega.
L’art. 28 del d.lgs. 175/2014, come anticipato, va ad incidere in maniera
evidente sulla portata dell’art. 2495 c.c., disciplinante la cancellazione delle
società, modificandone in misura estensiva l’ambito di applicazione.
Al contempo, è previsto un regime di responsabilità personale per i liquidatori
per le imposte dovute e non versate dalla società.
Infatti, il Governo ha modificato anche l’articolo 36 del d.P.R. 29 settembre
1973 n. 602, sostituendo il primo comma con il seguente: «i liquidatori dei
soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono
all'obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il
periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in
proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i
crediti tributari anteriormente all'assegnazione di beni ai soci o associati,
ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale
responsabilità è commisurata all'importo dei crediti d'imposta che avrebbero
trovato capienza in sede di graduazione dei crediti».
Per cogliere la portata innovativa delle citate modifiche occorre sinteticamente
partire dal sistema previgente.
Nel regime antecedente il decreto Semplificazioni alla cancellazione dal
Registro delle Imprese era unanimemente riconosciuta un’efficacia costitutiva,
dal momento che alla richiesta di cancellazione seguiva l’estinzione della
società.
Del resto, anche secondo la giurisprudenza, «la cancellazione dal registro
Imprese determinata automaticamente l’estinzione sia della società di capitale
che di quella di persone; id est: le stesse non esistono più come soggetti
19
De Iustitia
giuridici».
Ciò comportava che l’Ente impositore non poteva più avanzare pretese
avverso la società cessata e gli eventuali atti impositivi notificati all’azienda
erano, di fatto, emessi a carico di un soggetto inesistente e, in quanto tali,
dovevano ritenersi nulli.
Ciò però non impediva al fisco di azionare le proprie pretese nei confronti dei
soci nei limiti delle somme da questi percepite con la liquidazione della società,
oppure nei confronti dei liquidatori qualora il mancato pagamento delle
imposte fosse dipeso da una colpa di questi ultimi.
In quel caso gravava sull’Ente l’onere di dimostrare che il liquidatore avesse
sottratto risorse alla soddisfazione dei crediti erariali oppure che il socio avesse
ottenuto l’assegnazione di somme che non gli spettavano.
Considerato, da un lato, che sovente gli Enti impositori notificavano gli atti a
società cessate intestandoli a queste ultime come se la società fosse ancora
attiva, dall’altro, le difficoltà connesse alla dimostrazione da parte dell’Ente
impositore della colpa dei liquidatori, accadeva molto spesso che le pretese
erariali fossero destinate a cadere nel vuoto.
Per questo motivo il Legislatore con l’art. 28 in commento è intervenuto su
due fronti, da una parte stabilendo che ai soli fini degli atti legati
all’accertamento, al contenzioso ed alla riscossione dei tributi, l’estinzione ha
effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione.
Dall’altra parte il Legislatore ha altresì previsto una responsabilità presunta per
il liquidatore, invertendo l’onere della prova e “scaricando” su quest’ultimo il
compito di dimostrare che il ricavato della liquidazione è stato utilizzato per
soddisfare «crediti di ordine superiore a quelli tributari».
Così strettamente analizzato l’intervento normativo, appare evidente che i
suddetti cambiamenti esulano dagli obiettivi di semplificazione dettati dalla
legge delega ma si giustificano solo in ragione dell’”avidità” del Legislatore che
in un periodo di sfavorevole congiuntura economica ha utilizzato tutta la sua
“fantasia” per procacciarsi ulteriori risorse.
3. L’art. 28, prime perplessità: l’ambito oggettivo di applicazione.
Tuttavia, non è solo la ratio posta a base del d.lgs. 175/2014 a destare
qualche perplessità, atteso che le innovazioni apportate dall’art. 28 hanno
evidenziato più di qualche problematicità per quanto riguarda l’ambito
applicativo della stessa norma.
Ciò che è apparso iniquo fin da subito è stato il favor dei crediti erariali in
luogo dei crediti vantati dai privati, per i quali non opera l’ultrattività
quinquennale.
In secondo luogo, la previsione dell’ultrattività quinquennale sembra anche
“sbilanciata” a favore dell’ente impositore dal momento che essa riguarda
20
De Iustitia
esclusivamente il lato “passivo” dei rapporti con le Amministrazioni escludendo,
ad esempio, la possibilità che una società estinta possa attivare le procedure
per ottenere un rimborso fiscale.1
Infine, ciò che ha destato maggiori perplessità è l’ambito spaziale e temporale
di applicazione della norma: cioè quali tipologie di crediti erariali rientrano
nella fattispecie e, soprattutto, la norma in questione è retroattiva? È possibile
inviare un atto di accertamento a carico di una società estinta già nel 2013?
Relativamente all’ambito oggettivo di applicazione si è già detto che la norma
in questione fa riferimento agli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso
e riscossione di tributi, contributi sanzioni e interessi.
Nella sua accezione più ampia, quindi, la norma si riferisce non solo alle
imposte dirette, all’I.V.A. ed ai contributi previdenziali ma anche ad altri tributi,
ad esempio l’I.M.U. e i dazi doganali.
Tuttavia tale ambito di applicazione, per quanto ampio possa essere, resta
comunque limitato ai crediti “fiscali”.
Ciò vale ad escludere ad esempio l’ipotesi in cui un’Amministrazione Statale
tramite l’Ente riscossore invii un atto di accertamento per la ripetizione delle
somme relative a un contributo industriale concesso ma mai utilizzato dal
beneficiario.
Si pensi, ad esempio, ai contributi concessi alle imprese nell’ambito delle
politiche dettate in favore del territorio, per lo sviluppo di particolari attività
produttive oppure a seguito di una calamità naturale.
In quel caso, si tratta evidentemente di un credito ordinario, che sicuramente
non ha “natura fiscale” e, in quanto tale, esula dall’ambito di applicazione
dell’art. 28 d.lgs. 175/2014, e soggiace al regime dei crediti ordinari, per i
quali, a norma del d.P.R. 600/1973, l’atto di accertamento può essere
notificato direttamente all’ultimo domicilio della società entro un anno di
tempo dalla cancellazione di quest’ultima dal Registro delle Imprese.
4. L’art. 28, prime perplessità: l’ambito cronologico di applicazione e
l’interpretazione fornita dalla Agenzia delle Entrate.
La tematica più scottante, però, è quella relativa all’ambito cronologico di
applicazione della normativa in commento.
Sul punto, è ben nota agli operatori del settore la circolare 31/E resa
dall’Agenzia delle Entrate addì 30.12.2014, con cui l’Agenzia ha stabilito che
«trattandosi di norma procedurale, si ritiene che la stessa trova applicazione
anche per attività di controllo fiscale riferite a società che hanno già chiesto la
cancellazione dal Registro delle Imprese o già cancellate dallo stesso registro
prima della data di entrata in vigore del decreto in commento».
cfr. Decreto Semplificazioni Fiscali: “L’inferno fiscale quinquennale” delle società estinte;
D. DEOTTO; in Fisco, 2015, p. 37 (commento alla normativa).
1
21
De Iustitia
Tale circolare è stata confermata anche dalla successiva circolare n. 6/E del
19.2.2015.
L’Agenzia delle Entrate parte dal presupposto che la norma de qua vada ad
incidere sulla potestà di accertamento e di riscossione.
Per l’effetto, non potendo ritenersi una norma sostanziale, deve trattarsi
necessariamente di una norma procedimentale (o procedurale), come tale
passibile di applicazione retroattiva.
La ricostruzione fornita dall’A.d.E., tuttavia, appare un po’ forzata, dal
momento che l’art. 28 interviene “a piedi uniti” su uno dei presupposti
dell’imposta, rendendo possibile configurare “ora per allora” un soggetto
d’imposta che non esiste più nel mondo giuridico.
Per fare un esempio, al momento in cui giunge in pubblicazione questo
articolo, sarebbe possibile notificare un avviso di accertamento per la
riscossione di un credito erariale ad un’azienda estinta nel mese di maggio
2011.
Ma ciò vorrebbe dire che la nostra fantomatica azienda che nel maggio 2011
ha cessato di essere un soggetto giuridico e un soggetto d’imposta,
tornerebbe ad assumere tale configurazione in virtù di una norma
sopravvenuta e solo per consentire la riscossione degli eventuali crediti fiscali.
Ovviamente, questa è l’interpretazione che fa comodo all’Agenzia delle Entrate,
in quanto conferendo alla suddetta norma un’efficacia retroattiva, l’ambito di
applicazione della stessa si estende ex abrupto a tutte quelle aziende che sono
state cancellate dal Registro a partire dal 13.12.2009 (cioè cinque anni prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. 175/2014).
Da una parte, dunque, sono facilmente intuibili le preoccupazioni e gli
allarmismi sorti nel mondo dell’impresa (non a caso c’è chi ha parlato anche di
“inferno quinquennale” delle società estinte2); dall’altra emerge, ancora una
volta, in maniera lampante il conflitto tra la ratio di questa norma (che
risponde evidentemente alla pretesa del Legislatore di raccogliere quante più
risorse possibili) e la legge delega n. 23/2014.
Ciò perché la previsione di un’ultrattività delle società estinte appare ex se
contraria ai principi di semplificazione e revisione dei regimi fiscali e degli
adempimenti stabiliti dal Legislatore.
5. Le prime soluzioni rese dalle Corti di Merito.
Ebbene, a distanza di quattordici mesi dall’entrata in vigore del d.lgs.
175/2014, è possibile iniziare a tirare le somme sulla corretta applicazione
dell’art. 28, anche alla luce degli interventi giurisprudenziali che si sono
susseguiti sia tra le Corti di Merito, sia da parte della Corte di Cassazione.
cfr. Decreto Semplificazioni Fiscali: L’“inferno fiscale quinquennale” delle società estinte ;
D. DEOTTO, Fisco, 2015, 1, 37 (commento alla normativa).
2
22
De Iustitia
Quando l’Agenzia delle Entrate ancora si dimenava nella interpretazione della
suddetta normativa, la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia,
con sentenza del 23.1.2015, ha affermato: «in prima battuta, la nuova norma
(art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 175/2014) che prevede il differimento di 5
anni degli effetti dell’estinzione delle società ai soli fini della validità e
dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione
dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, sembrerebbe essere a carattere
procedimentale, con il rischio di una applicazione retroattiva, quindi a soggetti
cessati prima dell’entrata in vigore della stessa. Va però considerato che
nell’ordinamento devono essere valorizzate quelle norme che possono essere
definite “parasostanziali”, che intervengono sulla disciplina delle prove, come
quella del d.lgs. 175/2014. Questo tipo di norme, anche se disciplinano gli
accertamenti, non possono ritenersi a carattere procedimentale e, quindi, non
possono avere effetto retroattivo»3.
La C.T.P. Emiliana, pur riconoscendo la distinzione operata dalla Agenzia delle
Entrate, ha affermato che esiste una terza categoria di norme le quali,
intervenendo sull’onere della prova, modificano le regole afferenti il diritto di
difesa ex art. 24 Cost. e, per l’effetto, devono essere ritenute “parasostanziali”, dunque non passibili di applicazione retroattiva.
È chiaramente il caso del Decreto Semplificazioni che, modificando l’art. 36 del
predetto d.P.R., ha traslato a carico del liquidatore l’onere di provare di aver
dato priorità, in sede di liquidazione, al soddisfacimento dei crediti tributari
oppure di aver soddisfatto crediti di ordine superiore.
Tale onere nella “vecchia” formulazione dell’art. 36 era posto a carico dell’Ente
creditore.
Il Decreto, quindi, ha prodotto un’inversione dell’onere della prova, incidendo
su un aspetto che va oltre i profili procedurali dell’accertamento e, pertanto,
non può produrre effetti anche per il passato.
La pronuncia della C.T.P. Emilia-Romagna è stata la prima pronuncia
giurisprudenziale in materia (essendo intervenuta neanche due mesi dopo
l’entrata in vigore del Decreto) e si è basata su un principio di diritto già
affermato dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano con la sentenza
del 11.7.2014.4
In quell’occasione il giudice tributario di secondo grado, pronunciandosi
sull’applicazione dell’art. 12 del d.l. 78/2009, in materia di evasione aveva
affermato che: «le norme sulle prove pongono regole di giudizio e, come tali,
hanno pure natura sostanziale, giacché la loro applicazione comporta una
cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, sez. II, 23/1/2015 n. 5 in Fisco,
2015, 9, p. 890 nota di Russo.
4 cfr. Commissione Tributaria Regionale Lombardia, sez. XX, 11.7.2014 n. 3878 in
3
www.leggiditaliaprofessionale.it.
23
De Iustitia
decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda (Cass.civ., sez.
II, 23/2/2007 n. 4225)».
Sulla scorta di tale ragionamento la C.T.R. di Milano ha chiarito che occorre
escludere l’applicabilità retroattiva, in quanto vietata dall’art. 11 delle Preleggi
e dall’art. 3 dello Statuto del Contribuente (l. 212/2000) e che tale principio di
irretroattività per essere superato, richiede secondo le regole in materia di
successione delle leggi nel tempo, un’espressa previsione da parte della lex
posterior.
Ebbene, l’art. 28 non disciplina il proprio ambito cronologico di applicazione e
come tale deve ritenersi che valga solo per il futuro.
La sentenza della C.T.P. di Reggio Emilia ha trovato subito positivo riscontro
nella successiva pronuncia della Commissione Tributaria Regionale della
Lombardia che con sentenza del 5 febbraio 2012 ha affermato: «Va rilevato,
ancora, sempre sul piano normativo, che, nelle more del giudizio, è entrato in
vigore il d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175 [...] Si tratta, a giudizio di codesto
giudicante, di una norma non già di natura interpretativa, ma in grado di
modificare ed innovare, con effetti costitutivi, l'ordinamento giuridico, con il
corollario che, la stessa, non può che disporre per l'avvenire, alla stregua del
principio generale espresso dall'art. 11, comma 1, delle disposizioni sulla legge
in generale».
«Di conseguenza, lo jus superveniens, a cui va attribuita natura sostanziale,
non può incidere sul regime che presiede le società già cancellate dal registro
delle imprese, né sui rapporti giuridici già esauriti, come quello investito dalla
presente controversia: non pare revocabile in dubbio, pertanto, che il citato
comma 4 dell'art. 28 non possa avere prodotto la reviviscenza di una società
in guisa da sterilizzare gli effetti di un evento estintivo già prodottosi».
Le statuizioni della C.T.R. di Milano, in maniera ancora più decisa rispetto ai
Giudici Emiliani, hanno evidenziato i problemi sostanziali sottesi
all’applicazione retroattiva della norma, e cioè l’impossibilità di creare ex post,
tramite una norma sopravvenuta, una “reviviscenza fittizia” ai soli fini fiscali di
una persona giuridica in realtà cancellata ed estinta.5
Sotto diverso profilo si è pronunciata successivamente la Commissione
Tributaria Regionale di Firenze, secondo cui: «La tesi della retroattività deve
essere rigettata richiamando il disposto dell'art. 3 della L. n. 212 del 2000,
secondo il quale «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo».6
In quel caso la C.T.R. Toscana ha evidenziato due profili di censura a carico
dell’art. 28, entrambi legati allo Statuto del Contribuente (l.n. 212 del 2000).
cfr. “Per il fisco le società estinte “vivono” ancora per cinque anni” di IGNAZIO BUSCEMA in
Azienditalia – Fin. e Trib., 2015, 3, p. 226 (commento alla normativa).
6 cfr. Commissione Tributaria Regionale Toscana, sez. IX, 16.3.2015, n. 462 in
www.leggiditaliaprofessionale.it.
5
24
De Iustitia
Se da una parte, infatti, lo Statuto impedisce di dare efficacia retroattiva alle
disposizioni tributarie, parimenti la stessa Legge Delega imponeva al Governo
di promuovere la revisione e la semplificazione dei sistemi fiscali nel rispetto
dei principi stabiliti dalla Costituzione, dall’Unione Europea e dallo Statuto del
Contribuente.
Dunque, vi è un’ulteriore ipotesi di incostituzionalità a carico della normativa in
esame, stavolta per eccesso di delega.
6. L’intervento risolutivo della Corte di Cassazione.
La soluzione definitiva alle interpretazioni dell’art. 28 è stata fornita dalla
giurisprudenza di legittimità che ha affrontato sotto più profili la normativa in
questione negando con fermezza la portata retroattiva della stessa.7
In un primo punto i Giudici della Suprema Corte affermano: «La norma,
pertanto (contrariamente a quanto talora sostenuto dall'amministrazione
finanziaria nelle sue circolari), opera su un piano sostanziale e non
"procedurale", in quanto non si risolve in una diversa regolamentazione dei
termini processuali o dei tempi e delle procedure di accertamento o di
riscossione: il caso in esame, cioè, è del tutto diverso da quello di interventi
normativi che, ad esempio, incidano sulla disciplina dei termini del processo
tributario o prolunghino i termini di accertamento o introducano nuovi
parametri di settore e che, per loro natura, possono applicarsi a fattispecie
processuali o sostanziali precedenti».
La Corte di Cassazione ampliando le statuizioni della C.T.P. di Reggio Emilia ha
chiaramente evidenziato la natura sostanziale della norma nella parte in cui
essa va ad incidere direttamente sulla capacità giuridica della società
cancellata dal Registro delle Imprese.8
Non solo, i Giudici della Corte di Cassazione hanno altresì ribadito, ovviamente
in maniera più specifica, i concetti già espressi dalla richiamata sentenza della
C.T.R. di Milano del 2014 affermando che la possibilità di disciplinare in
maniera retroattiva gli effetti derivanti dall’estinzione delle società dipende dal
contenuto precettivo della norma che la prevede, e nel caso di specie né l’art.
28, né la relazione illustrativa al Decreto Legislativo, affrontano la questione
dell’eventuale efficacia retroattiva della norma.
Infine, qualora non bastasse, la Corte di Cassazione con la citata sentenza ha
evidenziato profili di incostituzionalità della norma in esame, pur non
affrontandoli direttamente.
Prima tra tutti la presunta incompatibilità con l’art. 3 Cost. laddove l’art. 28
cfr. Cass.civ., sez. V, 2.4.2015, n. 6743 in Corriere Trib., 2015, p. 21, p. 1626 nota di
RAGUCCI.
8 cfr. Irretroattiva la norma sulla resurrezione delle società cancellate dal registro delle
imprese, MAURIZIO ZANNI, in Fisco, 2015, p. 17, p. 1682 (nota a sentenza).
7
25
De Iustitia
Cost. sembra porre una irragionevole disparità di trattamento tra gli enti
creditori, da un lato, per i quali è possibile richiedere tributi o contributi anche
a distanza di 5 anni, e tutti gli altri creditori sociali, dall’altro lato, ai quali
questo lungo termine non è concesso.
In secondo luogo, la Corte di Cassazione sembra lanciare una pietra nello
stagno affermando tra gli eventuali profili di incostituzionalità la possibile
mancata osservanza, da parte del legislatore delegato, della suddetta legge di
delegazione, laddove all’art. 1 richiama il rispetto della Costituzione, del diritto
dell’Unione e della l. n. 212/2000) e all’art. 7 disciplina in senso stretto
l’obiettivo di eliminazione e revisione degli adempimenti superflui
dell’Amministrazione finanziaria. Secondo i Giudici della Suprema Corte, queste
disposizioni della Legge Delega, come già anticipato dallo scrivente ai punti
che precedono, «sembrano non consentire di introdurre (sia pure
temporaneamente, per alcuni rapporti e nei soli confronti di determinati enti,
anche diversi dall'"amministrazione finanziaria") una disciplina degli effetti
estintivi delle società nuova e differenziata a seconda dei creditori e, dall'altro,
rendono difficile far rientrare la notificazione di un atto impositivo o di
riscossione ad una società estinta tra gli "adempimenti superflui", passibili di
"revisione" e di eliminazione, menzionati dalla suddetta legge di delegazione».
7. Le soluzioni più recenti.
In tempi più recenti, la vexata quaestio dell’applicazione retroattiva dell’art. 28
ha trovato ulteriori riscontri nella pronuncia recentissima, per chi scrive, della
Commissione Tributaria Regionale di Napoli.
I Giudici partenopei hanno ribadito la necessità di dare prevalenza alle
interpretazioni conformi all’art. 11 delle preleggi e all’art. 3, co. 1, della l. n.
212/2000 che rispettivamente escludono l’efficacia retroattiva delle norme di
legge e, in via particolare, delle disposizioni tributarie chiarendo che «il
differimento quinquennale degli effetti dell'estinzione della società derivanti
dall'art. 2495, secondo comma, c.c., si applica esclusivamente ai casi in cui la
richiesta di cancellazione della società […] sia presentata nella vigenza di
detto decreto legislativo (cioè il 13 dicembre 2014 o successivamente)».9
Non solo, prima ancora della C.T.R. di Napoli ma sempre nel solco tracciato
dalla Corte di Cassazione, la Commissione Tributaria Regionale di Milano aveva
chiarito la necessità di dare rilevanza al principio della certezza del diritto e al
connesso principio del legittimo affidamento, non potendosi «dare vita a
provvedimenti che non avevano fatto sorgere effetti giuridici e, quindi, erano
9
cfr. Commissione Tributaria Regionale Campania, sez. XXVIII, 23.11.2015 n. 10485 in
www.leggiditaliaprofessionale.it.
26
De Iustitia
tamquam non esset».10
8. Conclusioni.
A distanza di quattordici mesi dall’entrata in vigore del d.lgs. 175/2014 una
questione sembra essersi consolidata, l’art. 28 non ha natura retroattiva e la
c.d. “sopravvivenza fiscale quinquennale” è applicabile soltanto per le imprese
per le quali la richiesta di cancellazione dal Registro sia avvenuta
successivamente all’entrata in vigore del decreto semplificazioni, ossia a
partire dal 13.12.2014.
Alla luce della sintetica rassegna giurisprudenziale nelle intenzioni dello
scrivente, appaiono irrisolti – ma forse è solo questione di tempo – i problemi
connessi agli eventuali profili di incostituzionalità di una norma che, allo stato,
appare anche a chi vi scrive del tutto estranea agli obiettivi di semplificazione
e revisione prefissati dal Legislatore e auspicabili dall’utenza ma, al contrario,
si rivela suscettibile di ampliare un contenzioso già molto pesante.
10
cfr. Commissione Tributaria Regionale Lombardia, sez . XV, 7.5.2015, n. 1890 in
www.leggiditaliaprofessionale.it.
27
De Iustitia
Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza pubblica:
l’atavico duello tra forma e sostanza
di Valentina FERRARA*
SOMMARIO: 1. Il dato normativo: genesi e profili problematici dell’istituto.
2. La giurisprudenza contrastante: come delimitare il raggio d’azione della
stazione appaltante? 3. Le soluzioni dell’Adunanza Plenaria: il fardello del
formalismo. 4. Uno sguardo ai cugini d’Oltralpe: l’art. 52 del Code des
Marchés Publics. 5. Conclusioni.
1. Il dato normativo: genesi e profili problematici dell’istituto.
Le origini del c.d. Soccorso Istruttorio sono rinvenibili nell’ambito della
disciplina generale del procedimento amministrativo1: nell’ottica di leale
collaborazione tra privato cittadino e pubblica amministrazione, il Legislatore
aveva già previsto l’eventualità di dialogo e la conseguente possibilità di porre
rimedio ad errori o dimenticanze scusabili, al fine di evitare che la pressante
burocrazia della macchina amministrativa creasse intoppi al buon andamento
della stessa Amministrazione, e dunque, al perseguimento del pubblico
interesse.
L’istituto in esame è stato formalmente introdotto nell’ambito delle procedure
ad evidenza pubblica, dapprima nell’ordinamento europeo con l’art. 27 della
direttiva 71/305/CEE del Consiglio, del 26 luglio 1971, e poi, è stato
disciplinato dall’art. 46, comma 1, del Codice dei contratti pubblici.
Un dato normativo di primaria importanza al fine di ricostruire l’istituto è
indubbiamente costituito dalla modifica attuata dall’art. 15 comma 1, della l.
12 novembre 2011, n. 183, alla disciplina delle certificazioni e delle
dichiarazioni sostitutive contenuta nel “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, di
cui al d.P.R. 20 dicembre 2000, n. 445. La disposizione citata, anche se non
attiene prettamente al campo dei contratti pubblici, è in ogni caso indice di un
indirizzo normativo volto alla semplificazione delle forme ed alla massima
collaborazione tra l’Amministrazione ed il privato cittadino: la messa in atto
del sistema delle dichiarazioni sostitutive (in ogni sua forma ed in ogni campo)
consentirebbe
una
completa
“decertificazione”
nei
rapporti
tra
*
Dottoranda di ricerca in “Diritto e Mercato Globale” presso l’Università degli Studi di Salerno.
6, comma 1, lett. b) della l. n. 241 del 1990, secondo cui il responsabile del
procedimento è tenuto a chiedere «il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o
istanze erronee o incomplete», sollecitando il privato a porre rimedio ad eventuali dimenticanze
o errori.
1All’art.
28
De Iustitia
Amministrazione e privato, attraverso la diretta acquisizione dei dati presso le
amministrazioni certificanti da parte delle Amministrazioni procedenti o la
produzione da parte degli interessati solo di dichiarazioni sostitutive di atti di
notorietà.
La volontà di semplificare le forme si evince finanche dalle recenti modifiche
apportate al codice degli appalti pubblici in materia di soccorso istruttorio, ad
opera del c.d. Decreto Sviluppo, d.l. 11 maggio 2011, n. 70, convertito in
legge 12 luglio 2011, n. 1062.
Nell’ambito dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione, dunque,
l’istituto è specificamente disciplinato dal Codice dei contratti pubblici 3, il
quale consente alle stazioni appaltanti «nei limiti previsti dagli articoli da 38 a
45, di invitare, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire
chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni
presentati»4.
Il suddetto invito, da parte della Amministrazione aggiudicatrice, alla
regolarizzazione della documentazione prodotta dall’impresa concorrente
riveste un ruolo di basilare importanza nel settore delle gare pubbliche, in
2 L’art. 4, comma 2, lett. d) del d.l. 11 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n.
106, ha aggiunto l’inciso «tassatività delle cause di esclusione» nella rubrica dell’art. 46 del
Codice degli appalti, ed inoltre ha inserito, nello stesso articolo, il comma 1-bis, che recita: «La
stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle
prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge
vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico
contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei
plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di
segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle».
3 All’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui, «nei limiti previsti dagli articoli da
38 a 45, le stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o fornire
chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documento e dichiarazioni presentati». Ai fini
dell’esame della procedura di scelta del contraente, si veda A.M. SANDULLI, Manuale di diritto
amministrativo, Napoli, 1989, pp. 843 e ss., F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo ,
Milano, 2005, pp. 491 e ss., G. VIRGA, Il divieto di "caccia all’errore" nelle gare, previsto dall’art.
46, comma 1-bis, del codice degli appalti.
4
Il punto nevralgico dell’istituto riguarda l’inciso «se necessario» del primo comma dell’art. 46
del Codice dei contratti pubblici, aperto ad opposte interpretazioni. L’orientamento
giurisprudenziale anteriore alla entrata in vigore del comma 1-bis negava un principio di
tassatività delle clausole di esclusione, ritenendo prevalente l’interesse della Stazione
Appaltante piuttosto che quello alla massima partecipazione dei concorrenti, di conseguenza
l’inciso di cui è nota veniva interpretato in maniera più che restrittiva (cfr. ex multis, Cons. St.,
sez. V, 12 giugno 2012, n. 3884). Un successivo, nonché discordante orientamento, ritiene
prevalente l’interesse pubblico alla più ampia partecipazione, sicché quel «se necessario» è
adoperato con maggiore elasticità, anche nei casi in cui la lex specialis preveda autonome
cause di esclusione.
29
De Iustitia
quanto in primis adempie all’obbligo di garantire la più ampia partecipazione
alla gara ed inoltre, orienta la stazione appaltante nella verifica concreta e
sostanziale dei requisiti soggettivi di partecipazione, attenuando così la
vetusta rigidità delle forme.
Orbene, la ratio della nuova disciplina introdotta dal Decreto Sviluppo sta nel
voler limitare drasticamente il potere della stazione appaltante di ampliare in
modo discrezionale il novero degli adempimenti richiesti a pena di esclusione
alle imprese in gara: ne consegue il venir meno della facoltà di autogestire i
casi di applicazione del dovere di soccorso istruttorio in quanto l’esclusione di
una impresa concorrente “inadempiente” può essere disposta solo nel caso in
cui si verifichi una delle fattispecie descritte nel comma 1-bis dell’art. 46 del
Codice degli appalti, e cioè «in caso di mancato adempimento alle prescrizioni
previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge
vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi
essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la
domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi,
tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il
principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione».
Ma l’analisi del quadro normativo di riferimento deve necessariamente
passare anche per l’esame del correlato art. 38 del Codice dei contratti, il
quale disciplina i «requisiti di ordine generale» che devono essere posseduti
dalle imprese partecipanti alle procedure ad evidenza pubblica in genere,
indicando (al primo comma) in modo analitico quali sono i suddetti requisiti.
Sul punto, il d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione
e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari),
convertito, con modificazioni in l. 11 agosto 2014, n. 114, ha modificato 5, gli
artt. 38 e 46 del Codice dei contratti pubblici, introducendo il comma 2-bis
all’art. 386, il quale prevede la possibilità di ovviare alla mancata o irregolare
5
La modifica oggetto di esame è stata apportata dall’art. 39 del d.l. 90/2014, rubricato
“Semplificazione degli oneri formali nella partecipazione a procedure di affidamento di contratti
pubblici”. Si noti bene che la disposizione dell’articolo 39 è collocata nel titolo IV del d.l.
90/2014, che riguarda le “Misure per lo snellimento del processo amministrativo e l'attuazione
del processo civile telematico”. Tale collocazione non è in alcun modo casuale, in quanto deve
essere tenuta in considerazione ai fini dell’esatta individuazione della sua portata espansiva,
avente quindi una ratio tesa al deflazionamento del contenzioso amministrativo in materia di
appalti pubblici, dato che una parte cospicua delle cause pendenti dinanzi al giudice
amministrativo riguarda la fase di ammissione ed esclusione dalla gara (molto spesso per
questioni di carattere meramente formale) ovvero contestazioni verso l’ammissione di alcuni
concorrenti.
6 D.lgs. 163/2006, art. 38 comma 2-bis: «La mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
30
De Iustitia
certificazione dei requisiti indicati al comma 1, per il tramite del pagamento di
una sanzione. Nell’art. 46 del Codice è stato, invece, inserito il comma 1-ter,
in base al quale «le disposizioni di cui all’art. 38, comma 2-bis, si applicano a
ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle
dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai
concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara».
La norma ha destato non poche perplessità: se l’agire della pubblica
Amministrazione deve essere improntato ai principi di leale collaborazione,
massima partecipazione, snellimento delle forme, come si concilia tutto ciò
con il pagamento di una sanzione in caso di certificazione irregolare
presentata a corredo dell’offerta?
Ebbene, l’art. 38 del Codice dei contratti, come già visto, dispone che
determinati requisiti devono essere posseduti dalle imprese concorrenti a
pena di esclusione, fin dal principio della gara7 e devono perdurare per tutto
lo svolgimento della procedura stessa.
Dunque, in base a quanto può apparire ad una prima lettura della norma si
dovrebbe già lasciar fuori l’ipotesi del pagamento di una sanzione da parte
della concorrente che non abbia affatto uno dei requisiti richiesti dal comma 1
dell’art. 38, in quanto in tal caso vi sarebbe una causa di esclusione lampante,
e di conseguenza sembrerebbe alquanto irragionevole il pagamento di una
sanzione a fronte della mancata partecipazione alla procedura ad evidenza
pubblica. E si può anche tralasciare l’ipotesi in cui la concorrente, pur in
possesso del requisito, abbia presentato una dichiarazione irregolare o
incompleta e non voglia optare per la richiesta di soccorso istruttorio,
preferendo rinunciare alla partecipazione alla gara.
Resterebbero, quindi, in gioco, ai fini del pagamento della sanzione, solo quei
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il
concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della
sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non
superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il
cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante
assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o
regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono
rendere. Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di
dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né
applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il
concorrente è escluso dalla gara. Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o
esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
7 Al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte o della domanda di
partecipazione in caso di procedure ristrette, mentre in caso di subappalto è necessario
verificare la data del rilascio dell’autorizzazione.
31
De Iustitia
casi in cui i requisiti sono posseduti dalla concorrente, ma non sono
espressamente indicati nell’offerta o risultano irregolari o incompleti.
Ma qui si insinua un dubbio di non poco momento, poiché da un lato vige il
dovere di soccorso istruttorio da parte della stazione appaltante, che quindi
dovrebbe invitare il concorrente ad integrare o regolarizzare la propria
posizione, non potendo pretendere il pagamento di alcuna sanzione e
dall’altro lato vi sono gli articoli, in combinato disposto, 43 e 77-bis del d.P.R.
445/2000, in base ai quali le stazioni appaltanti devono effettuare la verifica
del possesso dei requisiti richiesti dall’art. 38 e dichiarati in autocertificazione,
acquisendo “d’ufficio” le relative informazioni, dovendo invece il concorrente
solo indicare espressamente l’Amministrazione competente e tutti gli elementi
indispensabili al fine di reperire le informazioni autocertificate.
L’A.N.A.C. ha tentato di districare la matassa con più determinazioni, anche in
seguito alle pronunce dell’Adunanza Plenaria8, qualificando come “tertium
genus” il caso in cui la stazione appaltante proceda all’applicazione del
soccorso istruttorio, senza applicare alcuna sanzione pecuniaria e cioè nei casi
in cui «irregolarità non essenziali ma che tuttavia afferiscono ad elementi
indispensabili se considerati sotto il profilo della celere e sicura verifica del
possesso dei requisiti di ordine generale in capo ai concorrenti, in un’ottica di
buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa, cui devono
concorrere anche i partecipanti alla gara, in ossequio ai principi di leale
cooperazione, di correttezza e di buona fede, e che la stazione appaltante può,
in ogni caso, richiedere ai sensi dell’art. 46, comma 1 del Codice» 9
In conclusione, il soccorso istruttorio dovrebbe costituire un obbligo della
stazione appaltante se si tratta di un inadempimento sanabile e non un
ostacolo alla partecipazione.
2. La giurisprudenza contrastante: come delimitare il raggio
d’azione della stazione appaltante?
Come si desume già dalla mera analisi del dato normativo, l’introduzione
dell’istituto del soccorso istruttorio all’interno della disciplina dei pubblici
appalti ha creato svariati contrasti giurisprudenziali.
In epoca precedente alla entrata in vigore del comma 1-bis dell’art. 46 del
Codice, l’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa
8
Cons. St., A.P., 25 febbraio 2014, n. 9; Cons. St., A.P., 30 luglio 2014, n. 16.
Autorità Nazionale Anticorruzione Vigilanza Contratti Pubblici, Determinazione n. 1, dell’8
gennaio 2015, Criteri interpretativi in ordine alle disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis e dell’art.
46, comma 1-ter del d.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163. In tal senso, si veda anche L. OLIVIERI, La
riforma della P.A. – Guida all’applicazione negli Enti Locali del d.l. 90/2014 conv. in l. 114/2014 ,
Maggioli Editore, 2014, p. 103; A. CARDELLA, Il nuovo soccorso istruttorio negli appalti
pubblici: le indicazioni dell’autorità di vigilanza , Foro it., Rep. 2015, voce Contratti pubblici, n.
24.
9
32
De Iustitia
negava il principio di tassatività della cause di esclusione e da ciò ne
conseguiva l’implicito riconoscimento del potere della stazione appaltante di
inserire nel bando delle disposizioni che prevedevano adempimenti a pena di
esclusione dalla gara, ulteriori rispetto a quelli previsti ex lege.
Secondo la suddetta posizione, l’unico ostacolo che incontrava il potere della
stazione appaltante stava nel rispetto dei principi di pertinenza e congruità
rispetto allo scopo perseguito, nonché di ragionevolezza e proporzionalità10.
La motivazione alla base di tale orientamento era rinvenibile nel principio di
autoresponsabilità dei concorrenti e nella prevalenza degli interessi della
stazione appaltante rispetto al principio della massima partecipazione: ne
discendeva, quindi, un’applicazione molto restrittiva dell’istituto del soccorso
istruttorio, consentendo, in tal modo, esclusivamente il chiarimento o
l’integrazione di documenti o dichiarazioni già presentati ed escludendo la
possibilità di introdurre nuovi atti.
In altri termini, si asseriva che al comportamento del concorrente negligente
che sfoci in una violazione della lex specialis non può sopperire l’art. 46
comma 1 del Codice dei contratti pubblici; seguendo questo filo conduttore,
l’invito alla regolarizzazione rivolto al concorrente inadempiente avrebbe
costituito una palese violazione del principio della par conditio tra i
concorrenti11.
In tal senso, i giudici amministrativi hanno più volte affermato che la
completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire in
conformità ai principi del buon andamento dell’amministrazione e di
proporzionalità, principi entro cui s’incardinano le esigenze dell’ordinario
svolgimento della procedura e di celere decisione in merito all’ammissione
dell’operatore economico alla gara12.
Pertanto «una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) doveva
considerarsi di per sé lesiva degli interessi tutelati dalla norma, a prescindere
dal fatto che l’impresa meritasse “sostanzialmente” di partecipare alla gara»13.
Come già accennato, è chiaro che il punto nevralgico del sistema del soccorso
istruttorio sta nel labile confine intercorrente tra una mera “regolarizzazione”
documentale (ammessa in base all’orientamento maggioritario dei giudici di
Palazzo Spada) ed una “integrazione” documentale ex novo.
Al fine di sciogliere questa intricata matassa di definizioni e tecnicismi (spesso
10
Cfr. ex multis, Cons. St., sez. V, 18 febbraio 2013 n. 974; sez. V, 12 giugno 2012 n. 3884.
11 Cfr. ex multis, Cons. St., sez. V, 18 febbraio 2013, n. 974; sez. V, 5 dicembre 2012, n. 6248;
sez. V, 25 giugno 2007, n. 3645; sez. VI, 23 marzo 2007, n. 1423; sez. V, 20 maggio 2002, n.
2717.
12 Cons. St., sez. III, 16 marzo 2012 n. 1471, in tal senso anche la più recente sent. Cons. St.,
sez. III, 24 giugno 2014, n. 3198.
13 T.A.R. Lazio - Roma, Sezione II-bis, sent. n. 8527 del 19 giugno 2015.
33
De Iustitia
usati impropriamente in bandi di gara o addirittura in testi di legge) è
necessario distinguere tra «regolarizzazioni non lesive» della par conditio ed
«integrazioni lesive» del suddetto principio: alla prima categoria
appartengono quei casi in cui la documentazione è stata presentata
tempestivamente (nel rispetto dei termini previsti dalla lex specialis), i relativi
contenuti risultano ad una prima verifica veritieri, non mendaci e conformi a
quanto richiesto (dunque è indubbia la possibilità di partecipare alla gara), ma
che necessitano di regolarizzazione; mentre nella seconda rientrano quei casi
in cui si riscontra una grave inadempienza della concorrente che la
giurisprudenza è solita “etichettare” come omissioni documentali richieste a
pena di esclusione nel bando di gara (ma la grande varietà casistica non
consente una esaustiva elencazione). Da ciò ne discende la mancata
possibilità di applicazione del soccorso istruttorio ai casi di «integrazioni
lesive».
Orbene, nonostante possa apparire chiara ad una prima lettura la suddetta
classificazione, la realtà delle procedure ad evidenza pubblica presenta infinite
sfaccettature, sicché nella prassi quotidiana degli operatori del settore diventa
arduo riuscire a sussumere la fattispecie concreta al dato normativo,
specialmente se questo è di ostica interpretazione.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla questione sottesa all’esame
dell’Adunanza Plenaria n. 9 del febbraio 201414: un’impresa concorrente aveva
subito l’esclusione dalla gara per la mancata produzione della copia
fotostatica del documento d’identità del legale rappresentante della società,
dunque certo trattasi di omissione documentale (il deposito tardivo
costituirebbe una integrazione ex novo) ma è altrettanto palese la gravosità
del dato formale su quello sostanziale. In altri termini, l’identità del soggetto
legale rappresentante della società era facilmente verificabile per il tramite
della restante documentazione tempestivamente depositata, nonché mediante
una semplice visura.
A fronte della moltitudine dei casi simili a quello sopra esposto, si è iniziato a
far strada un opposto orientamento tra i giudici amministrativi, il quale
predilige il potere di regolarizzazione come strumento di correzione
dell’eccessivo rigorismo delle forme.
Si sostiene la prevalenza del dato sostanziale su quello formale, ma senza
eccedere, quindi non si ritiene ammissibile l’applicazione del soccorso
istruttorio ovviamente nei casi in cui vi sia una palese violazione od omissione
di un adempimento previsto dal bando a pena di esclusione (sempre che
risulti legittima la clausola inserita nel bando con la dicitura «a pena di
esclusione») o comunque siano assenti taluni requisiti necessari per la
14
Cons. St., A.P., 25 febbraio 2014, n. 9.
34
De Iustitia
partecipazione alla gara.
In altre parole, la mera previsione di un adempimento contemplato nella lex
specialis non basta a sollevare la stazione appaltante dal dovere di invitare la
concorrente “inadempiente” a regolarizzare la propria documentazione,
almeno nei casi in cui i vizi di natura meramente formale non siano tali da
pregiudicare il risultato sostanziale cui è rivolta l’azione dell’amministrazione,
ovvero da violare la par conditio tra i concorrenti, e ciò al fine di evitare
l’eccessivo rigorismo delle forme.
La conclusione verso cui sono giunti i giudici che hanno rimesso la questione
all’Adunanza Plenaria15, sembrerebbe la più ragionevole, e cioè permettere
alla stazione appaltante di rivolgere una richiesta di regolarizzazione
documentale prima di procedere alla diretta esclusione, anche nei casi in cui
la violazione posta in essere dalla concorrente sia prevista dal bando a pena
di esclusione, favorendo la più ampia partecipazione e permettendo ai
concorrenti di giocare ad armi pari.
3. Le soluzioni dell’Adunanza Plenaria: il fardello del formalismo.
Più volte la questione riguardante l’applicazione del soccorso istruttorio è
stata affrontata in sede di Adunanza Plenaria, ma non sembra essersi presa
alcuna posizione netta, nonostante quanto auspicato nelle ordinanze di
rimessione.
L’Adunanza Plenaria n. 9 del 2014 ha sostenuto che la ratio essendi
dell’istituto in questione sta in un doveroso modus procedendi volto a
superare gli inutili formalismi al fine di raggiungere la massima partecipazione
e la semplificazione, poiché il dovere di soccorso non è altro che uno dei vari
strumenti attraverso cui si applica il principio del giusto procedimento sancito
dall’art, 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Ciò nonostante, come premesso, l’Adunanza ha deciso di discostarsi
dall’orientamento proposto in ordinanza di rimessione, esponendo in
motivazione timori per una possibile alterazione della par conditio nel caso in
cui la stazione appaltante favorisca una concorrente negligente, provocando
così un vulnus nella procedura, una violazione del principio di imparzialità e
buon andamento dell’azione amministrativa.
Secondo l’Alto Consesso del 2014, cedere alla prevalenza della sostanza sulla
forma, obbligando la stazione appaltante a formulare l’invito alla
regolarizzazione o alla integrazione documentale, potrebbe incidere sul divieto
di disapplicazione della lex specialis, eludendo quindi la natura decadenziale
dei termini cui sono soggetti gli operatori economici.
