Hacker russi, Obama non finga d`indignarsi

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giovedì 05 gennaio 2017, 15:30
Hacker russi, Obama non finga d’indignarsi
Dal 1945 gli USA osservano le elezioni di mezzo mondo, Putin ha solo imparato a fare lo stesso
di Davide Zaffi
Siamo sicuri che, con tutto quello che si è scritto e detto, si sia capito cos’è successo con le interferenze russe nella
campagna elettorale americana? Forse no, perché si è fatta molta più informazione sull’espulsione dei diplomatici russi e
sulla mancata ritorsione di Putin che su quello che ha originato la polemica. Il coordinamento delle numerose agenzie
americane per la sicurezza si è dichiarato in diverse occasioni «ragionevolmente certo» che i servizi segreti russi durante
un periodo relativamente lungo (fin dal 2015) abbiano reclutato, dietro compensi in danaro, degli hacker, americani e
non, perché provassero ad entrare nell’archivio digitale del Partito Democratico e, fra i documenti trafugati,
utilizzassero ovvero rendessero pubblici quelli che potevano danneggiare presso l’elettorato l’immagine della candidata
Hillary Clinton, con l’ovvio scopo di aumentare le chances di vittoria del suo avversario Donald Trump. Ma è
inaudito! ma è gravissimo! esclamano alcuni, magari impressionati dai drastici provvedimenti rumorosamente presi a questo
proposito dal Presidente Obama. Prima però di arrivare alle conclusioni, anzi, ai giudizi, vediamo un po’. Per prima cosa gli
stessi esperti informatici democratici hanno ammesso che il loro sistema di protezione dei documenti era
lacunoso, anzi, in taluni casi sembra che praticamente neppure ci fosse. Gli hacker assoldati dai russi hanno forse intascato
più danaro di quello che meritavano. E, secondo i media americani, compreso il democratico 'New York Times', non sono
stati neppure gli unici ad entrare abusivamente nell’archivio dei Democratici. A ciò si aggiunge che, con tutta probabilità,
anche gli archivi del Partito repubblicano sono stati forzati dai medesimi hacker e per lo stesso periodo. Per
seconda cosa i russi non hanno falsificato né fatto falsificare nulla: i documenti messi in circolazione sgraditi alla
Clinton sono autentici. I Democratici possono con buon diritto lagnarsi perché certe cose sono divenute pubbliche, non per
essere stati calunniati o presentati in modo artificialmente distorto. Per terza cosa i documenti trafugati non hanno un
contenuto tale da far spostare voti. Da essi risulta, ad esempio, che i vertici del Partito, a dispetto del loro obbligo alla
neutralità favorirono nettamente la Clinton a danno di Sanders durante le primarie; in essi si trova qualche accenno di
qualche personalità democratica sulla salute della candidata e via dicendo. Niente di sconvolgente, come si vede, o che non
si sapesse già. Lo stesso Governo federale ha tempestivamente comunicato tramite un alto funzionario alla stampa che «i
risultati elettorali riflettono con accuratezza la volontà del popolo americano.. Riteniamo che le elezioni siano state libere e
corrette dal punto di vista della sicurezza informatica». Per quarta cosa ci vuole un velo di ipocrisia per sostenere che
gli Stati Uniti, quando si fanno elezioni in giro per il mondo, si mettono alla finestra e guardano quel che
succede. È difficile credere che si limitino a formulare auspici e non cerchino di aiutare discretamente i candidati a loro
favorevoli così come di ostacolare quelli a loro contrari. E questo indipendentemente dal fatto che alla Casa Bianca si trovi
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/hacker-russi-obama-non-finga-dindignarsi/
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un repubblicano o un democratico (in complesso i due partiti dal 1900 al 2016 si sono alternati al potere per periodi
esattamente uguali: 58 anni ciascuno). Ma, tolto quel velo di cui si diceva, occorre riconoscere che se gli Stati Uniti, alla
pari della Russia, cercano di influenzare discretamente ed entro certi limiti le elezioni in casa d’altri, fanno quel che
non possono non fare. Le relazioni internazionali non si disegnano curiosando ogni mattina nei giornali per sapere quel
che succede nel mondo, ma cercando, nei modi appropriati, di influire su quel che succede. E ciò resta vero anche se
Obama, che è Premio Nobel per la pace, non può ammetterlo e, anzi, deve scandalizzarsi quando viene a saperlo. Certo,
questa attività richiede poi senso della misura perché i tentativi di influenzare elettorati esteri possono essere addirittura
controproducenti, se condotti troppo scopertamente. Per quinta cosa nelle e per le Ambasciate, comprese probabilmente
quelle americane, lavorano non solo i ragionieri che calcolano l’andamento degli scambi commerciali ma anche funzionari
dei servizi segreti. Se fossero espulsi quelli che, in tutto o in parte, operano in modo riservato per procurarsi informazioni che
possono essere usate a vantaggio dal proprio paese, il personale delle Ambasciate diminuirebbe vistosamente. Questa non è
una novità. Se però qualcuno trova davvero che lo sia, può approfittare di questa occasione per farsene una ragione. Per
sesta e ultima cosa: dalle tante reazioni indignate per l’attività dei russi traspare quasi la tentazione dei
Democratici di mettere moralmente in forse la vittoria di Trump. E questo tentativo, se davvero è in atto, avrebbe
tutte le carte in regola per risultare la cosa più grave dell’intera storia. La democrazia americana ha insegnato e insegna
al mondo, nella teoria e nella pratica, che il popolo è sovrano. Nessuno è autorizzato a correggere politicamente le sue
decisioni giudicandolo immaturo. Ogni misura presa per difenderlo dalla sua asserita immaturità è peggiore del male che
dice di voler curare. Se invece lo scopo di Obama col sollevare l’attuale polverone antirusso non fosse di screditare
moralmente l’elezione di Trump ma soltanto di rendere più difficili i primi tempi del suo governo in politica estera, allora la
mossa sarebbe meno grave ideologicamente ma più meschina tatticamente.
Quanto a Putin, infine, gli è capitato
come a chi, dopo avere compiuto per anni ogni genere di reati e averla sempre fatta franca, viene punito per aver
guidato senza patente.
di Davide Zaffi
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