L’Adunanza fa leva su vari principi, tra cui quello generale
dell’autoresponsabilità dei concorrenti (riprendendo quello che era già in
15
Cons. St., sez.VI, ord. 17 maggio 2013, n. 2681.
35
De Iustitia
passato l’orientamento maggioritario), per cui in linea teorica ognuno di essi
dovrebbe «sopportare le conseguenze di eventuali errori commessi nella
presentazione dell’offerta»16. Inoltre, l’Alto Consesso ha argomentato la sua
tesi sulla base «dell’esigenza di speditezza (e dunque di efficienza, efficacia
ed economicità), dell’azione amministrativa».
A corroborare la tesi supportata, la Plenaria richiama con chiarezza la
tassatività delle clausole di esclusione e la nullità delle clausole poste in
essere in violazione delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici, del
regolamento di esecuzione e di altre leggi dello Stato: ciò già di per sé
rappresenta uno strumento di tutela per le partecipanti alla gara (ed
indirettamente al pubblico interesse volto alla scelta del miglior contraente)
che limita drasticamente la discrezionalità della stazione appaltante, la quale
non può comunque in ogni caso decretare l’esclusione a suo piacimento (a
prescindere dall’applicazione del soccorso istruttorio)17.
Inoltre, i giudici della Plenaria si sono poi soffermati anche sulla tanto
discussa distinzione tra «regolarizzazione documentale» ed «integrazione
documentale». Si è sostenuto che la linea di demarcazione «discenda
naturaliter dalle qualificazioni stabilite ex ante nel bando», si consente la
mera regolamentazione se ha ad oggetto elementi estranei alla
documentazione già tempestivamente presentata, mentre al contrario
l’integrazione provocherebbe un vulnus al principio di parità di trattamento
quindi non è consentita. Nello specifico, l’Adunanza ha voluto dare
preminenza alla rigidità delle forme al fine di garantire la par conditio tra gli
operatori concorrenti ed il buon andamento della macchina amministrativa,
interpretando in modo restrittivo l’espressione «mera regolarizzazione».
Infine, è stato valorizzato un altro aspetto importante del soccorso istruttorio,
e cioè la possibilità di richiesta di chiarimenti, di informazioni o delucidazioni
su clausole ambigue e di dubbia interpretazione: alla luce dei chiarimenti
forniti dalla stazione appaltante a seguito di una richiesta da parte anche di
una sola concorrente, è possibile una successiva integrazione della
documentazione, ma la risposta al quesito posto da una sola concorrente
deve essere comunicata a tutti i concorrenti, dando anche ad essi la
possibilità di integrare la propria documentazione a corredo dell’offerta 18.
Cons. St., A.P., 25 febbraio 2014, n.9.
In tal senso, ex multis, Cons. St., A.P., sentt. 16 ottobre 2013, n. 23, 7 giugno 2012, n. 21 e
20 maggio 2013, n. 14.
18 Dopo aver esposto le argomentazioni analizzate, l’Adunanza è giunta alla enunciazione del
seguente principio di diritto: «nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti
pubblici, il “potere di soccorso” sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo Codice (d.lgs. 12 aprile
2006, n. 163) – sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di
regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli ma solo in
relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori
16
17
36
De Iustitia
Successivamente a detta diatriba giurisprudenziale, il quadro normativo si è
complicato ulteriormente con l’entrata in vigore del d.l. n. 90 del 24 giugno
2014, che ha inserito il comma 2-bis all’art. 38 del codice degli appalti,
prevedendo così il pagamento di una sanzione pecuniaria a fronte dell’utilizzo
dello strumento del soccorso istruttorio.
Quasi tutto ciò che è stato affermato dalla Plenaria del febbraio 2014, sembra
essere stato capovolto dagli eventi normativi successivi: l’introduzione del
pagamento di una sanzione pecuniaria rende suscettibili di soccorso istruttorio,
ora, molte più fattispecie.
Così si è pronunciato nuovamente l’Alto Consesso nel luglio 2014 19 ,
prefigurando una celere istruttoria diretta innanzitutto ad acquisire contezza
della completezza delle offerte presentare, ancor prima di procedere alla
valutazione dell’ammissibilità della domanda onde evitare esclusioni
formalistiche.
Emerge dalla sentenza citata, l’impatto che i giudici amministrativi hanno
subito a seguito della novella suddetta, in quanto si è rilevato che è palese
l’intento del Legislatore di evitare che nella fase dei controlli delle
dichiarazioni vengano disposte esclusioni suffragate da meri formalismi, a
cause di carenze documentali facilmente sanabili (dietro corrispettivo, ma a
titolo di sanzione).
Ma il nodo non è stato ancora sciolto: se l’introduzione del sistema
sanzionatorio, da un lato voleva evitare comportamenti inadempienti da parte
degli operatori economici, dall’altro non ha fatto altro che rendere più gravosa
l’opera di interpretazione e di sussunzione della fattispecie concreta al dato
normativo, poiché restano ancora dubbi i casi sanabili (correndo, così, il reale
rischio di lasciare alle stazioni appaltati il compito di risolvere il dilemma
interpretativo).
Nel corso dell’anno successivo, il massimo organo della giustizia
amministrativa è tornato a pronunciarsi sull’argomento, continuando a solcare
la via della negazione.
Nello specifico le due Adunanze susseguitesi nel 2015 20 hanno avuto ad
oggetto la questione sul dovere della stazione appaltante di adoperare il
soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali, ed entrambe hanno optato per la soluzione negativa.
In particolare, si è affermato che, anche negli appalti di lavori, la mancata
materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei
concorrenti – non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione
mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti a pena di
esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali».
19 Cons. St., A.P., 31 luglio 2014, n. 16.
20 Cons. St., A.P., 20 marzo 2015, n. 3 e 2 novembre 2015, n. 9.
37
De Iustitia
indicazione dei costi di sicurezza aziendali interni rappresenta un caso di
«mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice idoneo a
determinare incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta per difetto di un suo
elemento essenziale»21. Ne consegue la pena dell’esclusione, anche nel caso
in cui non sia prevista dal bando, senza possibilità di soccorso, in quanto
trattasi di violazione di un precetto a carattere imperativo che impone uno
specifico adempimento ai partecipanti alla gara e dunque la sua assenza
rende l’offerta carente di un suo elemento essenziale.
La successiva Adunanza n. 9 del 2015 ha ribadito l’illegittimità del soccorso
istruttorio nel caso sopra descritto, specificando che ciò deve ritenersi valido
anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è
conclusa prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3
del 2015.
4. Uno sguardo ai cugini d’oltralpe: l’art. 52 del Code des Marchés
Publics.
Le illustrate problematiche sottese all’istituto di cui trattasi sono comuni ad
altri ordinamenti europei, i quali hanno però effettuato scelte risolutive
differenti in sostanza riconducibili alla netta scissione tra la fase di gara intesa
in senso stretto (nella quale continuano a valere le esigenze di
immodificabilità degli elementi essenziali) ed una fase prodromica alla gara, in
cui si gioca a carte scoperte.
Tale soluzione è stata adottata dall’ordinamento francese in tema di
procedure ad evidenza pubblica; al riguardo è centrale il ruolo dell’art. 52 del
Code des Marchés Publics 22, che assicura sia al singolo concorrente che a tutti
i partecipanti la possibilità di integrare la documentazione presentata a
corredo dell’offerta durante la fase che si colloca temporalmente prima
dell’inizio della procedura di valutazione delle offerte tecniche, delle capacità
tecnico-professionali e finanziarie, fase in cui non sarà permessa alcuna
integrazione o regolarizzazione.
La previa verifica dei requisiti c.d. di accesso alla procedura è nettamente
separata dal resto della gara ed è strumentale rispetto al vero confronto
Cons. St., A.P., 20 marzo 2015, n. 3.
Il Code de Marchés Publics rappresenta una sorta di equivalente francese del nostro d.lgs.
163/2006, l’art. 52 di detto codice così recita: «prima di procedere all’esame delle candidature,
l’Amministrazione aggiudicatrice che constati che alcuni degli elementi richiesti sono assenti o
incompleti può domandare a tutti i candidati interessati di completare la propria domanda di
partecipazione assicurando un termine uguale per tutti che non può essere superiore a dieci
giorni. L’Amministrazione può domandare ai candidati che non hanno dimostrato la capacità
giuridica necessaria ai fini della candidatura di regolarizzare la propria domanda di
partecipazione alle medesime condizioni. L’Amministrazione informa gli altri candidati che
hanno l’opportunità di completare la propria domanda entro lo stesso termine. […]».
21
22
38
De Iustitia
competitivo23.
In base a quanto sancito dall’art. 52 citato, la stazione appaltante che ritiene
di aver ricevuto una documentazione incompleta ne dà avviso alla
concorrente interessata, la quale ha la possibilità di integrare la propria
documentazione entro un termine non superiore ai 10 giorni. Di tutto ciò si dà
comunicazione simultaneamente anche a tutte le altre imprese partecipanti,
così che tutti abbiano la possibilità di integrare o regolarizzare eventualmente
la propria documentazione entro lo stesso termine.
La soluzione francese ha diminuito drasticamente il contenzioso, poiché ha
eliminato tutte le controversie aventi ad oggetto la fase di verifica dei requisiti
di accesso alla procedura, dando a tutti gli operatori economici concorrenti la
chance di “mettersi in riga” ed evitare esclusioni per meri formalismi o
mancanze comunque sanabili. Ma il dato fondamentale, che va qui
sottolineato, è l‘apertura dei termini per la regolarizzazione o integrazione
(problema di cui non si fa carico il l’ordinamento francese) per tutti i
partecipanti: è assente la scelta discrezionale della stazione appaltante, essa
non deve chiedersi se soccorrere o meno l’impresa c.d. inadempiente poiché
viene data la medesima occasione alla totalità dei concorrenti.
Tale sistema, oltre a comportare una deflazione del contenzioso, tutela in
maniera più ampia l’interesse della pubblica amministrazione alla maggiore
concorrenza possibile, snellisce la procedura, che anzi è resa ancora più
celere, e assicura il principio della parità di trattamento dei concorrenti.
Inoltre, si consideri che un sistema come quello francese risolverebbe anche
la problematica relativa ai limiti di applicazione dell’istituto, in quanto essendo
esso collocato in una fase antecedente alla gara, è possibile estendere in
maniera ragionevole il campo di azione della stazione appaltante, evitando
così tutta la questione della distinzione tra regolarizzazione ed integrazione.
Già nel 2013, in epoca anteriore alla sua soppressione, l’A.V.C.P. 24, prendendo
atto del notevole contenzioso scaturente dalla difficile delimitazione dei limiti
Sul punto si veda M. R. CALDERARO, Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza
pubblica: una comparazione con l’ordinamento francese , Foro it., Rep. 2015, voce Contratti
23
pubblici, n. 20.
24 A.V.C.P. - segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f), del decreto legislativo 12
aprile 2006, n. 163 - atto di segnalazione n. 2, del 4 luglio 2013, in cui l’Autorità proponeva
una revisione normativa: «L’articolo 46, comma 1, del Decreto legislativo 12 aprile 2006, n.
163 è sostituito dal seguente: “Nei limiti previsti dagli articoli da 38 a 45, le stazioni
appaltanti, nella prima seduta di gara, invitano i concorrenti a chiarire, integrare o fornire i
certificati, documenti e dichiarazioni necessari a giustificare il possesso dei requisiti prescritti
dalla normativa vigente o dal bando di gara, in un termine massimo di dieci giorni. In
attuazione della presente disposizione, l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di
Lavori, Servizi e Forniture, definisce, con propria determinazione, quali tra i requisiti necessari
per la partecipazione alle procedure di gara, ivi compresi quelli di cui al successivo comma 1bis, possono formare oggetto di soccorso istruttorio”».
39
De Iustitia
di operatività del potere di soccorso (si noti che la fetta più consistente di
contenzioso ha ad oggetto censure volte al comportamento della stazione
appaltante riguardo l’ammissione o l’esclusione per vizi nei requisiti di accesso
alla procedura, la c.d. caccia all’errore) e della risoluzione data dall’art. 52 del
Codice citato, proponeva di concedere a tutti i partecipanti di integrare
quanto depositato in sede di presentazione delle offerte, anche con riguardo
a documenti assenti, nella prima seduta di gara.
Il sistema “pre-gara” adottato dall’ordinamento francese, infine, non prevede
alcuna sanzione a carico dei concorrenti, offrendo in tal guisa un equo
modello cui potrebbe ispirarsi il Legislatore italiano nel perfezionamento del
soccorso istruttorio.
5. Conclusioni.
Così come gli altri ordinamenti europei, anche il Legislatore italiano,
supportato dalla giurisprudenza amministrativa, cerca di perseguire l’obiettivo
della semplificazione delle forme e della razionalizzazione delle procedure ad
evidenza pubblica, ma il percorso di snellimento non è giunto ancora alla
perfetta maturazione.
Come si evince dall’analisi svolta del dato normativo e delle risposte
interpretative, i profili problematici sono ancora evidenti e pressanti. La
rigidità delle forme, le sanzioni applicate impropriamente (potremmo parlare
del “prezzo” del soccorso?), le falle del sistema, e la pesantezza della
macchina amministrativa continueranno ad essere di ostacolo.
Ma nonostante ciò, la chance di superare le difficoltà è dietro l’angolo visto
l’imminente recepimento delle direttive comunitarie in materia di appalti
pubblici. Il Legislatore, recependo sic et simpliciter i canoni europei, potrebbe
circoscrivere la sfera del soccorso istruttorio ad una fase ben delineata della
procedura (la fase di prequalifica), evitando le sterili discussioni tra
regolarizzazioni, integrazioni, irregolarità o incompletezze, scongiurando in tal
modo i rischi di abusi o discriminazioni.
40
De Iustitia
La tutela del credito e la c.d. azione esecutiva anticipata ex art.
2929-bis c.c.
di Marco FRATINI*
SOMMARIO: 1. I mezzi a tutela del credito. 2. Il problema della revocatoria
nelle obbligazioni solidali. 3. Il problema della revocatoria del contratto
preliminare. 4. La revocatoria della vendita con riserva di proprietà. 5. La
revocatoria del fondo patrimoniale. 6. La revocatoria rispetto all’accordo di
separazione consensuale. 7. I limiti dell’azione revocatoria e la novella ex l.
132 del 2015, che ha introdotto il 2929bis c.c.: la c.d. azione esecutiva
anticipata. 8. La natura giuridica dell’art. 2929-bis.
1. I mezzi a tutela del credito.
Il debitore può porre in essere dei comportamenti sul proprio patrimonio che
possono pregiudicare il diritto del creditore1: a titolo esemplificativo, il
debitore può non esercitare alcuni dei propri diritti, con ciò non
incrementando il patrimonio oppure diminuendo il patrimonio, con il
conseguente pregiudizio per le ragioni creditorie.
Se il debitore decide di non aumentare o di lasciar diminuire la propria
garanzia patrimoniale generica2, il creditore ne risulta pregiudicato.
La trascuratezza del debitore nella gestione dei propri affari non può andare a
detrimento delle ragioni creditorie.
Inoltre, il debitore può compiere dolosamente atti di occultamento o di
distruzione materiale dei propri beni oppure può disporre del proprio
patrimonio con lo specifico intento di sottrarre le garanzie patrimoniali ai suoi
creditori: si pensi, ad esempio, nel caso di alienazione, preordinata alla
sottrazione di garanzie patrimoniali, dei propri beni ad un terzo.
A fronte di siffatti comportamenti lesivi della garanzia generica l’ordinamento
prevede tre distinte forme di tutela del creditore3:
1) a fronte dell'atto di inerzia del debitore, l’ordinamento attribuisce
l’azione surrogatoria attraverso la quale si consente al creditore di
sostituirsi al debitore nella tutela del diritto di quest’ultimo. Il creditore
agisce in nome proprio facendo valere il diritto del debitore. L'effetto
dell’azione surrogatoria non è la tutela diretta del credito, bensì la
Magistrato della Corte dei Conti.
V. ROPPO, Diritto privato: Linee essenziali. Estratto. II ed., Torino, 2014, pp. 51 ss..
2 P. CENDON, Commentario al Codice civile, Vol. 39, Milano, 2009, pp. 16 ss..
3 N. DISTASIO, I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, Unione tipografico*
1
editrice torinese, 1973, p. 354.
41
De Iustitia
tutela del diritto del debitore.
L’esperimento dell’azione surrogatoria persegue solo indirettamente
l’obbiettivo di tutelare il diritto del creditore che agisce ex art. 2900
c.c.: con l’accoglimento dell’azione revocatoria, infatti, si amplia il
patrimonio del debitore, ma il creditore potrà solo in concorso con tutti
gli altri creditori soddisfarsi sul patrimonio del debitore con l’azione
esecutiva. Occorre quindi, precisare che l’azione surrogatoria giova
non solo al creditore che agisce in via surrogatoria, ma anche ai
creditori non surroganti;
2) avverso il pericolo di occultamento o di distruzione dei beni,
l'ordinamento prevede il sequestro conservativo, ossia una tutela
materiale che impedisca in via preventiva la diminuzione fraudolenta o,
in ogni caso, ingiustificata della garanzia patrimoniale generica;
3) avverso gli atti con cui il debitore dispone del proprio patrimonio,
pregiudicando le ragioni del creditore, l’ordinamento attribuisce a
tutela del creditore l'actio pauliana, ossia l'azione revocatoria ex 2901
c.c.. L’azione in parola consente di tutelare le ragioni del creditore
attraverso un provvedimento che dichiari l’inefficacia degli atti
dispositivi compiuti dal debitore sul suo patrimonio.
La funzione dell'azione revocatoria non è di tipo satisfattivo: come detto per
l’azione ex art. 2900 c.c., l’azione revocatoria non soddisfa il credito di chi
agisce, ma consente la conservazione del patrimonio del debitore (quale
garanzia generica del credito ex art. 2740 c.c.) attraverso la declaratoria di
inefficacia dell’atto di disposizione posto in essere dal debitore.
L’effetto diretto della revocatoria è l’inefficacia dell’atto di disposizione del
debitore, effetto che si produce solo in relazione al creditore che ha agito in
revocatoria.
Infatti, l’atto di disposizione resta valido ed ha efficacia erga omnes: solo nei
confronti del creditore che agisce in revocatoria l’atto dispositivo compiuto dal
debitore è inefficace; ottenuta la declaratoria di inefficacia dell’atto dispositivo,
il creditore può agire con l’azione esecutiva anche nei confronti del terzo.
La declaratoria di inefficacia relativa nei confronti del creditore è il
presupposto necessario affinché questi possa aggredire con l’azione esecutiva
il bene oggetto di disposizione, pur se il bene è stato alienato ed è ormai nella
disponibilità del terzo alienatario.
Considerati gli effetti dirompenti dell’azione revocatoria nei confronti del terzo
avente causa e del debitore a vantaggio del creditore di quest’ultimo, è
opportuno chiarire i presupposti dell'azione revocatoria.
Infatti, deve sussistere in primis un diritto di credito: a tal riguardo, la
giurisprudenza amplia la tutela del creditore riconoscendo il diritto di agire in
revocatoria anche quando il credito non è ancora esigibile, perché soggetto a
42
De Iustitia
condizione iniziale o a termine ovvero quando il credito non è ancora certo
nell’an, perché il credito è ancora sub iudice (in tale ipotesi si tutelano le
aspettative di credito, purché fondate)4.
Ai fini dell’operatività dell’art. 2901 c.c. occorre, inoltre, un atto di
disposizione del debitore dal contenuto patrimoniale, e cioè un atto che
produce una modificazione patrimoniale della sfera giuridica del debitore che
sia tale da alterare la garanzia patrimoniale generica del creditore.
L’atto dispositivo che produce questa modificazione – che può essere
compiuto a titolo oneroso o gratuito – deve essere efficace, perché l’effetto
della revocatoria è l’inefficacia dell’atto medesimo: se l’atto non ha mai
prodotto effetti nell’ordinamento giuridico non è revocabile. Per tale ragione,
gli atti di disposizione nulli non sono soggetti a revocatoria, mentre lo sono
quelli annullabili (così come quelli rescindibili o risolubili).
Si badi, però, che gli atti dispositivi, seppur dispositivi del patrimonio del
debitore, non sono revocabili quando sono atti dovuti: ciò perché deve
applicarsi il principio generale della non revocabilità dell’atto di adempimento
di un debito scaduto (vd. art. 2901, comma 3 c.c.).
Per l’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria si richiede anche la
verificazione del c.d. eventus damni5.
Il debitore, infatti, disponendo del proprio patrimonio, deve arrecare un
pericolo attuale e concreto alle ragioni creditorie. L’atto dispositivo deve
rendere insufficiente il patrimonio del debitore a soddisfare in futuro il diritto
di credito che si intende preservare: la modificazione del patrimonio del
debitore può consistere, quindi, in una diminuzione quantitativa o qualitativa 6
del patrimonio stesso.
Si pensi, ad esempio, alla vendita di un immobile che, anche se effettuata al
giusto prezzo, diminuisce la garanzia generica del creditore in caso di
inadempimento della prestazione debitoria. È indubbio che i beni immobili,
diversamente dal danaro, rappresentano una garanzia patrimoniale per il
creditore che è notevolmente superiore, considerate le regole di certezza
giuridica che frenano la circolazione dei beni immobili, specie con riferimento
alla circolazione dei beni mobili registrati. Da ciò, si può desumere che lo
spostamento, anche se giustificato, di un bene immobile altera in maniera
significativa il patrimonio del debitore, con una maggiore probabilità di
sussistenza di un eventus damni per le ragioni creditorie.
Da ultimo, il creditore che agisce in revocatoria deve dimostrare il c.d.
N. CORBO, La tutela dei diritti, III ed., Torino, 2014, p. 177.
V. VITALONE, U. PATRONI GRIFFI, R. RIEDI (a cura di), Le azioni revocatorie: la disciplina, il
processo, 2014, Milano.
6 Ad esempio, una variazione qualitativa del patrimonio del debitore si verifica quando lo si
converte in beni facilmente occultabili ovvero in una prestazione di facere infungibile.
4
5
43
De Iustitia
consilium fraudis, ossia il requisito soggettivo della consapevolezza da parte
del debitore di pregiudicare il soddisfacimento delle ragioni creditorie con
l’atto di disposizione.
L’azione revocatoria può avere ad oggetto un atto dispositivo che è stato
compiuto dopo il sorgere del credito. In tal caso, se l’atto è a titolo gratuito, è
sufficiente la prova della conoscenza da parte del debitore di arrecare un
danno alla realizzabilità della pretesa creditoria; se, invece, l’atto dispositivo è
a titolo oneroso, l’onere dimostrativo che grava sul creditore procedente
richiede la prova della conoscenza della dannosità dell’atto non solo da parte
del debitore disponente, ma anche da parte del terzo acquirente.
La revocatoria è esperibile anche se il credito è sorto dopo il compimento
dell’atto di disposizione: in questo caso, se l’atto è a titolo gratuito si ritiene
che non basti la consapevolezza del debitore di arrecare pregiudizio al
creditore, ma anche la preordinazione dolosa del debitore di arrecare un
danno alle ragioni creditorie; se l’atto dispositivo (compiuto prima del sorgere
del credito) è a titolo oneroso, deve essere dimostrata la dolosa
preordinazione anche della controparte.
2. Il problema della revocatoria nelle obbligazioni solidali.
Si pone il problema del se, sussistendo tutti i presupposti della revocatoria, il
creditore possa esperire l’azione in esame nei confronti dell’atto di
disposizione posto in essere da uno dei condebitori solidali (e non da tutti i
coobbligati in solido)7.
La valutazione del giudice circa la sussistenza dell’eventus damni cambia a
seconda che si considera, quale garanzia, il patrimonio del solo coobbligato
che compie l’atto dispositivo ovvero anche il patrimonio degli altri condebitori.
Se si ritiene che, ai fini della revocatoria dell’atto dispositivo posto in essere
dal solo obbligato in solido, vada considerato solo il patrimonio del
coobbligato disponente, allora potrebbe ritenersi sussistente l’ eventus damni;
se si considera, invece, la più ampia garanzia patrimoniale di tutti gli obbligati
in solido, l’eventus damni, potenzialmente cagionato dall’atto dispositivo di un
solo coobbligato, avrà remote possibilità di verificazione.
La giurisprudenza rileva che la risposta soggiace nella concezione
dell’obbligazione solidale fondata sulla pluralità dei rapporti giuridici: infatti, vi
sono tanti rapporti giuridici quanti sono i condebitori. Siccome
nell’obbligazione solidale il creditore può chiedere la prestazione per l’intero
ad ogni singolo debitore, allora si può rilevare che il creditore potrà agire in
revocatoria qualora ritenga che anche solo quando uno dei debitori compia
7
B. QUATRARO, M. GIORGIETTI, A. FUMAGALLI, Revocatoria ordinaria e fallimentare. Azione
surrogatoria, Milano, 2009, pp. 1800 e ss..
44
De Iustitia
atti dispositivi tali da diminuire le garanzie patrimoniali generiche accessorie
all’adempimento dell’obbligazione solidale principale; secondo tale
orientamento non rileverebbe l’esame di tutti i patrimoni dei singoli
condebitori ai fini della valutazione della sussistenza dell’eventus damni. Oltre
che per ragioni di natura sostanziale legate alla solidarietà passiva
nell’adempimento del credito (cui corrisponde una più ampia garanzia
patrimoniale del creditore), anche per ovvie ragioni di carattere processuale,
legate alla semplificazione nell’onere dimostrativo della sussistenza
dell’eventus damni. In altri termini, l’eventus damni va riscontrato con
esclusivo riferimento alla situazione patrimoniale del debitore convenuto, non
rilevando l’indagine sull’eventuale solvibilità dei coobbligati.
3. Il problema della revocatoria del contratto preliminare.
Emerge poi il problema della revocatoria del contratto preliminare8, che
produce un effetto obbligatorio (e non traslativo) modificativo della sfera
giuridica, ma non di quella patrimoniale, del debitore. In questa specifica
ipotesi, vanno contemperate le esigenze del creditore di conservazione del
patrimonio del debitore, quale garanzia generica del credito, con le esigenze
del terzo promissario acquirente che ha riposto il suo affidamento nella esatta
esecuzione della prestazione dedotta nel contratto preliminare.
Pur essendo la stipulazione del contratto preliminare da parte del debitore un
atto dispositivo a contenuto patrimoniale, tale atto, però, non modifica la
situazione patrimoniale del promittente; per tale ragione, l’azione ex art. 2901
c.c. non può essere esperita, perché l’atto dispositivo non comporta una
modificazione quantitativa o qualitativa del patrimonio del debitore, requisito
che, invece, è richiesto ai fini dell’operatività della revocatoria. Per meglio
chiarire, il contratto preliminare, non producendo una modificazione oggettiva
del patrimonio, ma solo una modificazione giuridica soggettiva, non è
soggetto a revocatoria.
La giurisprudenza più risalente ha affermato che non sono soggetti a
revocatoria ordinaria gli atti conclusi in adempimento di un’obbligazione e, in
particolare, i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare
ovvero di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento
del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto 9.
E. SERRAO, Il contratto preliminare, Padova, 2011, pp. 611 e ss..
Si veda Cass., sez. I, 16 maggio 1962, n. 1094; Cass., sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025. Gli
atti, quali il contratto definitivo in esecuzione di un contratto preliminare o l’atto traslativo in
esecuzione di un negozio fiduciario, sono dovuti perché rappresentano «l’esecuzione doverosa
di un pactum de contraendo validamente posto in essere (sine fraude), cui il promissario non
potrebbe unilateralmente sottrarsi», per approfondimenti si rinvia a G. CHINÈ – M. FRATINI –
A. ZOPPINI, Manuale di diritto civile, V edizione, Nel Diritto editore, 2014, pp. 1005 e ss..
8
9
45
De Iustitia
A revocatoria è, pertanto, potenzialmente soggetto esclusivamente il
contratto definitivo10: questo, però, può considerarsi quale atto dovuto e ci si
deve chiedere se rientra nell’area di esclusione dell’azione revocatoria di cui
all’art. 2901 comma terzo c.c..
Tale contratto definitivo è attuativo del contratto preliminare ed è un atto
patrimoniale che modifica la sfera giuridica patrimoniale del debitore, in
quanto tale, potenzialmente assoggettabile a revocatoria.
L’eventus damni, quindi, va verificato in relazione al contratto definitivo e non
a quello preliminare.
L’elemento soggettivo – ossia il consilium fraudis –, invece, va verificato in
relazione al contratto preliminare. Infatti, il debitore ha esercitato la sua
libertà negoziale di disporre al momento della stipulazione del contratto
preliminare.
Quindi, ai fini dell’operatività dell’art. 2901 c.c., la sussistenza del presupposto
oggettivo (evento di danno) si verifica in relazione al contratto definitivo,
mentre l’elemento soggettivo (consapevolezza o dolosa preordinazione) va
valutato in relazione al contratto preliminare.
Ciò premesso, la giurisprudenza ritiene che se al momento della stipulazione
del contratto preliminare non sussisteva la consapevolezza o la dolosa
preordinazione di entrambi i contraenti (promittente-debitore e promissarioterzo), allora il contratto definitivo non può essere revocato; si ritiene, inoltre,
che non sia revocabile il contratto definitivo nemmeno se la consapevolezza
del danno arrecabile al creditore (consilium fraudis) sopravviene in capo al
terzo-acquirente tra il momento della stipula del preliminare e quello della
stipula del definitivo. La sopravvenuta consapevolezza non vale a configurare
la sussistenza del presupposto soggettivo ( consilium fraudis), perché nel
bilanciamento tra la tutela del debitore senza la consapevolezza di ledere le
ragioni del creditore e la tutela del creditore, prevale la tutela del debitore ad
adempiere l’atto preliminare cui si era obbligato nei confronti di un terzo che
era, in origine, del tutto ignaro di arrecare un danno mediante la stipulazione
di un contratto preliminare.
In conclusione, può affermarsi, che il debitore ha consumato la propria libertà
negoziale agendo senza il pregiudizio delle ragioni del creditore e, quindi, ha
posto in essere un atto di libertà negoziale che la giurisprudenza ritiene
meritevole di tutela più di quanto sia la necessità di garantire il creditore che
agisce in via revocatoria. Nonostante la sopravvenuta consapevolezza da
parte del terzo acquirente di arrecare pregiudizio al creditore che agisce ex
2901 c.c., la giurisprudenza ritiene che la domanda di revoca vada rigettata,
ritenendo prevalente l’affidamento originario riposto dal promissario
N. SANTI DI PAOLA, La revocatoria ordinaria e fallimentare nel decreto sulla competitività,
Recanati, 2006, p. 31.
10
46
De Iustitia
acquirente all’esecuzione del negozio obbligatorio: quindi, il contratto
definitivo, secondo questa giurisprudenza, rientra negli atti dovuti, salvo che
non si dimostri che la dolosa preordinazione di entrambe le parti (debitore e
terzo) risalga alla stipulazione del contratto preliminare.
4. La revocatoria della vendita con riserva di proprietà.
Si pone poi il problema dell’esperibilità dell’azione revocatoria qualora il
debitore ponga in essere un contratto di vendita con riserva della proprietà.
Il contratto in parola produce l’effetto traslativo della proprietà (modificativo
del patrimonio del debitore) solo quando l’acquirente avrà interamente pagato
il corrispettivo: sino a quel momento, il debitore resta proprietario del bene e
non si arreca alcun danno (nemmeno potenziale) in termini di garanzia per il
creditore.
La vendita con riserva di proprietà è, in genere, a rate: il contratto dovrebbe,
in applicazione del consenso traslativo, produrre immediatamente effetti
(trasferimento della proprietà pur in difetto di un contestuale pagamento), ma
le parti collegano alla vendita un patto di riservato dominio in forza del quale
l’alienante si riserva la proprietà del bene fino a quando l’acquirente non
abbia pagato quanto dovuto.
Il contratto in esame ha una funzione di garanzia evidente: infatti, il soggetto
che aliena il bene, per soddisfare il proprio diritto di credito ad ottenere il
pagamento del corrispettivo, si riserva la proprietà del bene fino al
pagamento dell’ultima rata di prezzo.
L’effetto della vendita con riserva di proprietà è un contratto istantaneo con
effetti reali differiti: la consegna del bene è immediata, mentre è differito nel
tempo il trasferimento della proprietà del bene.
Se la vendita con riserva di proprietà è istantanea, ma con effetti reali differiti,
la proprietà non è trasferita con la stipulazione del contratto e, quindi, non è
immediata neppure la modificazione patrimoniale nella sfera del debitore, la
quale si realizza al pagamento dell’ultima rata del prezzo pattuito nel
contratto di compravendita.
La vendita con riserva di proprietà, di conseguenza, non è revocabile, perché
non integra il secondo dei requisiti visti in precedenza, ossia non è dalla sua
stipulazione che si realizza l’atto dispositivo che modifica la sfera patrimoniale
del debitore. La revocatoria potrebbe essere esperita solo al momento del
pagamento dell’ultima rata di prezzo e, in particolare, quando l’acquirente
diventa proprietario del bene, analogamente a quanto visto nel caso di
revocabilità del contratto preliminare, in cui la revoca può operare se ha ad
oggetto il contratto definitivo, unico vero atto dispositivo del patrimonio del
debitore.
Nel caso della vendita con patto di riservato dominio, però, si ritiene che tale
47
De Iustitia
orientamento giurisprudenziale pregiudichi troppo l’esigenza di tutela del
creditore che agisce in via revocatoria.
Proprio questa esigenza ha indotto la giurisprudenza a rivedere la propria
posizione. Infatti, la giurisprudenza più attenta al fenomeno ha ritenuto che la
vendita con riserva di proprietà produce un progressivo mutamento della
sfera giuridica patrimoniale delle parti11, suscettibile di ingenerare un
depauperamento del debitore che è idoneo a giustificare la soggezione del
contratto di vendita con riserva della proprietà all’azione revocatoria dei
creditori dell’alienante, nonostante la mancanza di un’espressa previsione in
tal senso all’art. 1523 c.c..
5. La revocatoria del fondo patrimoniale.
L’atto dispositivo che pregiudica le ragioni del creditore può non essere un
atto traslativo.
Quest’ultimo, infatti, è sicuramente un atto dispositivo, ma ci sono anche atti
dispositivi non traslativi: ad esempio, gli atti di separazione patrimoniale
ovverosia quegli atti con cui il debitore pone un vincolo finalistico su certi beni,
sottraendoli ai creditori che non vantano diritti sul patrimonio separato per
assolvere una data finalità preposta. Esempio classico di patrimonio separato
è la costituzione di un fondo patrimoniale, cioè di quel complesso di beni
destinato a soddisfare i bisogni della famiglia.
Il fondo patrimoniale è un patrimonio destinato, separato rispetto a quello
personale dei coniugi. L’atto con cui si costituisce il fondo patrimoniale12 è un
atto conformativo della proprietà, ma non un atto dispositivo traslativo della
proprietà, perché i beni del fondo patrimoniale sono beni di proprietà dei
coniugi e sono da questi resi indisponibili per fini diversi da quelli indicati nel
vincolo di destinazione stabilito nell’atto costitutivo del fondo.
Tale tipologia di atti, pur non essendo traslativi, sono comunque dispositivi
(modificativi della sfera patrimoniale di un soggetto), perché i beni che
servono a soddisfare i bisogni della famiglia non vengono trasferiti da una
sfera giuridica all’altra, ma si opera una separazione nell’ambito della sfera
Cass.civ., sez. III, del 24 novembre 2010 n. 23818, in C.E.D. Cass., per cui ai fini dell’azione
revocatoria ex art. 2901 c.c., la vendita con patto di riservato dominio comporta sempre un
depauperamento del patrimonio del debitore nel suo complesso, sia per l’ipotesi in cui delle
cose alienate il compratore diviene proprietario con il pagamento dell’ultima rata del prezzo, sia
per il caso in cui non giunge a conclusione per il compratore la fattispecie acquisitiva della
proprietà e, a carico del venditore, sorge l’obbligazione di restituzione delle rate riscosse,
tenuto conto, altresì, del fatto che il danaro corrispondente alle rate riscosse, per sua natura
meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, non elimina il pericolo di danno costituito
dall’eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva.
12 V. amplius P. DELL’ANNA, Patrimoni destinati e fondo patrimoniale, Milano, 2009, pp. 550
ss..
11
48
De Iustitia
giuridica dei coniugi, per cui i beni del fondo sono “beni speciali” rispetto ai
“beni generali” dei coniugi e i creditori personali dei coniugi non possono
rivalersi sui beni del fondo patrimoniale.
Per quanto detto, essendo l’atto costitutivo del fondo un atto dispositivo
(anche se non traslativo), la giurisprudenza ritiene revocabili gli atti di
costituzione del fondo patrimoniale.
«Conseguenza di ciò è la soggezione dell’atto costitutivo e di conferimento di
beni nel fondo patrimoniale all’azione revocatoria, anche nel caso in cui il
fondo patrimoniale sia stato costituito anteriormente al sorgere del credito,
purché in questo caso sussista la dolosa preordinazione dell’atto da parte del
debitore al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito stesso» 13.
Sul piano processuale, la legittimazione passiva avverso l’azione revocatoria
spetta ad entrambi i coniugi, perché il fondo patrimoniale rientra nella
contitolarità di entrambi i coniugi.
6. La revocatoria rispetto all’accordo di separazione consensuale.
L’accordo14di separazione in parola, secondo la giurisprudenza è un atto misto
e complesso, che per la parte relativa alle disposizioni patrimoniali è ritenuto
un contratto.
Di regola l’accordo di separazione consensuale non produce effetti traslativi,
ma è un accordo programmatico (che è un negozio obbligatorio): con il
negozio in parola, le parti assumono degli obblighi (anche di trasferimento
della proprietà dei beni) in vista della separazione. Tale definizione fa rientrare
l’accordo in esame nella categoria dei negozi traslativi.
Se l’accordo di separazione consensuale è un accordo programmatico, ossia
un negozio obbligatorio, allora non è un atto dispositivo che produce effetti
patrimoniali e, analogamente a quanto avviene per il contratto preliminare,
non è revocabile in quanto non è un atto dispositivo del patrimonio.
Di regola, quindi, l’accordo non è soggetto a revocatoria, ma può esserlo
l’atto di adempimento (traslativo) dell’accordo con cui si trasferisce la
proprietà. La tutela revocatoria del creditore della parte dell’accordo ha ad
oggetto il negozio traslativo della proprietà dei beni e non l’accordo di
separazione consensuale che è un atto meramente programmatico (ad effetti
obbligatori).
7. I limiti dell’azione revocatoria e la novella ex l. 132 del 2015, che
ha introdotto il 2929-bis c.c.: la c.d. azione esecutiva anticipata.
La tutela del creditore con l’azione revocatoria, presenta dei limiti sotto due
profili:
13
14
Vedi G. CHINÈ – M. FRATINI – A. ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., pp. 1009 e ss..
R. ROSSI, La famiglia le persone. Aggiornamento, Vol. II-III, Milano, 2009, pp. 528 e ss..
49
De Iustitia
1) il creditore, per esperire l’azione revocatoria, ha l’onere di provare la
sussistenza dei presupposti operativi (in particolare il presupposto
soggettivo che risulta di non semplice prova);
2) il creditore, per soddisfare il proprio credito, ha l’onere di esperire due
azioni, ossia l’azione revocatoria per ottenere l’inefficacia dell’atto
dispositivo e la successiva azione esecutiva per aggredire i beni del
debitore.
La difficoltà della prova (soprattutto dell’elemento soggettivo) e, quindi, la
scarsa efficacia della tutela del creditore con la revocatoria, ha fatto sì che il
Legislatore, al fine di non pregiudicare gli investimenti, con il d.l. 27 giugno
2015 n. 83 (art. 12), convertito nella legge 6 agosto 2015 n. 132, ha
introdotto con l’art. 2929-bis15 c.c. la c.d. azione esecutiva anticipata, in forza
della quale il creditore può procedere all’azione esecutiva direttamente, senza
dover attendere l’azione revocatoria16.
La norma attribuisce la possibilità di esperire l’azione esecutiva anticipata, a
certe condizioni:
- il credito deve essere sorto anteriormente all’atto che lo pregiudica
(«atto compiuto successivamente al sorgere del credito»);
- il credito deve essere munito di titolo esecutivo, da ciò si comprende
che la tutela ex art. 2929-bis non è applicabile a qualunque credito;
- l’atto deve essere compiuto a titolo gratuito, quindi sono esclusi dal
campo di applicazione dell’azione esecutiva anticipata gli atti onerosi;
- le tipologie di atti inclusi sono gli atti di alienazione o gli atti costitutivi
di vincoli di indisponibilità. Questi ultimi consistono in un atto di
destinazione con cui viene impresso un vincolo conformativo di beni
ad una determinata destinazione: vi rientrano gli atti traslativi, ma
Art. 2929-bis: «Il creditore che sia pregiudicato da un atto del debitore, di costituzione di
vincolo di indisponibilità o di alienazione, che ha per oggetto beni immobili o beni mobili iscritti
in pubblici registri, compiuto a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito, può
procedere, munito di titolo esecutivo, ad esecuzione forzata, ancorché non abbia
preventivamente ottenuto sentenza di vittorioso esperimento dell'azione revocatoria, se
trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l'atto è stato trascritto. La
disposizione di cui al presente comma si applica anche al creditore anteriore che, entro un
anno dalla trascrizione dell'atto pregiudizievole, interviene nell'esecuzione da altri promossa.
Quando il pregiudizio deriva da un atto di alienazione, il creditore promuove l'azione esecutiva
nelle forme dell'espropriazione contro il terzo proprietario.
Il debitore, il terzo assoggettato ad espropriazione e ogni altro interessato alla conservazione
del vincolo possono proporre le opposizioni all'esecuzione di cui al Titolo V del Libro III del
Codice di procedura civile quando contestano la sussistenza dei presupposti di cui al primo
comma, nonché la conoscenza, da parte del debitore, del pregiudizio che l'atto arrecava alle
ragioni del creditore».
16 G. ANDREANI, Crisi d’impresa. Le nuove disposizioni fallimentari e fiscali, Milano, 2015, pp.
65 e ss..
15
50
De Iustitia
anche gli atti non traslativi costitutivi di vincoli che determinano
l’indisponibilità di quel bene;
- l’atto deve pregiudicare le ragioni del creditore ( eventus damni);
- il primo comma della norma non fa riferimento allo stato soggettivo
del debitore che compie l’atto. In realtà, bisogna fare attenzione,
perché il presupposto soggettivo è previsto implicitamente dal terzo
comma (il debitore che subisce l’azione ex art. 2929-bis, per tutelarsi
deve fornire la prova che non sussisteva la conoscenza del pregiudizio);
- l’atto deve avere ad oggetto solo beni immobili o beni mobili registrati,
cioè atti soggetti a trascrizione;
- il debitore deve trascrivere l’azione esecutiva entro il termine di un
anno da quando è stato trascritto l’atto pregiudizievole.
Con riferimento all’ultima delle condizioni, si evidenzia che il Legislatore
effettua un bilanciamento tra interessi in conflitto fra loro: da un lato, vi è
l’interesse del terzo che ha acquistato e trascritto a conservare la proprietà
del bene; dall’altro, l’interesse del creditore a soddisfare le proprie ragioni. A
riguardo, occorre notare che la trascrizione dell’azione esecutiva avviene dopo
la trascrizione dell’atto pregiudizievole a carattere traslativo posto in essere
dal debitore a titolo gratuito a favore di un terzo che ha acquistato la
proprietà sulla base di un atto trascritto.
Se valesse il principio logico/cronologico, in base al quale chi trascrive per
primo è titolare di un diritto opponibile a chiunque abbia trascritto
successivamente, il terzo che ha trascritto l’atto di acquisto prima della
trascrizione dell’esecuzione del creditore dell’alienante dovrebbe prevalere.
Tuttavia, l’art. 2929-bis c.c. prevede che, anche se si è trascritta
successivamente l’azione esecutiva anticipata, il creditore può comunque
rivalersi sul terzo che ha trascritto per primo.
Vi è una deroga al principio generale cronologico che vige in materia di
trascrizione.
Questo bilanciamento di interessi viene operato dal Legislatore a favore del
creditore che agisce ai sensi dell’art. 2929-bis c.c.: la legge fa prevalere la
tutela del creditore, a scapito di quella del terzo acquirente che ha acquistato
– rientrando nel campo applicativo dell’articolo in esame – a titolo gratuito (e
non oneroso) il bene, perché per il Legislatore è preferibile tutelare il
creditore piuttosto che il terzo che ha acquistato senza oneri di spesa.
La soddisfazione dell’interesse del creditore non pregiudica il terzo se non nei
limiti del vantaggio che ha ricevuto dall’atto, riportando così il terzo nelle
stesse condizioni che aveva prima della stipulazione dell’atto a titolo gratuito.
La funzione dell’art. 2929-bis c.c. è, quindi, il rafforzamento della tutela del
creditore a fronte di atti che proprio in virtù della loro natura gratuita
costituiscono un mezzo per sottrarre risorse alla garanzia patrimoniale del
51
De Iustitia
creditore, eludendo l’obbligo della responsabilità patrimoniale del debitore ex
2740 c.c..
8. La natura giuridica dell’art. 2929-bis c.c..
Il rimedio in parola è uno strumento di aggressione del patrimonio di un
soggetto, uno strumento di esecuzione, quindi, ha natura esecutiva, ma è
un’azione esecutiva sul patrimonio del terzo e non del debitore.
L’azione esecutiva ex art. 2929-bis è esecutiva, ma postula l’inefficacia
dell’atto dispositivo per poter aggredire il patrimonio del terzo.
L’azione in esame contempla in re ipsa l’inefficacia dell’atto che pregiudica la
garanzia patrimoniale del creditore che agisce ex art. 2929-bis c.c.: da tale
inefficacia – seppur non dimostrata – si giustifica l’aggressione da parte del
creditore del patrimonio del terzo che ha ricevuto il bene a titolo gratuito da
parte del debitore, perché se l’atto traslativo tra debitore e terzo è inefficace,
il bene non è mai entrato nel patrimonio del terzo. Il creditore può aggredire
il bene, perché la res è come se non fosse mai uscita dalla sfera giuridica
patrimoniale del debitore.
Per tale ragione, il creditore può anticipare i tempi richiesti dall’esperimento di
un’azione revocatoria agendo con l’azione esecutiva anticipata.
Il 2929-bis è, dunque, uno strumento alternativo alla scelta di agire in
revocatoria per l’inefficacia e, solo successivamente, agire in via esecutiva.
Sotto il profilo della natura giuridica, l’azione ex art. 2929-bis ha natura mista
di azione esecutiva (mezzo di adesione del bene) e di mezzo di conservazione
della garanzia (come la revocatoria).
Infatti, l’azione in esame presenta profili di similitudine con la revocatoria,
poiché ad accomunare dette azioni è sia il presupposto oggettivo ( eventus
damni), sia quello soggettivo (la consapevolezza del debitore di arrecare un
pregiudizio al creditore).
Vi sono, però, anche profili di differenza con l’azione revocatoria. Da un lato,
infatti, la revocatoria può avere ad oggetto atti compiuti a titolo gratuito o
oneroso, mentre l’azione ex art. 2929-bis solo atti a titolo gratuito; dall’altro,
la revocatoria può avere ad oggetto anche atti dispositivi compiuti
anteriormente al sorgere del credito, mentre la revocatoria ex art. 2929-bis
può avere ad oggetto solo atti successivi al sorgere del credito.,
Da ultimo, nell’azione revocatoria, l’onere della prova grava sul creditore,
mentre l’art. 2929-bis sembra propendere per una diversa ripartizione degli
oneri probatori.
Nell’azione posta ai sensi dell’art. 2929-bis il Legislatore prevede al terzo
comma che «il debitore, il terzo assoggettato ad espropriazione e ogni altro
interessato alla conservazione del vincolo possono proporre le opposizioni
all’esecuzione di cui al Titolo V del Libro III del Codice di procedura civile
52
De Iustitia
quando contestano la sussistenza dei presupposti di cui al primo comma,
nonché la conoscenza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto
arrecava alle ragioni del creditore».
Nell’azione ex art. 2929-bis è il debitore che, opponendosi all’azione esecutiva,
deve provare i presupposti dell’aggressione (mancanza di pregiudizio, di
consapevolezza, la natura non gratuita dell’atto ad es. in base ad un
collegamento negoziale con altro atto a titolo oneroso, la non anteriorità del
credito), risultando così invertito l’onere della prova che incombe sul debitoreopponente. Nell’azione revocatoria ordinaria, invece, il creditore che agisce
deve provare i presupposti applicativi: per questi motivi si può affermare che
l’azione ex art. 2929-bis rafforza la tutela del creditore.
D’altro canto, però, l’azione revocatoria ordinaria è esperibile entro il termine
di prescrizione di cinque anni, mentre l’azione ex art. 2929-bis soggiace ad un
termine – di decadenza e non di prescrizione – più breve (entro un anno dalla
trascrizione dell’atto pregiudizievole). Trascorso un anno, il creditore può
comunque esperire l’alternativo rimedio della revocatoria entro il termine di
prescrizione di cinque anni.
Sennonché, l’art. 2929-bis, nel rafforzare la tutela del creditore, genera un
conflitto tra creditori del debitore che esperiscono l’azione esecutiva anticipata
e i creditori del terzo acquirente a titolo gratuito, che vedono il patrimonio del
terzo aumentare con il conseguente aumento della garanzia patrimoniale
generica a vantaggio dei creditori del terzo.
A tal proposito, ci si chiede tra i creditori dell’alienante e quelli dell’acquirente,
quale sia la categoria di creditori a prevalere.
Prima dell’avvento dell’art. 2929-bis c.c., questo conflitto tra i creditori
dell’alienante e quelli del terzo acquirente veniva risolto a favore dei creditori
dell’acquirente, perché il bene era ormai entrato nel patrimonio del terzo
acquirente, salvo non fosse utilmente esperita la revocatoria del creditore
dell’alienante volta ad ottenere la declaratoria di inefficacia dell’atto
dispositivo.
Con l’avvento dell’art. 2929-bis, se è stata introdotta un’azione revocatoria
automatica e se, come detto in precedenza, l’atto è inefficace in re ipsa (o
meglio, è presuntivamente inefficace), allora i creditori dell’alienante
prevalgono sui creditori dell’acquirente.
L’art. 2929-bis, oltre a pregiudicare i creditori dell’acquirente, può inoltre
pregiudicare anche i terzi subacquirenti.
Si pensi all’ipotesi in cui Tizio (debitore) alieni il bene a titolo gratuito a Caio,
il quale lo trasferisca a sua volta a Sempronio. In tale evenienza, posto che i
creditori di Tizio, come detto, possono agire nei confronti di Caio (terzo
acquirente), ci si chiede se gli stessi possano agire anche nei confronti di
Sempronio (terzo subacquirente).
53
De Iustitia
Occorre distinguere se l’atto dispositivo nei confronti di Sempronio è a titolo
gratuito ovvero a titolo oneroso.
Se il terzo subacquirente ha acquistato a titolo gratuito, è applicabile l’art.
2929-bis perché la ratio di tale norma è frenare la diminuzione della garanzia
patrimoniale generica del debitore a fronte di un atto a titolo gratuito a favore
di terzi aventi causa. Per tale considerazione, la ratio che fa prevalere i
creditori del debitore (in ipotesi Tizio) sul primo acquirente (Caio) sarà
applicabile anche ai subacquirenti: i creditori del debitore prevalgono anche
sui subacquirenti e potranno soddisfare il loro credito anche sul bene
trasferito ai subacquirenti; in sintesi, prevale l’esigenza di tutela del creditore
che può agire ex 2929-bis nei confronti dei subacquirenti a titolo gratuito.
Se il subacquirente ha acquistato a titolo oneroso, invece, si pone il problema
se venga fatto salvo il suo acquisto a scapito delle esigenze di tutela del
credito ex art. 2929-bis c.c..
L’art. 2929-bis è comunque una forma di azione revocatoria pertanto va
considerato unitamente all’art. 2901, ultimo comma c.c..17 Si ritiene che se il
subacquirente ha acquistato a titolo oneroso e in buona fede, questo acquisto
prevale rispetto ai diritti dei creditori dell’originario alienante debitore per
applicazione analogica dell’art. 2901 ultimo comma c.c.. Se il subacquirente
ha acquistato in mala fede, prevale il creditore dell’originario debitorealienante.
Tale interpretazione del dato normativo implica, nell’ipotesi in cui il
subacquirente abbia acquistato a titolo oneroso, un’inversione dell’onere della
prova rispetto all’art. 2929-bis c.c., che ritorna sul creditore che agisce in
revocatoria.
Se il creditore ex art. 2901 c.c. ha trascritto la domanda revocatoria prima
della trascrizione dell’acquisto del terzo prevale il diritto del creditore. Infatti,
applicando l’art. 2901, ultimo comma c.c. in via analogica all’art. 2929-bis c.c.,
il terzo, che trascrive il titolo di acquisto a titolo oneroso dopo la trascrizione
dell’azione esecutiva anticipata, è soccombente rispetto alle esigenze di tutela
del creditore. L’art. 2929-bis c.c., infatti, si applica anche se il subacquirente è
a titolo oneroso perché per l’esperibilità dell’azione esecutiva anticipata è
richiesta la gratuità solo del primo atto dispositivo del patrimonio del debitore
non considerandosi gli atti dispositivi dei subacquirenti.
Si potrebbe, dunque, affermare che il creditore può prevalere sul terzo
subacquirente che ha acquistato a titolo oneroso, qualora il creditore abbia
trascritto l’azione esecutiva ex art. 2929-bis prima del terzo subacquirente.
17
In forza del quale «L'inefficacia dell’atto non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai
terzi di buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione».
54
De Iustitia
La crisi delle banche e il bail-in
di Fabio SCORZELLI*
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La B.R.R.D. e i d.lgs. n. 180/2015 e n.
181/2015. 3. Cos’è e come funziona il bail-in. 4. I fondi di risoluzione
nazionale e il S.R.F. 5. Osservazioni conclusive. 5.1 Una possibile lesività
dell’art. 47 della Costituzione. 5.2 La tutela giurisdizionale ex art. 95 del
Decreto.
1. Introduzione.
Obiettivo del presente lavoro è quello di fornire al lettore una panoramica
sulla disciplina normativa del nuovo regime di risoluzione delle crisi bancarie
con particolare riferimento allo strumento del bail-in (“salvataggio interno”).
Al riguardo vengono in rilievo i Decreti legislativi n. 180/2015 (cfr. par. 2) e n.
181/20151, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale 267 del 16 novembre 2015,
hanno recepito la direttiva 2014/59/UE (c.d. B.R.R.D., Bank Recovery and
Resolution Directive, di seguito anche la “Direttiva”) che ha dettato regole
armonizzate per prevenire e gestire le crisi delle banche e delle imprese di
investimento.
Tra le novità di maggiore rilievo nella gestione delle crisi bancarie introdotte
dalla normativa di recepimento, si inserisce il meccanismo del bail-in, in forza
del quale, nel caso di perdite degli istituti creditizi, non interverrà più lo Stato
(bail-out, “salvataggio esterno”), ma sarà la stessa banca a dover far fronte al
proprio momento di difficoltà; ciò in prima battuta, attraverso gli azionisti e a
seguire tramite i detentori di obbligazione subordinate e senior e, infine,
mediante i correntisti con liquidità su conto corrente superiore ai 100mila
euro. Qualora anche questo meccanismo risultasse inadeguato a rimediare
*
Consulente legale di diritto bancario e regolamentare.
Il Decreto legislativo 180/2015 introduce una disciplina specifica in materia di predisposizione
di piani di risoluzione, di adozione delle misure di risoluzione, di gestione delle crisi di crossborder, di poteri e funzioni delle autorità di risoluzione nazionale e della disciplina del fondo di
risoluzione nazionale. Il Decreto legislativo 181/2015, invece, apporta modifiche al Testo Unico
Bancario e al Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria, introducendo disposizioni
sui piani di risanamento, forme di sostegno infragruppo e misure di intervento precoce; inoltre,
modifica la normativa sull’amministrazione straordinaria, allineandola alla disciplina europea, e
sulla liquidazione coatta amministrativa, adeguandola al nuovo regime previsto dalla Direttiva.
1
55
De Iustitia
alla fase di dissesto, si ricorrerà – in ultima istanza – al c.d. meccanismo di
risoluzione unico, ossia all’utilizzo dei Fondi di liquidazione alimentati dalle
banche che partecipano al sistema2.
Gli intermediari, pertanto, avranno l’onere di esplicitare alla propria clientela –
professionale e retail – i rischi inerenti all’applicazione del nuovo regime dei
salvataggi bancari connessi con il bail-in, fornendo informazioni adeguate al
fine di garantire alla propria clientela una piena consapevolezza dei rischi che
si potrebbero prospettare a seguito delle scelte di investimento.
2. La B.R.R.D. e i d.lgs. n. 180/2015 e n. 181/2015.
La Direttiva3 – che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti
creditizi e delle imprese di investimento – è stata recepita in Italia mediante
l’emanazione di due Decreti Legislativi 180/2015 (di seguito, il “Decreto”) e
181/2015 pubblicati in Gazzetta Ufficiale il 16 novembre 2015.
La B.R.R.D., nel quadro delle riforme internazionali a seguito della crisi
finanziaria, si pone come obiettivo ultimo la riduzione degli effetti negativi dei
dissesti bancari e la possibilità che questi ultimi possano concretamente
verificarsi.
La Direttiva, inoltre, disincentivando l’assunzione di rischi eccessivi da parte
degli amministratori e degli azionisti delle banche, sancisce il principio
generale in base al quale l’eventuale situazione di dissesto di una banca dovrà
essere sopportata in primis dagli azionisti e – a seguire – dai creditori della
banca, e solo successivamente si potrà far ricorso al Fondo di risoluzione
alimentato dalle banche che partecipano al sistema.
Il nuovo regime normativo, quindi, nel tentativo di ridurre gli effetti negativi
che potrebbero impattare sull’intero sistema economico a seguito del dissesto
finanziario di un intermediario, è proiettato ad una gestione della crisi
mediante l’utilizzo di risorse provenienti dal settore privato, subordinando il
sostegno finanziario pubblico all’infruttuoso esperimento di tutti gli strumenti
di risoluzione previsti dalla normativa4.
2
Il Meccanismo unico di risoluzione prevede anche l’istituzione di un Comitato unico di
risoluzione (“Single Resolution Board”) che ha il compito di avviare e gestire il procedimento di
risoluzione oltre alla gestione delle risorse del Fondo.
3 Che modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio e le direttive 2001/24/Ce, 2002/47/Ce,
2004/25/Ce, 2005/56/Ce, 2007/36/Ce, 2011/35/Ue, 2012/30/Ue e 2013/36/Ue e i Regolamenti
Ue n. 1093/2010 e Ue n. 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio.
4 Cfr. art. 18 del Decreto n. 180/2015 (“Sostegno finanziario pubblico straordinario”).
56
De Iustitia
Il Decreto indica, all’art. 2, i soggetti rientranti nell’ambito di applicazione
dello stesso e segnatamente:
a) le banche aventi sede legale in Italia;
b) le società italiane capogruppo di un gruppo bancario e società
appartenenti a un gruppo bancario ai sensi degli articoli 60 e 61 del Testo
Unico Bancario5;
c) le società incluse nella vigilanza consolidata ai sensi dell’articolo 65,
comma 1, lettere c) e h), del Testo Unico Bancario 6;
d) le società aventi sede legale in Italia incluse nella vigilanza
consolidata in un altro Stato membro.
L’applicabilità dello stesso Decreto si estende inoltre alle succursali di banche
extracomunitarie stabilite in Italia7.
Al riguardo, giova evidenziare che il Decreto 181/2015 estende il raggio di
azione delle misure di risoluzione previste nel Decreto anche alle S.I.M. che
svolgano attività analoghe agli intermediari individuati dal citato art. 2 del
Decreto e, in aggiunta, alle capogruppo di gruppi di cui all’art. 11 del d.lgs.
58/1998 (c.d. T.U.F.).
Il Decreto, nel rispetto delle disposizioni della Direttiva – che stabilisce
l’affidamento dei compiti di gestione della crisi a un’Autorità amministrativa
indipendente (già esistente o creata ad hoc) – individua nella Banca d’Italia
l’autorità di risoluzione suddetta, dotandola dei relativi poteri previsti dalla
normativa in armonia con le disposizioni dell’Unione Europea.
A tal fine, lo stesso Decreto prevede una collaborazione della Banca d’Italia
con la Banca Centrale Europea, con le autorità e i comitati che compongono il
S.E.V.I.F.8e con le altre autorità e istituzioni indicate dalle disposizioni
dell’Unione europee e sancisce la possibilità per la stessa di concludere
accordi con l’Autorità Bancaria Europea e con le autorità di risoluzione degli
5
L’art. 60 del T.U.B. indica la composizione del “Gruppo bancario”, mentre l’art. 61 sancisce la
definizione di banca o società “Capogruppo”.
6 Art. 65del T.U.B. lett. c) società bancarie, finanziarie e strumentali non comprese in un
gruppo bancario, ma controllate dalla persona fisica o giuridica che controlla un gruppo
bancario ovvero una singola banca; lett. h) società che controllano almeno una banca.
7 Cfr. art. 3 del Decreto 180/2015.
8 Il Sistema europeo di vigilanza finanziaria di cui all’articolo 1, comma 1, lettera h-bis), del
Testo Unico Bancario.
57
De Iustitia
altri Stati membri9.
La Banca d’Italia, pertanto, in base all’art. 20 comma 1 del Decreto, nel caso
in cui «ricorrano congiuntamente i presupposti»10 per l’attivazione delle
procedure per la gestione della crisi dell’intermediario, dispone:
«a) la riduzione o conversione di azioni, di altre partecipazioni e di strumenti
di capitale emessi dalla banca, secondo quanto previsto dal Capo II, quando
ciò consente di rimediare allo stato di dissesto o di rischio di dissesto di cui
all’articolo 17, comma 1, lettera a);
b) la risoluzione della banca secondo quanto previsto dal Capo III o la
liquidazione coatta amministrativa secondo quanto previsto dall’articolo 80 del
Testo Unico Bancario se la misura indicata alla lettera a) non consente di
rimediare allo stato di dissesto o di rischio di dissesto.»
Il comma 2 dello stesso articolo 20 precisa che la Banca d’Italia ricorrerà alla
risoluzione di cui al punto b) che precede quando la stessa abbia «accertato
la sussistenza dell’interesse pubblico che ricorre quando la risoluzione è
necessaria e proporzionata per conseguire uno o più obiettivi indicati
9
Art. 3 del Decreto 180/2015. In quanto Autorità di risoluzione nazionale, la Banca d’Italia
partecipa al Comitato Unico di Risoluzione e al Comitato delle autorità di risoluzione
dell’Autorità Bancaria Europea (European Banking Authority, E.B.A.).
10 Art. 17 del Decreto n. 180/2015 (Presupposti comuni alla risoluzione e alle altre procedure di
gestione delle crisi).
1. Una banca è sottoposta a una delle misure indicate all’articolo 20 quando ricorrono
congiuntamente i seguenti presupposti:
a) la banca è in dissesto o a rischio di dissesto secondo quanto previsto dal comma 2;
b) non si possono ragionevolmente prospettare misure alternative che permettono di superare
la situazione di cui alla lettera a) in tempi adeguati, tra cui l’intervento di uno o più soggetti
privati o di un sistema di tutela istituzionale, o un’azione di vigilanza, che può includere misure
di intervento precoce o l’amministrazione straordinaria ai sensi del Testo Unico Bancario.
2. La banca è considerata in dissesto o a rischio di dissesto in una o più delle seguenti
situazioni:
a) risultano irregolarità nell’amministrazione o violazioni di disposizioni legislative,
regolamentari o statutarie che regolano l’attività della banca di gravità tale che
giustificherebbero la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività;
b) risultano perdite patrimoniali di eccezionale gravità, tali da privare la banca dell’intero
patrimonio o di un importo significativo del patrimonio;
c) le sue attività sono inferiori alle passività;
d) essa non è in grado di pagare i propri debiti alla scadenza;
e) elementi oggettivi indicano che una o più delle situazioni indicate nelle lettere a), b), c) e d)
si realizzeranno nel prossimo futuro;
f) è prevista l’erogazione di un sostegno finanziario pubblico straordinario a suo favore, fatto
salvo quanto previsto dall’articolo 18.
3. Le misure indicate all’articolo 20 possono essere disposte anche se non sono state
precedentemente adottate misure di intervento precoce o l’amministrazione straordinaria.
58
De Iustitia
all’articolo 2111e la sottoposizione della banca a liquidazione coatta
amministrativa non consentirebbe di realizzare questi obiettivi nella stessa
misura».
Da ultimo, si evidenzia che tra i poteri riconosciuti alla Banca d’Italia rientrano
anche i diversi strumenti di “intervento precoce” 12 – attivabili, cioè, prima, che
si necessiti il ricorso alle misure di risoluzione – nel caso in cui si riscontri la
violazione dei requisiti prudenziali a causa di un rapido deterioramento della
situazione dell’intermediario o del gruppo.
La Banca d’Italia, quindi, in qualità di Autorità di risoluzione, sulla base delle
informazioni che gli intermediari le forniscono, predispone – anche con la
collaborazione degli intermediari – “piani di risoluzione”13 che «individuino le
strategie e le azioni da intraprendere in caso di crisi». Tali piani, aventi ad
oggetto sia singoli intermediari che gruppi, saranno revisionati annualmente.
Al fine, quindi, di avviare il relativo processo di risoluzione, che abbia come
obiettivo la continuità dello svolgimento delle prestazioni dei servizi essenziali
offerti dall’intermediario (ad esempio i depositi), la Banca d’Italia farà ricorso
alle diverse misure (di risoluzione) previste all’articolo 39, comma 1, del
Decreto14, tra le quali – alla lettera d) – si annovera il bail-in, «che consiste
nella riduzione dei diritti degli azionisti e dei creditori o nella conversione in
capitale dei diritti di questi ultimi»15.
11 Art. 21 del Decreto n. 185/2015 (Obiettivi della risoluzione):
«1. La Banca d’Italia esercita i poteri ad essa attribuiti dal presente decreto avendo riguardo
alla continuità delle funzioni essenziali dei soggetti di cui all’articolo 2, alla stabilità finanziaria,
al contenimento degli oneri a carico delle finanze pubbliche, alla tutela dei depositanti e degli
investitori protetti da sistemi di garanzia o di indennizzo, nonché dei fondi e delle altre attività
della clientela.
2. Nel perseguire gli obiettivi di cui al comma 1, si tiene conto dell’esigenza di minimizzare i
costi della risoluzione e di evitare, per quanto possibile, distruzione di valore.»
12 Cfr. Artt. 69 octiedecies – 69 noviedecies, 69 vicies, 69 vicies semel, 69 vicies-bis del d.lgs.
181/2015.
13 A differenza di quest’ultimi, i “piani di risanamento” (introdotti dal Decreto 181/2015 nel
T.U.B.) sono elaborati dagli stessi intermediari, aggiornati annualmente (esclusa l’ipotesi in cui
la Banca d’Italia richieda una maggiore frequenza) e comunicati all’Autorità di risoluzione e
sottoposti all’approvazione dell’Autorità di Vigilanza. L’obiettivo di tali piani consiste
nell’adozione di misure idonee al riequilibrio patrimoniale, reddituale e di liquidità in caso di
significativo deterioramento.
14 Rientrano nelle misure di risoluzione: oltre il bail-in, la cessione dei beni e dei rapporti
giuridici ad un soggetto terzo, la cessione dei beni e dei rapporti giuridici a un ente-ponte, la
cessione dei beni e dei rapporti giuridici a una società veicolo per la gestione delle attività.
15 Comunicazione della C.O.N.S.O.B. n. 0090430 del 24-11-2015.
59
De Iustitia
3. Cos’è e come funziona il bail-in?
Il meccanismo del bail-in, entrato in vigore il 1° gennaio 2016, è diretto alla
ricapitalizzazione delle banche in perdita, coinvolgendo azionisti,
obbligazionisti e creditori delle banche stesse, mediante la conversione
obbligatoria di strumenti di debito in azioni, la riduzione del loro valore o la
loro cancellazione; obiettivo principale è la riduzione degli effetti della crisi
dell’intermediario sull’intero sistema economico senza l’utilizzo di risorse
pubbliche.
Infatti, è la stessa Direttiva a ritenere opportuna la creazione di «un regime
che fornisca alle autorità un insieme credibile di strumenti per un intervento
sufficientemente precoce e rapido in un ente in crisi o in dissesto, al fine di
garantire la continuità delle funzioni finanziarie ed economiche essenziali
dell’ente, riducendo al minimo l’impatto del dissesto sull’economia e sul
sistema finanziario. Il regime dovrebbe assicurare che gli azionisti sostengano
le perdite per primi e che i creditori le sostengano dopo gli azionisti, purché
nessun creditore subisca perdite superiori a quelle che avrebbe subito se
l’ente fosse stato liquidato con procedura ordinaria di insolvenza […]»16.
Nel seguente grafico è mostrato il funzionamento del bail-in17:
16
Direttiva 2014/59/UE, Considerando n. 5.
Grafico tratto dalla Comunicazione di Banca d’Italia dell’8 luglio 2015 “ Che cosa cambia nella
gestione delle crisi bancarie”.
17
60
De Iustitia
Nelle prime due colonne sono rappresentate rispettivamente le attività della
Banca e la suddivisione delle stesse in capitale (verde) in passività soggette al
meccanismo del bail-in (giallo) e in quelle escluse dallo stesso (arancione) ai
sensi dell’art. 49 (v. infra). Nelle successive colonne viene riportata una
situazione di dissesto (rosso) e con relativa riduzione delle attività e
azzeramento del capitale. Infine, le ultime due colonne rappresentano la fase
di risoluzione con l’applicazione del bail-in il quale permette la ricostruzione
del capitale, convertendo parte delle passività ammissibili in azioni.
L’art. 49 del Decreto, al comma 1, stabilisce che «[s]ono soggette al bail-in
tutte le passività18ad eccezione» di quelle indicate al comma 1 e al comma 2
dello stesso articolo (ad esempio i depositi protetti, le passività garantite
incluse le obbligazioni bancarie garantite). L’ammontare di tali passività –
Oltre le passività sono inclusi nel meccanismo del bail-in anche i contratti derivati (cfr. art.
54 del d.lgs. 180/2015).
18
61
De Iustitia
sottoposte al bail-in – viene determinato in base ad una valutazione
«effettuata su incarico della Banca d’Italia da un esperto indipendente, ivi
incluso il commissario straordinario nominato ai sensi dell’articolo 71 del Testo
Unico Bancario»19.
Inoltre, la Direttiva (all’art. 44 comma 3) stabilisce che «[i]n circostanze
eccezionali, quando è applicato lo strumento del bail-in, l’autorità di
risoluzione può escludere, integralmente o parzialmente, talune passività
dall’applicazione dei poteri di svalutazione o di conversione […]».
Sono soggetti al meccanismo di cui al grafico precedente sia gli azionisti e i
creditori indicati all’art. 52 del Decreto e all’art. 1, comma 33, e 3, comma 9
del d.lgs. 181/2015, sia i correntisti che hanno depositato nella banca in
difficoltà più di 100 mila euro, per la parte che eccede tale cifra.
Rileva precisare che al fine di contemperare le esigenze di tutela di azionisti e
creditori in caso di applicazione di bail-in, il Legislatore prevede che le
categorie di soggetti – i cui crediti sono stati ridotti o convertiti in titoli
azionari – non possano subire perdite maggiori di quelle che avrebbero subito
in caso di liquidazione coatta amministrativa.
Nello specifico, si riporta, nel seguente schema, come agisce il “salvataggio
interno” o bail-in20:
Azioni e strumenti di capitale
Titoli subordinati senza garanzia
Obbligazioni e altri strumenti ammissibili
Depositi superiori ai 100K euro delle persone fisiche e delle
piccole e medie imprese
Tale successione di interventi è diretta alla copertura dell'8% delle passività
della banca, a cui sarà affiancato – al fine di «permettere di realizzare gli
obiettivi della risoluzione»21 – il ricorso al Fondo di risoluzione nazionale
19
Cfr. Art. 23 comma 2 del d.lgs. 180/2015 (Valutazione).
Lo schema di intervento è stato modificato fino al 31 dicembre 2018 collocando i depositi
superiori a 100mila euro allo stesso livello dei crediti non garantiti.
21 Art. 78 del d.lgs. 180/2015 (cfr. par.3).
20
62
De Iustitia
oppure del Single Resolution Fund (il fondo di risoluzione europeo o S.R.F.)22.
4. I fondi di risoluzione nazionale e il S.R.F..
I Fondi di risoluzione nazionali sono utilizzati dietro disposizione della Banca
d’Italia per garantire l’efficacia delle misure di risoluzione e per le finalità di
cui all’art. 79 del Decreto (es. garanzie, concessioni di finanziamenti,
corresponsione di indennizzi agli azionisti e ai creditori).
La risoluzione verrà, quindi, finanziata in primis da azionisti e creditori della
banca (i soggetti che hanno investito nell’impresa), in secundis dai fondi di
risoluzione.
La B.R.R.D. prevede espressamente l’obbligo per gli Stati membri di dotarsi di
meccanismi di finanziamento della risoluzione per il tramite di fondi che
devono essere dotati di risorse adeguate, alimentate dalle stesse banche
prima della risoluzione e indipendentemente da risoluzione stessa.
Il nostro Paese si è conformato a tale onere tramite la previsione dell’art. 78
del Decreto, il quale stabilisce che i fondi di risoluzione (nazionali) sono
alimentati da:
«a) contributi ordinari di cui all’art. 82» dello stesso Decreto, con cadenza
annuale;
«b) contributi straordinari di cui all’art. 83» del Decreto, versati dagli stessi
soggetti del punto a) se la dotazione finanziaria del Fondo nazionale di
risoluzione non è sufficiente a sostenere le misure di risoluzione;
«c) prestiti e altre forme di sostegno finanziario» quando i contributi ordinarie
i contributi straordinari non sono risultati sufficienti;
«d) somme versate dall’ente sottoposto a risoluzione o dall’ente-ponte,
interessi e altri utili derivanti dai propri investimenti».
Inoltre, lo stesso Decreto (all’art. 84 comma 1) conferisce alla Commissione
Europea il potere di adottare atti delegati per stabilire norme di dettaglio in
merito – per tutti i 28 Stati membri – in modo da consentire alle singole
Autorità di risoluzione di calcolare il contributo delle banche al Fondo25.
22
Da ultimo si evidenzia che, per l’applicabilità di tale strumento, le banche dovranno rispettare
un requisito minimo di passività soggette a bail-in. Tale requisito è determinato dalla Banca
d’Italia. (cfr. art. 50 del d.lgs. 180/2015).
25 In tal senso si vedano gli Atti delegati 2015/63, emessi il 21 ottobre 2014 e in vigore dal 1
gennaio 2015, che dettagliano la metodologia di calcolo, gli obblighi informativi e le procedure
operative di contribuzione.
63
De Iustitia
Tanto premesso, essendo la disciplina del Decreto di recentissima
emanazione, l’attuale costituzione del nostro Fondo di Risoluzione non è, al
momento, stata alimentata dai contributi ordinari di cui alla lettera a), ma si è
dovuto procedere al prestito di cui alla successiva lettera c), pensato –
appunto – per ottenere sostegno finanziario da soggetti terzi (comunque
banche) e far fronte – soprattutto – all’insufficienza dei contributi ordinari e
straordinari.
Il S.R.F., invece, operativo dal 1° gennaio 2016, sarà formato dalle risorse
provenienti dai vari fondi di risoluzione nazionali e sarà operativo dopo 8 anni
di versamenti (nel 2024) per un obiettivo di 55 miliardi di euro,
corrispondente all’1% dei depositi protetti dal sistema di garanzia 23.
L’ammontare dell’intervento del S.R.F. dovrà essere comunque valutato caso
per caso ed è stimato attorno al 5% degli asset della banca in difficoltà.
La possibilità di ricorrere all’utilizzo di tale Fondo sarà rimesso esclusivamente
al Comitato di risoluzione unico24 a cui il Regolamento sul meccanismo unico
di risoluzione delle banche, ricalcando la ripartizione tracciata tra B.C.E. e
autorità nazionali di supervisione25, attribuisce specifici poteri di elaborazione
dei piani di risoluzione e adozione delle relative decisioni relative a banche o a
gruppi bancari “significativi”, lasciando i restanti intermediari classificabili
come “meno significativi” alle Autorità di risoluzione nazionali, escluso il caso
in cui si debba ricorrere all’utilizzo del Fondo di risoluzione unico.
5. Osservazioni conclusive.
Il presente paragrafo ha la finalità di concentrare l’attenzione su alcuni spunti
di riflessione in merito alle possibili conseguenze e dunque, preliminarmente,
all’opportunità dell’applicazione del bail-in, emersi all’esito di un primo esame
della normativa.
5.1 Una possibile lesività dell’art. 47 della Costituzione.
23
Accordo sul trasferimento e la messa in comune dei contributi al Fondo di risoluzione unico
(I.G.A) sottoscritto a Bruxelles il 21 maggio 2014.
24 Il Comitato è così formato al Presidente e da altri quattro componenti a tempo pieno
(membri indipendenti) e da un altro rappresentante nominato da ciascuno Stato membro
partecipante in rappresentanza delle loro autorità nazionali di risoluzione (cfr. Parte III Titolo I
del Reg. E.U. n. 806/2014).Cfr. anche note 2 e 8.
25 Si veda Reg. E.U. n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013.
64
De Iustitia
La crisi economica dell’autunno del 2008 che ha investito l’intero mondo della
finanza ha palesato l’inadeguatezza di strumenti e misure di controllo,
mostrando sia una inadeguata attività di vigilanza nei confronti dei diversi
intermediari, sia l’assenza di altrettanto valide misure di soluzione e
contenimento di eventuali situazioni di dissesto.
Giova ricordare le ultime – tristi – pagine di economia mondiale che hanno
generato l’esigenza di una maggiore attenzione agli strumenti di controllo
attribuiti alle diverse Autorità di vigilanza.
Come il lettore ricorda, l’enorme bolla finanziaria scoppiata negli Stati Unti nel
2008 fu caratterizzata dalla concessione – scriteriata – di mutui a soggetti con
scarse garanzie di solvibilità. La logica conseguenza fu l’impossibilità (o la
difficoltà) per questi ultimi di far fronte agli impegni precedentemente
assunti; se si aggiunge la presenza cospicua di investitori stranieri sul
mercato immobiliare statunitense, si fa presto ad immaginare come gli effetti
di tale esplosione si siano propagati rapidamente ai mercati e alle istituzioni
finanziarie di altri Paesi.
In questo quadro di crisi il superamento del principio too big to fail ha dovuto
rappresentare uno dei primi passi per un concreto contenimento della
propagazione del contagio ed un’alternativa all’intervento dello Stato,
chiamato ad intervenire al fine di far ricadere su se stesso, e quindi sui
contribuenti, i costi di una cattiva gestione.
Tanto premesso, si rammenta che la Carta costituzionale all’art. 47 sancisce
espressamente l’importanza che il risparmio riveste, stabilendo che «[l]a
Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina,
coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio
popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al
diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del
paese».
Se da una parte, quindi, dal punto di vista del singolo risparmiatore (con
particolare riferimento ai titolari di depositi sopra i 100mila euro) si possa
considerare il bail-in un’aggressione ingiustificata ai propri risparmi e una
palese violazione del suddetto articolo, dall’altro lato bisogna contemplare che
il c.d. bank run (o corsa agli sportelli), generato dalla paura che tutte le
banche non possano più restituire quanto ricevuto in deposito, sicuramente
possa rappresentare un evento ben più funesto per tutta la collettività.
65
De Iustitia
Ci si pone, quindi, il seguente interrogativo. Concentrare gli effetti di una
mala gestio (mediante l’utilizzo dei poteri di risoluzione previsti dal
Legislatore) in un perimetro ben definito (nell’intermediario stesso!) senza
che altri risparmiatori ne risentano, può essere considerato come una forma
di tutela – collettiva – del risparmio?
A tal fine, si consideri che:
a) i primi a soffrire dell’applicazione del bail-in sarebbero i soggetti che
hanno scelto volontariamente di investire nell’impresa;
b) i depositi inferiori ai 100 mila euro non sono soggetti all’applicazione
dello stesso (potrebbe bastare per quelli di importo superiore
l’escamotage di dilazionare in diversi istituti l’ammontare dei propri
risparmi);
c) opera – per tutti gli azionisti e creditori che hanno visto ridotti o
convertiti in titoli azionari i propri crediti – il principio secondo cui gli
stessi non possano subire perdite maggiori di quelle che avrebbero
subito in caso di liquidazione coatta amministrativa.
5.2 La tutela giurisdizionale - art. 95 del Decreto.
Come si è avuto modo di osservare nei paragrafi precedenti, l’utilizzo degli
strumenti di risoluzione da parte dell’Autorità di risoluzione dispiega effetti
altamente incisivi sui terzi.
L’art. 95 del Decreto al comma 1 stabilisce che «[l]a tutela giurisdizionale
davanti al giudice amministrativo è disciplinata dal Codice del processo
amministrativo. Alle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti adottati ai
sensi del presente decreto si applicano gli articoli 119, 128, 133 e 135 del
medesimo Codice». Dal tenore di questo comma si deduce, da un lato,
l’attribuzione della tutela giurisdizionale dei soggetti verso cui le Autorità
esercitano i poteri di risoluzione al Giudice Amministrativo, dall’altro lato, lo
stesso comma prevede che alle controversie aventi ad oggetto i suddetti
provvedimenti, adottati sulla base del Decreto, si applichino gli articoli 119,
128, 133 e 135 del Codice del Processo amministrativo; e quindi si
applicheranno nello specifico:
a) l’art. 119 – il primo degli articoli del Titolo V “Riti abbreviati relativi a
speciali controversie” del Libro quarto del codice “Ottemperanza e Riti
speciali” – che disciplina il rito abbreviato comune a determinate
materie del processo amministrativo e in particolare si legge tra
66
De Iustitia
queste il richiamo alla lettera b) del primo comma, «i provvedimenti
adottati dalle Autorità amministrative indipendenti, con esclusione di
quelli relativi al rapporto di servizio con i propri dipendenti»;
b) l’art. 128, che disciplina l’esclusione del contenzioso elettorale dalla
possibilità del ricorso straordinario al Capo dello Stato;
c) l’art. 133, che indica le materie assoggettate alla giurisdizione
esclusiva del Giudice Amministrativo, «salvo ulteriori previsioni di
legge», lasciando la possibilità al Legislatore di inserire nello stesso
ulteriori previsioni;
d) l’art. 135, che fissa la competenza funzionale inderogabile del T.A.R.
Lazio per i contenziosi concernenti tale materia.
Al comma 2 del citato art. 95 si stabilisce che «[n]ei giudizi avverso le misure
di gestione della crisi si presume fino a prova contraria che la sospensione dei
provvedimenti della Banca d’Italia o del Ministro dell’economia e delle finanze
sarebbe contraria all’interesse pubblico; nei medesimi giudizi non si applicano
gli articoli 19 e 63, comma 4, del Codice del processo amministrativo».
La norma in commento fissa una presunzione relativa di esistenza
dell’interesse pubblico, diretta a garantire una maggiore stabilità alla
decisione assunta dall’Autorità di risoluzione.
A tal riguardo sarà, quindi, compito – gravoso – per il ricorrente dimostrare i
motivi per cui la sospensione del provvedimento, non determinando alcun
danno all’interesse pubblico, dovrebbe essere accolta in quanto non
sussisterebbe alcun interesse pubblico da tutelare.
Dall’analisi del comma in commento emerge una chiara inclinazione del
Legislatore a favore della Banca d’Italia e del Ministro dell’economia e delle
finanze ai danni del soggetto ricorrente. Infatti, seppur conformemente alla
Direttiva – che all’art. 85 comma 3 stabilisce la predetta presunzione relativa
di interesse pubblico – la norma sembrerebbe andare oltre la Direttiva stessa
con riferimento ai mezzi di prova del giudice.
Si assisterebbe quindi ad un aggravio – indiretto – della posizione del
ricorrente, il quale, per la propria difesa, non potrà contare sulla nomina da
parte del giudice di un consulente tecnico d’ufficio (si consideri che la nomina
del consulente tecnico di parte non è invece esclusa).
Per cercare, comunque, di definire meglio la portata di una simile limitazione,
giova ricordare che il citato comma 2 con l’espressione «le misure di gestione
della crisi» riprenderebbe la locuzione riportata all’art. 1 del Decreto il quale,
67
De Iustitia
alla lettera ll) stabilisce che per «misura di gestione della crisi: [si intende]
un’azione di risoluzione o la nomina di un commissario speciale ai sensi
dell’articolo 37» del Decreto, consentendo, quindi, al giudice la possibilità
della nomina di un consulente in tutti gli altri casi (es. nei casi di intervento
precoce).
Anche volendo far rientrare la disposizione in commento nell’ambito dell’art.
85 comma 3 della Direttiva, la quale stabilisce che «[g]li Stati membri
assicurano che il ricorso sia celere e che i tribunali nazionali ricorrano alle
valutazioni economiche complesse dei fatti effettuate dall’autorità di
risoluzione quale base per la propria valutazione», si deve considerare che:
a) la Direttiva non sembrerebbe voler imporre limiti agli strumenti di
cognizione del giudice amministrativo;
b) le valutazioni economiche dell’autorità di risoluzione, essendo
effettuate da pubblici ufficiali, potrebbero avere un’efficacia probatoria
privilegiata;
c) le valutazioni di cui parla la Direttiva sono “economiche”, mentre il
Legislatore italiano sembrerebbe averne ampliato il campo giungendo
ad intaccare l’utilizzo dei mezzi di prova.
Infine, concludendo l’analisi dell’art. 95 del Decreto, qualche dubbio
emergerebbe anche con riferimento al comma 4, il quale stabilisce che
«[f]ermo restando il potere di cui all’articolo 67, il giudice presso il quale
pende un qualsiasi giudizio del quale sia parte un ente sottoposto a
risoluzione ne dispone la sospensione su istanza della Banca d’Italia per un
periodo congruo al perseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 21».
Dall’esame della norma in commento sembrerebbe emergere l’introduzione di
un principio derogatorio a favore della parte resistente e a sfavore del
ricorrente.
Quest’ultimo, infatti, si troverebbe non solo nella posizione di dover superare
la presunzione relativa di cui sopra, ma nella possibilità di subire una
sospensione del giudizio «per un congruo periodo di tempo», costituendo
quindi una deroga all’iter del processo.
Tanto premesso, una prima lettura della norma in esame potrebbe far
emergere alcuni profili di criticità soprattutto se posti in relazione con la
nostra Carta Costituzionale, in particolare con gli artt. 24 e 111 che
sanciscono rispettivamente il diritto alla tutela giurisdizionale – che si
68
De Iustitia
estrinseca nel diritto di agire in giudizio per la difesa dei propri diritti – e il
principio del giusto processo.
69
De Iustitia
Compensazione legale e credito di nuovo sub iudice. Brevi note a
margine dell'ordinanza delle Sezioni Unite n. 18001/2015
di Marina SFARZO*
SOMMARIO: 1. L'estinzione del rapporto obbligatorio per compensazione. 2.
I requisiti dei crediti compensabili. 3. Il requisito della certezza
nell'interpretazione della giurisprudenza. 4. Il revirement della Corte di
Cassazione e l'ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite. 5.
Osservazioni conclusive: i rapporti tra efficacia ed autorità della sentenza. 5.1
I rapporti tra sospensione necessaria e discrezionale del processo di
cognizione.
1. L'estinzione del rapporto obbligatorio per compensazione.
La compensazione, prevista e disciplinata dagli artt. 1421 ss. c.c., viene
ricondotta ai modi di estinzione del rapporto obbligatorio diversi
dall'adempimento – insieme con la confusione, la novazione, la remissione – e
rispetto al quale si colloca in una posizione antitetica 1, caratterizzandosi per la
mancanza di qualsiasi attività dei due debitori, i quali, al contrario, si
astengono reciprocamente dall'eseguire le rispettive prestazioni, «realizzando
uno scambio di due liberazioni2», idoneo – al più – a costituire un equivalente
economico del pagamento.
In altre parole, la fattispecie della compensazione non prevede alcuna
prestazione, bensì la sola conseguenza di essa: la liberazione del debitore3.
*
Dottoressa di ricerca e Docente a contratto in diritto processuale civile presso l’Università
degli Studi di Napoli “Parthenope”.
1
Contra: G. GIORGI, Teoria delle obbligazioni, Torino, 1927, 3; G. CHIRONI, Istituzioni di diritto
civile italiano, Torino, 1912, p. 92; U. DONELLO, Commentarium XVI, Napoli, 1764, c., XV.
2
F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale II, Milano, 1950, p. 383; SALV. ROMANO,
Appunti in tema di compensazione legale e giudiziale, in Circ. giur., 1949, pp. 197 ss.; N.
TADEO, La natura e i presupposti della compensazione, in Corti Bari, 1955, pp. 321 s.
3
Sulla non coincidenza degli ambiti applicativi di compensazione ed adempimento vedasi G.
RAGUSA MAGGIORE, voce Compensazione (diritto civile), nell'Enciclopedia del diritto VIII,
Milano, 1961, p. 25, ove, sia pure per incidens, l'A. evidenzia come le sole prestazioni di dare
possano venire in compensazione. V. amplius C. CICERO, voce Compensazione, in Dig. Disc.
Priv. Sez. civ., Torino, 2012, ove si legge che: «la compensazione non è un modo di estinzione
generale delle obbligazioni, avendo una limitata sfera di applicazione rispetto sia, ad es.,
all’adempimento, sia più in genere rispetto agli altri modi di estinzione dell’obbligazione. Non si
70
De Iustitia
La compensazione, invero, consiste nell'elisione delle rispettive pretese
creditorie vicendevolmente vantate da debitore e creditore, fino alla
concorrenza degli importi corrispondenti: se un debito (o credito) è maggiore
dell'altro esso continuerà a sussistere, detratto il minore, per la differenza,
determinando un'estinzione solo parziale del rapporto obbligatorio.
L'istituto in esame s'informa alla duplice ratio dell'economicità degli atti
giuridici, evitando un inutile circuito di comportamenti solutori (ovvero di
attività esecutive giurisdizionali4) e della garanzia di realizzazione del credito,
evitando che i soggetti vengano esposti al rischio di eseguire una prestazione
in difetto di controprestazione, ponendo la parte più sollecita al riparo dal
rischio dell'insolvenza dell'altra.
Si tratta, invero, di un modo satisfattorio nella misura in cui consente la
realizzazione del credito, oltre all'estinzione dell'obbligazione ed atteso che le
parti, «anche se non si arricchiscono, conservano intatto il proprio
patrimonio5».
Il vigente Codice civile ripropone la disciplina già elaborata sotto il vigore della
legislazione previgente, la quale ci perviene pressoché immutata, salva la
tripartizione dell'istituto in compensazione legale, giudiziale e volontaria, di tal
che è possibile ravvisare una diversa natura giuridica dell'istituto, che può
rispettivamente operare quale automatico meccanismo elisivo, quale effetto
tipico della tutela costitutiva – nella specie estintiva di un rapporto giuridico
preesistente – ovvero può configurarsi in termini di vero e proprio contratto
con causa estintiva del rapporto obbligatorio6.
Alla prima forma di compensazione sembrerebbe destinato il maggior sforzo
deve tuttavia ritenere che la compensazione vada ristretta alle sole obbligazioni pecuniarie, a
dispetto dell’imponente casistica giurisprudenziale e del fatto che tendenzialmente la
letteratura studi la compensazione quasi sempre con riferimento a queste ultime, poiché
l’istituto opera certamente anche con le obbligazioni di dare che non hanno per oggetto una
somma di denaro».
Cfr. anche V. DE LORENZI, voce Compensazione, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., III, Torino, 1988,
ove l'A. nega l'assimilazione della compensazione al pagamento (sia pure quale ficta solutio),
dal quale la prima si distingue in quanto può essere parziale, non vi è una datio, né viene in
questione la capacità delle parti.
4
Cfr., sul punto, G. RAGUSA-MAGGIORE, voce Compensazione, cit., 17, ove si legge che lo
scopo economico della compensazione è quello di evitare inutili spostamenti di moneta ed
inutili attività, semplificando i rapporti patrimoniali reciproci.
5
G. ZUDDAS, voce Compensazione, in Enc. Giur., 1, 1988: l'Autore illustra il «solco profondo»
che separa adempimento e compensazione.
6
Ibidem, ove l'Autore afferma che la compensazione è ora la fattispecie (estintiva), ora l'effetto.
71
De Iustitia
codificatorio7, mentre le altre due fattispecie apparirebbero contemplate, dal
Legislatore del '42, quali sussidiarie rispetto a quella legale e che, in tanto
operano, in quanto quest'ultima sia preclusa o perché «il debito opposto in
compensazione non è liquido» (art. 1243, co. 3, c.c., nel qual caso opererà la
compensazione giudiziale), ovvero «se non ricorrono le condizioni [per le altre
due forme di compensazione]» (art. 1252 c.c.), nel qual caso opererà quella
volontaria, ove sussista una manifestazione di volontà delle parti in tal senso.
Invero, l'impostazione fondamentale della compensazione legale «ci è giunta
tralatiziamente dal diritto giustinianeo8»; mentre al Codice del '42 si deve la
risoluzione di talune questioni circa le modalità operative dell'istituto in esame.
In particolare, la previsione, di cui all'art. 1242 c.c., per la quale l'estinzione
dei debiti risale alla loro coesistenza ha consentito un notevole
ridimensionamento delle questioni relative alla natura e alla funzione della
manifestazione della volontà di compensare espressa dalle parti, di tal che si
tende a negare che la predetta manifestazione, sia pur di natura
schiettamente negoziale, possa essere elevata ad elemento costitutivo della
fattispecie, che ha invece luogo «per la sola virtù di legge9».
In dottrina non sono tuttavia mancate osservazioni circa l'improprietà del «far
risalire alla legge la causa prossima di un effetto che è invece pur sempre
condizionato a una data situazione di fatto 10», la quale consiste nella
coesistenza di crediti caratterizzati da un particolare modo di essere: da
crediti, cioè, pecuniari (ovvero aventi ad oggetto una determinata quantità di
cose fungibili dello stesso genere) liquidi, esigibili, certi, nonché fondati su
titoli diversi e non su un unico rapporto sinallagmatico.
2. I requisiti dei crediti compensabili.
Secondo i dati fin qui somministrati si ha che, tradizionalmente, si suole
ricomprendere tra i caratteri del credito compensabile quelli della omogeneità,
della liquidità, della certezza, nonché quello della esigibilità e della diversità
del titolo11 (cui parte della dottrina12 aggiunge l'ulteriore carattere della
Il che è evidenziato anche da P. SCHLESINGER, voce Compensazione (diritto civile), in Noviss.
Dig. It., III, Milano, 1967, p. 722.
8
G. RAGUSA MAGGIORE, op. cit., p. 19.
9
Ibidem, ove emerge che la tesi della operatività della compensazione legale ex se si deve a R.
7
MARTINO.
10
P. SCHLESINGER, op. cit., p. 723.
11
Contra: G. ZUDDAS, op. cit., 3. l'Autore valorizza il dato testuale di cui all'art. 1246 c.c., in
72
De Iustitia
reciprocità dei crediti).
Il requisito della diversità del titolo si ricava dalla costante giurisprudenza di
legittimità13 che esclude l'operatività della compensazione in senso tecnico in
ipotesi di crediti derivanti, ad esempio, da un unico contratto, di guisa che le
reciproche ragioni di dare e avere si traducano, mediante un semplice calcolo,
in unico saldo attivo e passivo.
Con riferimento al requisito dell’omogeneità, va rilevato che, muovendo dalla
valorizzazione del dato testuale di cui all'art. 1243 c.c., per cui sono omogenei
quei crediti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di
cose fungibili dello stesso genere, emerge che, oltre al requisito
dell'omogeneità, deve ricorrere anche quello della fungibilità affinché sia
prodotto l'effetto compensativo.
I suddetti requisiti devono integrarsi a vicenda, atteso che da un lato, la
fungibilità si risolve in un rapporto di equivalenza qualitativa tra i beni dedotti
in prestazione ed indifferentemente satisfattivi degli interessi dei reciproci
creditori; dall'altro, l'omogeneità consiste nell'appartenenza delle cose ad un
genere più o meno ampio, ove esse hanno note e caratteristiche comuni. É
pertanto ben possibile che i beni, pur essendo fungibili, non appartengano
allo stesso genere e che, viceversa, beni appartenenti allo stesso genere non
siano fungibili, con conseguente preclusione dell'effetto compensativo, invero
subordinato alla coesistenza di tali due caratteristiche, ciascuna attinente ad
un diverso aspetto del credito.
Se in ordine alla esigibilità del credito non sorgono dubbi circa la possibilità di
identificarlo col credito scaduto, di cui sia immediatamente possibile chiedere
la realizzazione, anche – se del caso – in giudizio, non è dato rappresentare
con la stessa nettezza il carattere della liquidità del credito, il quale si
configura categoria dai contorni meno nitidi e contigua a quella della certezza.
Credito liquido è quello «certus an quid quale quantum debeatur » e, cioè, il
credito dal valore incontestato, in modo da escludere casi di compensazioni
aleatorie.
A fronte della frequente sovrapposizione del requisito in esame con quello
della certezza, dottrina attenta ha evidenziato come la non contestazione non
forza del quale «la compensazione si verifica qualunque sia il titolo dell'uno o dell'altro debito».
12
V. DE LORENZI, voce Compensazione, cit.; C. CICERO, op. cit..
13
Corte di Cassazione, 26 gennaio 1980, n. 646, in Foro it. Rep., 1980, voce Obbligazioni in
genere n. 40; Corte di Cassazione, 22 giugno 1977, n. 2637, ivi, 1977, voce cit., n. 49.
73
De Iustitia
debba «preesistere al giudizio, quale condizione perché possa dichiararsi
l'effetto estintivo, ma viceversa ne rappresenti un risultato 14»; giova
proseguire l'esame dei requisiti del credito compensabile con un'autonoma
rappresentazione del carattere della certezza.
3.
Il
requisito
della
certezza
nell'interpretazione
della
giurisprudenza.
I principali dubbi interpretativi involgono, invero, il concetto di “certezza”, con
conseguenti contrasti giurisprudenziali in ordine alla deducibilità in
compensazione di un credito accertato con sentenza non ancora passata in
giudicato e, pertanto, inidonea a fare stato tra le parti circa la sussistenza ed
il modo di essere del rapporto obbligatorio.
Nel giudizio dichiarativo della compensazione legale è per vero utilmente
invocabile solo una sentenza passata in giudicato e, pertanto, dotata
dell'autorità da cui trarre la capacità estintiva del debito e satisfattiva della
ragione di credito.
Il che si ricava dalla prevalente giurisprudenza che aveva15 storicamente
escluso la deducibilità in compensazione di un credito così accertato, sulla
scorta della mera provvisoria esecutorietà e non già esecutività, che è invece
una qualità dell'efficacia esecutiva divenuta immutabile per effetto del
giudicato formale.
La provvisoria esecutorietà consente solo la temporanea esigibilità del credito
e non l'affermazione della sua irrevocabile certezza, di tal che l'eventuale
caducazione o modifica del titolo giudiziario per effetto dell'impugnazione
esperita od esperibile impedisce l'operatività della compensazione, la cui
automatica capacità estintiva, determinata dalla mera contemporanea
sussistenza dei debiti contrapposti, è bilanciata dalla incontrovertibile certezza
dei relativi an e quantum, attraverso il definitivo accertamento delle
obbligazioni da estinguere.
La questione è strettamente connessa a quella della stabilità
dell'accertamento contenuto in una sentenza dichiarativa non ancora passata
in giudicato, per cui occorre prendere le mosse dal noto principio
chiovendiano, a mente del quale la sentenza di primo grado non ha
P. SCHLESINGER, op. cit., 723.
Ex plurimis: Corte di Cassazione, 6 dicembre 1974, n. 4074; 13 maggio 1987, n. 4423; 13
maggio 2002, n. 6820; 25 maggio 2004, n. 10055; 31 maggio 2010, n. 13208.
14
15
74
De Iustitia
un'efficacia sua propria, ma produce solo l'effetto di ingenerare un'aspettativa
verso l'irretrattabilità degli effetti del giudicato; così com'è ricordato da più
recente dottrina16, che evidenzia l'originaria natura della sentenza di primo
grado, quasi concepita dal Legislatore del '42 quale mero elemento di una
fattispecie a formazione progressiva.
Ed invero, l'art. 282 c.p.c., nella sua originaria formulazione, aveva
contemplato l'istituto della provvisoria esecutorietà in termini di eccezionalità
e la relativa clausola di provvisoria esecuzione quale forma di anticipazione
degli effetti di una fattispecie da perfezionarsi o con il passaggio in giudicato
della sentenza ovvero con la pronuncia del secondo Giudice.
Senonché, il progressivo aumento della durata media dei processi 17 e
l'esigenza di escogitare un deterrente contro il frequente ricorso al gravame ai
soli fini deflattivi18, condussero il Legislatore del '90 a riformare la citata
norma di cui all'art. 282 c.p.c., nel senso che «la sentenza di primo grado è
provvisoriamente esecutiva tra le parti», secondo una formula pienamente
conforme alla ratio sottesa alla novella del '90, volta allo «spostamento del
baricentro della giustizia davanti al giudice di primo grado19», con
conseguente rivalutazione della natura stessa della pronuncia di primo grado,
non più concepibile quale mero progetto di sentenza da cui scaturiscono
effetti prodromici o preliminari, bensì atto autosufficiente e pienamente
efficace.
Tale riforma, peraltro, non specifica le categorie di sentenze cui si abbia
inteso attribuire immediata efficacia esecutiva, di tal che il dibattito circa la
latitudine applicativa della norma (rectius: circa l'anticipazione, rispetto al
G. VERDE, Diritto processuale civile II, Bologna, 2015, p. 209.
Le esigenze di contenimento della durata dei processi entro termini ragionevoli è ben
rappresentata da C. CONSOLO, in C. CONSOLO (a cura di), Commentario al Codice di
procedura civile, II, Milano, 2014, sub art. 282, p. 2812, ove si legge che lo scopo della
novellazione fu quello «di politica processuale di conferire maggior peso al principio di rapidità
della tutela rispetto ai bisogni di stabilità e certezza della sua fonte decisoria»; nonché da G.
VERDE, Diritto processuale civile I, Bologna, 2015, p. 136, ove emerge il riferimento
all'«incapacità di organizzare un processo ragionevolmente celere [e] la necessità di
deflazionare la domanda di giustizia [e di] escogitare deterrenti contro impugnazioni proposte
al solo fine di perder tempo».
18
Cfr. Corte costituzionale, 25 marzo 1996, n. 94; L.P. COMOGLIO – C. FERRI – M. TARUFFO,
Lezioni sul processo civile, Padova, 2005, 633; R. VACCARELLA, Il processo civile dopo la
riforma, Torino, 1992, p. 279; G. BALENA, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994,
p. 327.
19
G. VERDE, Diritto processuale civile I, cit., 136.
16
17
75
De Iustitia
momento del passaggio in giudicato, dell'efficacia esecutiva della sentenza di
condanna o anche degli effetti sostanziali prodotti da altri tipi di sentenze)
non può considerarsi sopito.
In particolare, secondo dottrina20 e giurisprudenza21 prevalenti, solo le
sentenze di condanna risulterebbero pacificamente annoverabili tra quelle
immediatamente e provvisoriamente esecutive e fatta comunque eccezione
per le sentenze di condanna generica, non dotate di efficacia esecutiva per
carenza di liquidità ed esigibilità dei crediti accertati e di per sé idonee a
produrre i soli due effetti c.d. secondari della tutela di condanna (quali il
diritto all'iscrizione dell'ipoteca giudiziale sui beni del debitore, sia pure entro i
limiti di un ragionevole importo e – se del caso – l'allungamento del termine
di prescrizione).
La sussistenza dell'efficacia esecutiva delle sentenze costitutive e di mero
accertamento è, invece, rimessa a singole valutazioni operate dal Legislatore
di diritto sostanziale, atteso che le esigenze sottostanti alla immediata
eseguibilità di sentenze costitutive o di mero accertamento non può essere
affidata una semper alla Legge processuale ed «è soltanto il legislatore
sostanziale che può stabilire che a tal fine si possa dare in tutto o in parte
rilievo alla decisione ancora sub judice22».
Si ritiene, invero, che l'ammissibilità di un'anticipazione selettiva dell'efficacia
di accertamento23 e/o costitutiva della sentenza rispetto al momento della
formazione del giudicato formale debba ritenersi subordinata alla sussistenza
di una specifica previsione normativa in tal senso, invece ignota al disposto di
cui all'art. 282 c.p.c..
Così, ai fini della deducibilità in compensazione di un credito, occorre
A. ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, p. 117; G. BALENA, op.
cit., 329; S. CHIARLONI, Provvedimenti urgenti per il processo civile, a cura di G. TARZIA - F.
CIPRIANI, Padova, 1992, p. 158 s.; L. P. COMOGLIO, Le riforme della giustizia civile, Torino,
1993, p. 371; G. MONTELEONE, voce Esecuzione provvisoria, in Dig. it. IV civ. agg., Torino
2000, p. 366; M. ROBLES, L'esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado e i suoi limiti,
in RDC, 2001, II, p. 319; G. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano 2002,
187; R. VACCARELLA, op. cit., p. 281.
20
Corte di Cassazione, 6 aprile 2009, n. 8250; 10 novembre 2004, n.21367.
V., ancora, G. VERDE, op. ult. cit., p. 210.
23
La tesi dottrinaria e degli argomenti giurisprudenziali di segno opposto sono esaminati
funditus da C. CONSOLO, op. cit., sub art 282, p. 2816, alla cui ampia disamina sia consentito
rinviare, nonché al nutrito filone giurisprudenziale in materia di immediata esecutività dei capi
condannatori delle sentenze costitutive (si veda, in particolare, Corte costituzionale, 16 luglio
2004, n. 232).
21
22
76
De Iustitia
preliminarmente distinguere tra quello oggetto di una sentenza di mero
accertamento e quello oggetto di una sentenza, altresì dichiarativa, ma di
condanna. Se, in conformità alle premesse testé formulate e, secondo la
prevalente giurisprudenza, tradizionalmente restrittiva in tal senso, va
senz'altro esclusa la deducibilità dei primi, con riferimento ai secondi, si ha
che la sentenza di condanna (che ne dichiara la sussistenza) è dotata di una
certezza tale da costituire titolo esecutivo.
Il che, con maggiore impegno esplicativo, vale a dire che si tratta di un
credito certo agli effetti dell'art. 474 c.p.c., ma non anche agli effetti della
compensazione legale che, operando su un piano schiettamente sostanziale,
richiede una situazione stabile per poter determinare l'estinzione del rapporto
obbligatorio.
Da tale contraddizione derivante dal modo di essere dei crediti accertati con
sentenza ancora impugnabile e, come tale, certi agli effetti di una valida
esecuzione forzata, ma non anche agli effetti compensativi sembrerebbe
prendere le mosse la contrapposta e più recente tesi giurisprudenziale in
materia.
4. Il revirement della Corte di Cassazione e l'ordinanza di rimessione
della questione alle Sezioni Unite.
Tale orientamento, muovendo da un'equiparazione tra credito accertato con
sentenza impugnabile e credito sub iudice, quanto alla relativa capacità
effettuale, sembrerebbe aver revocato in dubbio il principio della inoperatività
della compensazione legale tra credito e controcrediti della specie.
La tesi giurisprudenziale in esame 26 ipotizza l'operatività del meccanismo di
compensazione legale attraverso la valorizzazione degli strumenti processuali
posti a tutela della stessa economia dei mezzi giuridici cui s'informa l'istituto
de quo, nonché della certezza dei rapporti giuridici, attraverso la
neutralizzazione del rischio di contrasti di giudicato: si tratta degli istituti della
riunione (ex art. 40 c.p.c.) e della sospensione del processo di cognizione ( ex
art. 295 e ss. c.p.c., ovvero ex art. 337, co. 2, c.p.c.).
In particolare, in caso di credito (da dedurre in compensazione) ancora sub
iudice, l'orientamento in esame distingue l'ipotesi in cui due giudizi, pendenti
dinanzi allo stesso ufficio giudiziario, ovvero dinanzi ad uffici giudiziari
Corte di Cassazione, 17 ottobre 2013, n. 23573.
26
77
De Iustitia
differenti ma nella stessa fase processuale risultando, comunque, riunibili, dal
caso in cui non è possibile disporne la riunione.
Nella prima ipotesi, si applicherà – rispettivamente – la norma speciale di cui
all'art. 1421, co. 1, c.c., con possibilità di sospensione della condanna per il
credito liquido fino all'accertamento del credito opposto in compensazione,
ovvero l'art. 40 c.p.c., in ipotesi di cause pendenti dinanzi ad uffici giudiziari
diversi.
In caso di giudizi non riunibili, tale orientamento giurisprudenziale prospetta
la possibilità di riespansione delle regole generali sulla sospensione per
pregiudizialità dipendenza (atteso che, ai sensi dell'art. 35 c.p.c., la deduzione
del controcredito costituisce una delle ipotesi in cui su tale autonomo
rapporto giuridico c.d. pregiudiziale la cognizione del giudice non dev'essere
incidenter tantum, bensì con efficacia di giudicato, e ciò anche in assenza di
una specifica domanda delle parti in tal senso, trattandosi di un'ipotesi di
duplicazione dell'oggetto del giudizio ope legis) di cui all'art. 295 c.p.c..
In caso di impugnazione della sentenza di accertamento del controcredito
dedotto in compensazione, a mente di tale orientamento giurisprudenziale,
troverebbe invece applicazione l'art. 337, co. 2, c.p.c., che prevede la
sospensione del giudizio sul credito, nel corso del quale venga eccepito il
controcredito accertato con la sentenza impugnata.
Si tratta di una tesi giurisprudenziale che giunge ad opposte conclusioni (la
capacità estintiva di un credito accertato da una sentenza ancora
impugnabile), muovendo da opposto presupposto: tale più recente
orientamento non distingue tra efficacia (propria di qualunque sentenza) ed
autorità (qualità che acquisiscono gli effetti prodotti dalla sentenza, in forza
del passaggio in giudicato formale) e ritiene applicabile l'art. 337 cpv. c.p.c.,
al caso testé esaminato, nonostante la norma presupponga l'invocazione in
giudizio dell'autorità della sentenza (sul controcredito dedotto in
compensazione), invece carente in ipotesi di pronuncia ancora impugnabile.
Invero, la Corte di Cassazione, con la sentenza del 17 ottobre 2013, n. 23573,
formula il principio di diritto in forza del quale «la circostanza che
l’accertamento di un credito risulti sub iudice non è di ostacolo alla possibilità
che il titolare lo opponga in compensazione al credito fatto valere in un
diverso giudizio dal suo debitore. In tal caso, se i due giudizi pendano
dinnanzi al medesimo ufficio giudiziario, il coordinamento tra di essi deve
avvenire attraverso la loro riunione, all’esito della quale il giudice potrà
78
De Iustitia
procedere nei modi indicati dall’art. 1243 co. 2 c.c. Se, invece, pendono
dinanzi ad uffici diversi (e non risulti possibile la rimessione della causa, ai
sensi dell’art. 40 c.p.c. in favore del giudice competente per la controversia
avente ad oggetto il credito eccepito in compensazione), ovvero il giudizio sul
credito eccepito in compensazione penda in grado di impugnazione, il
coordinamento dovrà avvenire con la pronuncia, sul credito principale, di una
condanna con riserva all’esito della decisione sul credito eccepito in
compensazione e contestuale rimessione della causa nel ruolo per decidere in
merito alla sussistenza delle condizioni per la compensazione, seguita da
sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. o ex art. 337, co. 2 c.p.c., fino alla
definizione del giudizio di accertamento del controcredito».
Rilevato siffatto contrasto giurisprudenziale in ordine alla capacità estintiva
per compensazione dei crediti della specie, la terza Sezione della Corte di
Cassazione24 ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale
assegnazione alle Sezioni Unite, al fine di comporre il conflitto così profilatosi.
5. Osservazioni conclusive: i rapporti tra efficacia ed autorità della
sentenza.
Nell'appena illustrato orientamento giurisprudenziale si ravvisa una maggiore
consonanza col novellato art. 282 c.p.c. che, da ormai più di venticinque anni,
esprime una concezione di sentenza di primo grado o, comunque, ancora
impugnabile, immediatamente produttiva di tutti i suoi effetti tipici (sebbene
non ancora idonei a fare stato tra le parti, gli eredi ed aventi causa), secondo
un radicale capovolgimento del previgente principio in materia; ciò
consentirebbe di salutare con favore la più recente ricostruzione
giurisprudenziale.
Tuttavia, se è vero che l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado si
caratterizza per l'immediatezza, ciò che s'intende in tale sede evidenziare è
che l'ulteriore carattere della provvisorietà dell'esecutorietà di cui all'art. 282
c.p.c. esclude che la sentenza di primo grado sia dotata di un'immutabile
efficacia di accertamento del credito, il quale ben può essere messo in
discussione con gli ordinari mezzi di impugnazione.
Né la provvisoria esecutorietà della sentenza, con conseguente possibilità di
prestarvi acquiescenza, ovvero di eseguirla coattivamente, può considerarsi
24
Corte di Cassazione, 11 settembre 2015, ordinanza n. 18001.
79
De Iustitia
istituto preclusivo del meccanismo solve et repete che, al contrario, si pone in
netto contrasto con la stessa esigenza di evitare inutili spostamenti di
moneta25, posta alla base dell'istituto della compensazione.
E che l'unica immediata utilità che la sentenza di condanna, ai sensi dell'art.
282 c.p.c., sia in grado di attribuire è quella di costituire un valido titolo
esecutivo, risulta confortato dai dati testuali di cui agli artt. 283 c.p.c. nonché
da riscontri legislativi successivi a quelli della riforma del Codice di rito ex L. n.
353/1990: il primo, nel disciplinare la c.d. inibitoria, contiene un espresso
riferimento alla sola possibilità di sospendere in tutto o in parte l'efficacia
esecutiva o l'esecuzione della sentenza di primo grado, atteso che l'art. 283
c.p.c. non ha ad oggetto gli effetti o l'efficacia in genere della sentenza, ma
direttamente la sua esecuzione forzata o la sua efficacia esecutiva26 27. Per
quanto riguarda le norme successive alla novellazione del '90 fin qui
esaminata, merita segnalazione l'art. 64 della l. n. 218/1995, di riforma del
diritto internazionale privato e processuale, da cui si desume che la sentenza
italiana non ancora passata in giudicato non può dirsi espressiva di alcuna
efficacia di accertamento e così preclusiva di riconoscimento di valori
giurisdizionali stranieri28.
A tali resistenze verso il superamento dell'orientamento tradizionale in materia
di operatività della compensazione legale tra crediti e controcrediti sub iudice
sembrerebbe possibile aggiungere il dato di sistema costituito dal riferimento
all'art. 337, co. 2 c.p.c., cui rinvia la citata sentenza n. 23573 del 2013.
Tale riferimento appare poco convincente, atteso il controverso ambito
applicativo della norma, improntata com'è al concetto di autorità. In altre
parole, l'indicazione – da parte della giurisprudenza di legittimità – dello
strumento di cui all'art. 337, co. 2, c.p.c., per il richiamo all'autorità della
sentenza ivi contenuto, sembrerebbe tradire la sussistenza di un giudicato già
formatosi sul rapporto giuridico, fonte dell'obbligazione da cui deriverebbe il
25
26
G. ZUDDAS, op. cit., p. 1.
Cfr. G. MONTELEONE, op. cit., p. 367.
27 Il carattere provvisorio dell'esecutorietà della sentenza espone invero il creditore al rischio
della sospensione (sia pur discrezionale) dell'esecuzione da parte del giudice dinanzi al quale è
impugnato il titolo esecutivo (ai sensi degli artt. 283 e 373 c.p.c.) ovvero del giudice
dell'esecuzione in sede di opposizione di merito ex art. 615 c.p.c., con ordinanza reclamabile,
ove ne sussistano gravi motivi (artt. 623 e 624 c.p.c.).
28
Cfr., ancora, C. CONSOLO, in C. CONSOLO – F. P. LUISO – B. SASSANI, Commentario alla
riforma del processo civile, Milano, 1996, p. 267.
80
De Iustitia
controcredito opposto in compensazione, già accertato con una sentenza
dotata di quella stabilità ed incontrovertibilità tale da poter essere invocata in
altro giudizio.
Pertanto, il più recente orientamento, in parte qua, non risulterebbe
innovativo, bensì adesivo a quello tradizionale, a mente del quale la
compensazione legale opera senz'altro per la coesistenza di credito principale
ed altro altresì certo, nella misura in cui accertato con una sentenza la cui
impugnazione è preclusa o esclusa (art. 323 c.p.c.) e, per l'effetto, dotata di
autorità tale da poter determinare la sospensione ex art. 337 cpv c.p.c. del
processo di primo grado in cui è invocata ed avente ad oggetto
l'accertamento del credito principale.
Invero, sebbene parte della dottrina29 ritenga che l'art. 337, co. 2, c.p.c. vada
inteso nel senso che la sentenza, ancor prima e indipendentemente dal suo
passaggio in giudicato, in virtù di una sua intrinseca imperatività, esplichi
un'efficacia di accertamento al di fuori del processo in cui è stata pronunciata,
con conseguente riferibilità della norma de qua anche alle pronunce
impugnate con mezzi ordinari di impugnazione e, quindi, non ancora passate
in giudicato (per l'immediata efficacia di accertamento ad esse connaturale),
va segnatamente evidenziato che, nella più recente ricognizione delle tesi
dottrinali sul punto30, quella contrapposta è rappresentata come nettamente
prevalente.
La dottrina maggioritaria31, di fatti, ritiene che la norma in esame si riferisca
esclusivamente all'ipotesi in cui venga invocata in un diverso processo una
sentenza passata in giudicato ed impugnata con l'opposizione di terzo o la
revocazione straordinaria, atteso che anche l'effetto dichiarativo della
sentenza si produce e vincola il giudice di un altro processo solo dopo il
relativo passaggio in giudicato.
C. VOCINO, Considerazioni sul giudicato in RTDPC, 1962, 1527; G. FABBRINI, Contributo alla
dottrina dell'intervento adesivo, Milano, 1963, p. 89; A. PROTO PISANI, Opposizione di terzo
ordinaria, Napoli, 1965, p. 62; A. GIUSSANI, voce Sospensione, in Dig. it., IV civ., XVIII, Torino
29
2000, p. 613.
30
Vedasi F. CARPI, in F. CARPI - M. TARUFFO, Commentario breve al Codice di procedura civile,
Padova, 2015, sub art. 337, pp. 1290 e ss..
31
A. CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, p. 71; A.
BONSIGNORI, Impugnazioni civili in generale, in Dig. it. IV civ., Torino, 1993, p. 352; A.
ATTARDI, Ancora sulla portata dell'art. 337 cpv. c.p.c., in G.I., 1986, I, 1, p. 1237; M. VELLANI,
Appunti sulla natura della cosa giudicata, Milano, 1958, p. 53; G. TRISORIO LIUZZI, La
sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987, p. 285.
81
De Iustitia
Il concetto di autorità, secondo gli insegnamenti del Liebman, non consiste in
un ulteriore effetto della sentenza contro cui non siano più esperibili mezzi di
impugnazione (art. 323 c.p.c.), ma altro non è che una qualità che acquistano
gli stessi effetti già prodotti dalla sentenza di primo grado, in conseguenza
della preclusione di tutti i mezzi di impugnazione ordinari 32.
Invero, autorevole dottrina33 recepisce gli insegnamenti del Liebman e ricorda
come in tale norma quest'ultimo abbia rinvenuto il banco di prova della
distinzione tra “forza di giudicato” (e, cioè, immutabilità di tutti gli effetti della
sentenza) ed “efficacia dichiarativa naturale” e ancora controvertibile della
sentenza e, da tali premesse, ricava progressivamente alcune conclusioni.
Dapprima, attraverso argomenti a contrario, nega la persuasività
dell'orientamento che applica l'art. 337 cpv. c.p.c. anche all'ipotesi di
impugnazione ordinaria della sentenza sul rapporto pregiudiziale, il quale
appare «sì seducente ma tutt'altro che rigorosamente convincente, sia sul
piano generale che dei dettagli 34»; e poi confutando in maniera più esplicita la
ricostruzione dogmatica in esame, sotto la diversa e complementare
prospettiva dei rapporti tra sospensione necessaria (art. 295 c.p.c.) e
discrezionale (art. 337, co. 2, cit.) del processo di primo grado sul rapporto
dipendente.
In particolare, l'Autore giunge a ritenere «preferibile» l'impostazione che
applica il meccanismo sospensivo discrezionale di cui al citato art. 337, co. 2,
c.p.c. alle sole ipotesi di «processo pregiudiziale riaperto mediante
impugnazione straordinaria 35 », negandone, apertis verbis, l'applicabilità al
giudizio di impugnazione ordinario.
A sostegno della propria tesi, l'Autore rileva che, pur volendo prescindere da
ogni riferimento ad autorevoli insegnamenti o ad impostazioni storicamente
risalenti nel tempo, sarebbero adducibili argomenti ricavabili dal tenore
letterale della norma di cui all'art. 2909 c.c., nonché dello stesso co. 2 dell'art.
337 c.p.c.
Dalla lettura dell'art. 2909 c.c. appare arduo sostenere che la sentenza, già
Cfr. E.T. LIEBMAN, Efficacia ed autorità della sentenza (ed altri scritti sulla cosa giudicata),
Milano, 1962, p. 12, ove l'Autore rappresenta con grande lucidità l'«errore logico in cui cade
questo modo di sistemare la cosa giudicata accanto agli altri possibili effetti della sentenza;
perché si pongono così sullo stesso piano cose eterogenee e di qualità ben diversa».
33
C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale III, Torino, 2015, pp. 274 e ss..
34
Ivi, pp. 274 e ss., spec. p. 275.
35
Id., Commentario al Codice di procedura civile, cit., sub art. 337, p. 546.
32
82
De Iustitia
prima del passaggio in giudicato, sia dotata di un'efficacia naturale di
accertamento tra le parti e verso i terzi.
Con riferimento all'art. 337, co. 2, c.p.c., va invece evidenziato che
l'interpretazione estensiva della latitudine applicativa della norma anche alla
contestuale pendenza di giudizi di impugnazione ordinaria, oltre che
straordinaria, insieme con il processo di primo grado sulla causa dipendente,
appare, a propria volta, improntata ad una lettura tralatizia della norma de
qua, trascurando di notare come essa stessa sia «solo l'unificazione [peraltro]
un po' incauta» di due analoghe norme del Codice di rito del 186536, dettate
per le impugnazioni straordinarie, cioè pendenti contro un giudicato (il corsivo
è dell'Autore) che, poiché già lo era, rimane tendenzialmente vincolante (salva
la c.d. inibitoria, a carattere cautelare) nei processi dipendenti pur se sub
iudice.
Se, invece, l'impugnazione proposta fosse l'appello, il ricorso per Cassazione,
ovvero la revocazione ordinaria, le norme da applicare al processo sulla causa
dipendente sarebbero quelle di cui agli artt. 295 e 297 c.p.c., sulla
sospensione necessaria per pregiudizialità. Invero, in tali casi, la sospensione
è necessaria fintantoché non si formi il giudicato formale sul rapporto
pregiudiziale e, per l'effetto, il giudicato sostanziale, ove il processo sia
definito con sentenza di merito.
5.1 I rapporti tra sospensione necessaria e discrezionale del
processo di cognizione.
Tale interpretazione delle norme di cui ai citati artt. 295 e 337 cpv. c.p.c.,
nonché dei reciproci rapporti, fu condivisa finanche dalla giurisprudenza.
In particolare, secondo un orientamento meno recente37, nel caso in cui fosse
fatta valere, quale titolo del diritto dedotto in giudizio, una sentenza esecutiva
resa in altra causa tra le stesse parti, la sospensione del giudizio sulla
questione pregiudicata sarebbe stata necessaria, ai sensi dell'art. 295 c.p.c.,
ove la sentenza che ha definito la causa pregiudiziale fosse impugnata con i
mezzi ordinari.
Al, contrario, in caso di impugnazione di quest'ultima attraverso i mezzi di
Si tratta degli artt. 504 e 515 del Codice di rito del 1865, i quali contemplavano la
sospensione facoltativa del processo nel quale fosse prodotta una sentenza emessa in un
diverso giudizio ed impugnata per revocazione o per opposizione di terzo.
37
Corte di Cassazione, 7 agosto 1997, n. 7295; 8 settembre 1997, n. 8736; 25 giugno 2002, n.
9279.
36
83
De Iustitia
impugnazione straordinari, la norma da applicare sarebbe stata quella di cui
all'art. 337 cpv. c.p.c. e la sospensione sarebbe stata discrezionale.
Tuttavia, successivamente, le Sezioni Unite - mutuando gli argomenti addotti
in precedenza con la sentenza n. 4844/1996 ed informati ad una lettura
restrittiva dell'istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. – ebbero
ad affermare che quest'ultima «determina l'arresto del processo dipendente
per un tempo indeterminato e certamente non breve, poiché la paralisi del
processo è destinata a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione
sulla causa pregiudiziale (art. 297, comma 1, c.p.c.), onde evitare il rischio di
conflitto tra giudicati. In tal modo, in funzione della realizzazione del valore
processuale dell'armonia dei giudicati, viene sacrificato il valore processuale
della sollecita definizione dei giudizi38».
Si profilò pertanto un contrasto tra orientamenti giurisprudenziali, composto
dalle Sezioni Unite39 in favore del secondo e più recente indirizzo, a mente del
quale la lettera di cui all'art. 337 cit. non si pone quale limite invalicabile alla
sua applicabilità in sede di invocazione, in altro giudizio, della dictum della
sentenza impugnata con i mezzi ordinari.
In altri termini, l'autorità invocabile in altro processo tra le stesse parti non
sarebbe più una qualità obiettiva, acquistabile dalla sentenza per il solo dato
formale del relativo passaggio in giudicato formale, ma la sua sussistenza
sarebbe piuttosto rimessa all'apprezzamento del singolo giudice, il quale
potrebbe discrezionalmente riconoscere o meno autorità al provvedimento
ancora impugnabile e, quindi, solo discrezionalmente sospendere il giudizio
sulla causa dipendente.
Parte della dottrina40 ha rilevato l'aporia per cui riesce difficile «spiegare come
si concilia con la parità logica delle sentenze il fatto che mentre alcune
possono essere solo invocate e non anche “attese”, altre, quelle rese in sede
d'impugnazione, possono essere sia invocate (dopo che sono state
Corte di Cassazione, 6 luglio 2004, ordinanza n. 14060.
Corte di Cassazione, sez. Un., 19 giugno 2012, n.10027, ove la S. C. afferma che salvi
soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una
disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia
pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi sussista rapporto di
pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è
possibile la sospensione soltanto ai sensi dell'art. 337.
40
B. ZUFFI, Le Sezioni Unite ammettono la sola sospensione discrezionale del processo sulla
38
39
causa dipendente allorché la causa pregiudiziale sia stata decisa con sentenza di primo grado
impugnata, in Corr. Giur., 2012, p. 1328.
84
De Iustitia
pronunciate) sia “attese” (prima)41».
Ne risulterebbe una disciplina tesa a prevenire i conflitti di giudicato sino a
che vi è la pendenza del primo grado di giudizio sulla lite pregiudiziale, ma
disposta ad affidare «l'agognato coordinamento decisorio alle capacità
prognostiche del giudice della causa dipendente non appena sia emessa ed
impugnata la decisione di prime cure sulla domanda pregiudiziale 42».
A parere di ci scrive, tale ultimo orientamento di legittimità, sia pur al
condivisibile scopo di evitare la dilatazione del processo di cognizione ben
oltre ogni ragionevole durata, finisce per forzare troppo la lettera della legge,
che aveva operato, col riferimento all'”autorità”, una precisa scelta lessicale.
Invece, con la pronuncia del 2012, le Sezioni Unite approvano un'opzione
ermeneutica del concetto di autorità di cui all'art. 337 cpv. c.p.c., riferito, se
non proprio all'efficacia naturale di accertamento teorizzata da Liebman,
quanto meno all'autorità di fatto ovvero al rilievo che una decisione può avere,
fin dalla sua emanazione, per il giudice nel quale sia invocata quale elemento
di convincimento nella risoluzione delle questioni rilevanti per la definizione
della controversia dinanzi a lui pendente. La Corte disattende, in tal modo, il
significato storicamente conferito all'autorità quale carattere precipuo del
giudicato sostanziale, quasi come se il giudice di legittimità intendesse far uso
dell'art. 282 c.p.c. per attribuire alla sentenza di primo grado un'efficacia
extra litem diversa da quella provvisoriamente esecutiva43.
Invero, il citato indirizzo giurisprudenziale e l'arrêt cui approdano le Sezioni
Unite nel 2012 è stato largamente censurato sia sul piano generale e dei
principi, relativo ai rapporti tra gli artt. 295 e 337 cpv. c.p.c. 44 , sia sotto il
profilo della sua concreta valenza di regula agendi.45
CIPRIANI, Le sospensioni del processo civile, in Riv. Dir. Proc., 1984, p. 263.
B. ZUFFI, op. cit., p. 1328.
43
Tale riferimento è definito “sorprendente” da B. ZUFFI, op. cit., p. 1327.
44
Ivi, p. 1322 e ss.; E. D'ALESSANDRO, Le Sezioni Unite e la tesi di Liebman sui rapporti tra
artt. 295 e 337 c.p.c.: Much Ado About Nothing, in G.I., 2012, pp. 2601 e ss,; C. CONSOLO,
Commentario, cit., sub art. 337, pp. 544 e ss.
45
Essa, nella specie, era volta a sancire che non è necessaria la sospensione ex art. 295 c.p.c.
della causa di petizione ereditaria allorché penda in un distinto processo di gravame ordinario
la causa di accertamento della paternità naturale rilevante per la definizione della chiamata
all'eredità di colui che agisce ex art. 533 c.c..
Sul punto vedasi, ancora, B. ZUFFI, op. cit., 1333 s., che illustra gli argomenti a sostegno della
negazione della necessità di tale immancabile sospensione sono ricavati dalla disciplina di
diritto sostanziale: in particolare, gli artt. 277, co. 2 e 715 c.c. sembrano ammettere la
prosecuzione parallela della causa dipendente pur quando l'accertamento della paternità non
41
42
85
De Iustitia
Se n'è pertanto prospettata la possibilità di limitarne la portata innovativa alle
sole ipotesi di pregiudizialità dipendenza di tipo logico, in cui la sospensione
ben può essere facoltativa, atteso che la cognizione del giudice sul “segmento
pregiudiziale” del(l'unico) rapporto giuridico avrà automaticamente attitudine
al giudicato, in quanto antecedente logico necessario del “segmento
pregiudicato”.
D'altra parte, la distinzione tra le suddette forme di pregiudizialità resta solo
sullo sfondo dell'apparato argomentativo della Corte che, secondo parte della
dottrina, quasi si risolve in un mero «rimando apodittico a tesi
autorevolmente sostenute, ma anche efficacemente contrastate46».
Con particolare riferimento ai rapporti tra credito principale e controcredito
dedotto in compensazione, trattandosi indubbiamente di un'ipotesi di
pregiudizialità di tipo tecnico, si ha che la regula iuris enunciata dalla Corte di
Cassazione47 non potendo essere disattesa, potrebbe considerarsi temperata
dalla interpretazione della norma di cui all'art. 337 cpv. c.p.c. fin qui proposta.
Così, conseguentemente, la sospensione del giudizio di accertamento del
credito principale, in caso di impugnazione della sentenza che aveva accertato
il credito dedotto in compensazione, potrà essere discrezionale solo nei casi di
impugnazione di tale ultima pronuncia con i mezzi straordinari.
Pertanto, secondo un'interpretazione della norma di cui all'art. 337 cpv. c.p.c.
ancorata all'enunciato ed invero preferibile per le ragioni suesposte,
l'orientamento giurisprudenziale delineato dalla Corte di Cassazione con la
sentenza n. 23573/2013, nella parte in cui afferma la capacità estintivocompensativa di un credito accertato con sentenza impugnabile ai sensi
dell'art. 337 cit., nulla aggiunge al consolidato orientamento di legittimità per
cui è necessario il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della
sussistenza del controcredito, affinché quest'ultimo possa considerarsi certo e,
in quanto tale, utilmente opponibile in compensazione.
Può conclusivamente rilevarsi che l'indirizzo in esame sembrerebbe prendere
in considerazione non già le ipotesi di compensazione legale di un credito con
un controcredito ancora sub iudice, bensì quelle di coesistenza del primo con
possa ancora dirsi compiuto e definitivo ai sensi dell'art. 2909 c.c..
46
Ivi, pp. 1326.
47
Che peraltro finisce con l'assegnare maggiore rilevanza ad esigenze processuali di
contenimento della durata dei giudizi, che non sostanziali, di certezza e stabilità del
provvedimento che accerta la sussistenza del controcredito, di modo che il meccanismo di
compensazione legale possa utilmente operare.
86
De Iustitia
un controcredito di nuovo sub iudice: di quello, cioè, accertato con una
sentenza già dotata dell'autorità di cui all'art. 2909 c.c., ma la cui esistenza od
il relativo modo d'essere sia stato rimesso in discussione in sede di
impugnazione straordinaria.
87
De Iustitia
La tutela dei diritti dei terzi di buona fede sui beni oggetto di
confisca antimafia
di Ilaria MANNA*
SOMMARIO: 1. Introduzione e riferimenti normativi. 2. Le categorie di terzi
suscettibili di ricevere pregiudizio dall’adozione di un provvedimento di
confisca. 3. I terzi proprietari o comproprietari del bene oggetto di confisca. 4.
I terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sul bene da confiscare.
4.1 I presupposti per la tutela dei diritti dei terzi. 5. I creditori del proposto,
titolari di una garanzia patrimoniale sui beni oggetto di confisca. 6. Gli eredi e
gli aventi causa del prevenuto. 7. I rimedi a disposizione dei terzi di buona
fede titolari di diritti reali di garanzia trascritti in epoca antecedente al
sequestro e la confisca. 8. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 7
maggio 2013, n. 10532. 9. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione e riferimenti normativi.
Il fenomeno dell’estensione delle misure di prevenzione patrimoniali
(sequestro e confisca) anche a beni che risultino nella titolarità solo “formale”
di terzi in quanto è il prevenuto (cioè il destinatario della misura) ad averne la
disponibilità effettiva, nonché a quelli di titolarità del proposto ma sui quali i
terzi vantino diritti, nasce dalla precipua esigenza di evitare l’elusione
dell’efficacia di tali strumenti di prevenzione attraverso fenomeni di
interposizione fittizia o reale.
Ciò comporta un allontanamento dal modello codicistico di confisca 1 che
espressamente esclude dai beni che possano formare oggetto della misura
quelli appartenenti a persone estranee al reato2.
*
Specializzata in professioni legali e abilitata all’esercizio della professione forense.
Sui caratteri generali dell’istituto della confisca si vedano: G. GUARNERI, voce Confisca, in
Noviss. Dig. It., IV, Torino, 1959, p. 40 ss; M. MASSA, voce Confisca, in Enc. Dir., VIII, Milano,
1961, pp. 980 e ss; A. ALESSANDRI, voce Confisca nel diritto penale, in Dig. disc. pen.,
Torino, 1989, III, p. 41.
2 Il comma 3 dell’art 240 c.p. recita: «le disposizioni della prima parte e dei numeri 1 e 1-bis
del capoverso precedente non si applicano se la cosa o il bene o lo strumento informatico o
telematico appartiene a persona estranea al reato […]».
Il comma 4 della medesima disposizione, analogamente, dispone che «la disposizione del
numero 2 non si applica se la cosa appartiene a persona estranea al reato e la fabbricazione,
1
88
De Iustitia
Difatti, il procedimento di sottrazione dei patrimoni alla criminalità organizzata
per finalità pubblicistiche, che si realizza per il tramite delle misure di
prevenzione patrimoniali, trova un importante ostacolo nella presenza di diritti
dei terzi sui beni oggetto delle misure.
Il problema è stato ampiamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza proprio
per la difficoltà di contemperare l’interesse pubblicistico alla repressione del
fenomeno criminale e la tutela dei diritti di soggetti estranei al reato, e non ha
trovato definitiva soluzione neppure con l’adozione del d.lgs. 6 settembre
2011, n. 159 recante il “Codice delle leggi antimafia e delle misure di
prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione
antimafia, a norma degli artt. 1 e 2 della l. 13 agosto 2010, n. 136”.
A chiarire alcune questioni interpretative rimaste irrisolte con il d.lgs. 159/11
ha provveduto la legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità per il
2013), nonostante quest’ultima facesse riferimento esclusivamente ai
procedimenti già iniziati alla data di entrata in vigore del codice antimafia 3.
La problematica è stata da ultimo puntualizzata con la pronuncia delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione 7 maggio 2013, n. 10532, con specifico
riguardo al problema della sorte delle garanzie in seguito all’adozione di un
provvedimento di confisca.
2. Le categorie di terzi suscettibili di ricevere pregiudizio
dall’adozione di un provvedimento di confisca.
Prima di procedere all’analisi delle diverse categorie di terzi suscettibili di
eventuale pregiudizio a seguito dell’adozione di un provvedimento cautelare,
occorre chiarire cosa si intende precisamente per “terzo” estraneo alla misura
di prevenzione patrimoniale.
“Terzo” può essere definito come quel soggetto diverso dal proposto, ovvero
dalla persona socialmente pericolosa contro la quale è rivolta l’azione dello
l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione possono essere consentiti mediante autorizzazione
amministrativa».
3 La normativa prevista per i sequestri e le confische di prevenzione dal Titolo IV del d.lgs. n.
159 del 2011 in tema di tutela dei terzi e di rapporti con le procedure concorsuali, si applica
anche ai sequestri e alle confische penali ex art 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, che siano
state disposte a far data dall’entrata in vigore dell’art. 1, comma 190, della legge n. 228 del
2012 (Cass. pen., sez I, 20 maggio 2014- 19 giugno 2014, n. 26527). La Cassazione, difatti, in
motivazione, ha ritenuto la soluzione esposta quella maggiormente in linea con il processo
legislativo di progressiva assimilazione funzionale tra la confisca ex art 12-sexies d.l.
n.306/1992 e quella di prevenzione.
89
De Iustitia
Stato, portatore, relativamente ai beni da apprendere, di situazioni giuridiche
soggettive che rischiano di essere pregiudicate dalla misura di prevenzione
patrimoniale e rispetto alle quali si pongono, pertanto, evidenti problemi di
opponibilità e tutela4.
Ciò detto, possiamo distinguere quattro categorie di terzi suscettibili di
ricevere pregiudizio dall’adozione del provvedimento di confisca: i titolari
formali del bene, vale a dire i proprietari o comproprietari del bene oggetto
della misura di prevenzione; i titolari di diritti reali o personali di godimento
sul bene da confiscare; i creditori del proposto, titolari di una garanzia
patrimoniale sui beni oggetto di confisca; gli eredi e gli aventi causa del
prevenuto, nei confronti dei quali possono essere disposte misure di
prevenzione patrimoniale anche nel caso di morte del proposto.
3. I terzi proprietari o comproprietari del bene oggetto di confisca.
La prima categoria di terzi suscettibili di essere pregiudicati dall’adozione di
un provvedimento di confisca, come rilevato nel paragrafo recedente,
riguarda i titolari formali del bene, vale a dire i proprietari o comproprietari
del bene oggetto della misura di prevenzione.
La legge contrappone la situazione di titolarità formale dei terzi proprietari o
comproprietari a quella di “disponibilità” da parte del prevenuto e prevede, in
particolare, che la situazione di titolarità formale del bene da parte del
proposto, o anche la sola “disponibilità” di esso da parte del prevenuto, siano
sufficienti a giustificare il sacrificio dei diritti dei terzi sui beni oggetto delle
misure.
Il concetto di disponibilità anzidetto, dal significato ambiguo, è stato oggetto
di due diverse interpretazioni da parte della dottrina, che ne adotta
rispettivamente una nozione più ampia o più restrittiva.
La prima, infatti, ricomprende nel concetto di disponibilità, che è tale da
pregiudicare i diritti dei terzi, anche le situazioni di “disponibilità di mero fatto”
del bene da parte del prevenuto, che prescindono dunque dall’esistenza di
una titolarità formale delle stesso da parte del soggetto socialmente
pericoloso5.
R ATTENA-P. LOMBARDI, Misure di prevenzione patrimoniale e tutela dei terzi, in Schemi
ragionati di diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo a cura di Antonio Lepre, p. 244.
5 A. MAISANO , Profili commercialistici della nuova legge antimafia , in Riv. crit. del dir. priv ,
1984, p. 419; F. CASSANO, Impresa illecita e impresa mafiosa. La sospensione temporanea dei
4
90
De Iustitia
L’altro orientamento invece, più rigoroso e rispettoso del principio di
personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.6, adotta una
nozione più restrittiva, tale da ricomprendere nel concetto di disponibilità la
sola situazione di titolarità economico-sostanziale del bene oggetto di confisca
da parte del prevenuto7.
Per quanto concerne la prova circa la anzidetta “disponibilità effettiva” dei
beni da parte del proposto, ma formalmente intestati a terzi, occorre
distinguere tra il caso in cui i terzi siano soggetti particolarmente vicini al
mafioso (ascendente, discendente, coniuge o persona stabilmente convivente,
nonché parenti entro il sesto grado e affini entro il quarto grado) e il caso in
cui si tratti di altri soggetti.
Nelle fattispecie del primo tipo, infatti, la titolarità in capo agli stretti congiunti
del mafioso8 di beni di valore sproporzionato al proprio reddito farà
presumere la disponibilità degli stessi da parte preposto 9.
Nel caso in cui invece la titolarità dei beni oggetto della misura riguardi altri
soggetti, sarà allora necessaria una prova piena dell’eventuale interposizione
beni prevista dagli artt. 3-quater e 3-quinquies della legge n. 565/1965, in Quaderni del C.S.M.,
1998, fasc.104, pp. 402 e ss; G. BONGIORNO, Tecniche di tutela dei creditori nel sistema delle
leggi antimafia, in Riv. Dir. Proc., 1998, I, pp. 445 e ss.
6
Tale ricostruzione appare coerente anche con il principio di giustizia distributiva secondo il
quale la misura sanzionatoria non può ritorcersi in ingiustificati sacrifici delle posizioni
giuridiche soggettive di chi sia rimasto estraneo all’illecito, in tal senso Cass. pen., S.U., 28
aprile 1999, n. 9, in Giust. Pen., 1999, II, p. 674.
7 A. AIELLO, La tutela civilistica dei terzi nel sistema di prevenzione patrimoniale antimafia ,
Milano, 2005, pp. 109-128.
8 L’art 19 del d.lgs. 159/11, riproducendo la regola già contenuta all’art 2-bis della l. 575/1965,
prevede che «Le indagini sono effettuate anche nei confronti del coniuge, dei figli, e di coloro
che nell’ultimo quinquennio hanno convissuto con i soggetti nei cui confronti si sono svolte le
indagini, nonché nei confronti delle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi o
associazioni, del cui patrimonio i soggetti medesimi risultano poter disporre, in tutto o in parte,
direttamente o indirettamente».
9 A tal riguardo va ricordata in primo luogo la previsione introdotta dai pacchetti sicurezza
all’art 2-ter della l. 31 maggio 1975 n. 575, e oggi recepita all’art 26 del d.lgs. 26 settembre
2011 n. 159 secondo cui, fino a prova contraria, si presumono fittizi:
- i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la
proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, del
coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli
affini entro il quarto grado;
- i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni
antecedenti la proposta della misura di prevenzione.
In tal modo dunque, graverà sul terzo l’onere di dimostrare di aver acquisito il bene in buona
fede, attraverso risorse proprie e commisurate al valore del bene, e di non essere quindi
prestanome del mafioso.
91
De Iustitia
fittizia, al fine di sacrificare i diritti dei terzi sui beni medesimi.
In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione 10, affermando che:
«incombe sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza di situazioni che avallino
concretamente l’ipotesi di una discrasia tra intestazione formale e disponibilità
effettiva del bene, in modo che possa affermarsi con certezza che il terzo
intestatario si sia prestato alla titolarità apparente al solo fine di favorire la
permanenza dell’acquisizione del bene in capo al condannato e di
salvaguardarlo dal pericolo della confisca».
Quanto poi alle conseguenze derivanti dall’accertamento di una situazione di
interposizione fittizia, l’art 26 del d.lgs. 159/11 stabilisce che, con la sentenza
che dispone la confisca, il giudice dichiara la nullità dei relativi atti di
disposizione.
A tal riguardo occorre precisare che, prima della riforma attuata dal d.lgs.
159/11, non era prevista alcuna sanzione per l’ipotesi di trasferimenti fittizi:
coloro che avessero acquistato il bene dall’intestatario fittizio, una volta
dimostrata la propria buona fede e la validità del titolo, avrebbero potuto far
salvi i propri diritti, coerentemente alla disciplina della simulazione.
In base alla nuova normativa, invece, la nullità dell’atto fittizio determina
l’invalidità di tutti gli atti successivi a quello concluso tra proposto e
intestatario fittizio, e ciò per evitare che si sollevino dinanzi al giudice civile e
amministrativo innumerevoli questioni che ritardino l’efficacia del
provvedimento di confisca, pur essendo questo, per sua natura, un
provvedimento definitivo.
La posizione dei terzi, nel nuovo quadro normativo, è salvaguardata entro i
ristretti limiti in cui lo consente l’istituto della pubblicità sanante, ex art. 2652,
comma 1, n.6 c.c.11: infatti, la sentenza che dichiara la nullità dell’atto non
Cass. pen., sez. I, 5 febbraio 2001, n. 11049, in Foro it., 2002, II, c. 263.
Art. 2652, comma 1, n. 6): «le domande dirette a far dichiarare la nullità o a far pronunziare
l'annullamento di atti soggetti a trascrizione e le domande dirette a impugnare la validità della
trascrizione.
Se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell'atto impugnato, la
sentenza che l'accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona
fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla domanda. Se però la domanda è
diretta a far pronunziare l'annullamento per una causa diversa dall'incapacità legale, la
sentenza che l'accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un
atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda, anche se questa è stata
trascritta prima che siano decorsi cinque anni dalla data della trascrizione dell'atto impugnato,
purché in questo caso i terzi abbiano acquistato a titolo oneroso»
10
11
92
De Iustitia
travolge i diritti acquisiti a qualsiasi titolo dai terzi di buona fede, in base a un
atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di nullità, qualora
tale domanda sia stata trascritta cinque anni dopo dalla trascrizione dell’atto
impugnato.
Tuttavia, a parere della Corte, occorre puntualizzare che il mancato
riconoscimento del diritto di proprietà in capo al terzo non è dovuto
precipuamente all’assenza della trascrizione della scrittura privata di vendita,
in quanto se si ammettesse ciò si finirebbe per riconoscere carattere
costitutivo a un sistema di pubblicità legale che, nel nostro ordinamento, ha
solo effetti dichiarativi. Difatti, il carattere definitivo della vendita non può
essere escluso ovvero inficiato dalla mancata trascrizione della scrittura di
vendita, in quanto la trascrizione ha il solo scopo di attuare una forma di
pubblicità al fine di tutelare la buona fede e i diritti dei terzi e assicurare la
priorità del diritto effettivamente trasmesso ed acquistato, ma non ha alcuna
influenza sulla validità e efficacia dell’atto, anche se non trascritto.
4. I terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sul bene da
confiscare.
Un’ulteriore categoria di terzi suscettibili di essere pregiudicati dall’adozione di
un provvedimento di confisca riguarda i terzi titolari di diritti reali o personali
di godimento sui beni oggetto della misura cautelare.
Un primo orientamento si è pronunciato a favore dell’estinzione dei diritti dei
terzi in questione, sulla base dell’assunto che l’acquisto per confisca abbia
natura originaria e la misura di prevenzione patrimoniale vada intesa come
espropriazione di pubblico interesse12, come tale destinata a prevalere
sull’interesse del singolo soggetto che vanta diritti sui beni da confiscare 13.
Tale impostazione, tuttavia, è stata criticata da quanti hanno sostenuto che
l’acquisto attraverso la confisca non possa reputarsi a titolo originario, non
prescindendo tale acquisto dal rapporto già esistente tra il bene e il
12
Cass. pen., S.U., 28 aprile 1999, n. 9 e Cass. pen., S.U. 8 gennaio 2007, n. 57.
MAISANO, Profili commercialistici della nuova legge antimafia, cit., p. 434; ID., Misure
patrimoniali antimafia e tutela dei creditori, in Giur. Comm., 1986, II, pp. 889 e ss.; Cass. pen.
S.U., 8 gennaio 2007, n. 57; Cass. pen, 5 marzo 1999, n.1868 in Mass. giur. it., 1999; Cass.
Pen, 23 marzo 1998, n. 1997; Trib. Palermo, 26 marzo 2002; Trib. Bari, ord. 16 ottobre 2000;
Trib. Palermo 18 aprile 1989.
13
93
De Iustitia
precedente titolare14. Inoltre, l’idea della prevalenza della confisca sui diritti
dei terzi in nome di un supremo interesse pubblico non può essere condivisa,
in quanto lo scopo della confisca non è l’acquisizione del bene al patrimonio
dello Stato, ma la sottrazione di quest’ultimo alla disponibilità del prevenuto.
In quest’ottica il bilanciamento tra interesse pubblico e interesse privato,
risolto dalla legge con la prevalenza attribuita al primo sul secondo, ha senso
solo al fine di giustificare il sacrificio dei diritti del condannato ma non dei
terzi.
A ciò si aggiunga che l’idea per cui nessuna forma di confisca possa
determinare l’estinzione dei diritti reali dei terzi sui beni oggetto della misura
è compatibile con un principio generale di giustizia distributiva alla luce del
quale una misura sanzionatoria non può comportare ingiustificati sacrifici
delle posizioni giuridiche dei soggetti rimasti estranei all’illecito.
In virtù di quest’ultimo orientamento, dunque, il provvedimento di confisca
non estingue i diritti dei terzi sui beni oggetto della misura.
4.1 I presupposti per la tutela dei diritti dei terzi.
Se si condivide dunque l’orientamento che non ammette l’estinzione dei diritti
reali o personali di godimento dei terzi per effetto del provvedimento di
confisca, occorre allora individuare i presupposti in presenza dei quali tali
diritti possono essere tutelati a seguito dell’applicazione della misura di
prevenzione patrimoniale. A tal riguardo occorre distinguere tra presupposti
formali di opponibilità del titolo e requisiti di ordine soggettivo.
Quanto ai primi, la giurisprudenza ha in primo luogo sostenuto che, affinché il
diritto del terzo sia opponibile alla procedura cautelare, occorre che esso si sia
costituito in data certa anteriore alla confisca15. Tale orientamento ha poi
trovato conferma nell’art. 52 del d.lgs. 159/11, il quale enuncia
espressamente che la confisca non pregiudica i diritti reali di garanzia
costituiti in epoca anteriore al sequestro.
Inoltre, la giurisprudenza16 ha chiarito che, in tema di trascrizione dei beni
Cass. civ., Sez. I., 3 luglio 1997, n. 5988, in Mass. Giur. It., 1997; Cass. civ., 17 dicembre
1997, n. 9399, in Nuova giur. civ., I, pp. 406 e ss.
15 Infatti nella nota sentenza Baccherotti, la Cassazione ha affermato che «l’applicazione della
confisca non determina l’estinzione del preesistente diritto di pegno costituito a favore di terzi
che risulti da un atto di data certa anteriore alla confisca», in tal senso Cass. pen., S.U., 28
aprile 1999, n. 9.
16 Cass. pen., sez. VI, 19 marzo 1997, n. 1171, in Giust. pen., 1998, III, pp. 369 e ss..
14
94
De Iustitia
soggetti a confisca, trovano applicazione le norme del codice civile e del
codice di procedura civile. Ciò vuol dire che i diritti dei terzi sui beni oggetto di
confisca, nel caso in cui si tratti di beni immobili, sono destinati a prevalere
qualora la trascrizione del bene sia intervenuta prima del provvedimento di
sequestro.
I presupposti formali di opponibilità del titolo appena menzionati non sono
tuttavia sufficienti ad assicurare la prevalenza dei diritti dei terzi su quelli dello
Stato confiscante. Occorre, infatti, un requisito di ordine soggettivo che è
stato individuato dalla giurisprudenza prima, e dal Legislatore poi, nello stato
di buona fede e di affidamento incolpevole del terzo, da intendersi come la
condizione del terzo di non conoscenza o non conoscibilità, con l’uso della
normale diligenza richiesta dal caso concreto, del collegamento esistente tra il
proprio diritto e l’altrui condotta delittuosa17.
In particolare, la Corte di Cassazione in una recente sentenza, la n. 33796
del 2011, riguardante la sussistenza del requisito della buona fede in capo al
titolare di un’ipoteca sorta in epoca antecedente al provvedimento di
confisca18, ha tentato di individuare l’elemento soggettivo della buona fede in
base a parametri oggettivi, quali l’assenza di qualsiasi contributo o
partecipazione al reato, la mancanza di qualunque collegamento con la
consumazione del reato nonché l’assenza di qualsiasi vantaggio o utilità che il
terzo abbia potuto trarre dalla fattispecie delittuosa.
17
Cass. pen., S.U., 28 aprile 1999, n. 9; il punto è stato da ultimo chiarito da una recente
sentenza della Corte di Cassazione, Cass. pen., sez. I, 10 giugno 2005, n.22179 secondo cui:
«ai fini dell’opponibilità del diritto di garanzia reale non basta che l’ipoteca sia stata costituita,
mediante l’iscrizione nei registri immobiliari, prima della trascrizione del sequestro ex art 2-ter
della l. 575/1965, ma è altresì richiesta l’inderogabile condizione che il creditore ipotecario si
sia trovato in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole, dovendo individuarsi
in quest’ultimo requisito la base giustificativa della tutela del terzo di fronte al provvedimento
autorizzatorio di confisca adottato dal giudice della prevenzione a norma della legislazione
antimafia con la conseguenza che spetta al giudice dell’esecuzione il compito di verificare, sulla
base delle prove fornite dal terzo, sia l’effettiva titolarità dello ius in re aliena, il cui titolo deve
essere costituito da un atto di data certa anteriore al pignoramento, sia la mancanza di ogni
tipo di collegamento con l’attività illecita del proposto, derivante da condotte di agevolazione o
fiancheggiamento».
18 Cass. pen., sez. I, 12 settembre 2011 n. 33796. Nel caso di specie, in particolare occorreva
stabilire se una Banca, titolare di un diritto di credito assistito da ipoteca su un bene confiscato,
potesse far valere il suo diritto sul bene confiscato nei confronti dello Stato in forza sia della
priorità della trascrizione dell’ipoteca, sia dell’invocabilità del requisito della buona fede. La
Corte in particolare muoveva dall’assunto che gli operatori bancari, nella concessione del
credito si attengono ad un livello di diligenza elevato, dato che sono tenuti a verificare
l’affidabilità di colore che richiedono un finanziamento.
95
De Iustitia
L’orientamento della giurisprudenza è stato poi recepito dall’art. 52, comma 3,
del d.lgs. 159/11, che ha attribuito particolare rilievo ad alcuni elementi
oggettivi, quali la condizione delle parti, i rapporti personali e patrimoniali di
queste, il tipo di attività svolta dal creditore, la sussistenza di obblighi nella
fase precontrattuale nonché, in caso di enti, la dimensione degli stessi.
5. I creditori del proposto, titolari di una garanzia patrimoniale sui
beni oggetto di confisca.
Per quanto concerne la categoria dei creditori del prevenuto assistiti da
garanzia patrimoniale sui beni oggetto di confisca occorre distinguere a
seconda che il creditore abbia o non abbia compiuto atti esecutivi
anteriormente alla misura di prevenzione.
Difatti, nel primo caso trova applicazione l’art. 2915 c.c. secondo cui: «non
hanno effetto, in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che
intervengono nell’esecuzione, gli atti che importino vincoli di indisponibilità se
non sono stati trascritti prima del pignoramento quando hanno per oggetto
beni immobili o beni mobili iscritti nei pubblici registri, e negli altri casi, se non
hanno data certa anteriore al pignoramento». Ciò vuol dire dunque che il
diritto del creditore è destinato a prevalere qualora il pignoramento sul bene
confiscato sia stato trascritto anteriormente alla trascrizione della confisca.
Nel caso in cui invece il creditore non abbia compiuto atti esecutivi prima
della misura di prevenzione, lo stesso non potrà opporre il suo diritto allo
Stato confiscante in quanto la sua posizione è analoga a quella di un qualsiasi
altro creditore assistito da garanzia.
Tale impostazione, tuttavia, è stata posta in discussione dall’art. 52 d.lgs.
159/2011 il quale stabilisce che: «la confisca non pregiudica i diritti di credito
di terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro nonché i
diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro purché
ricorrano le seguenti condizioni:
– che l’escussione del restante patrimonio del proposto sia risultata
insufficiente al soddisfacimento del credito, salvo per i crediti assistiti da
cause legittime di prelazione sui beni sequestrati;
– che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne
costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di aver
ignorato in buona fede il nesso di strumentalità;
– nel caso di promessa di pagamento o di ricognizione di debito, che sia
96
De Iustitia
provato il rapporto fondamentale;
– nel caso di titoli di credito, che il portatore provi il rapporto fondamentale e
quello che ne legittima il possesso».
6. Gli eredi e gli aventi causa del prevenuto.
Quanto all’ultima categoria di terzi suscettibili di essere pregiudicati da un
provvedimento di confisca, cioè quella degli eredi o aventi causa del proposto,
occorre far riferimento alla disciplina contenuta all’art. 18, comma 2 e 3, del
d.lgs. 159/2011.
L’art. 18, comma 2, infatti stabilisce che le misure di prevenzione patrimoniali
possono essere disposte anche in caso di morte del destinatario della misura
in quanto il procedimento è destinato a trovare seguito nei confronti degli
eredi o aventi causa del proposto.
La ratio della norma muove dall’idea secondo cui la morte che sopravvenga
all’accertamento giudiziale della pericolosità sociale non preclude
l’applicazione della misura di prevenzione, posto che le finalità perseguite
dall’ordinamento con l’applicazione della misura (repressione del fenomeno
mafioso) non sono necessariamente legate alla persistenza in vita del
prevenuto.
Il comma 2 dell’art. 18 fa riferimento al caso in cui la morte sia successiva
all’applicazione della misura cautelare.
Tuttavia, il successivo comma 3 provvede a disciplinare anche un’ulteriore
ipotesi cioè quella in cui la morte sia antecedente all’applicazione della misura:
ciò vuol dire che il procedimento di prevenzione patrimoniale può essere
iniziato anche nei confronti di un soggetto già deceduto. In tal caso,
ovviamente, la richiesta di applicazione della misura di prevenzione verrà
proposta nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare entro il
termine di cinque anni dal decesso dell’indiziato.
La finalità della previsione risiede nell’esigenza di evitare la trasmissione della
ricchezza prodotta illecitamente a prescindere dalla partecipazione degli eredi
o aventi causa al fenomeno mafioso. E ciò in quanto rileverebbe la
pericolosità intrinseca della res e non quella del soggetto che dispone della
stessa.
Tuttavia, tale impostazione rischia di essere incostituzionale per violazione
degli artt. 27 e 42 Cost., per cui nell’ipotesi di cui all’art. 18, comma 3,
andrebbe sempre dimostrata la relazione tra la cosa e l’agente e il
97
De Iustitia
presupposto della pericolosità sociale di quest’ultimo.
7. I rimedi a disposizione dei terzi di buona fede titolari di diritti
reali di garanzia trascritti in epoca antecedente al sequestro e la
confisca.
Una delle questioni maggiormente dibattute in dottrina e giurisprudenza
riguarda i rimedi esperibili dai terzi di buona fede, titolari di un diritto reale di
garanzia trascritto in epoca antecedente al sequestro e alla confisca, nel caso
in cui i terzi non siano stati posti in condizione di partecipare al procedimento
penale.
Tale questione non è stata compiutamente risolta neppure con l’adozione del
d.lgs. 159/11: a chiarire il punto è intervenuta successivamente la legge 24
dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), nonché la
giurisprudenza della Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 10532 del 7
maggio 2013.
Tuttavia, prima dell’intervento chiarificatore della legge di stabilità per il 2013
e della anzidetta sentenza della Corte di Cassazione, attorno alla questione si
erano sviluppati due diversi orientamenti.
Una parte della giurisprudenza riteneva che i terzi avrebbero potuto far valere
i propri diritti sui beni confiscati promuovendo incidente di esecuzione innanzi
al giudice penale nelle forme e secondo le modalità previste dagli artt. 665 ss
c.p.p, che conferiscono al giudice dell’esecuzione competenza a decidere
riguardo alla confisca e dunque anche in ordine ai diritti vantati dai terzi
rimasti estranei al procedimento penale sui beni confiscati 19.
Altra parte della giurisprudenza, invece, sosteneva che i creditori privilegiati
potevano far valere i propri diritti sui beni oggetto delle misure di prevenzione
patrimoniale non nell’ambito del procedimento esecutivo ma mediante i
residui mezzi di tutela offerti dalla legge dinanzi al giudice civile20.
La dottrina21 era apparsa in disaccordo con quest’ultima ricostruzione laddove
riteneva che nel nostro ordinamento non esistono rimedi diversi dalla
19
Cass. pen., sez. V, 27 ottobre 2010, n. 41153; Cass. pen., sez. I, 5 maggio 2008, n. 19465;
Cass. pen., sez. I, 21 novembre 2007, n. 45572.
20 Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2007, n. 845, in Dir. fall., 2008, p. 493; Cass. civ., 11
febbraio 2005, n. 12317; Cass. civ., sez. I, 12 novembre 1999, n. 12535.
21 A. DE NEGRI, La gestione dei beni sequestrati e/o confiscati: procedimenti in corso e
provvedimenti non definitivi, in S. MAZZARESE- A. AIELLO (a cura di), Le misure patrimoniali
antimafia, Milano, 2010, p. 327.
98
De Iustitia
procedura esecutiva per ottenere il soddisfacimento di un credito. A tal
riguardo, la dottrina aveva ipotizzato l’esperibilità dell’azione di ingiustificato
arricchimento, che tuttavia avrebbe condotto a risultati aberranti, in quanto
avrebbe consentito al creditore di ottenere una somma superiore a quella
ottenibile con la vendita del bene confiscato in sede esecutiva.
Come già accennato, neppure l’intervento legislativo del d.lgs. 159/11 aveva
chiarito la questione, giacché l’art. 45 del decreto anzidetto si limitava a
stabilire che, a seguito di confisca definitiva, i beni sono acquistati al
patrimonio dello Stato, liberi da pesi e oneri, con rinvio al Titolo IV quanto ai
limiti e alla forma di tutela dei terzi.
É stato poi con la legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità per il
2013) che il problema ha trovato definitiva soluzione, anche se con riguardo
esclusivamente alle procedure già iniziate alla data di entrata in vigore del
Codice antimafia.
Norma di riferimento a tal riguardo è l’art. 1, commi 194 e 195 della predetta
legge, che vieta l’inizio o la prosecuzione delle azioni esecutive sui beni
confiscati, a pena di nullità, salva l’ipotesi in cui, alla data di entrata in vigore
della legge, il bene non sia stato trasferito o aggiudicato in via provvisoria,
ovvero quando esso sia costituito da una quota indivisa già pignorata.
In tutti gli altri casi, gli oneri e pesi iscritti o trascritti sui beni di cui al comma
194 anteriormente alla confisca sono estinti di diritto (art. 1, comma 197),
residuando al terzo una semplice pretesa al pagamento, purché ricorrano i
presupposti di ordine sostanziale di opponibilità del proprio diritto.
Da tale normativa è possibile ricavare che per tutte le procedure per le quali,
alla data del 1 gennaio 2013, sia già intervenuta la confisca ma non ancora
l’aggiudicazione, il trasferimento o il pignoramento della quota indivisa del
bene, non potrà essere avviata nessuna azione esecutiva sui beni anzidetti; i
pesi e gli oneri iscritti o trascritti prima della confisca si estinguono e i
creditori ipotecari, pignoranti o intervenuti nell’esecuzione potranno far valere
i propri diritti all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei
beni sequestrati e confiscati, a condizione che l’iscrizione dell’ipoteca, la
trascrizione del pignoramento o l’intervento nel processo esecutivo siano
avvenuti prima della trascrizione del sequestro preventivo. Inoltre, il termine
di presentazione delle domande di ammissione al credito al giudice
dell’esecuzione è di 180 giorni, decorrenti dalla data di entrata in vigore della
legge di stabilità per il 2013.
99
De Iustitia
Analoga disciplina è prevista per le procedure per le quali, alla data del 1
gennaio 2013, non sia stata ancora disposta la confisca, ma in tal caso il
termine di 180 giorni per la presentazione della domanda di ammissione del
credito decorrerà dal passaggio in giudicato del provvedimento di confisca.
Invece, per quanto concerne i procedimenti per i quali alla data del 1 gennaio
2013 sia già intervenuta l’aggiudicazione, il trasferimento o il pignoramento
della quota indivisa nell’ambito di un’esecuzione forzata, restano fermi gli
effetti delle relative misure.
Da quanto detto emerge chiaramente che per i procedimenti disciplinati dalla
legge di stabilità è chiaro l’effetto estintivo dei diritti dei terzi sui beni oggetto
della misura di prevenzione a seguito del provvedimento di confisca. Ci si è
chiesti dunque, se tale regola potesse essere applicata anche ai procedimenti
disciplinati dal codice antimafia; si è ritenuto, al riguardo, che tale estensione
fosse possibile in considerazione del carattere compatibile della normativa del
d.lgs. 159/11 con le regole dettate dalla legge di stabilità per il 2013: ciò è
confermato dall’art. 46 del decreto 159/11, il quale, nel prevedere in caso di
revoca della confisca di un bene già venduto, la mera restituzione per
equivalente, confermerebbe che a seguito di confisca il terzo non potrebbe
più far valere il contenuto del diritto di garanzia.
8. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione 7 maggio 2013, n.
10532.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione 7 maggio 2013, n. 10532 offrono
un importante intervento chiarificatore circa la sorte dei diritti dei terzi rimasti
estranei al procedimento di confisca sui beni oggetto della misura cautelare.
Le Sezioni Unite difatti si sono pronunciate a favore della scelta operata dal
Legislatore (circa la legge di stabilità per il 2013) di sacrificare i diritti dei terzi
sui beni oggetto di confisca, ammettendo quest’ultimo solo a una tutela di
tipo risarcitorio.
Difatti, la Corte afferma che dall’analisi delle norme contenute nella legge
228/2012 si evince chiaramente l’intento del legislatore di risolvere nel senso
«della prevalenza della misura di prevenzione patrimoniale, il quesito relativo
ai rapporti tra ipoteca-confisca, indipendentemente dal dato temporale, con
conseguente estinzione di diritto degli oneri e dei pesi iscritti o trascritti».
In tal modo, la legge di stabilità avrebbe qualificato l’acquisto da parte dello
Stato a seguito di confisca, come acquisto non a titolo derivativo ma a titolo
100
De Iustitia
originario (anche se la Corte non usa mai chiaramente questa espressione)
«superando la condivisa opinione della giurisprudenza civile e penale sulla
natura derivativa del titolo di acquisto del bene immobile da parte dello Stato
a seguito di confisca». Pertanto, sulla base della nuova normativa introdotta
dalla legge di stabilità, la salvaguardia dell’interesse pubblicistico alla
repressione del fenomeno criminale prevale sui diritti dei terzi sui beni
oggetto di confisca, anche se in buona fede.
La soluzione della Corte è dunque perfettamente in linea con quanto dettato
dalla legge di stabilità ma risulta certamente sacrificare la posizione dei terzi
titolari di diritti reali sui beni oggetto della misura cautelare.
9. Considerazioni conclusive.
Applicando precipuamente quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella
sentenza n. 10532/2013 si dovrebbe concludere nel senso che l’eventuale
conflitto tra interesse pubblicistico dello Stato e interesse del terzo a far
valere i propri diritti sui beni confiscati dovrebbe risolversi a favore della
prevalenza dell’acquisto da parte dello Stato a seguito di confisca, essendo
questo ritenuto dalle Sezioni Unite come acquisto a titolo originario, qualora i
terzi non vantino titoli opponibili alla procedura cautelare, e quindi
preesistenti alla stessa.
La sentenza della Suprema Corte risulta mantenersi in linea con quanto
statuito nelle sentenze n. 27201 del 2013, n. 301 del 2009, e n. 45572 del
2007 nelle quali la medesima Corte ha sostenuto che «in materia di confisca –
sia quale misura di prevenzione reale, sia quale confisca atipica – i terzi
rimasti estranei al procedimento nel cui ambito è stato disposto il sequestro,
possono proporre incidente di esecuzione per far valere i propri diritti sul bene
oggetto di ablazione, a condizione che versino in buona fede e che abbiano
trascritto il loro titolo anteriormente al sequestro».
Il terzo sarà, dunque, ammesso solo a una tutela di tipo risarcitorio. Infatti, il
bilanciamento tra i contrapposti interessi (cioè quello pubblicistico dello Stato
alla repressione del fenomeno mafioso e quello del privato) sarà differito a un
momento successivo allorché il terzo creditore di buona fede chiederà il
riconoscimento del suo credito.
Tuttavia, la stessa tutela risarcitoria a cui può accedere il terzo in un
momento successivo alla confisca non appare pienamente soddisfacente e
anzi è evidente che la posizione del terzo sia scarsamente tutelata dal
101
De Iustitia
Legislatore. Quest’ultimo infatti ha, in primo luogo, limitato fortemente il
contenuto delle pretese risarcitorie del terzo laddove ha previsto all’art. 53 del
codice antimafia che i crediti per titoli anteriori al sequestro sono soddisfatti
dallo Stato nel limite del 70% del valore dei beni sequestrati o confiscati, in
tal modo limitando fortemente la possibilità da parte del terzo di vedere
soddisfatto il proprio credito.
A ciò va aggiunto che è accordata anche scarsa tutela al proprietario che è
stato illegittimamente privato di un bene confiscato, in quanto quest’ultimo è
destinato talvolta a non poter accedere a una tutela di tipo restitutoria poiché
il Legislatore ha previsto che la restituzione dei beni possa avvenire anche per
equivalente, al netto delle migliorie, quando tale restituzione possa
pregiudicare l’interesse pubblico.
A completamento di tale regime evidentemente poco favorevole per il terzo
va citato l’art. 40, comma 5-ter del Codice antimafia che consente al
Tribunale di destinare alla vendita i beni mobili sottoposti a sequestro se gli
stessi non possono essere amministrati senza pericolo di deterioramento
nonché di ordinare la distruzione o demolizione dei beni mobili privi di valore,
improduttivi, e oggettivamente inutilizzabili. In tal guisa al proprietario del
bene, ancor prima della definitività del provvedimento di confisca, viene
preclusa la possibilità di recuperare il bene in caso di revoca del
provvedimento medesimo.
La tutela apprestata dall’ordinamento ai diritti dei terzi sui beni oggetto di
confisca, alla luce di quanto esposto, solleva certamente dubbi di
costituzionalità in relazione agli articoli 27 Cost. (principio di personalità della
responsabilità penale) 41, comma 1, Cost. (libertà di iniziativa economica) e
42 Cost. (tutela del risparmio).
In particolare, soprattutto il principio di personalità della responsabilità penale
appare leso dalla regolamentazione e dalla tutela offerta dal Legislatore ai
terzi di buona fede.
Ciò in quanto se i terzi, pur non essendo coinvolti nel fenomeno mafioso, si
vedono privati della disponibilità dei loro beni o di un credito che vantano nei
riguardi di un soggetto destinatario della misura cautelare, è evidente che
sorgono dubbi sulla costituzionalità delle previsioni legislative che non
tutelano visibilmente chi è estraneo al fenomeno mafioso. E ciò risulta
confermato da tutte quelle norme che non garantiscono un pieno
soddisfacimento del credito dei terzi e da quelle che addirittura consentono la
102
De Iustitia
vendita o la demolizione di tali beni in assenza tra l’altro di un provvedimento
definitivo di confisca.
Non appare sufficiente, al fine di scongiurare le censure di incostituzionalità, il
richiamo all’interesse pubblico alla repressione del fenomeno criminoso.
A ciò si aggiunga che l’espropriazione del credito che il terzo vanta nei
confronti del destinatario della misura cautelare risulta un sacrificio
irragionevole e comunque sproporzionato rispetto all’obiettivo di contrasto
alla criminalità organizzata perseguito dalla confisca di prevenzione.
Si tratta certamente di un sacrificio irragionevole, in quanto la modalità
ordinaria di esercizio del diritto di credito (cioè l’esecuzione per
espropriazione) non si pone in contrasto con la finalità della misura di
prevenzione patrimoniale, ovvero il recupero del bene confiscato; è inoltre un
sacrificio sproporzionato perché l’obiettivo di costituire un patrimonio quanto
più vasto possibile da destinare a fini sociali a partire dai beni confiscati non
appare un interesse idoneo a giustificare, nel bilanciamento di interessi, il
sacrificio dei diritti dei terzi di buona fede.
103
De Iustitia
La natura della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di
bancarotta propria tra elemento costitutivo del reato e condizione
obiettiva di punibilità
di Antonio SCOTTO ROSATO*
SOMMARIO: 1. Introduzione: aspetti e difformità degli orientamenti attuali.
2. La posizione della dottrina: condizione obiettiva di punibilità. 2.1. La
sentenza dichiarativa di fallimento: condizione di punibilità estrinseca o
intrinseca? 3. La posizione della giurisprudenza: elemento costitutivo del
reato. 3.1. La revisione critica del tradizionale orientamento in chiave
garantista: la sentenza Corvetta. 3.2. Criticità della sentenza Corvetta, il
ritorno al passato. 4. Considerazioni finali.
1. Introduzione: aspetti e difformità degli orientamenti attuali.
Il presente contributo intende approfondire la delicata questione relativa alla
natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento, la quale rappresenta,
senza alcun dubbio, una delle problematiche più dibattute del panorama
giuridico italiano, caratterizzata dalle posizioni contrapposte della dottrina più
autorevole e della giurisprudenza, fedele ad un orientamento che conta ormai
più di mezzo secolo.
L’annosa questione, oggetto di accesi dibattiti, è chiaramente circoscritta alla
natura di tale sentenza nelle sole ipotesi di bancarotta prefallimentare, ciò in
considerazione del diverso ruolo di presupposto del reato che la stessa ricopre
nelle ipotesi di bancarotta post fallimentare, considerato che in tal caso i fatti
di bancarotta si collocano chiaramente in epoca successiva all’emissione del
provvedimento giudiziale.
Questione ben diversa è, invece, definire il ruolo della sentenza di
accertamento dello stato di insolvenza per i fatti di bancarotta prefallimentare.
La dottrina più autorevole è concorde e ferma nell’attribuire a tale
provvedimento il ruolo di condizione di punibilità estrinseca, dovendosi
ritenere che la stessa nulla aggiunga alla potenzialità lesiva delle condotte di
bancarotta, già di per sé intrise di autonomo disvalore penale, ritenendo che
*
Avvocato penalista del Foro di Napoli.
104
De Iustitia
«le stesse considerazioni di interesse economico generale che suggeriscono di
costruire la bancarotta come reato proprio dell’imprenditore commerciale, più
impegnato socialmente del comune debitore, consigliano di legare la
repressione al fallimento: sopraggiunto il quale l’imprenditore può essere
chiamato al redde rationem senza pericolo per la continuità dell’unità
produttiva. Una repressione automatica poco gioverebbe agli stessi creditori:
finché la crisi non si dimostri irreversibile essi possono contare su di una
ripresa che consenta un soddisfacimento integrale»1.
Sul versante opposto, arroccate attorno ad una pronuncia a Sezioni Unite del
lontano 1958, si assesta la giurisprudenza con un orientamento pressoché
uniforme, che attribuisce alla sentenza dichiarativa di fallimento il ruolo di
elemento costitutivo del reato o per meglio dire “condizione di esistenza dei
reati di bancarotta”, alla quale, però, nega consapevolmente qualsivoglia
connessione causale e psicologica con le condotte tipiche.
La netta contrapposizione degli orientamenti è tutt’altro che questione di lana
caprina; propendere verso una tesi oppure verso l’altra, muta radicalmente
l’intera impostazione dei reati di bancarotta prefallimentare, con effetti
giuridici che si riverberano sia in ambito sostanziale che processuale.
Si pensi solo, a mero titolo esemplificativo, agli effetti prodotti
sull’accertamento del momento consumativo del reato e della relativa
punibilità delle condotte laddove tale sentenza fosse qualificata come
condizione obiettiva di punibilità. Ancora, si immaginino gli inevitabili
condizionamenti che produrrebbe sul locus commissi delicti l’attribuzione del
ruolo di elemento costitutivo del reato ed il conseguenziale radicamento del
procedimento penale nel luogo ove sia stato dichiarato giudizialmente il
fallimento.
2. La posizione della dottrina: condizione obiettiva di punibilità.
L’orientamento dominante in dottrina è, come anticipato, quello di ritenere la
sentenza dichiarativa di fallimento una condizione obiettiva di punibilità,
invero dibattendo circa la sola natura propria o impropria della stessa.
Va però menzionato, prima di approfondire l’impostazione maggioritaria, un
ulteriore orientamento, rimasto di fatto isolato, che attribuisce alla sentenza di
1
C. PEDRAZZI – F. SGUBBI, Legge fallimentare a cura di F. Galgano, artt. 216 – 227, p. 19.
105
De Iustitia
fallimento la qualifica di condizione di procedibilità2, sull’assunto che la reale
causa di punibilità sarebbe insita nello stato di insolvenza accertato nella
pronuncia giudiziale; conseguenzialmente, la stessa avrebbe mera valenza
processuale.
Tuttavia, l’attribuzione di una valenza meramente processuale non
consentirebbe alcun tipo di approfondimento di natura sostanziale sulla
sentenza dichiarativa di fallimento e ciò rappresenterebbe proprio il limite
oggettivo di tale orientamento, rendendolo assolutamente non condivisibile.
Ciò premesso, l’approdo del pensiero dottrinale maggioritario nell’alveo delle
condizioni obiettive di punibilità, risiede senza alcun dubbio nel diritto
costituzionale dell’imprenditore di disporre liberamente della cosa propria,
salvo il limite conferito dal contrapposto diritto dei creditori di vedere
soddisfatte le proprie legittime pretese. È pertanto la lesione dei diritti dei
creditori dinanzi ad una legittima pretesa, frustrata mediante condotte
scellerate del dominus dell’impresa, a rappresentare la ratio dei reati di
bancarotta; ciò non potrebbe che essere confermato dalla scelta operata dal
Legislatore di tipizzare i fatti di bancarotta mediante termini intrisi di
autonomo disvalore penale, indicativi di una gestione societaria scellerata,
idonea a pregiudicare il soddisfacimento dei creditori.
È chiaro, pertanto, che dinanzi a fatti dotati di carica offensiva immanente,
alcun valore integrativo della fattispecie penale può attribuirsi alla sentenza
giudiziale di accertamento dello stato di insolvenza, giacché il divieto
contenuto nel precetto non mira ad impedire il fallimento, ma invece tende a
punire quelle condotte capaci di pregiudicare irreversibilmente i diritti dei
creditori3.
Contribuisce senza alcun dubbio a sviscerare il nodo del problema il dato
normativo dell’art. 216 l.f., secondo cui:
«è punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito,
l’imprenditore, che:
1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i
suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o
riconosciuto passività inesistenti;
2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di
U. GIULIANI BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1983.
In tal senso F. MUCCIARELLI, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero
incolmabile il divario tra teoria e prassi?, Diritto penale contemporaneo, 2015.
2
3
106
De Iustitia
procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori,
i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere
possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.
La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la
procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del
comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre
scritture contabili.
É punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o
durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori,
taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.
Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice
penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa
per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa
commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi
presso qualsiasi impresa».
L’espressione letterale «se è dichiarato fallito», utilizzata per le ipotesi di
bancarotta ivi previste, risulta ineccepibilmente diversa da quella scelta,
invece, dal Legislatore per disciplinare le ipotesi delittuose previste dall’art.
223 l.f., a mente del quale: «Si applicano le pene stabilite nell'art. 216 agli
amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società
dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel
suddetto articolo.
Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell'art.
216, se:
1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società,
commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627,
2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile;
2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento
della società.
Si applica altresì in ogni caso la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 216».
Le scelte semantiche palesemente difformi nella descrizione delle condotte
contenute nelle due ipotesi di bancarotta lasciano intendere la precipua
volontà di operare un distinguo tra le due fattispecie.
Il raffronto tra le locuzioni sintattiche è evidente, il richiamo al termine
«cagionare o aver concorso a cagionare», utilizzato nelle ipotesi di bancarotta
impropria, è sintomatico della volontà del Legislatore di richiedere un
107
De Iustitia
rapporto di causalità materiale e psicologica tra le azioni tipiche ed il dissesto
o il fallimento, qualificando entrambi come eventi naturalistici del reato,
seppur gli stessi afferiscano a situazioni fra loro eterogenee.
Ma non può dirsi altrettanto delle ipotesi di bancarotta propria . «Se è
dichiarato fallito» non può aver lo stesso peso «dell’aver cagionato o concorso
a cagionare»; nelle ipotesi previste dall’art. 216 l.f., il fallimento, pertanto,
non può che rappresentare un avvenimento futuro ed assolutamente incerto,
avulso da giudizi in ordine alla rappresentazione e volizione dell’evento da
parte dell’agente.
Sicché, nella logica conseguenza del pensiero che si è cercato di riassumere
sinora, il dato esegetico fornito dall’art. 216 l.f., il «se è dichiarato fallito»,
attrarrebbe il fallimento al suo interno come elemento avulso da ogni
valutazione in ordine alla partecipazione psicologica dell’agente e di
qualsivoglia legame causale con le condotte criminose, circostanza che lo
renderebbe a tutti gli effetti una condizione obiettiva di punibilità,
rappresentando «un qualcosa di aggiuntivo o supplementare rispetto al fatto
illecito: un avvenimento concomitante o successivo alla condotta che non va a
completare un fatto di reato, ma si limita a rendere punibile il fatto medesimo,
già identificato e strutturato secondo le sue note essenziali di disvalore» 4.
A fornire consistenza alla logica ricostruzione operata dalla dottrina è
senz’altro lo studio della sentenza dichiarativa di fallimento attraverso i criteri
valutativi diagnostico-formale e sostanziale-funzionale, formulati per
identificare un determinato elemento previsto da una fattispecie criminosa ed
indirizzarlo verso la disciplina delle condizioni obiettive di punibilità ovvero
degli elementi costitutivi del reato; difatti, già il criterio diagnostico-formale,
attraverso la valutazione dei termini scelti dal Legislatore quali «se dal fatto
deriva» o “qualora”, opererebbe un primo discernimento attraverso
l’identificazione di elementi senz’altro distaccati dagli essentialia delicti e
riconducibili ad eventi futuri ed incerti, ma senza dubbio è attraverso il criterio
sostanziale-funzionale che si giunge ad una reale identificazione e
catalogazione di un elemento mediante la valutazione dell’estraneità dello
stesso alla fenomenologia offensiva del reato, caratteristica propria delle
condizioni obiettive di punibilità.
Da ciò ne discenderebbe che, mentre gli elementi costitutivi del reato
4
M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, III ed., 2004, p. 475.
108
De Iustitia
renderebbero, al loro perfezionamento, il fatto meritevole di pena, il verificarsi
di una condizione di punibilità lo renderebbe invece anche bisognoso di pena.
Pertanto, di fronte a talune fattispecie di reato complesse, quali senza dubbio
deve intendersi il reato di bancarotta, il Legislatore ha inteso scindere il reato
dalla punibilità, ritenendo anche dinanzi all’intrinseca antigiuridicità delle
condotte, di non reprimere un determinato fatto se non in presenza di una
condizione connessa a precipue scelte di natura politico criminale,
rappresentanti un contro interesse statale uguale e contrario a quello interno
della norma violata5, condizione che, nei fatti di bancarotta, è data proprio
dalla sentenza dichiarativa di fallimento.
Proprio il ruolo che gli elementi di cui all’art. 44 c.p., e di conseguenza la
sentenza dichiarativa di fallimento, assumono nel contesto normativo, ne
giustifica l’assoluta irrilevanza in termini di colpevolezza ai sensi dell’art. 27
Cost., trattandosi di categoria di elementi assolutamente estranei alla materia
del divieto, che si sottraggono pertanto alla regola della rimproverabilità 6,
conclusione alla quale giunge, seppur con percorsi argomentativi diversi,
proprio la giurisprudenza.
2.1. La sentenza dichiarativa di fallimento: condizione di punibilità
estrinseca o intrinseca?
Rimane da chiarire, nella breve ricostruzione del pensiero dottrinale, se tale
sentenza debba qualificarsi come condizione obiettiva di punibilità impropria
o intrinseca oppure come condizione di punibilità propria o estrinseca,
laddove le prime si riferiscono a fattori che sono partecipi dell’offensività del
reato rappresentando una progressione dell’offesa e, pertanto, solo
formalmente sarebbero da ritenersi estranei allo stesso, mentre le seconde si
riferiscono a fattori del tutto avulsi dal fatto tipico e subordinano la punibilità
della condotta al verificarsi di un elemento del tutto estraneo, in assenza del
quale, il Legislatore preferisce non sanzionare il comportamento, seppur
perfezionato nei suoi elementi costitutivi.
La mera definizione testé riportata consente, alla luce del ragionamento
giuridico operato dall’autorevole dottrina, di ritenere la sentenza dichiarativa
di fallimento nelle ipotesi di bancarotta disciplinate nel primo comma dell’art.
216 l.f. assolutamente compatibile con le condizioni obiettive di punibilità di
5
6
R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale – Parte Generale, Milano, 2005, pp. 251 e ss..
Corte Cost., 13 dicembre 1988, n. 1085, in Cass. pen., 1989, p. 758.
109
De Iustitia
natura propria o estrinseca.
Essa, infatti, non contribuirebbe a fornire alcun disvalore ai fatti di bancarotta,
i quali, già nella loro tipizzazione normativa farebbero riferimento a condotte
sintomatiche di una gestione patologica dell’impresa – dissipare, dissimulare,
occultare, distrarre – e pertanto già intrisi di autonomo disvalore penale; in
tale contesto, la sentenza dichiarativa di fallimento esprimerebbe appieno
l’essenza della condizione di punibilità propria avendo il potere, per il solo
fatto del suo verificarsi, di rendere punibili le condotte poste in essere
dall’imprenditore, indipendentemente da connessioni eziologiche con le stesse,
nesso invece essenziale per il perfezionamento del reato di bancarotta
impropria.
3. La posizione della giurisprudenza: elemento costitutivo del reato.
In netta contrapposizione vi è, però, la giurisprudenza di legittimità la quale,
in ossequio ai principi dettati da una nota sentenza a Sezioni Unite del
lontano 19587, si è assestata sull’orientamento diametralmente opposto,
secondo cui:
«la dichiarazione di fallimento, pur costituendo un elemento imprescindibile
per la punibilità dei reati di bancarotta, si differenzia concettualmente dalle
condizioni obiettive di punibilità vere e proprie perché, mentre queste
presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, sotto l’aspetto
oggettivo e soggettivo, essa, invece, costituisce, addirittura, una condizione di
esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è collegata
l’esistenza del reato, relativamente a quei fatti commissivi od omissivi
anteriori alla sua pronunzia, e ciò in quanto attiene così strettamente
all’integrazione giuridica della fattispecie penale, da qualificare i fatti
medesimi, i quali, fuori dal fallimento, sarebbero, come fatti di bancarotta
penalmente irrilevanti. In altri termini non sarebbe possibile ritenere che la
lesione o il pericolo del bene protetto con l’incriminazione si verifichi per
effetto solamente della commissione dei fatti di bancarotta, di guisa che la
funzione della sentenza dichiarativa di fallimento sia semplicemente quella di
rendere punibile un fatto già di per se stesso costituente reato e, comunque,
illecito»8.
7
8
Cass. pen., S.U., 25 gennaio 1958, n. 2.
Cass. pen., S.U., 25 gennaio 1958, n. 2.
110
De Iustitia
Dal menzionato principio di diritto ed ogniqualvolta se n’è presentata
l’occasione, la Suprema Corte ha sempre colto l’occasione di rimarcare la
natura della sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo o,
per meglio dire, di esistenza del reato di bancarotta propria, seppur
delineandone un profilo del tutto anomalo e nuovo rispetto al regime
ordinario degli elementi costitutivi, di fatto molto simile alle condizioni
obiettive di punibilità fortemente ripudiate.
Si evidenzia, infatti, nel pensiero della Suprema Corte che, seppur i termini
utilizzati dal Legislatore nel primo comma dell’art. 216 l.f. siano certamente
evocativi di condotte senz’altro intrise di disvalore penale, i fatti commessi
sono e devono considerarsi pienamente leciti fintantoché la società sia ancora
economicamente e commercialmente attiva; è solo nel momento in cui detta
società subisca il tracollo economico, successivamente accertato nella
sentenza dichiarativa di fallimento, che retrospettivamente le condotte
vengono assorbite nell’alveo del penalmente rilevante.
É di immediata percezione la struttura anomala che assume il reato di
bancarotta ricostruito alla luce di tali considerazioni. Il reato subirebbe un
perfezionamento differito, condizionato da un elemento successivo ed incerto,
capace di investire retroattivamente le condotte rendendole penalmente
rilevanti; elemento che, seppur anomalo nella sua struttura, risulterebbe il
cuore della fattispecie, essenziale ai fini del perfezionamento dello stesso e
che, per tali ragioni, non potrebbe che assurgere ad elemento costitutivo del
reato.
Da ciò se ne dovrebbe dedurre che, in ossequio ai principi della teoria
generale del reato, la prova della responsabilità penale dell’imprenditore fallito
non potrebbe prescindere dalla ricerca della rappresentazione e volizione del
fallimento come conseguenza delle proprie condotte ed altresì, qualora si
ritenesse il fallimento evento del reato, anche della necessaria derivazione
causale con le condotte tipiche.
Ebbene, la posizione unanime della giurisprudenza ripudia fortemente queste
conclusioni, ritenendo che la formulazione normativa dell’art. 216 l.f.
escluderebbe da sé ogni necessità di approfondimento probatorio in ordine
alla partecipazione psicologica dell’imprenditore ed ancor meno della ricerca
del nesso di causalità tra le condotte ed il fallimento; conclusioni che, invero,
seppur con percorso argomentativo di senso diametralmente opposto,
appaiono in sintonia con la posizione dell’autorevole dottrina richiamata.
111
De Iustitia
3.1. La revisione critica in chiave garantista del tradizionale
orientamento: la sentenza Corvetta.
In uno scenario pressoché uniforme da oltre mezzo secolo, merita menzione
la coraggiosa pronuncia relativa al discusso crac della società calcistica
Ravenna Calcio9 la quale, seppur non discostandosi dalla premessa fornita
dalla sentenza Mezzo, ha avuto il merito di rivedere criticamente l’impianto
motivazionale originario, attraverso una rilettura in chiave costituzionalmente
orientata della natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento.
Il pregio della sentenza Corvetta è, senz’altro, quello di aver puntato i riflettori
sulle posizioni tradizionali, consigliando una lettura più garantista del reato di
bancarotta propria e della sentenza di accertamento dell’insolvenza, più in
linea con i principi generali del diritto penale. Ma alle spalle di questa
rivisitazione in chiave moderna delle vecchie posizioni si cela, purtroppo, un
impianto motivazionale che commette gli stessi errori, prestando il fianco a
innumerevoli critiche e confutazioni che, di fatto, disperdono l’afflato
garantista che caratterizza la sentenza.
L’evoluzione del pensiero giurisprudenziale contenuto nella sentenza Corvetta
trae spunto dal medesimo punto di partenza condiviso dall’orientamento
tradizionale, per cui la sentenza dichiarativa di fallimento ha rilievo quale
elemento costitutivo del reato; da ciò non può che derivarne, contrariamente
a quanto sinora sostenuto dalla posizione tradizionale, l’attribuzione di evento
del delitto di bancarotta e, pertanto, deve necessariamente ricercarsi, ai fini di
un giudizio di responsabilità penale, la partecipazione soggettiva
dell’imprenditore rispetto al fallimento nonché l’incidenza causale delle
condotte rispetto allo stato di insolvenza.
In tal senso, la Suprema Corte evidenzia come sia non condivisibile la
precedente impostazione che escludeva il fallimento quale evento del reato,
attribuendo tale ruolo alla lesione dell’interesse patrimoniale della massa
creditoria e ritenendo, conseguenzialmente, irrilevante la derivazione causale
tra le condotte poste in essere ed il successivo stato di insolvenza o dissesto,
che rappresentano invero l’anticamera del fallimento.
D’altronde, evidenzia il Supremo Consesso che «non esiste un elemento
costitutivo, successivo alla condotta, che non richieda un legame eziologico
9
Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012, n. n. 4750, in C.E.D. Cass..
112
De Iustitia
con questa» e che «il Codice penale, peraltro, contempla sì la possibilità che
un evento sia posto a carico dell’agente pur in mancanza di dolo o di colpa
(art. 42 c.p.), ma non prevede invece eccezioni al rapporto di causalità» 10.
Ne discende quindi che, rappresentando il fallimento elemento costitutivo e,
di conseguenza, evento del reato, non può che soggiacere ai principi generali
del diritto penale in tema di nesso di causalità e di elemento soggettivo.
A sostegno delle proprie conclusioni, ad onor del vero scarsamente
argomentate, nella pronuncia si sollecita una lettura congiunta delle ipotesi di
bancarotta propria con quelle previste dall’art. 223 l.f., ove precipuamente il
Legislatore contempla inequivocabilmente la necessità del nesso causale tra le
condotte ed il dissesto; a parere del Supremo Consesso, ciò rappresenterebbe
un principio generale della materia penale fallimentare, da non circoscrivere
alle ipotesi di bancarotta societaria, ma finalizzato ad uniformare tutte le
ipotesi di bancarotta che, in tanto rilevano, in quanto abbiano una qualche
rilevanza nella produzione del dissesto.
Pertanto, la conclusione alla quale si giunge è che, data la natura di elemento
costitutivo del reato di bancarotta, il fallimento deve necessariamente
sottostare ai principi di responsabilità penale personale e di causalità tra le
condotte distrattive e la situazione di dissesto che sottende al fallimento;
d’altronde, sostiene il Supremo Collegio, poiché le cause di un fallimento sono
senz’altro molteplici e spesso estranee al potere ed al volere del dominus
d’impresa, rinunciare alla prova di connessioni eziologiche tra le scelte
imprenditoriali e l’insolvenza apre scenari di punizione arbitraria.
Ma, se le conclusioni relative alla qualificazione di evento del reato della
sentenza dichiarativa di fallimento possono comunque trovare un seguito, ove
debitamente argomentate, problematiche maggiori si ravvisano invece nelle
intenzioni di introdurre, ai fini del giudizio di responsabilità penale, la ricerca
della partecipazione psicologica dell’imprenditore, non più circoscritta alle
singole operazioni poste in essere, bensì al fallimento; in altri termini, sarebbe
necessaria la rappresentazione e volizione del fallimento quale conseguenza
delle proprie condotte, ciò in considerazione dell’impossibilità di poter ritenere
corretta la punibilità per condotte connesse ad un evento che sfugga
completamente dalla rappresentazione e volizione del soggetto agente.
Pertanto, partendo dalla premessa obbligatoria per cui il fallimento è
10
Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012, n.4750, in C.E.D. Cass..
113
De Iustitia
elemento costitutivo del reato di bancarotta, questi deve essere investito
necessariamente dal dolo e sottacere ai principi dettati dall’art. 42 c.p. e,
quindi, lo stato di insolvenza che rappresenta presupposto del fallimento,
deve essere necessariamente rappresentato e voluto dall’agente, oltreché,
come già affermato, porsi in rapporto di derivazione causale con le condotte.
Quindi, ne deriva che l’unica soluzione in chiave garantista che non violi i
principi di cui all’art. 42 c.p., non può che essere, nelle argomentazioni della
Suprema Corte, la rappresentazione e volizione del dissesto societario
conseguente alle condotte imprenditoriali, il quale altri non è che l’alter ego
della lesione del diritto al credito; ricostruzione che risulterebbe in linea con
un’altra pronuncia, secondo cui «la Cassazione (sez. 5, n. 16579 del
24/03/2010, Fiume, Rv. 246879), resasi conto degli effetti aberranti di una
costruzione dommatica che lega l'elemento soggettivo esclusivamente alla
condotta distrattiva, ha ribadito la necessarietà della consapevolezza che essa
determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni della classe
creditoria. E tale danno si verifica solamente nel momento in cui, non
essendo più possibile far fronte alle proprie obbligazioni, l'imprenditore
diventa insolvente e fallisce»11.
3.2. Criticità della sentenza Corvetta, il ritorno al passato.
La sentenza Corvetta ha senza dubbio il merito di aver tentato, quantomeno,
di revisionare un impianto ormai vetusto che proliferava pronunce capaci
esclusivamente di richiamare vecchi principi; tuttavia, pur nel riconoscere tale
encomiabile intentio, la pronuncia in esame adotta il medesimo modus
operandi e, nel confutare le precedenti conclusioni, si muove attraverso
ragionamenti assertivi, incapaci, invero di consentire un’effettiva condivisione
delle tesi formulate.
La sentenza ha, pertanto, deluso le aspettative proprio a causa della fallacia
del tessuto motivazionale, incapace anche solo di aprire una breccia nel
granitico orientamento giurisprudenziale; invero, proprio la produzione
giurisprudenziale successiva, di cui meritano menzione due pronunce riferibili
a crac economico-finanziari italiani tra i più gravi degli ultimi anni, ha puntato
i riflettori proprio sull’insussistenza delle conclusioni della sentenza Corvetta in
merito alla necessaria rappresentazione e volizione del fallimento e del nesso
11
In Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, si fa riferimento a Cass. pen., sez. V, 24
marzo 2010, n. 16579, in C.E.D. Cass..
114
De Iustitia
causale tra quest’ultimo e le condotte poste in essere dall’imprenditore,
smembrando punto per punto ogni argomentazione proposta.
Va certamente premesso che non ha aiutato la condivisione delle nuove teorie
l’evidente confusione terminologica con la quale, nella sentenza Corvetta, si
utilizzano come sinonimi termini differenti come “fallimento”, “dissesto” ed
“insolvenza”; tali concetti, seppur ricorrenti nella materia, non sono, né
possono, essere ritenuti analoghi; il fallimento, o per meglio dire la sentenza
dichiarativa di fallimento, rappresenta infatti mera dichiarazione giudiziale di
accertamento, mentre lo stato di insolvenza ed il dissesto ne rappresentano il
substrato, la condicio sine qua non per la dichiarazione di fallimento, e solo
questi ultimi, seppur rappresentativi di situazioni fra loro eterogenee, possono
essere ritenuti equivalenti12, ma non possono di certo afferire a medesime
situazioni, difatti «l’insolvenza è la situazione dell’imprenditore che non è più
in grado di far fronte con regolarità alle sue obbligazioni. È quindi una
situazione di carattere essenzialmente finanziario, anche di mera illiquidità,
nel senso che prende in considerazione il fatto, e solo quello, che
l’imprenditore non paga i suoi creditori […] una tale situazione finanziaria è la
condizione minima per la dichiarazione di fallimento. Il dissesto deve invece
ritenersi una condizione irreversibile conseguente non solo al crollo finanziario
dell’impresa ma anche a quello patrimoniale […] Trattasi quindi di una
situazione connotata da elementi di gravità ben più consistenti rispetto alla
mera insolvenza».13
Le difficoltà terminologiche non hanno però rappresentato l’unico limite,
risiedendo l’oggetto della maggior critica alle conclusioni della sentenza
Corvetta proprio nella qualificazione di evento del reato che si attribuisce alla
sentenza dichiarativa di fallimento, nodo centrale delle argomentazioni
contenute nella sentenza relativa al crac della società Parmalat14.
Difatti, si sostiene in sentenza, attraverso un attento excursus
giurisprudenziale in materia, che la sentenza dichiarativa di fallimento assume
rilevanza in sede penale esclusivamente quale provvedimento giurisdizionale 15
e, pertanto, il ruolo di elemento costitutivo del reato non sarebbe dato dai
A. D’AVIRRO – E. DE MARTINO, I reati di bancarotta societaria, Giuffrè editore, 2013.
Trib. Firenze, sez. II, 10 novembre 2006.
14 Cass. pen., sez. V, 22 luglio 2014, n. 32352 del 2014.
15 Cass. pen., S.U., 28 febbraio 2008, n. 19601, in www.cortedicassazione.it, rassegna penale
2008.
12
13
115
De Iustitia
presupposti di fatto della sentenza – quali lo stato di insolvenza o il dissesto –
accertati dal giudice fallimentare, bensì solo nella pronuncia rispetto alla quale
alcuna efficacia causale con le condotte imprenditoriali può es1sere
ipotizzabile; inoltre, ogniqualvolta il Legislatore abbia inteso connotare un
accadimento quale evento del reato, utilizza volutamente espressioni
evocative del rapporto causale quali “causare”, “cagionare” ecc., pertanto è
«l’analisi del tipo descrittivo delineato nell’art. 216, primo comma, stessa
legge, che consente di rimarcare l’assenza di qualsiasi accenno alla necessità
di un collegamento causale fra le condotte vietate e la dichiarazione di
fallimento; quest’ultima, invero, essendo evocata nella forma sintattica della
protasi (se è dichiarato fallito) partecipa a comporre un’endiadi che individua
il soggetto attivo del reato nell’imprenditore fallito; mentre l’oggetto del
divieto
legislativo
consiste,
quanto
alla
bancarotta
distrattiva,
nell’impoverimento della consistenza patrimoniale dell’impresa, che è l’asse
portante della garanzia per i creditori; mentre nella bancarotta documentale
consiste nella soppressione della contabilità, dalla quale dipende la possibilità
di ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. E proprio nelle
conseguenze or ora descritte si individua l’evento del reato, nella sua
accezione giuridica e non naturalistica»16.
Connessione eziologica che, invero, è richiesta ed espressa con termini chiari
ed inequivocabili per le condotte di cui all’art. 223 l.f. e, quindi,
rappresenterebbe una forzatura cercare di equiparare fattispecie che
chiaramente il Legislatore ha inteso distinguere.
Ebbene, è lo stesso dato letterale insito nell’endiadi «se è dichiarato fallito»
ad escludere nessi eziologici tra condotte e fallimento, desumibile altresì in via
del tutto logica dall’impossibilità, dinanzi ad una equiparazione ex lege delle
due fattispecie previste dal primo comma dell’art. 216 l.f. di bancarotta
fraudolenta distrattiva e documentale, di poter ritenere sussistente un legame
eziologico tra la condotta di distruzione di scritture contabili ed il fallimento.
Si è quindi ritenuto ipotizzabile una categoria di elementi costitutivi scissi da
connessioni causali con le condotte, purché nel rispetto dei limiti e diritti di
rango costituzionale; limiti che, seppur in via eccezionale ed anomala rispetto
alla categoria degli elementi costitutivi, la giurisprudenza costituzionale ha
ritenuto rispettati con riferimento alla sentenza dichiarativa di fallimento,
16
Cass. pen., sez. V, 22 luglio 2014, n. 32352 del 2014.
116
De Iustitia
affermando che «il Legislatore avrebbe potuto considerare la dichiarazione di
fallimento tra l'altro come semplice condizione di procedibilità o di punibilità,
ma ha invece voluto – come è riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di
Cassazione – richiedere l'emissione della sentenza per l'esistenza stessa del
reato. E ciò perché, intervenendo la sentenza dichiarativa del fallimento, la
messa in pericolo di lesione del bene protetto si presenta come effettiva ed
attuale»17.
É chiaro, pertanto, che il Legislatore abbia inteso voler escludere connessioni
causali tra le condotte ed il fallimento, precipuamente richieste nelle ipotesi di
bancarotta impropria, sicché una ricerca in tal senso sarebbe assolutamente
arbitraria.
Ciò posto, è chiaro che la sentenza dichiarativa di fallimento non può
rappresentare l’evento di tale reato, che invece deve identificarsi nella messa
in pericolo degli interessi dei creditori, lesione che viene in rilievo
esclusivamente nel momento in cui venga ad accertarsi giudizialmente
l’insolvenza; tale circostanza rende, di conseguenza, penalmente irrilevanti i
fatti posti in essere dall’imprenditore prima del fallimento, perché rientranti
nella libera gestione dell’impresa.
A medesime conclusioni perviene la Suprema Corte nella recentissima
sentenza relativa ad un filone gemmato dalla vicenda del crac Parmalat e
riferibile ai vertici del gruppo Capitalia18, nella quale mantenendo il medesimo
atteggiamento dissenziente rispetto al precedente di senso opposto
menzionato, ricostruisce punto per punto l’intera storia giurisprudenziale
relativa alla sentenza dichiarativa di fallimento, con un attento richiamo alle
singole pronunce di interesse.
Nel ribadire l’orientamento accreditato da Sezioni Unite Mezzo, la Corte
richiama un’autorevole pronuncia relativa al ruolo che il decreto di
ammissione all’amministrazione controllata ricopre nell’art. 236 l.f.,
evidenziando che il decreto di ammissione ad amministrazione controllata ha
la stessa natura ed esplica gli stessi effetti della sentenza dichiarativa di
fallimento quale elemento costitutivo del reato di bancarotta, che
rappresentano «l’insieme o la somma degli elementi che incarnano il volto di
una specifica figura di reato, ivi compreso i così detti elementi normativi i
quali, instaurando una stretta relazione giuridica con la condotta, partecipano
17
18
Corte cost., n. 110 del 1972.
Cass. pen., sez. V, 15 aprile 2015, n. 15613.
117
De Iustitia
alla descrizione della medesima fattispecie e rimangono imprescindibilmente
inseriti nel suo nucleo essenziale»19.
Ma per ovviare ad una evidente quanto ingiustificabile distinzione rispetto alla
disciplina degli elementi costitutivi, la Suprema Corte propone una nuova
categoria di elementi costitutivi in senso improprio, invero allo stato riservata
alla sola sentenza dichiarativa di fallimento, «mirata più che altro a rimarcare
la rilevanza della data e del luogo della dichiarazione di fallimento ai fini
dell’applicabilità di determinati istituti sostanziali e processuali, quali la
prescrizione del reato e la competenza territoriale»20.
E proprio in ciò risiederebbe la sostanziale differenza tra la sentenza
dichiarativa di fallimento e le condizioni obiettive di punibilità, posto che
quest’ultime presupporrebbero un reato strutturalmente perfetto,
soggettivamente ed oggettivamente, avendo le condotte disvalore penale
immanente; differentemente, invece, i fatti di bancarotta propria sarebbero
privi di disvalore prima dell’accertamento dello stato di insolvenza.
Se allora, come evidenziato, la sentenza dichiarativa di fallimento rappresenta
elemento costitutivo del reato e non evento dello stesso, è chiaro che l’evento
del reato di bancarotta deve identificarsi nella garanzia patrimoniale diminuita
e quindi, in quest’ottica, ogni condotta posta in essere dall’imprenditore
(rectius: fallito), anche in periodi commercialmente ed economicamente
prosperi, lontani anche anni dal fallimento, deve ritenersi come penalmente
rilevante, ciò di certo comprovato altresì dalla circostanza che, quando il
Legislatore abbia avuto interesse a fissare un termine entro il quale connotare
di rilevanza penale determinate condotte, lo ha precipuamente previsto, come
nelle ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale21.
Si approderebbe a medesime conclusioni anche semplicemente dalla lettura
della norma. La differente terminologia utilizzata dal Legislatore per tipizzare
le condotte di bancarotta propria ed impropria paleserebbe la volontà
legislativa di richiedere solo per quest’ultima un nesso eziologico tra dissesto
e condotte, mentre per i fatti di cui all’art. 216 l.f. non si comprenderebbe la
scelta di voler criptare tale nesso utilizzando una terminologia assolutamente
differente, circostanza che escluderebbe, perché non normativamente
19
Cass. pen., S.U., 26 febbraio 2009, n. 24468.
Cass. pen., sez. V, 7 maggio 2014, n. 32031.
21 Cass. pen., sez. V, 29 novembre 1990 n. 15850, Bordoni, in L. ALIBRANDI, Codice penale
commentato, 2015.
20
118
De Iustitia
previsto, alcun nesso causale tra le condotte e fallimento, il quale, come
anticipato, rileva esclusivamente quale provvedimento giurisdizionale,
insindacabile in sede penale.
Lo scenario che si delinea non è certamente avulso da critiche: si è in pratica
attribuito al Giudice di merito il potere dovere di ripercorrere a ritroso l’intera
storia commerciale dell’impresa, salvo ovviamente le opportune valutazioni
connesse all’effettiva offesa alla massa creditizia, sottoponendo al proprio
vaglio critico ogni singola operazione posta in essere, avulsa, di certo, da
giudizi connessi al contesto storico ed economico in cui sono state poste in
essere e svincolata da valutazioni di opportunità commerciale proprie
dell’imprenditore.
E’ dalle siffatte conclusioni in ordine all’esclusione del fallimento quale evento
del reato che si accede alla disamina in ordine alla confutazione delle tesi
relative all’estensione dell’elemento psicologico al fallimento stesso; difatti, se
l’evento di tipo giuridico della bancarotta propria deve intendersi nella lesione
della garanzia creditizia, è chiaramente una conseguenza logica ritenere che il
dolo di tale delitto non debba giungere sino alla rappresentazione e volizione
del fallimento, con la conclusione che la previsione e percezione
dell’insolvenza come conseguenza dei propri atti dispositivi sia assolutamente
irrilevante ai fini della determinazione dell’elemento soggettivo.
Se, quindi, il fallimento non rappresenta l’evento del reato e se, pertanto, il
Legislatore ne ha volutamente escluso il ruolo di elemento costitutivo “tipico”,
è chiaro che alcuna rappresentazione e volizione dello stato di insolenza o del
dissesto può essere ricercata, dovendosi invero affermare che ai fini
dell’integrazione dell’elemento soggettivo è necessaria esclusivamente la
rappresentazione della pericolosità della condotta distrattiva in termini di
probabilità dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale e sulla
rappresentazione del rischio della lesione agli interessi dei creditori.
Quindi, se è irrilevante ai fini del giudizio di responsabilità la causazione del
fallimento quale conseguenza delle condotte imprenditoriali e la sua
rappresentazione e volizione, a parere del Supremo Collegio, i Giudici di
merito, nel valutare fatti potenzialmente idonei ad integrare tale fattispecie
delittuosa, dovranno tener conto in astratto delle condotte tipiche previste dal
Legislatore, denotate di carica negativa immanente e certamente evocative di
una gestione patologica societaria – distrarre, dissipare ecc. –, mentre in
concreto dovranno ricercare e valutare condotte idonee a pregiudicare
119
De Iustitia
l’integrità patrimoniale, pregiudizio quantomeno rappresentato nella sfera
soggettiva dell’agente, senza che sia necessaria la volizione di arrecare
effettivo danno ai creditori22.
Quindi in conclusione, ritiene il Supremo Collegio che «può dunque ritenersi
che il fallimento non determini in maniera autonoma l’offesa, ma, per
l’appunto, la renda attuale e meritevole di pena», pertanto «l’esito
concorsuale va dunque inteso non quale progressione dell’offesa, bensì come
prospettiva nella quale deve essere valutata l’effettiva offensività della
condotta. In altri termini il fallimento non trasforma la bancarotta in reato di
danno giacché lo stesso non costituisce oggetto di rimprovero e non
consegue necessariamente alla consumazione delle condotte incriminate, le
quali vengono punite per il solo fatto di aver esposto a pericolo l'integrità
della garanzia patrimoniale, indipendentemente da quello che sarà poi
l’effettivo esito della procedura concorsuale, del quale, infatti, la norma
incriminatrice se ne disinteressa»23.
4. Considerazioni finali.
Tali affermazioni lasciano invero particolarmente perplessi; se, come
affermato, i fatti tipici del delitto di bancarotta sono da ritenersi dotati di
autonoma carica negativa e la sentenza dichiarativa di fallimento rende
esclusivamente attuale e meritevole di pena i comportamenti
dell’imprenditore, non è poi così evidente il divario con quanto affermato dalla
dottrina in merito alla qualificazione di tale provvedimento giudiziale come
condizione obiettiva di punibilità estrinseca.
È, quindi, chiaro, dalla breve disamina che si è inteso proporre, quanto sia
ancora attuale il problema in ordine al ruolo che si intende attribuire alla
sentenza dichiarativa di fallimento e quanto sia ancora lontana una possibile
soluzione.
Le teorie dottrinali e giurisprudenziali si dimostrano ancora incapaci di
dimostrare appieno le conclusioni alle quali pervengono, palesando spesso un
tessuto motivazionale inconciliabile con i principi cardine del diritto penale.
È evidente quindi che il dibattito giuridico sulla natura della sentenza
dichiarativa di fallimento è ancora lontano da una possibile definizione e, alla
luce di queste brevi considerazioni, appare più acceso che mai.
22
23
Cass. pen., sez. V, 15 aprile 2015, n. 15613, Geronzi, in C.E.D. Cass..
Vedi nota 22.
120
De Iustitia
In conclusione, se è vero che dalle tesi esposte nella sentenza Corvetta non
rimane più nulla perché tutte oggetto di aspra confutazione, deve almeno
darsi rilievo ad una riflessione ivi contenuta, a mente della quale «tale
orientamento [l’orientamento tradizionale] che questo collegio intende
sottoporre a revisione critica, si è formato per gemmazione dalle vecchie
pronunce e non è più stato approfondito in tempi recenti; la maggior parte
delle pronunce richiamate si limita ad affermazioni di tipo assertivo, che sono
più che legittime ai fini della motivazione della decisione in quanto richiamano
i precedenti specifici, ma che non consentono di rilevare il ragionamento
giuridico che si pone alla radici di tali assunti»24.
L’auspicio, quindi, è che la giurisprudenza ed altresì la dottrina possano
trovare un punto di incontro più vicino alle esigenze del momento storico e
siano maggiormente inclini ad atteggiamenti di autocritica necessari per
consentire l’evoluzione del diritto vivente, in una realtà ove l’intervento
legislativo è sempre meno incisivo.
24
Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502.
121
De Iustitia
Consigliere giuridico e responsabilità penali del Comandante in
teatro d’operazioni
di Armando NOTARO*
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Le responsabilità penali del Comandante in
teatro d’operazioni. 2.1. Premessa. 2.2. La responsabilità penale propria dei
Comandanti. 2.3. La responsabilità del Comandante per i crimini commessi dai
subordinati. 3. Il consigliere giuridico nelle forze armate. 3.1. Inquadramento
giuridico, formazione e compiti. 3.2. La natura del parere e la responsabilità.
4. Conclusioni.
1. Introduzione.
Nel VI secolo A.C., Sun Tzu sosteneva che era dovere del Comandante
garantire che i suoi subordinati si dovessero comportare in maniera civile
durante un conflitto armato1.
Nel corso della storia ci sono state tante vicende che hanno visto Comandanti
militari sottoposti a procedimenti giudiziari per aver ordinato, commesso o per
non aver impedito gravi crimini da parte dei propri subordinati.
Un caso celebre rimane quello del Generale Yamashita, capo delle Forze
armate giapponesi nelle Filippine durante la seconda guerra mondiale. In
seguito alla resa del Giappone, Yamashita fu catturato e condannato nel 1945
da un Tribunale militare statunitense «per aver omesso di controllare le
operazioni dei membri del suo comando permettendo loro di commettere
brutalità, atrocità ed altri gravi crimini violando per ciò stesso le leggi di
guerra».
Questo caso fu l'applicazione più illustre, nella giurisprudenza interna di uno
Stato, del principio di diritto internazionale in base al quale si attribuiva ad un
Comandante la responsabilità penale per fatto proprio e per i crimini
commessi dai propri sottoposti.
L’esigenza del rispetto delle Convenzioni di Ginevra del 1949 hanno, poi,
imposto la necessità che non solo il Comandante deve conoscere
consapevolmente le norme convenzionali, ma deve anche assolvere l’obbligo
*
1
Ufficiale della Marina Militare e Consigliere giuridico nelle Forze armate.
SUN TZU, L'arte della guerra, Roma, TEN - Tascabili Economici Newton, 1994.
122
De Iustitia
di imporre tale consapevolezza ai suoi subordinati2, sia per assicurare la
legittima condotta delle operazioni militari, in conformità al diritto
internazionale umanitario (D.I.U.), sia per non essere chiamato a rispondere
penalmente per crimini o gravi violazioni internazionali.
Non a caso, l’ordinamento italiano ha previsto che, nel corso di operazioni
militari di mantenimento e ristabilimento della pace e della sicurezza
internazionale (come le Peace Support Operation - PSOs), i Comandanti dei
contingenti militari vigilano, in concorso, se previsto, con gli organismi
internazionali, sull’osservanza delle norme del D.I.U.2. Inoltre, un apposito
settore del diritto penale militare contiene le norme dirette a punire le
condotte contrarie al diritto umanitario (le c.d. violazioni dello ius in bello).
La complessità e la peculiarità della normativa concernente la condotta delle
operazioni militari all’estero, alla luce delle responsabilità penali cui può
andare incontro un Comandante per gli atti suoi propri e per quelli commessi
dai subordinati, rendono sempre più opportuna la presenza stabile di un
consigliere giuridico che possa coadiuvarlo e supportarlo nelle scelte che
implicano una valutazione giuridica degli ordini e dei fatti connessi alle
operazioni da espletare.
Il presente documento cercherà, pertanto, di descrivere quelle che sono le
responsabilità penali dirette e indirette di un Comandante e il ruolo che svolge
nello specifico il consigliere giuridico, in seno alle missioni cui il nostro Paese
contribuisce.
2. Le responsabilità penali del comandante in teatro d’operazioni.
2.1. Premessa.
La responsabilità penale si riferisce alla violazione di quel gruppo di norme
giuridiche (penali e non solo) con le quali sono proibiti o imposti determinati
comportamenti umani diretti e indiretti e a cui segue l’applicazione di sanzioni
di carattere penale. Per la configurazione del reato, oltre al fatto materiale, è
richiesta l’esistenza di un nesso psichico tra il soggetto agente e l’evento
L’art. 87, paragrafo 2 del I Protocollo addizionale del 1977 (I PA), ha infatti imposto: «Allo
scopo di impedire e reprimere le infrazioni, le Alte Parti contraenti e le parti in conflitto
esigeranno che i Comandanti, secondo il rispettivo livello di responsabilità, si assicurino che i
membri delle forze armate posti sotto il loro comando conoscano i doveri che loro incombono
in virtù delle convenzioni e del presente protocollo ».
2 Cfr. Art. 89, co. 4 del Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’Ordinamento
Militare – C.O.M.).
2
123
De Iustitia
lesivo (la c.d. imputazione soggettiva del fatto).
In base al principio di colpevolezza (nullum crimen, nulla poena sine culpa),
affermato dall’art. 27, co.1 della Costituzione, si stabilisce che la
«responsabilità penale è personale»; ciò implica che nessuno può essere
considerato responsabile per un fatto compiuto da altre persone, salvo il caso
in cui vi siano posizioni di garanzia per cui un soggetto ha l’obbligo giuridico
di evitare il fatto illecito di terzi. Secondo il Codice penale, l’omissione di non
compiere un’azione che il soggetto ha il dovere di compiere o il non impedire
un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire ( non facere quod debetur),
equivale a cagionarlo (art. 40, co. 2 c.p.)3.
Il concetto di responsabilità penale individuale ha trovato riconoscimento
anche nell’ambito della Comunità internazionale, ove le norme del DIU, pur
rivolgendosi agli Stati, riguardano tuttavia comportamenti degli individui che
rispondono direttamente della commissione di atti costituenti crimini
internazionali, come i crimini di guerra4. Il principio della responsabilità penale
3
Gli organi pubblici (es. un Comandante o un datore di lavoro) possono essere chiamati a
rispondere ex art. 40 cpv. c.p., per omesso impedimento di un evento quando, per l’attività
svolta nella p.a., l’ordinamento li pone in posizione di garanzia rispetto all’evento stesso.
4 L’art. 25 dello Statuto della Corte Penale Internazionale richiama il principio della
responsabilità penale individuale del Superiore per i crimini internazionali (es. crimini di guerra
e contro l’umanità) da loro commessi o scaturenti dall’emanazione di ordini illegittimi.
Articolo 25. “Responsabilità penale individuale”:
1. la Corte è competente per le persone fisiche in conformità al presente Statuto;
2. chiunque commette un crimine sottoposto alla giurisdizione della Corte è individualmente
responsabile e può essere punito secondo il presente Statuto;
3. in conformità del presente Statuto, una persona è penalmente responsabile e può essere
punita per un reato di competenza della Corte:
a. quando commette tale reato a titolo individuale o insieme ad un un'altra persona o
tramite un'altra persona, a prescindere se quest'ultima è o meno penalmente
responsabile;
b. quando ordina, sollecita o incoraggia la perpetrazione di tale reato, nella misura in cui vi
è perpetrazione o tentativo di perpetrazione di reato;
c. quando, in vista di agevolare la perpetrazione di tale reato, essa fornisce il suo aiuto, la
sua partecipazione o ogni altra forma di assistenza alla perpetrazione o al tentativo di
perpetrazione di tale reato, ivi compresi i mezzi per farlo;
d. contribuisce in ogni altra maniera alla perpetrazione o al tentativo di perpetrazione di
tale reato da parte di un gruppo di persone che agiscono di comune accordo. Tale
contributo deve essere intenzionale e, a seconda dei casi:
i. mirare a facilitare l'attività criminale o il progetto criminale del gruppo, nella misura
in cui tale attività o progetto comportano l'esecuzione di un delitto sottoposto alla
giurisdizione della Corte; oppure
ii. essere fornito in piena consapevolezza dell'intento del gruppo di commettere il
reato;
124
De Iustitia
individuale per le violazioni gravi al diritto internazionale, affermato per la
prima volta nell’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga, riflette oggi
una norma di diritto consuetudinario e comprende cinque forme di
partecipazione alla commissione del crimine internazionale. Ne risponde chi lo
ha materialmente commesso, ma anche chi lo ha pianificato; ha istigato altri
a commetterlo; ha dato ordine di commetterlo o ne ha agevolato la
commissione.
2.2. La responsabilità penale propria dei Comandanti.
I Comandanti sono responsabili personalmente dei reati e delle infrazioni
gravi alle Convenzioni da loro commessi o ordinati e sono destinatari di
precise disposizioni contenute nei Codici penali militari italiani (approvati con
r.d. 20 febbraio 1941, n. 303)5.
e. trattandosi di un crimine di genocidio, incita direttamente e pubblicamente altrui a
commetterlo;
f. tenta di commettere il reato mediante atti che per via del loro carattere sostanziale
rappresentano un inizio di esecuzione, senza tuttavia portare a termine il reato per via
di circostanze indipendenti dalla sua volontà. Tuttavia la persona che desiste dallo
sforzo volto a commettere il reato o ne impedisce in qualche modo l'espletamento, non
può essere punita in forza del presente Statuto per il suo tentativo, qualora abbia
completamente e volontariamente desistito dal suo progetto criminale;
4. Nessuna disposizione del presente Statuto relativa alla responsabilità penale degli individui
pregiudica la responsabilità degli Stati nel diritto internazionale.
5 In caso di missioni militari all’estero si è spesso posto il problema di identificare se al
contingente italiano si dovesse applicare la disciplina prevista dal Codice penale militare di pace
(c.p.m.p.) oppure la normativa presente nel Codice penale militare di guerra (c.p.m.g.). In
forza dell’automatismo derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 17 c.p.m.p. e 9
c.p.m.g., così come riformulato dalla legge 31 gennaio 2002, n. 6, ai corpi di spedizione
all’estero per operazioni militari armate si applica automaticamente (salvo deroga del
Legislatore) il Codice penale militare di guerra. Per impedire l’operatività di questa norma, nei
decreti attuativi delle varie missioni il Legislatore ha sancito in modo espresso l’applicazione del
codice penale militare di pace, con l’eccezione delle missioni Enduring Freedom, Active
Endeavour e ISAF in Afghanistan (2001) e Antica Babilonia in Iraq (2003). Successivamente, la
legge 4 agosto 2006, n. 247 ha stabilito per tutte le missioni che impegnano contingenti italiani
la vigenza del c.p.m.p.
Un problema si è posto per l’applicazione delle disposizioni repressive delle violazioni del diritto
internazionale umanitario, che si trovano contemplate nel titolo IV del libro III del c.p.m.g.
(“dei reati contro le leggi e gli usi di guerra”), ma non nel c.p.m.p.
Le modifiche apportate dalle leggi n. 6/2002 e n. 15/2002 hanno comportato, secondo
autorevole dottrina (D. BRUNELLI e G. MAZZI, Diritto penale militare, IV edizione, Milano,
2007, pp. 486 e 512, 513) , che le disposizioni in questione abbiano assunto una loro
autonomia e trovino applicazione anche quando dovesse essere applicato il c.p.m.p. Nello
specifico, secondo l’art. 165 c.p.m.g., commi 1 e 3: «Le disposizioni del presente titolo si
applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di
125
De Iustitia
Nel diritto penale militare, i Comandanti, se da una parte godono di certe
prerogative, dall’altro sono soggetti a un regime penalistico più severo
rispetto al militare in quanto tale6, proprio perché titolari di un potere e
rivestiti di un grado, ragione per cui il diritto penale viene in rilievo qualora il
Comandante fa un uso distorto di tale potere.
Nel Codice penale militare di pace (c.p.m.p.) vi è il Titolo II del Libro II,
dedicato alle violazioni dei doveri generali inerenti al comando (dagli artt. 103
a 117). Tali reati hanno lo scopo di tutelare l’esercizio della funzione di
comando ed hanno come nota comune la soggettività ristretta alla figura del
“Comandante” di una unità militare, sia essa una forza, una spedizione, un
posto o una fortezza e sono per questo considerati reati propri. A titolo di
esempio, l’art. 103 c.p.m.p. punisce il Comandante che, senza autorizzazione
governativa o fuori dei casi di necessità, compie atti ostili contro uno Stato
estero; così pure è punito il Comandante di una forza militare che senza
giustificato motivo, omette di soccorrere altra forza militare che abbia bisogno
di assistenza in caso di pericolo (art. 113 c.p.m.p.). Tutti questi reati sono
subordinati alla richiesta di procedibilità da parte del Ministro della Difesa, ai
sensi dell’art. 260, co.1 del c.p.m.p., in quanto si richiede che l’esercizio
dell’azione penale debba essere subordinata alla valutazione di opportunità
propria dell’autorità politica.
Oltre ai reati omissivi commessi dal Comandante, in violazione della sua
posizione di garanzia ex art. 40, co. 2 del c.p., esiste una disposizione del
c.p.m.p. (l’art. 138) che, inserito nella sezione IV “della violazione di speciali
doveri inerenti alla qualità militare”, punisce il Comandante che per timore di
un pericolo o altro inescusabile motivo non abbia impedito l’esecuzione di
determinati reati commessi in sua presenza, come i reati contro la fedeltà o la
guerra […] in attesa dell’emanazione di una normativa che disciplini organicamente la materia,
le disposizioni del presente titolo si applicano alle operazioni militare armate svolte all’estero
dalle forze armate italiane». Tale conclusione è peraltro l’unica che consente di ritenere
conforme agli obblighi posti dal diritto internazionale la scelta di applicare il codice militare di
pace, in quanto consente di punire come tali eventuali crimini internazionali commessi da
militari italiani. Ma si tratta di un’interpretazione che, per quanto autorevole, potrebbe essere
smentita dalla giurisprudenza. Sarebbe quindi auspicabile un intervento legislativo, come del
resto era stato auspicato dal Legislatore quando aveva modificato l’art. 9 del c.p.m.g., che si
apre, infatti, con l’inciso: «Sino alla entrata in vigore di una nuova legge organica sulla materia
penale militare, […]».
6 Nell’ambito dei reati militari costituisce circostanza aggravante comune l’essere il militare
colpevole rivestito di un grado o investito di un comando (art. 47, co. 1, par. 2 c.p.m.p.).
126
De Iustitia
difesa militare (alto tradimento, vilipendio alla bandiera o rilevazione di notizie
segrete) e i reati di rivolta e ammutinamento.
Altre disposizioni sono, poi, contenute nel titolo IV del libro III del codice
penale militare di guerra (c.p.m.g.), intitolato dei “reati contro le leggi e gli usi
di guerra”, che puniscono le violazioni alle norme dello ius in bello.
Le fattispecie del titolo IV (dagli artt. 165 a 230 c.p.m.g.) riproducono in
misura rilevante le norme internazionali e trasformano i comportamenti
contrari a esse in figure di reato, così soddisfacendo agli obblighi di
repressione penale previsti dalle Convenzioni7. Così, per esempio, è punito il
7
Nell’ambito del sistema penale (militare) italiano, le norme che puniscono le violazioni del
diritto bellico sono contenute nel Titolo IV del Libro III del Codice penale militare di guerra,
intitolato “Reati contro le leggi e gli usi di guerra”.
Le fattispecie del titolo IV riproducono in misura rilevante le norme internazionali e trasformano
i comportamenti contrari a esse in figure di reato, munendole di sanzione penale, così
soddisfacendo agli obblighi di repressione penale previsti dalle Convenzioni di Ginevra del 1949
e altre convenzioni come quella sulla tutela dei beni culturali.
Le norme in esame, disciplinano ben 65 previsioni, dagli articoli 165 all’art. 230 c.p.m.g., tra
cui vanno menzionate, a titolo meramente esemplificativo:
- l’art. 176 che punisce il Comandante che ordina una rappresaglia fuori dei casi preveduti
dalla legge. Per rappresaglia s’intende secondo la legge di guerra (art. 8) la sospensione
dell’osservanza di obblighi derivanti dal diritto internazionale nei confronti del belligerante
nemico, che non adempie in tutto o in parte a detti obblighi, ed è finalizzata a costringerlo
ad osservarli. Può compiersi sia con atti analoghi a quelli subiti (c.d. rappresaglia in kind)
sia con atti di natura diversa. Essendo la rappresaglia essenzialmente una sanzione, è
ammessa solo in presenza di tale comportamento illecito e nei limiti imposti dal diritto
internazionale. Allo stato attuale, bersaglio di rappresaglia possono essere soltanto le forze
armate dell’avversario. La norma appare sufficiente, con il rinvio alle convenzioni
internazionali, a soddisfare le previsioni del citato I Protocollo, ma andrebbe riscritta
sottolineando che oggetto di rappresaglia possono essere solo combattenti ed obiettivi
militari. Inoltre, andrebbe specificato il requisito della proporzionalità alla violazione subita,
al di là del quale la rappresaglia diviene omicidio plurimo;
- l’art. 179 che punisce l’omissione delle precauzioni necessarie a proteggere e a garantire,
per quanto possibile, i beni e le infrastrutture protetti dalle convenzioni internazionali, come
le strutture e i trasporti sanitari, i beni culturali, i luoghi di culto, quando sia nota la loro
natura di beni protetti e quando tali beni non siano impiegati per scopi bellici.
- L’art. 15 del secondo Protocollo del 1999, relativo alla protezione dei beni culturali in caso
di conflitto armato, ha sancito il principio della responsabilità penale individuale dell'autore
della violazione con riferimento ad una serie di condotte, configurabili come reati, quali, ad
esempio:
•
fare oggetto di un attacco un bene culturale sotto protezione ai sensi della
Convenzione e del secondo Protocollo;
•
utilizzare un bene culturale sotto protezione o la zona circostante a sostegno di
un’azione militare;
•
distruggere o appropriarsi di beni culturali protetti dalla Convenzione o dal Secondo
Protocollo;
•
compiere furti, saccheggi, appropriazioni indebite o atti di vandalismo contro beni
127
De Iustitia
Comandante che ordina una rappresaglia nei casi in cui non è consentita (art.
176) e il Comandante che ordina di fare uso di mezzi o metodi di guerra
vietati dal diritto internazionale (art. 174). Parimenti è punito il Comandante
che omette il preavviso di attacco salvo necessità militare (art. 178), ovvero di
prendere le precauzioni necessarie a proteggere i luoghi protetti dalle
Convenzioni (art. 179).
Ogni Comandante di contingente all’estero, inoltre, riveste normalmente la
qualifica di Comandante di corpo ed è direttamente responsabile della
disciplina, dell’organizzazione, dell’impiego e dell’addestramento del personale
dipendente8. In qualità di Comandante di corpo è anche Ufficiale di polizia
giudiziaria militare ai sensi dell’art. 301 c.p.m.p.9, per cui ha il dovere di
segnalare all’Autorità giudiziaria militare competente (Roma nel caso dei reati
militari commessi all’estero) i reati di cui venisse a conoscenza e svolgere
tutte quelle attività previste dall’art. 55 del codice di procedura penale 10, con
le conseguenti responsabilità in caso di omissioni.
culturali.
Il suddetto Protocollo le definisce violazioni gravi che devono essere sempre previste dalle parti
quali illeciti penali puniti con pene appropriate nell'ambito degli ordinamenti giuridici nazionali
degli Stati. Le norme legislative devono stabilire, inoltre, la giurisdizione e norme di
estradizione per i fatti compiuti all’estero. La legge di ratifica n. 45/2009 ha mirato
all’adempimento di tale obbligo da parte del nostro Paese;
- l’art. 180 punisce l’uso indebito di segni e distintivi di protezione; per il I PA, art. 85, co. 3,
lett. f), si tratta di un’infrazione grave, e quindi da sanzionare obbligatoriamente con una
norma penale, solo se si sia trattato di uso perfido.
Si rileva, a tal guisa, che l’art. 37 del I Protocollo definisce atto di perfidia quello determinato
dal fine di carpire la buona fede dell’avversario in modo contrario alle regole del diritto dei
conflitti armati (ad es., simulata intenzione di negoziare sotto copertura della bandiera bianca).
Lo stratagemma sarebbe invece un comportamento atto a indurre in errore l’avversario, ovvero
a far sì che si comporti in modo imprudente, con mezzi consentiti dal diritto bellico (ad es.,
operando un attacco simulato o diffondendo false notizie). L’art. 36 della legge di guerra
permette l’uso di stratagemmi ma vieta di usare a fini bellici segni distintivi propri delle
formazioni protette dalle convenzioni internazionali, come la croce rossa, e di usare bandiere,
segni distintivi ed uniformi diverse da quelle nazionali.
8 Cfr. art. 726 del d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90, recante il Testo unico delle disposizioni
regolamentari in materia di ordinamento militare (T.U.O.M.).
9 Art. 301 c.p.m.p.: «per i reati soggetti alla giurisdizione militare, le funzioni di polizia
giudiziaria sono esercitate, […] dai comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle varie
forze armate; […]».
10 Secondo l’art. 55 del Codice di procedura penale, la polizia giudiziaria ha l’obbligo, anche di
propria iniziativa, di prendere notizia dei reati, d’impedire che vengano portati a conseguenze
ulteriori, di ricercarne gli autori, di compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e
raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale.
128
De Iustitia
2.3. La responsabilità del Comandante per i crimini commessi dai
subordinati.
In caso di missioni militari all’estero, i Comandanti devono, dunque, vigilare
sull’osservanza delle norme di diritto internazionale umanitario 11 e devono
assicurarsi che i militari posti sotto il loro comando conoscano i doveri che
loro incombono in virtù di tali previsioni normative. È evidente che il
Comandante, quale responsabile della condotta delle operazioni militari
(spesso difficili e pericolose), deve essere anche il primo a conoscere queste
regole o, quantomeno, avvalendosi dello staff o di esperti in materia, deve
rispettarle e farle rispettare ai suoi sottoposti.
In merito, l’art. 86, co. 2 del I Protocollo Aggiuntivo del 1977 (I P.A.),
ratificato dall’Italia con legge 11 dicembre 1985, n. 762, trattando di
“omissioni”, ricorda che le infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra e al I
PA12 commesse da inferiori non dispensano i superiori, ossia i Comandanti che
11
L'obbligo di "vigilanza" sul rispetto delle norme convenzionali (D.I.U.), sancito dall’art. 87,
co. 2 del I P.A. e dall’art. 89, co. 4 del Codice dell’ordinamento militare, prevede un sorta di
posizione di garanzia del Comandante, dato il suo ruolo di «direzione, comando e controllo»
nell’ambito dell’organizzazione militare.
12 Le infrazioni gravi sono quelle risultanti da ciascuna delle quattro Convenzioni di Ginevra del
1949, rispettivamente agli artt. 50, 51, 130, 147. Oltre ad alcuni gravi comportamenti che
violano i diritti fondamentali della persona, come la tortura e i trattamenti inumani e
degradanti, che sono menzionati in ciascuno degli articoli citati, sono infrazioni gravi alcune
condotte specifiche gravemente lesive dei diritti delle persone protette da ciascuna delle
quattro Convenzioni, ossia malati e naufraghi, prigionieri di guerra e civili.
Inoltre, sono considerate infrazioni gravi quelle indicate agli artt. 11 e 85 del I Protocollo
addizionale (I P.A.) del 1977 (concernente la protezione delle vittime dei conflitti armati
internazionali). L’art. 85 integra con nuove fattispecie il concetto di infrazione grave,
inserendovi i crimini di apartheid, mancato rimpatrio dei prigionieri di guerra, attacco a
monumenti e luoghi di culto, pratiche vessatorie ai danni delle popolazioni civili che possano
essere ricondotte anche indirettamente al concetto di pulizia etnica. Lo stesso art. 85 del I
Protocollo considera le infrazioni alle Convenzioni e quelle indicate all’art. 11, e gli atti
commessi intenzionalmente ai danni di persone protette che abbiano come conseguenza la
morte o lesioni gravi all’integrità fisica o alla salute, crimini di guerra.
Nell’ordinamento italiano non esiste la categoria specifica dei crimini di guerra, in quanto il
codice penale militare di guerra, vide la luce nel 1941 (con il regio decreto 20 febbraio 1941, n.
303), mentre il termine si consolidò solo dopo il processo di Norimberga (20 novembre 1945 –
1° ottobre 1946). Lo Statuto del Tribunale militare internazionale di Norimberga, all’art. 6, si
riferiva con il termine «war crimes» a condotte costituenti «violations of the laws or customs of
war». La terminologia è stata ripresa dallo Statuto del Tribunale Penale Internazionale per la
ex Jugoslavia (T.P.I.Y.), all’art. 3. Successivamente, lo Statuto della Corte Penale
Internazionale (C.P.I.) elenca i crimini di guerra all’art. 8.
Il Codice penale militare di guerra italiano non fa dunque riferimento ai crimini di guerra, ma,
conformemente alla terminologia dell’epoca, contiene un Titolo (Titolo IV del Libro III) dedicato
129
De Iustitia
non hanno onorato il loro dovere di istruttori, dalle responsabilità penali e
disciplinari, se sapevano o erano in possesso di informazioni che
permettevano loro di ritenere, nelle circostanze del momento, che l’inferiore
stava commettendo o stava per commettere una tale infrazione, e se essi non
hanno preso tutte le misure possibili per impedire o reprimere l’infrazione
alla punizione dei reati contro le leggi e gli usi di guerra, che è stato aggiornato con le leggi 31
gennaio 2002, n. 6 e 27 febbraio 2002, n. 15.
Le infrazioni gravi comuni sono punite dall’ordinamento italiano a norma degli artt. 185
c.p.m.g. (omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, lesione personale gravissima o
grave) e 185-bis c.p.m.g. (atti di tortura o altri trattamenti inumani, trasferimenti illegali,
ovvero altre condotte vietate dalle convenzioni internazionali, inclusi gli esperimenti biologici o i
trattamenti medici non giustificati dallo stato di salute, in danno di prigionieri di guerra o di
civili o di altre persone protette dalle convenzioni internazionali), quest’ultimo introdotto dalla
legge 31 gennaio 2002, n. 6. Si osservi che l’art. 185-bis si applica solo laddove la condotta
non costituisca più grave reato. Poiché la pena stabilita è piuttosto lieve (da due a cinque anni
di reclusione militare), con possibilità di sospensione condizionale, i comportamenti qualificati
come tortura saranno giudicati come reati comuni di lesioni, violenza sessuale o sequestro di
persona.
Le leggi italiane prevedono per i crimini di guerra la responsabilità individuale, che coinvolge
sia chi ordina sia chi esegue un crimine. L’art. 1349 del Codice dell’ordinamento militare
(C.O.M. adottato con decreto Legislativo n. 66/2010) dispone che il militare a cui venga
impartito un ordine costituente manifestamente reato ha il dovere di disobbedire. L’ordine che
costituisce manifestamente reato è quello del quale il tipo medio di persona è in grado di
avvertire il disvalore penale. L’ordine la cui esecuzione costituisca manifestamente reato è un
ordine illegittimo. La disobbedienza a tale ordine è un comportamento perfettamente lecito, in
quanto doveroso, e privo di conseguenze anche sul piano disciplinare. Se anche il reato non è
manifesto, ma l’antigiuridicità del comportamento è conosciuta dal destinatario dell’ordine, che
la oppone, il superiore non potrà pretenderne l’adempimento.
I crimini di guerra sono imprescrittibili ed è stabilita la cooperazione internazionale in materia
di ricerca, arresto, estradizione e punizione delle persone che se ne rendono colpevoli.
La repressione dei crimini di guerra, ossia delle violazioni della legge penale commesse durante
i conflitti armati e per ragioni legate al conflitto stesso, era ed è rimasta una funzione
prettamente statale, come risulta chiaramente dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e dallo
Statuto della Corte Penale Internazionale. Nel preambolo di quest’ultimo, le parti riconoscono
che «it is the duty of every State to exercise its criminal jurisdiction over those responsible for
international crimes».
In ciascuna delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 esiste una norma specifica che
obbliga gli Stati parti a prendere ogni misura legislativa per stabilire sanzioni penali adeguate
per coloro che abbiano commesso o dato ordine di commettere un’infrazione grave e a stabilire
la giurisdizione dei tribunali interni per la repressione di detti comportamenti. Il meccanismo
sanzionatorio è imperniato sul principio della giurisdizione universale, vale a dire sul principio
secondo il quale uno Stato può giudicare delitti commessi all’estero, anche da o contro cittadini
stranieri, in ragione del fatto che le condotte lesive toccano beni universalmente protetti. Il
meccanismo della giurisdizione universale impone agli Stati di esercitare l’azione penale al fine
di perseguire e punire gli autori di infrazioni gravi che si trovino sul territorio sottoposto alla
loro giurisdizione, indipendentemente dal luogo in cui il crimine è stato commesso e dalla
nazionalità del reo o delle vittime, o in alternativa, a consegnarlo ad un altro Stato che intenda
processarlo e che fornisca a tal fine prove sufficienti a sostenere l’accusa.
130
De Iustitia
stessa13.
L’art. 87 del I PA, invece, prevede tre doveri fondamentali. I Comandanti
militari, per quanto riguarda i membri delle Forze armate posti sotto il loro
comando, devono:
1) impedire, reprimere e denunciare le infrazioni alle autorità competenti14;
2) assicurarsi che i propri sottoposti siano a conoscenza dei doveri che
derivano dalle Convenzioni e dal I Protocollo (gli obblighi imposti dal
D.I.U.);
3) intervenire per impedire le infrazioni e per promuovere le azioni disciplinari
o penali contro gli autori di violazioni.
Ne consegue che il Comandante può essere ritenuto direttamente
responsabile non solo per gli ordini direttamente impartiti ma anche per i
comportamenti omissivi che abbiano consentito la realizzazione di crimini,
commessi in violazione degli obblighi imposti agli stessi Comandanti dal diritto
internazionale umanitario. In pratica, un Comandante, processato per i crimini
commessi dai propri subordinati, potrebbe difendersi solo dimostrando di aver
fatto un concreto tentativo di impedirli o di aver denunciato gli stessi alla
competente autorità giudiziaria o di polizia14.
13
Il problema della responsabilità dei Comandanti è sempre stato l’aspetto cruciale della
giurisdizione internazionale, laddove è evidente che nell’accertamento di crimini di guerra o
contro l’umanità per forza di cose dovrà sempre assumere un particolare rilievo il ruolo svolto
da chi ha la responsabilità diretta della condotta delle operazioni (che si tratti di conflitto
armato o di gestione dell’ordine e della sicurezza).
14 Ogni Comandante di corpo ha, oltre i compiti di cui all’art. 55 c.p.p., l’obbligo di segnalare un
fatto costituente reato all’Autorità giudiziaria. La violazione degli obblighi di informativa all’a.g.
costituisce, tra l’altro, reato (comune) di omessa denuncia aggravata (artt. 361 e 363 c.p.).
14 Come per il diritto penale comune, anche per quello penale militare sono previste alcune
cause di giustificazione, o cause di non punibilità, disegnate sulle particolari esigenze
dell’ordinamento militare che, allorquando ricorrano, attribuiscono liceità a un fatto costituente
reato di per se, atteso che una norma del nostro ordinamento dispone un’autorizzazione e/o
una imposizione in tal senso.
In tali circostanze, il Comandante, soggetto attivo del reato, non subirà alcuna conseguenza
penale, ovverosia andrà esente da pena, fermo restando la configurabilità del reato. In
particolare, l’ordinamento penale militare considera come cause di non punibilità, oltre quelle
previste dal codice penale comune, anche l’uso legittimo delle armi (art. 41 c.p.m.p.), la
legittima difesa militare (art. 42 c.p.m.p.) e i casi di necessità militari (art. 44 c.p.m.p.). In
particolare, secondo l’art. 44 c.p.m.p., non è punibile il militare che ha commesso un fatto
costituente reato per esservi stato costretto dalla necessità di impedire l’ammutinamento, la
rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del
posto, della nave o dell’aeromobile. La norma, pur inserita nel codice militare, riguarda
qualsiasi reato e copre sicuramente le ipotesi di uso delle armi a difesa di installazioni o di
convogli o veicoli militari e durante l’attivazione di check point. È bene chiarire che non è una
131
De Iustitia
figura speciale dello stato di necessità, giacché non è giustificata dal pericolo di un danno
grave alla persona ma è finalizzata alla salvaguardia di un interesse militare.
Un altro caso di necessità militare, come causa di esclusione della punibilità, è rappresentato
dall’art. 13 della legge n. 45/2009, volto a escludere la punibilità in ordine ai reati di attacco e
distruzione di beni culturali e di utilizzo illecito di un bene culturale protetto qualora detti fatti
siano stati commessi per una necessità militare imperativa (cioè, solo se tali beni sono
trasformati in obiettivo militare e non esiste altra soluzione possibile per ottenere un vantaggio
equivalente a quello offerto dall’attacco).
Rispetto alle precedenti esperienze operative, la missione in Afghanistan ha richiesto l’uso
frequente della forza letale, sia in forma difensiva sia offensiva. Alla fine del 2009 il Governo ha
introdotto nei decreti attuativi delle missioni internazionali una norma che indica come non
punibile il militare che, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini
legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro
mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari. Si tratta, come è stato
autorevolmente affermato, di una causa di giustificazione ad hoc «a metà strada tra l’uso
legittimo delle armi e l’adempimento del dovere». Essendo una forma speciale di uso legittimo
delle armi (già previsto dall’art. 41 del c.p.m.p.), questa scriminante sarà operativa a
condizione che tra i vari mezzi di coazione sia scelto quello meno lesivo, e che l’uso di tale
mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale
principio di proporzionalità.
Sui motivi che possono escludere e/o giustificare la responsabilità penale di un Comandante,
l’art. 31 dello Statuto della Corte Penale Internazionale prevede una sorta di norma “di
chiusura” con cui, per completezza, l’opera di codificazione traccia definitivamente il cerchio in
cui si racchiude la punibilità del reo. Oltre ai rituali richiami dei casi di “malattia” e “deficit
mentale”, che nel nostro ordinamento corrispondono alla c.d. incapacità di intendere e di
volere, tra le cause di esclusione vengono sostanzialmente richiamate le esimenti della
legittima difesa, dell’adempimento di un dovere, e dello stato di necessità, della forza
maggiore, del costringimento fisico e psichico. Va però precisato che le formulazioni dello
Statuto (che nasce da un compromesso tra Common Law e Civil Law) sono piuttosto differenti
da quelle della legislazione penale nazionale, comune e militare.
L’art. 31 dello Statuto della C.P.I. esclude la responsabilità, se la “persona” (l’agente in
generale, e quindi anche il Comandante):
- (par. 1, lett. c): ha agito in modo ragionevole per difendere se stesso, per difendere un’altra
persona, o, in caso di crimini di guerra, per difendere beni essenziali alla propria sopravvivenza
o a quella di terzi, o essenziali per l’adempimento di una missione militare contro un ricorso
imminente ed illecito alla forza, proporzionalmente all’ampiezza del pericolo da essa incorsa o
dall’altra persona o dai beni protetti. Il fatto che la persona abbia partecipato ad un’operazione
difensiva svolta da forze armate non costituisce di per sé motivo di esonero dalla responsabilità
a titolo del presente capoverso. Come si può facilmente evincere dal testo, compaiono qui tutti
gli elementi significativi della legittima difesa così come risultano definiti da un quadro
consolidato e convergente di contributi dati da dottrina, giurisprudenza e normativa, nazionali e
internazionali: la proporzionalità, l’imminenza e l’illiceità dell’offesa;
- (par. 1, lett. d): il comportamento qualificato come sottoposto alla giurisdizione della Corte è
stato adottato sotto una coercizione risultante da una minaccia di morte imminente o da un
grave pericolo continuo o imminente per l’integrità di tale persona o di un’altra persona e la
persona ha agito spinta dal bisogno ed in modo ragionevole per allontanare tale minaccia, a
patto che non abbia inteso causare un danno maggiore di quello che cercava di evitare. Tale
minaccia può essere stata: sia esercitata da altre persone, o costituita da altre circostanze
indipendenti dalla sua volontà.
132
De Iustitia
Elementi utili a stabilire la responsabilità del Comandante, nel caso in cui non
abbia ordinato le violazioni, devono essere ravvisati: nell’effettiva conoscenza
dei fatti; in una incuria personale talmente grave da costituire una negligenza
volontaria e ingiustificata delle possibili conseguenze; nella presunta
conoscenza dei fatti allorquando, nonostante dichiarazioni contrarie, il
Comandante doveva essere a conoscenza ed aver acconsentito alle violazioni
di cui è accusato.
Tali doveri trovano un presidio penale anche nelle norme dello Statuto della
Corte Penale Internazionale (C.P.I.) approvato a Roma il 17 luglio 1998 e
ratificato dall’Italia il 12 luglio 1999. In particolare, l’art. 28 regola la
responsabilità penale del Comandante militare, o di persona facente
effettivamente tale funzione, per gli atti compiuti da forze poste sotto il suo
effettivo comando, quando «sapeva, o aveva ragione di sapere, che le forze
commettevano o stavano per commettere tali crimini», ma ciò nonostante
non ha cercato di prevenirli, o impedirne la commissione, o non ha punito i
responsabili o riferito il caso alle autorità competenti.
Nel complesso, l’art. 28 dello Statuto di Roma richiama l’espressione latina di
culpa in vigilando15, che sintetizza il concetto di imputazione indiretta o
omissiva del Comandante per i fatti criminosi realizzati dai dipendenti. Con la
disposizione dell’art. 28 si è voluto costruire la “posizione di garanzia” e di
controllo correlata alla posizione di comando, quale esplicazione dei doveri
incombenti sul superiore nei confronti dei propri subordinati, per la
A questo punto, è lecito porsi un quesito: e la necessità militare potrà essere ancora
considerata – pur nella eccezionalità dei casi consentiti dal diritto umanitario – motivo di
esclusione della responsabilità penale?
Nello Statuto non è espressamente disciplinata. Tuttavia, essa va letta in quel richiamo
all’adempimento della missione, della lett. c) dell’art. 31, ma soprattutto in una successiva
previsione del par. 3 dell’art. 31, che di fatto è una norma di raccordo con l’art. 21.
Il par. 3 dell’ art. 31 prevede che la Corte può tenere conto di altri motivi di esclusione della
responsabilità, se questi «discendono dal diritto applicabile enunciato all’art. 21», e tra questo
sono indicati «i trattati applicabili ed i principi e le regole di diritto internazionale, ivi compresi i
principi consolidati del diritto internazionale dei conflitti armati», che – come è noto – in più
parti richiamano la nozione di necessità militare, sebbene nei limiti della “proporzionalità” e
della “inevitabilità” ampiamente tratteggiati dalla dottrina e dalla giurisprudenza internazionali.
15 La culpa in vigilando ci riporta (alla lontana) al concetto di responsabilità colposa ex art.
2049 del codice civile che disciplina la responsabilità dei padroni e committenti per i danni
arrecati dal fatto illecito dei loro domestici o commessi nell’esercizio delle mansioni cui sono
adibiti. La dottrina rinviene il fondamento di tale responsabilità nel rapporto di preposizione e
supremazia gerarchica che sussiste tra i soggetti considerati: il Comandante è tenuto, infatti, a
esercitare a pieno il suo potere-dovere di direzione e controllo sull’attività cui è adibito il
sottoposto (c.d. responsabilità oggettiva indiretta o occulta).
133
De Iustitia
salvaguardia degli eminenti beni giuridici tutelati dalle norme internazionali.
Perché sussista la penale responsabilità di un Comandante militare, la norma
richiede che egli sia stato a conoscenza degli illeciti posti in essere dai propri
subordinati ovvero, alternativamente, a seconda delle concrete circostanze di
fatto, avrebbe dovuto esserne a conoscenza: in tal modo acquista rilevanza
anche l’omissione dovuta esclusivamente ad una negligenza 16.
Detta forma di responsabilità è prevista anche nel nostro ordinamento quando
si parla di concorso omissivo colposo in reato commissivo nascente dal
combinato disposto degli artt. 40, co. 2, 110 e 113 del Codice penale 17, salvo
le ipotesi (espressis verbis) dell’agevolazione colposa commessa dal
Comandante per l’esecuzione di determinati reati (es. artt. 97, 109 c.p.m.p.) o
del favoreggiamento.
Come ricordato dalla Suprema Corte18, in tema di concorso mediante
omissione nel reato commissivo, in presenza dell'obbligo giuridico di impedire
l'evento, afferma che per aversi la responsabilità del garante (nel nostro caso
il Comandante ex artt. 89 del C.O.M., 86 e 87 del I PA), occorre che questi si
sia rappresentato l'evento, nella sua portata illecita; tale rappresentazione
può consistere anche nella prospettazione dell'evento come evenienza solo
eventuale. Detto altrimenti, la giurisprudenza riconosce che il superiore possa
rispondere anche a titolo di dolo eventuale per non aver impedito la
16
Circa i requisiti stabiliti dall’art. 28 dello Statuto della C.P.I. per la sussistenza della
responsabilità da comando c.d. indiretta, perché un superiore possa essere ritenuto
responsabile per i crimini commessi dai propri subordinati occorrerà cumulativamente
riscontrare i seguenti tre elementi:
- che all’epoca del fatto il superiore esercitasse un’autorità di comando o controllo (effettivo)
sul soggetto che ha commesso il crimine, conseguentemente allo stesso sottoposto;
- che sussistesse la necessaria mens rea (almeno l’elemento colposo);
- che il superiore non abbia adottato tutte le misure necessarie e ragionevoli tese a prevenire
i comportamenti illeciti dei sottoposti, ovvero non li abbia riportati superiormente o puniti
direttamente.
17 L’art. 110 c.p. (per i delitti dolosi): «Quando più persone concorrono nel medesimo reato,
ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, […]». L’art. 113 c.p.: «Nel delitto
colposo, quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di
queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. La pena è aumentata per chi ha
determinato altri a cooperare nel delitto, […]».
18 Cass. pen., sez. IV, sent. 5 settembre 2013, n. 36399.
La responsabilità ex art. 40 cpv. c.p. «presuppone la titolarità di una posizione di garanzia nei
confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla quale deriva
l'obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene. In presenza di tali condizioni la semplice
inerzia assume significato di violazione dell'obbligo giuridico di attivarsi per impedire l'evento e
l'esistenza di una relazione tra omissione ed evento».
134
De Iustitia
commissione di un reato da parte di altri.
3. Il consigliere giuridico nelle forze armate.
3.1. Inquadramento giuridico, formazione e compiti.
La figura del consigliere giuridico (conosciuto anche come Legad) è
espressamente prevista dall’art. 82 del I PA. In tale disposizione è previsto di
affiancare ai Comandanti militari dei consiglieri giuridici di consolidata
preparazione per l’applicazione delle norme di D.I.U. e per l’appropriato
insegnamento di tali previsioni normative agli appartenenti delle Forze armate
posti sotto il loro comando.
Dalla lettura del citato art. 82 sembra in apparenza che sussista un obbligo
per le Parti contraenti di prevedere un consigliere giuridico, mentre in realtà
essa impone solo un onere di istituzione di tale figura.
L'espressione «cureranno che […] siano disponibili quando occorra» lascia agli
Stati il margine per individuare il momento in cui sia necessario rendere
"disponibile" un consigliere giuridico, rimettendo, di fatto, la decisione a criteri
di convenienza e di opportunità. Di qui la successiva responsabilità, qualora la
mancata preordinazione di quei mezzi e di quelle condizioni causi l'effetto di
una "indisponibilità" della citata figura. Supponiamo, infatti, che si accerti che
la presenza di un Legad avrebbe potuto fornire al Comandante militare i
mezzi cognitivi necessari per evitare un'infrazione alle norme del D.I.U.. In tal
caso, sarebbe difficile ritenere che non ricorra un'ipotesi di violazione delle
disposizioni delle Convenzioni di Ginevra e del I Protocollo Aggiuntivo.
L’Italia dopo il deposito degli strumenti di ratifica dei Protocolli e la loro
entrata in vigore (1986), solo dal 1990 ha avviato la programmazione per la
formazione del personale in D.I.U., inviandolo periodicamente a frequentare i
corsi organizzati dall’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario della Croce
Rossa a Sanremo. Successivamente, con l’istituzione dell’Istituto Superiore di
Stato Maggiore Interforze19, a partire dall’anno accademico 1999-2000, lo
Stato Maggiore della Difesa ha assegnato al predetto Istituto il compito di
organizzare dei corsi per la formazione dei consiglieri giuridici nelle Forze
Armate, in ottemperanza agli artt. 82 e 83 del I PA, che hanno una durata
complessiva di 3-4 settimane20.
19
D. lgs. 28 novembre 464/1997, art. 4 e successivo D.M. 12 giugno 1999, n.245.
Con la disposizione 29 marzo 1999, n. 133/1/2076, il C.A.S.D. è stato deputato quale Ente
militare responsabile dell’organizzazione e dello svolgimento del corso (a cura del Dipartimento
20
135
De Iustitia
Minore attenzione è stata, invece, data alla sua regolamentazione legislativa.
Infatti, di tale figura non si fa cenno nel Codice dell’ordinamento militare, né
nel Testo unico dell’ordinamento militare. Tuttavia, a partire dalle operazioni
in Iraq e in Afghanistan del 2001, nelle tabelle ordinative organiche dei reparti
impiegati nelle missioni militari all’estero e alle dirette dipendenze del
Comandante, è stata prevista la figura del Legal Advisor, il quale costituisce
punto di riferimento per tutti gli aspetti legali (di diritto internazionale, penale
comune/militare) che investono le missioni operative21.
di diritto internazionale umanitario e delle operazioni militari), nonché del rilascio della relativa
qualifica di “Consigliere giuridico nelle Forze Armate”. L’obiettivo del corso è quello di formare
consiglieri giuridici nelle Forze Armate, facendo acquisire le conoscenze e le capacità necessarie
per fornire consulenza ai Comandanti militari circa l’applicazione del D.I.U. e del diritto delle
operazioni militari, nonché per svolgere attività di indottrinamento e sensibilizzazione del
personale ai vari livelli nella specifica materia.
21 Si riporta, per completezza espositiva una Job description relativa ai compiti specifici del
consigliere giuridico:
1. MISSIONE DEL CONSIGLIERE GIURIDICO IN DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO
(D.I.U.)
Il I PA alle Convenzioni di Ginevra dell’8 giugno 1977, all’articolo 82 recita:
«Le Alte parti contraenti in ogni tempo, e le parti in conflitto in periodo di conflitto armato,
cureranno che dei Consiglieri giuridici siano disponibili, quando occorra, per consigliare i
comandanti militari di livello appropriato circa l’applicazione delle Convenzioni e del
presente Protocollo e circa l’insegnamento appropriato da impartire in materia alle Forze
Armate»;
2. ATTIVITA’ DI COMPETENZA DEL CONSIGLIERE GIURIDICO
Il consigliere giuridico nelle Forze Armate svolge un complesso di funzioni che variano e si
differenziano a seconda che questi operi in sede, che operi sempre in sede ma in caso di
previsto intervento del proprio reparto/Ente in operazione fuori area e, infine, che operi
presso unità/reparti dislocati fuori area.
In particolare, il consigliere giuridico svolge le funzioni di seguito indicate.
a. Attività presso il reparto/Ente stanziale:
- raccoglie e aggiorna la documentazione relativa al diritto internazionale umanitario
(D.I.U.);
- propone eventualmente alle S.A. aggiornamenti alla normativa vigente correlata alle
Peace Support Operations (PSOs);
- predispone ed effettua, a favore del personale dell’Ente di appartenenza, esposizioni
periodiche sulle Convenzioni di Ginevra del 1949 e sui due Protocolli aggiuntivi del 1977,
diversificate per vari livelli, verificando poi le conoscenze acquisite attraverso la
somministrazione di appositi questionari;
- amplia le proprie conoscenze sulla materia partecipando a convegni, seminari e
conferenze e acquisendo, anche attraverso i Comandi e i Reparti nazionali impiegati in
operazioni all’estero, documentazione e altro materiale di interesse inerente al D.I.U.;
- facilita le attività indicate ricorrendo all’automazione per le esigenze di collezione e
distribuzione della documentazione e mantenendo/migliorando la conoscenza della lingua
inglese.
136
De Iustitia
b. Attività presso il Reparto/Ente stanziale (in caso di previsto intervento in operazione fuori
area):
- esamina il mandato internazionale/nazionale al fine di:
- verificarne i contenuti e la conformità al diritto di bandiera;
- individuare lo status giuridico della parte avversa e acquisire ulteriori informazioni di
natura sociologica, etnica e religiosa;
- individuare persone e beni oggetto di protezione (es. quelli culturali);
- individuare difficoltà interpretative ed applicative delle Rules of Engagement (R.O.E.);
proporre eventuali modifiche/varianti alle R.O.E.;
- esamina lo Status of Forces Agreement (S.O.F.A.) e lo Status of Mission Agreement
(S.O.M.A.) allo scopo di individuare lo stato giuridico delle Forze ed i limiti alla sovranità
dello Stato in cui la missione opera;
- coopera alla stesura dell’ordine di operazione per gli aspetti inerenti al D.I.U.;
- verifica la conformità dell’ordine di operazione alle direttive impartite in sede di analisi
iniziale;
- redige proposte di documentazione ritenute utili per i partecipanti alla missione assegnata
(carta del soldato, bandi, decalogo comportamentale, etc.) contenenti le modalità
applicative delle R.O.E.;
- verifica il livello di conoscenza del personale destinato all’operazione per gli aspetti relativi
al D.I.U.;
- predispone, per il trasporto in teatro di operazioni, la documentazione relativa al D.I.U. di
prevedibile interesse.
c. Attività presso Comandi di unità e reparti in operazioni fuori area:
- fornisce istruzioni e pareri in materia legale ai vari livelli di Comando e svolge attività
d’indottrinamento a tutto il personale dello staff appartenente al contingente, tramite
periodici briefings/conferenze;
- redige circolari e disposizioni d’interesse giuridico per disciplinare svariati aspetti
dell’attività nei teatri operativi, a firma del Comandante del contingente;
- supporta le varie articolazioni del Comando, nelle materie di competenza (legislazione
penale militare e comune, aspetti legali contenuti nella Direttiva Operativa Nazionale-DON
e nelle Regole di Ingaggio-R.O.E.);
- si coordina con gli uffici legali degli altri Paesi alleati circa l’applicazione delle Standard
Operating Procedures (S.O.Ps.);
- cura la ricezione delle relazioni tecniche per gli eventi di particolare gravità e risonanza,
predisponendo i pareri gerarchici del Comandante;
- monitorizza la situazione in atto allo scopo di fornire al Comandante una costante analisi
del rischio giuridico;
- verifica gli ordini emanati alle unità dipendenti e la loro conformità al D.I.U.;
- verifica la conformità al D.I.U. di armi e mezzi impiegati nell’area di operazione;
- implementa ed eventualmente adegua le R.O.E. alla situazione in atto;
- mantiene direttamente i rapporti con il rappresentante delle Nazioni Unite per quanto
attiene all’applicazione del D.I.U.;
- verifica la preparazione del personale militare mediante la visita ai reparti;
- mantiene i contatti con le forze di Polizia Militare;
- prospetta al Comandante del contingente elementi anche indiretti e poco significativi circa
le difficoltà e le problematiche riferibili al comportamento del contingente nazionale, dei
reparti schierati e dei reparti locali;
- illustra al Comandante del contingente le possibili situazioni a rischio fra le parti con
riferimento all’applicazione del D.I.U..
137
De Iustitia
3.2. La natura del parere e la responsabilità.
La generica formulazione adottata nell’art. 82 del I P.A. ha conferito ai
consiglieri giuridici la competenza a fornire ai Comandanti indicazioni da tener
presenti nell’applicazione pratica del D.I.U., ma ha lasciato irrisolti alcuni nodi
funzionali, in relazione al loro status, ai rapporti con le gerarchie militari, al
grado di vincolatezza dei consigli dati in sede operativa e alle responsabilità.
Tralasciando alcuni aspetti, particolare attenzione merita il ruolo e la natura
del parere fornito dal consigliere giuridico al proprio Comandante. Secondo la
tesi dominante il suo ruolo sarebbe solo di «preventiva informazione, non
vincolante». La tesi si spiega innanzitutto con il principio della inammissibilità
ex post della funzione consultiva (il parere sarebbe inutiliter dato). Tuttavia, la
natura "informativa" del consulto non deve impedire che il consigliere
giuridico sia obbligatoriamente sentito, altrimenti la disposizione
internazionale rimarrebbe priva di significato. Sarebbe preferibile, pertanto,
edificare un'ipotesi di obbligatorietà del parere, individuando, se del caso, le
aree tematiche in cui possa esserci un tale obbligo. Altro discorso è sostenere
che il parere non sia vincolante. All’uopo, ci sono due ragioni che giustificano
la portata del parere così come descritto. In primo luogo occorre evitare che il
Comandante sia deresponsabilizzato, in quanto solo a lui spettano le decisioni
finali. In caso contrario, sarebbe violato l’art. 87 del I PA, laddove gli
attribuisce la responsabilità dell'impedimento, della repressione e della
denuncia alle autorità competenti, delle infrazioni gravi alle Convenzioni di
Ginevra e al I Protocollo.
Da una parte, il Comandante che non ha adempiuto ai suoi obblighi, non è
esonerato da responsabilità per il solo fatto che un consigliere giuridico lo ha
consigliato22; dall’altra parte un Comandante militare può richiedere di fruire
di tale consulente legale quando necessario, in virtù di quanto disposto
proprio dal citato art. 82. Tale consulente dovrebbe avvisare il Comandante
dell’eventuale carattere illegale di un ordine e supportarlo nell’applicazione e
nell’indottrinamento del personale sul D.I.U..
Per quanto attiene alle responsabilità, si deve partire dal fatto che allo stato
22
La posizione del consigliere giuridico potrebbe essere assimilata a quella prevista dal Codice
di navigazione (art. 298), ove si dice che il "pilota" del porto fornisce dati di conoscenza e di
valutazione al Comandante dell'unità navale, che rimane responsabile della rotta e delle
operazioni da effettuare.
138
De Iustitia
attuale il parere del Legad non riveste carattere obbligatorio. Il parere è di
per sé un atto amministrativo, avente valore di consulto tecnico giuridico 23
tipicamente strumentale all’adozione di un provvedimento/decisione del
Comandante. L’eventuale omissione o ritardo nell’emanazione dello stesso
non costituisce reato, bensì darebbe luogo a responsabilità sul piano
amministrativo/disciplinare (o revoca dell’incarico).
In ogni caso, il consigliere giuridico, a similitudine di qualunque altro Ufficiale,
ha sempre il dovere di lealtà nei confronti dei Superiori e il dovere di fornire il
proprio supporto con diligenza e professionalità.
4. Conclusioni.
Gli argomenti fin qui trattati hanno cercato di fornire un quadro generale sulle
responsabilità penali cui un può andare incontro un Comandante in teatro
d’operazioni e del supporto che può fornire, durante la condotta delle
operazioni, il consigliere giuridico, figura quest’ultima che, sebbene prevista
dal I PA, non è ancora disciplinata dalla legislazione nazionale e della quale si
auspica una specifica regolamentazione.
Abbiamo visto che per l’ordinamento nazionale e internazionale i Comandanti
hanno la responsabilità delle operazioni militari e sono tenuti a vigilare
sull’osservanza delle norme di diritto internazionale umanitario. Sono
responsabili penalmente sia degli ordini impartiti in violazione di tali previsioni
normative, ma anche per gli eventuali comportamenti omissivi che abbiano
consentito la realizzazione di crimini da parte dei subordinati, in violazione
degli obblighi di comando e controllo imposti ai Comandanti quali garanti
della tutela di quei beni internazionalmente protetti. A questo si aggiungono i
fattori di difficoltà e di pericolosità insiti nei teatri d’operazioni, ove a volte
bisogna prendere decisioni in poco tempo per affrontare e difendersi da una
minaccia o da un atto ostile. In effetti, le responsabilità assegnate a un
Comandante, impongono un patrimonio conoscitivo non solo squisitamente
tecnico-militare, ma anche tecnico-giuridico. Per tali motivi, coloro che a suo
tempo hanno voluto inserire nel testo del I P.A. la figura del consigliere
giuridico in materia di diritto umanitario, hanno voluto istituzionalizzare la
funzione, in modo tale che l’autorità militare possa disporre di specialisti in
materia, capaci di aiutare e sostenere il Comandante (e il suo staff), sia nelle
23
Cfr. artt. 16 e 17 della legge 7 agosto 1990, n. 2 41, «Nuove norme sul procedimento
amministrativo».
139
De Iustitia
decisioni da prendere a livello operativo sia nell’attività di formazione e
indottrinamento del personale militare dipendente sulle regole e sulle
condotte da osservare in teatro d’operazione. Non vi è dubbio che un
costante indottrinamento del personale, e il supporto fornito in tal senso dal
Legad, consente al Comandante di ponderare bene gli ordini che deve
impartire e di poter dare le opportune direttive al personale dipendente in
materia di diritto internazionale umanitario, così adempiendo agli obblighi
previsti sia dall’art. 87, co. 2 del I P.A. sia dall’art. 89, co. 4 del Codice
dell’ordinamento militare. Tale obiettivo sembra essere sempre più
indispensabile per le continue missioni di pace alle quali le Forze Armate
italiane sono chiamate a svolgere in terra straniera, per conto di un Governo
che, come il nostro, è amante della pace e della sicurezza e si impegna
costantemente in prima persona a tal fine.
140
De Iustitia
No more linguistic obfuscation: plain language to bridge the gap
between the law and the people
di Adrian BEDFORD*
SOMMARIO: 1. The interdependence of language and law. 2. Origins of a
parodox. 3. Historical roots in a mediaeval melting pot. 4. Awareness of the
nature of the paradox. 5.The drive for reform. 6. The economic benefits of
reform. 7. Conclusions.
1. The interdependence of language and law.
Law and language are intimately linked insofar as, simple as it may seem, law,
without language cannot exist. The law is, in fact, a social institution common,
albeit in differing forms, to all human societies, manifest also in non-linguistic
ways, but remaining intrinsically a linguistic institution, not least because laws
are encoded in language, and the processes of the law are mediated through
that language. All aspects of life in society are governed through law, and
therefore the question of how it is manifested in the real world, i.e., through
language, has become a fundamental field of interest also in the realm of
Applied Linguists. In this article we shall see how legal language has acquired
a complexity that has rendered it often incomprehensible to the very citizens
the law is meant to serve and protect, thus thwarting its very purpose. We
shall examine the development of that particular form of English known as
“legalese” and see how movements such as the Campaign for Plain English
have succeeded in having reforms implemented at Parliamentary level in the
UK so that the language of the law need no longer appear arcane, constituting
an obstacle to justice rather than functioning as its vehicle.
Since the verbal communicative processes within the machinery of the law are
realised within a specific socio-cultural context by means of largely unique
systems, with their own lexical and grammatical characteristics (specific
terminology or use of non-specific terminology, morphology, syntax) and
Adjunct professor di inglese presso il dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli studi
di Napoli “Parthenope” e presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa.
*
141
De Iustitia
unique discourse types, such as statutes, wills, jury instructions,
pronouncements, we can identify particular registers 1, which as Gibbons2
points out, are difficult to define, but easy to recognise, and are recognised by
the layman. As stated above, the law embraces all aspects of societal
behaviour, and its lexis and grammar are used to negotiate meaning, both
social and functional, to the extent that they represent and shape the world in
a unique way, a “legal” way, creating a language which is the property of a
group of people whose world view, social and physical world schemata, and
topic of communication are distinct from those not sharing these schemata.
The sum of lexical and grammatical peculiarities employed in the linguistic
construct of that world apart which is the legal world, gives rise to the
recognition of this register as belonging to almost a distinct language,
disparagingly known as “legalese”. Those belonging to the legal community
have a certain vested power because they share the schemata and the
language which crystallises them, even to the exclusion of others and by its
very nature a legal text written in ‘legalese’ is far removed from everyday
language.This is especially true of authoritative legal texts, which are written
documents drafted to create, modify, or terminate the rights and obligations of
individuals or institutions. Lawyers often refer to them as operative or
dispositive texts because of their performative function, to use Austin’s
terminology. Authoritative legal texts come in a variety of genres. They include
documents such as constitutions, contracts, deeds, orders/judgments/decrees,
pleadings, statutes, and wills, all with their characteristic lexis and grammar.
2. Origins of a parodox.
On the structural level, the most salient feature of legal texts is that they are
highly formulaic or stereotypical. Some texts can be quite elaborate in terms of
structure, of course, but routine legal documents tend to follow a
predetermined structure that has changed little over time. The grammar of
D. KURZON, Legal language: Varieties, genres, registers, discourses, in “International Journal
of Applied Linguistics “7, pp. 119–139, 1997.
1
Y. MALEY, The Language of the Law in “Language and the Law” a cura di J. GIBBONS, London,
Longman, 1994.
2 J. GIBBONS, (Ed.) Language and the Law, London, Longman, 1994.
142
De Iustitia
legal writing, and in particular, statute writing, reflects, predominantly in noun
phrases, the need for the greatest possible precision in terms of the scope and
terms of legislation3. Complex syntactic structures have traditionally been
justified by the need to establish both the nature of laws and the conditions
under which they apply4. Yet, the purposes of legislation are most likely to be
expressed and communicated successfully by the drafter whose aim is above
all to write clearly and to be intelligible. The obligation to be intelligible, to
convey the intended meaning so that it is comprehensible and easily
understood requires the unremitting pursuit of clarity by drafters. Clarity, it
would seem, requires simplicity and precision, yet, in practice, as we shall see,
the unremitting pursuit of exhaustive precision will inevitably lead to
complexity; and complexity to obscurity. In his 1983 Hamlyn lectures, Lord
Hailsham of St. Marylebone, then Lord Chancellor, said that nine out of ten
cases heard on appeal before the Court of Appeal and the House of Lords
either turn upon, or involve the meaning of words contained in enactments of
primary or secondary legislation5.
But this brings us to our the first paradox, which arises on moral grounds. If
legislation, which is intended to enshrine the rights and duties of the individual
or corporate bodies in society, is not comprehensible to the interested parties,
who are largely outside the speech community to which the legislators belong,
then it would seem that the system is fundamentally, morally, flawed.
In an attempt to redress the damage arising from this flaw, the Plain Legal
Language movement is working to reform drafting practice through its
influence. There is a significant and occasionally heated debate between
eminent lawyers and linguists concerning the drafting and interpreting of
statutes as legal writers must aim for precision, but plain language is an ally in
this, not an enemy. Plain language lays bare the ambiguities, uncertainties and
B. DANET, Language and the law: an overview of 15 years of research in “Handbook of
language and social psychology”, a cura di H.GILES and W.P.ROBINSON, Chichester, John Wiley
3
and Sons, 1990, pp. 537-559.
4 V.K. BHATIA, Analysing Genre (Language Use in Professional Settings), London, Longman,
1993.
5 Quoted from a press release announcing the formation of the Statute Law Trust. The Trust was
set up by Francis Bennion with the principal object of procuring the establishment in Oxford
University of a professorship in statute law studies linked to Balliol College.
143
De Iustitia
conflicts that traditional style tends to hide. At the same time, the process of
revising into plain language will often reveal all kinds of unnecessary detail,
included in the attempt to cover every eventuality. Reformers have been
questioning the need for extensive Technical terminology (such as seisin,
testator, libel per quod, hedonic damages), the use of archaic, formal, and
unusual or difficult vocabulary (such as said/aforesaid; to wit; hereinafter),
excessive nominalisation ("the injury occurred..."), passive constructions ("the
girl was injured...") multiple and confusing negations ("innocent misrecollection
is not uncommon"), the construction of sentences sometimes hundreds of
words long, and redundancy ("I give, devise and bequeath the rest, residue
and remainder of my estate...").
Although both the structure and language of legal texts tend to remain
formulaic and archaic, there is a growing movement to make these texts more
accessible to both the public and the legal profession. Particularly in some
Australian states, but also in the US, the UK and Canada, parliamentary
drafters have experimented with the structure of statutes, adding flow charts
and examples to help readers understand the content reflecting a movement in
the English-speaking world to make the language of legal texts, especially
those that affect the welfare of ordinary consumers, more comprehensible.
Since the beginnings of society, law and language have coexisted, as
fundamental necessities of human beings living together 6. The substance of
law, like language, is essentially abstract and it is language which gives it its
concrete manifestation in the form of statutes, regulations, court decisions,
etc. Clearly, law is not language, and language is not law, but it is through
language, and, as we shall see, through everyday language which has become
focussed into technical use, as well as unique terminology, that the law is
constructed, presented, and transmitted. With the passing of time, both law
and the language of law have become increasingly unique to the particular
peoples they serve, as each society builds its language and law upon
foundations derived from its unique culture and history. Given the vastness of
the historical and sociological variables involved, it seems reasonable to agree
6
Cfr. J. GIBBONS, for an analysis of how laws are coded in language, and their processes are
mediated through language so that legal systems can be said to realise and impose a society’s
beliefs and values, 1994.
144
De Iustitia
with Tiersma7 that there is no single answer to the question of how legal
language came to be what it is, but as with all genres, which Martin 8 argues
are evolved systems, we recognise in various legal texts, written and spoken,
that, as Maley9 says: “Once norms and proceedings are recorded, standardised
and institutionalised, a special legal language develops, representing a
predictable process and pattern of functional specialisation.”
If, then, we wish to consider the cultural matrix which produces texts such as
British Acts of Parliament, and identify its hallmarks, we need to look into the
historical background to contemporary English legal language. We shall see
that the peculiarities of legal language as it is used in the United Kingdom
reflect the historical vicissitudes of the State as it has evolved under rulers of
different linguistic and cultural origins to produce a recognisably culturally
specific idiom. We note also that these peculiarities have a certain ubiquity, as
the legal discourse of Canada, the USA, Australia, and New Zealand, which are
derived from the English common law system, are largely similar.
3. Historical roots in a mediaeval melting pot.
The problem of legal language, and criticisms of legalese cross time and space.
Impenetrable and ambiguous texts were bemoaned as long ago as the sixth
century BCE by Anarcharsis, a Scythian prince, quoted as saying: “Written laws
are like spiders’ webs; they will catch, it is true, the weak and poor, but would
be torn in pieces by the rich and powerful.” That having been said, we turn our
attention to the specific environment of the English-speaking world, the
mother of whose legal systems is the English Common Law.
Looking over history to see how the “Britishness” of UK legal writing emerges,
we can begin with the Anglo-Saxon period, as it is fair to say that neither the
Celts nor the Romans left much of a legacy in legal terms in what was to
P.M. TIERSMA, Legal Language, Chicago, U Chicago Press, 1999, p. 47.
J. R. MARTIN, Factual Writing: Exploring & Challenging Social Reality, Deaking University
Press, 1985 (republished in Oxford by Oxford University Press, 1989).
9 Y. MALEY, The Language of the Law in “Language and the Law” a cura di J. GIBBONS, London,
Longman, 1994.
7
8
145
De Iustitia
become the United Kingdom10. When the Germanic invaders settled, they
developed a characteristic terminology and phraseology which comprised an
authentic expression of Teutonic legal thought. Their laws were uniformly
worded in English, while continental laws, apart from in Scandinavia, were all
in Latin. The English dialect in which the Anglo-Saxon laws have been handed
down is in most cases a common speech derived from West Saxon, as Wessex
was the most powerful English state, and the court of its kings was the
principal literary centre from which most of the compilers and scribes derived
their dialect and spelling.
Particularly noteworthy is the impressive compilation of Alfred of Wessex at the
end of the 9th Century. Yet, it was in fact the Scandinavians who gave English
the legal term par excellence, the word law itself. Law derives from the Old
Norse lagu meaning «that which is laid down». From the point of view of the
performative function of legal writing, given that genres develop in order to
perform specific socio-cultural functions11, outline how the functionality of
written texts changed in the Anglo-Saxon period, by illustrating that written
will forms were not merely and adjunct to spoken wills, but began to reflect
the modern function whereby the written text actually performs the function of
willing property. Terms coming down to us today from this period include:
bequeath, goods, guilt, manslaughter, murder, oath, right, sheriff, steal,
swear, theft, thief, ward, witness and writ.
Another Anglo-Saxon characteristic which has marked legal English is
alliteration, which was a feature of poetry, serving, like rhyme, to aid
memorisation, as well as the perceived creation of an aesthetic effect. Also,
one supposes, for mnemonic reasons this feature was present in legal writing
of the period, with the result that alliterative pairings proliferated, a few of
which are till familiar to us today, such as to have and to hold, a formula from
the traditional wedding service of the Anglican (and other) churches. The
10
Cf. Stenton’s history of post-Roman and Norman Britain, tracing the development of English
society and its oldest Anglo-Saxon laws, the growth of royal power, and the extension of private
lordship to the establishment of feudalism after the Norman Conquest, 1971.
11 B. DANET and B. BOGOCH, From oral ceremony to written document: The transitional
language of Anglo-Saxon wills in “Language & Communication”, 12 pp. 95–122, 1992; J. R.
Martin Factual Writing: Exploring & Challenging Social Reality, Deaking University Press, 1985
(republished in Oxford by Oxford University Press, 1989).
146
De Iustitia
expression rest, residue and remainder, still found in many wills, and hold
harmless in contracts, while etymologically clearly not Anglo-Saxon in origin
continue the tradition. Other illustrations are lewd and lascivious, any and all
and each and every, loathed by teachers of English for their tautology, but
loved by lawyers.
With the Norman Conquest of 1066, when the Norman French brought their
own legal concepts and procedures, supplanting the Anglo-Saxons’, Latin
translations were made of Anglo-Saxon legal texts as still applied in practice at
that time, and by the death of William the Conqueror, a variant of mediaeval
Latin12, “law Latin”, had become the language of standard documents such as
writs (written orders issued by a court, commanding the party to whom it is
addressed to perform, or cease performing a specified act). This Latin,
however, was also influenced by English terms. Gibbons 12, quotes Kiralfy’s13
illustration of how, for example, murder, originated in English as morDer, a
secret killing, Latinized into murdrum which gave rise to the modern term. Yet
over the next three hundred years, French, the language of the court, was to
usurp Latin dominance, and the Year Books (early law reports) and Statutes
were written in French in the fourteenth century, even though an Act of 1362
tried to abolish the use of French in courts, as being “trope desconue 14”.
The Norman French-based language of the courts, ultimately became a hybrid
language with a vocabulary that increasingly absorbed English words, because
clerks attempting to record it verbatim in court devised hybrid phrases and a
shorthand that allowed them to capture the proceedings in writing. Law
French, as such, persisted for centuries, despite its arcane nature. Though Law
French as a language of the court had ceased to be used officially in the first
third of the 18th century (370 years after Parliament barred the use of French
12 P. M. TIERSMA: «Though it must be remembered that since 597 CE, with the arrival of
Christian missionaries, the Roman Catholic Church had made the Latin language once again a
major presence in England, especially in legal matters, by means of the Canon Law, through
which the Church regulated marriage and the family. This use of Latin as legal language
introduced terms like "client," "admit," and "mediate" » (1999, p.16).
12 J. GIBBONS, Language and the Law, London, Longman, 1994.
13 A.R. KIRALFY, Potter’s historical introduction to English law and its institutions (4th ed.),
London, Sweet and Maxwell, 1958 p. 96.
14 too unfamiliar.
147
De Iustitia
in that body in 1362) many of the words that were a part of the language
remain in current common-law use. Surviving Law French terms include:
attainder, demurrer, disclaimer, joinder, merger, ouster, remainder, remitter,
render, reverter, and tender. Past participles were transformed into
substantives: debtee, lessee, mortgage, and payee. Another legacy of Law
French is the group of inverted noun phrases, including ‘‘attorney general’’ and
‘‘fee simple.’’ In 1417, however, while fighting the French, Henry V finally
broke all linguistic ties with his homeland and insisted on most legal
documents being written in English.
Nevertheless, pleadings (formal statements, setting out the cause of action or
the defence in a case) continued to be written in French, while argument was
often in English, and it was not until «An Act for Turning the books of Law,
and All Processes and Proceedings in Court of Justice into English 15» was
promulgated, that English became the official language of law. Nevertheless
the lexical and morphological influence of mediaeval and legal French had
been enormous so that much register-specific language derives directly from
French and not Anglo-Saxon, and we still find the coexistence of Anglo-Saxon
and Norman French in legal texts, such as bid/offer, theft/larceny, worth/value
acknowledge and confess, and so, for over half a millennium, an arcane,
restricted language developed within the legal community, the various
branches of which constituted discourse communities 16, comprised of judges,
lawyers, clerks, and statute writers, which despite the fourteenth century need
for the law to be accessible to all through use of the common language of the
citizen, seemed to become increasingly hermetic with its obstinate use of
French/Latin terminology and English words with a different sense from
common usage. Familiar examples today include “prejudice” which in legal
English refers to a final and binding decision (as an adjudication on the merits)
that bars further prosecution of the same cause of action or motion
(“dismisses this case with prejudice”, “the dismissal was without prejudice”),
“An Act for Turning the books of Law, and All Processes and Proceedings in Court of Justice
into English”, p. 455, 1650, 11 Acts and Ordinances of the Interregnum.
15
16
A discourse community is a group of people who, while not necessarily sharing the same
language, share a set of norms and rules for the use of language so boundaries between such
communities are essentially social rather than linguistic.
148
De Iustitia
and “whereas” which means “given that” in legal discourse, and is not
adversative, as it is in common use. The early eighteenth century saw an
extreme prolixity in legal writing, encouraged by the egregious practice of
draftsmen charging by the length of the documents they produced 17.
4. Awareness of the nature of the paradox.
In the twentieth century both the public and the legislator have come to
realise that this kind of hermeticism can be unfavourable to the execution of
justice in the fair manner extolled in the 1362 Act, and so thanks to the efforts
of bodies such as the Plain English Campaign and equivalents in other common
law countries, there has been, as we shall see, a gradual simplification and
clarification of legal language, but despite this, the gap between legal
discourse and everyday discourse remains substantial. Nevertheless, in the last
decade of the twentieth century in the UK, the Lord Chancellor’s department
was heavily engaged in reforming legal terminology, especially in court, with
the result that, in a bid to make legal language more accessible, the plaintiff, is
now to be called the claimant, the writ a claim form, and ex parte is now
“without notice”. In this way, we can see that the language of the law is
evolving to represent the perceived needs of the legislator and society.
The meaning of texts is wholly interwoven with surrounding texts, whether
they be illustrations, academic papers, footnotes, conversations, etc. The
relationships that texts bear to one another, both those that are close and
those that are distant in time and space, have generated what the French
philosopher Kristeva18 calls intertextuality. On this, Bhatia quotes a well
established British parliamentary counsel (draftsman): [...] very rarely is a new
legislative provision entirely freestanding [...] it is part of a jigsaw puzzle [...]
in passing a new provision you are merely bringing one more piece and so you
D. MELLINKOFF, The Language of the Law, Boston, Little, Brown & Co, 1963 p. 188.
PLUTARCH PARALLEL LIVES, Volume 5: Agesilaus and Pompey, Pelopidas and Marcellus,
Bernadotte Perrin, tr. (L087) Harvard University Press.
18 J. KRISTEVA, Word, dialogue, and the novel, in “The Kristeva reader”, T. Moi (Ed.), New York,
Columbia University Press, 1986.
17
149
De Iustitia
have to acknowledge that what you are about to do may affect some other bit
of the statute book19.
Statutes or binding judgments are not isolated works, requiring only internal
cohesion. They also contribute to a wider whole, the body of law of which they
are part, thus exhibiting cohesive patterning not only within the text, but also
at a broader level to provide intertextual coherence20. The overwhelming use
of such cohesive devices can render legal documents inaccessible to the nonspecialist as well as being extremely difficult to draft. Yet it is precisely the
intertextual links which establish a relationship with previous legislation and
future statutes.
In law, an Act of Parliament, as a text, becomes an authoritative text, creating
and fixing the law, existing performatively until modified in some way, with its
meaning existing in its own wording. This feature of legislative texts thus
determines the expression of its content and presentation at a textual level, so
that the choice of verb forms, lexis and cohesive devices combines to signal
textual authority, provide terminological explanation, enable textual mapping 21,
and define the scope of a given statute. The drafter deploys discourse
strategies in order to create precision and be as explicit as possible, referring
to identifiable categories of addressee, and the scope and limits of the Act.
This is done principally through the development of specialised and technical
lexis to conceptualise and fix semantic fields pertaining to the law. Within the
historical development of legal language, it is clear that, as the establishment
of terminology with extremely precise and limited semantic fields has always
been a necessary and ongoing process, then legislative discourse may well
contain lexical items of extreme antiquity. This is particularly the case where
the subject matter was already codified in mediaeval times.
With the English Act produced by the fourth session of the first parliament of
George II in 1731, parliament definitively abolished the use of Latin and
V. K. BHATIA, An investigation into formal and functional characteristics of qualifications in
legislative writing and its application to English for Academic Legal Purposes . Ph.D thesis
19
submitted to the University of Aston in Birmingham, UK, 1982, p. 172.
20 M. A. K. HALLIDAY and R. HASAN Language, Context and Text, Victoria, Deakin University
Press, 1985.
21 V. K. BHATIA, Analysing Genre (Language Use in Professional Settings), London, Longman,
1993 p. 145.
150
De Iustitia
French in legal proceedings, yet it became clear that there was enormous
difficulty in finding equally precise terminology in English, and another statute
was to provide that the traditional names of writs and technical words would
continue to be in the original language22, and ritualistic language remained
important as rewriting an authoritative text in contemporary English was
considered to be dangerous and even subversive23. Therefore, to maintain
conceptual precision and authority in written texts, specific terminology had to
remain the same even if the spoken language and indeed the surrounding
circumstances changed, and so, whether the terminology be French, Latin, or
archaic English, lawyers have continued to use the same language even if it is
no longer accessible to the public at large.
Syntactic and grammatical consequences of technical use abound, including
frequent nominalisation referring to processes usually incorporated into
agentless passive clauses24: a recognizance mentioned in subsection, shall be
conditioned upon and subject to such terms and conditions as the Court shall
order (Crimes Act 1900, New South Wales).
Nominalisation, a typical feature, of legislative writing, is attributed by different
scholars to the achievement of several linguistic objectives: precision,
condensation, and all-inclusiveness25, abstraction and agent deletion 26 and
simplification of syntactic structure27.
The use of the passive is associated with the impersonality of the law.
Hiltunen28, in his study of legal English syntax, points out that the passive,
avoiding the need for vague subject pronouns such as one, we or they
transmits a sense of «impersonality, objectivity and non-involvement». Statute
P. M. TIERSMA, Legal Language, Chicago, U Chicago Press, 1999, p. 36.
P. M. TIERSMA, Legal Language, Chicago, U Chicago Press, 1999, p. 39.
24 Y. MALEY, The Language of the Law in “Language and the Law” a cura di J. GIBBONS,
London, Longman, 1994, p. 22.
25 V. K. BHATIA, Analysing Genre (Language Use in Professional Settings), London, Longman,
1993 p. 142.
26 N. FAIRCLOUGH, Analyzing Discourse: Textual Analysis for Social Research , Routledge, 2003,
p. 144.
27 F. SCARPA, La traduzione specializzata. Lingue speciali e mediazione linguistica , Milano,
Editore Ulrico Hoepli, 2001, p. 39.
28 R. HILTUNEN, Chapters on Legal English. Aspects Past and Present of the Language of the
Law, Helsinki, 1990 p. 81.
22
23
151
De Iustitia
writing requires specific functions so that the choice of verb forms, lexis and
cohesive devices combine to signal textual authority, provide terminological
explanation, enable textual mapping, and define the scope of a given statute.
MacCormick (1990:544) defines Statutes (Acts of Parliament) as systematically
interrelated sets of rules, usually of both substance and procedure; ‘systematic’
in that they refer to particular areas of social life or behaviour as regulators.
Even though Acts of Parliament are designated as originating from the
Sovereign, they are drafted by skilled draftsmen in conformity with the
intentions of the legislature and addressed to the subjects of the sovereign
power. It therefore follows that the salient characteristics of this genre are
formality and technicality, due to the nature of the text and the professionally
specialised readership it is composed for.
As the purpose of this writing is to enact a law, then the language itself is part
of the process, making the law happen. An Act of Parliament may display
apparently obscure, formulaic expressions, convoluted constructions, and
employs repetitions and archaic forms. To the layman, such features might
well appear verbose, circumlocutory, or simply pompous, while to the
community producing them, these features are linguistic devices meant to
signal precision, clarity and all-inclusiveness. We might say that there is a
constant tension between the aim for (a) clarity as understood in layman’s
terms (ease of comprehension), and (b) in legal terms, i.e., setting out precise
limits to the authority and inclusiveness of the text. Courts and institutions
such as the British Parliament appear to underline their legitimacy by
presenting themselves as immutable institutions of ancient lineage. Formal,
archaic and ritualistic language helps accomplish this goal by conveying an
aura of timelessness that gives the law a sacrality which is not only manifest in
the trappings of the court and parliament, with their almost liturgical rituals
and vestments, but also in their hieratic language, which help to make them
more credible and worthy of respect. They use ritualistic formulae (such as
“oyez, oyez, oyez or hear ye, hear ye, hear ye” that opens a court session) to
divorce legal proceedings from the life of the laity. On the other hand, if the
ordinary citizen is governed by legislation which seems incomprehensible,
there is a constitutional paradox. Indeed, unlike in most other genres, where
reader and recipient are the same agent, the British Act of Parliament is
152
De Iustitia
addressed to the citizens of the realm, while the readers are normally lawyers
and the judiciary, so the parliamentary draftsman (counsel ), who is not
present at the parliamentary deliberations, has to find a balance between
representing and enacting the will of parliament and using discourse strategies
which will transmit this to the readership.
4. The drive for reform.
An even sterner critic was Jeremy Bentham, the eighteenth century utilitarian,
who, as Tiersma tells us, excoriated the language of lawyers as
"excrementitious matter" and "literary garbage." Bentham suggested that the
law should be codified and that individual parts of each code should be set out
in memorisable chunks, written clearly enough for citizens to know the "exact
idea of the will of the legislator." Bentham argued that plain legal language is
essential to proper governance and, famously, that until nomenclature and
language of law were improved, good government could not be attained.
Also towards the end of the eighteenth century, the newly independent
Americans, including John Adams, criticized English legal language and the
"useless words" in the colonial charters, hoping that "common sense in
common language" would become fashionable. Likewise, Thomas Jefferson
lambasted the traditional style of statutes:
which from their verbosity, their endless tautologies, their involutions of case
within case, and parenthesis within parenthesis, and their multiplied efforts at
certainty by saids and aforesaids, by ors and by ands, to make them more
plain, do really render them more perplexed and incomprehensible, not only to
common readers, but to lawyers themselves (T.Jefferson – Autobiography).
A movement to demand reform of legal language in English really took off in
the 60s after David Mellinkoff's book29, The Language of the Law, pointed out
the many absurdities of traditional legalese. As a result, Richard Wydick's 30
Plain English for Lawyers has been widely used to teach law students the art of
D. MELLINKOFF, The Language of the Law, Boston, Little, Brown & Co, 1963. Plutarch Parallel
Lives, Volume 5: Agesilaus and Pompey, Pelopidas and Marcellus, Bernadotte Perrin, tr. (L087)
29
Harvard University Press.
30 R. C. WYDICK, Plain English for Lawyers. 3d ed. Durham, N.C., Carolina Academic Press,
1994.
153
De Iustitia
legal writing in the USA and since then, plain English principles have been
incorporated into the writing curriculum of many American law schools.
A first victory for reformers was when President Nixon decreed that the Federal
Register be written in “layman’s terms”, and in 1977, the Federal
Communication Commission issued rules for Citizens’ Band Radios as a series
of questions and answers, using personal pronouns, avoiding the passive and
giving precise instructions that were easy to understand.
The next big step came in 1978 when President Carter signed an executive
order that required that Federal regulations be «as simple and clear as
possible». Consequently, the Department of Education funded research and
development into the problems created by public documents, and obtain
assistance for Federal Agencies wishing to improve their communication skills.
Despite President Reagan rescinding President Carter’s Executive Orders,
Federal law now requires clear, conspicuous, accurate, or understandable
language in many types of consumer transactions, largely due to President
Clinton’s understanding of the need for serious reform.
In 1998, President Clinton revived plain language as a major government
initiative, issuing a Presidential Memorandum formalising the requirement for
federal employees to write in plain language, and requiring all new regulations
to be written clearly by January 1, 1999. He wrote: «By using plain language,
we send a clear message about what the government is doing, what it requires,
and what services it offers […]. Plain language documents have logical
organization; common, everyday words, except for necessary technical terms;
“you” and other pronouns; the active voice; and short sentences».
Mr Clinton appointed Vice President Al Gore to foster and monitor this project.
Vice President Gore believed that plain language promotes trust in government,
affirming that Plain Language is a civil right, consolidating the reforms through
the presentation of No Gobbledygook awards to federal employees who
successfully translated bureaucratic messages into plain and accessible
language. At State level, New York enacted America's first general plain
language law in 1978, and today most states require straightforward language
in specific transactions, especially insurance policies.
5. The economic benefits of reform.
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De Iustitia
As awareness of the injustice of using hermetic legal language grew, with it
grew another awareness, that of the saving in economic terms that can arise
from clear exposition and reduced administrative waste as other Englishspeaking countries also began looking into the question of simplifying legal
writing. The Law Reform Commission of Victoria (Australia) produced a
mammoth, four volume study on plain language in the mid-eighties, and in the
United Kingdom there is the extremely active, independent, Plain English
Campaign (P.E.C.), started by Chrissie Maher in 1979. Frustrated by the
overwhelming amounts of ‘gobbledygook’, small print, and legalese she found
in government forms, she took hundreds of them to Parliament Square, and
spectacularly shredded them all. Her Majesty's government seems to have got
the message and soon began systematic revision of its forms. Through their
work in rewriting and redesigning most of the documents HM Government
issues to the public, by 2000, they claimed to have brought about an estimated
public saving of over £200 million. Indeed, in its 1982 white paper (the
Government’s statement of intent) called “Administrative Forms in Government”
a number of startling statistics were produced. The white paper explained that
an incredible 2,000 million government forms and leaflets were used by the
public every year at a cost of £250 million.
An independent study produced in 1984 gave another good insight into the
magnitude of the problem. In their study called “Operational Research Services:
Forms Effectiveness Study”, carried out by Coopers & Lybrand Associates they
explained that just one of the UK’s many government departments, the
Department of Health and Social Security, used approximately 12,000 different
forms. Roughly half of these were issued to the public in numbers varying from
10,000 to 30 million copies a year. Estimates made during the course of their
assignment suggested that the cost of errors to the DHSS (UK Department of
Health and Social Security) in additional processing alone would be about
£113,000 per form every year.
So for the 6,000 forms issued to the public, the total cost of errors every year
could be £675 million. They expected that there would be a similar cost
incurred by the public and employers who had to deal with these forms.
One of the Campaign’s most practical contributions to the furthering of
awareness of Plain English is the conferral of the Crystal Mark, an
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De Iustitia
internationally recognised symbol of clarity, which has now become firmly
established in the UK as the standard that all organisations aim for when they
produce public information. The mark also appears on documents in other
countries such as the USA, Australia and South Africa and is only awarded to
documents which, after testing, can be said to be written well enough to be
read, understood and acted upon by the intended audience.
P.E.C. influence has since spread to the US, South Africa, Australia, Denmark,
Ireland, Ghana, Hong Kong, Finland, South America, India, Switzerland, and
have been consulted by the United Nations in Geneva. During the six months
in 1998 when Britain held the presidency of the European Commission, Emma
Wagner, a member of its translation department, launched her own crusade for
clarity - “Fight the Fog” to aid staff who have to translate legalese from one
language and attempt to translate it clearly into around a dozen others. While
the Fight the Fog officially only ran for the duration of the British mandate, the
group's series of seminars and lectures proved so successful that their
influence has now spread to other E.U. languages, spawning movements to
create plain Italian, French and other texts.
Today, legislation and regulations worldwide are forcing lawyers to adopt
plainer English. Under pressure from consumers, the pace of clarification of
many legal documents has quickened in the last 15 years. Now, unnecessary
legal flavouring (words like “notwithstanding”, “aforesaid” and “hereinafter”)
and other characteristics of legalese such as long, rambling and incoherent
sentences are less common in consumer contracts. At home, in 1995, the
Chancellor of the Exchequer expressed the need to clarify the language of
taxation law, bending to the pressure of experts describing the then legislation
as long, complicated and even incomprehensible. Also, the Law Society’s
standard conveyancing documents have been transformed, even going so far
as to use “buyer” and “seller” instead of “purchaser” and “vendor”. The Law
Society has also published a drafting manual called “Clarity for Lawyers”
(1990).
In addition, On 26 April 1999, the Lord Chancellor’s Department, in an 800page document, abandoned traditions in favour of linguistic reform, to the
exclusion of the use of Latin terminology from the English civil court system.
The changes followed a report by the Master of the Rolls, Lord Wolff, on
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De Iustitia
Access to Justice. He said: «The system of civil justice and the rules which
govern it must be broadly comprehensible not only to an inner circle of
initiates but to non-professional advisers and, so far as possible, to ordinary
people of average ability who are unlikely to have more than a single
encounter with the system». Many terms have consequently been changed.
One victim is the curiously named Anton Piller Order, a court order providing
for the right to search premises without prior warning in order to prevent the
destruction of incriminating evidence, particularly in cases of alleged copyright
or patent infringements. The name comes from the case of Anton Piller KG vs
Manufacturing Processes Limited in 1976. The Mareva injunction, intended to
freeze assets pending the outcome of litigation, turns into a freezing injunction.
The courts will no longer give leave, but will give permission.
6. Conclusions.
In conclusion, the time has come when in the interests of justice in itself,
legislators and the parliamentary counsel are beginning to uphold, before any
love of history or tradition, and still less the concerns of experts with vested
interests such as politicians, the public administration and lawyers, the axiom
that when an Act affects millions of people, as the majority almost invariably
do, citizens of average intelligence and literacy should be regarded as the
primary audience, and that as much new law as possible should be written and
designed with their abilities in mind. Pro bono publico, so to speak.
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