Reportage da Beirut, una città tra arte, politica e speculazione

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Reportage da Beirut, una città tra arte, politica e speculazione | 1
giovedì 05 gennaio 2017, 17:30
Libano
Reportage da Beirut, una città tra arte, politica e
speculazione
La pittrice Claude Moufarege: "ho deciso di ritrarre Beirut vuota, silenziosa, distante, vista da fuori"
di Davide Lemmi
Cammino per i vicoli di Hamra, raggiungo la stazione di Cola, sorpasso gli stretti marciapiedi alla mercé delle auto. Un
venditore ambulante espone biglietti della lotteria accanto al negozio di una nota marca sportiva. Ragazzi ridono in un locale
di Mar Mikhael, mentre i cantieri dei palazzi in costruzione si accendono nella notte, rifugio di lavoratori sottopagati. Le
vetrine di Ashrafieh trasudano di Natale. Il quartiere di Ras El Nabah espone orgoglioso le sue bandiere verdi con il simbolo
di Amal. Alle rocce dei gabbiani l’alba mozza il fiato. Ho cercato e voluto capire Beirut con la stessa perseveranza
con cui tenti di vendere un oggetto, eppure questa città non è disposta a farsi capire. Sfugge. Dinamica e vibrante
scappa dalle parole, così fisse e delineate. Accetta definizioni per semplificare, ma la sensazione che rimane è la stessa dopo
una serata di sesso poco appagante. Succede all’improvviso, percorri una delle sue vie, così diverse tra loro, e ti chiedi “ma
io ti conosco veramente?”. Beirut è una sopravvissuta. Sui muri delle abitazione rimangono le cicatrici della guerra, sui
brillanti grattaceli il segno di una ricostruzione selvaggia. Così ho chiesto ai miei amici di descrivermela con uno o due
aggettivi: “Euforia contraddittoria”, per Fadwa; “meravigliosa contraddizione”, secondo Daria; “ragazza tarantolata”, dice
David; “babelica”, afferma criptica Sabrina. Ma Beirut è prima di tutto personale. Sulla sua giostra le emozioni corrono,
accompagnate dai desideri e dalle aspirazioni. Mosso dallo stesso spirito di indagine cerco ad Hamra la galleria Art Space,
espone una libanese, una pittrice e architetto. È nata in Senegal, ma i suoi genitori erano originari di Beirut. Dopo un
breve periodo a Dakar è tornata con la famiglia in Libano, dove ha vissuto 16 anni a cavallo del conflitto civile, prima di
trasferirsi in Francia. I quadri di Claude Moufarege sono potenti. C’è l’eternità della città, ci sono i palazzi, c’è il tratto
sicuro delle forme geometriche, ma mancano le persone. Perché hai dipinto Beirut? Beirut è sempre stata parte della
mia memoria, della mia vita. Dipingere Beirut con il caos e le sue ferite sarebbe potuto divenire una trasmigrazione delle
mie ferite personali. Così ho deciso di ritrarla vuota, silenziosa, distante, vista da fuori. Quali sono i tuoi sentimenti
umani nei confronti della città? Tutte le volte che atterro a Beirut, mi colpisce il suo movimento perpetuo, il rumore, i
clacson. Rimango impressionata dalla sua luce unica, dalla luminosità del sole, e da quell'alone di polvere che ammorbidisce
la sua apparente bruttezza. Questa non è che la prima sensazione. Superato l’impatto, mi stupisco dell'incredibile energia e
della grande umanità degli individui. Ammiro il coraggio e la creatività dei libanesi. Sinceramente percepisco tutto quel
movimento, che è la vita, molto stimolante. L’arte stessa è in movimento in Libano e in qualche modo tutti sembrano
esserne coinvolti, nei suoi aspetti
e migliori.
Per pubblicazione
esempio, gli
architetti
Beirut reperibile
sono spesso
guidati dal loro ego e
Estratto peggiori
ad uso rassegna
stampa dalla
online
integrale di
e ufficiale,
su
http://www.lindro.it/reportage-da-beirut-una-citta-tra-arte-politica-e-speculazione/
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sembrano dimenticare il significato profondo dell’architettura: essere umana. Come hai accennato i tuoi dipinti
ritraggono la città distante, senza persone, macchine o problemi. Quasi come fosse eterna. Ma in realtà la
città è al centro di un continuo cambiamento che spesso sfocia nella speculazione edilizia. Riuscirà Beirut a
salvare la sua anima? Beirut, il Medio Oriente, ma più in generale il mondo, stanno cambiando. I motivi dietro questo
trasformazione possono essere moltissimi. La guerra e le migrazioni sono forti catalizzatori. La città continuerà a mutare e
difficilmente sarà in grado di preservarsi dalla ricostruzione. Ma esattamente come l'anima della città riflette l'anima della
gente che la popola, sono sicura che qualcosa di originale si salverà. Dal punto di vista professionale, quali parti
dovrebbero essere preservate e di cosa invece avrebbe bisogno la città? Beirut necessita di più respiro e quindi
maggiori spazi verdi. Lo sguardo è spesso bloccato dai grattacieli e dai palazzi, mentre avrebbe bisogno di correre libero
verso il mare, verso questa infinità così magica. La città dovrebbe inoltre occuparsi della sua parte più povera. Cittadini e
rifugiati che vivono con pochi spiccioli al giorno, necessiterebbero di posti decenti in cui vivere. Per quanto riguarda il
passato che è anche la radice del nostro futuro, vorrei preservare le ultime bellissime case dai tetti rossi libanesi, vittime
della ricostruzione, distrutte una ad una per essere sostituite dal cemento. Una pratica disumanizzante. Dopo più di 15
anni di guerra civile e conflitti correlati, Beirut ha conosciuto la pace. Sono gli anni ’90, la città ha bisogno di ridisegnare
la sua anatomia, sventrata dai bombardamenti israeliani, dall’artiglieria siriana e dai missili falangisti. Il vento dei proclami
politici si accompagna al valzer del business della ricostruzione. È una nuova guerra, lasciati in cantina Rpg e kalashnikov, il
cemento dona linfa alla città. La flebo è basata su interessi personalistici. Lo scandalo Solidere sugli appalti coinvolge
anche il Primo Ministro dell’epoca Rafiq Hariri, padre dell’attuale Premier e possessore del 10% della società incaricata
nella ricostruzione di Beirut Ovest. Il restyling, in piena linea con il passato, è basato sul compromesso. Oggi sul
lungomare di Beirut svettano gli hotel a 5 stelle, mentre le vecchie case in stile ottomano, reduci da anni di guerra, cadono
sotto i colpi del bisturi dei caterpillar. I prezzi degli appartamenti nel centro di Beirut superano quelli di Parigi e
Milano. Gli affitti sono in linea con Londra. Eppure il mercato immobiliare sembra in frenata, per non azzardare 'crisi'. Gli
esecutivi libanesi hanno da sempre cercato di stimolare il settore. Le tasse per coloro che investono sono al 5%. Costruire e
rivendere a terzi è un affare. I dati però mostrano tutte le lacune di questa selvaggia mania di edificare. Il numero di vendite
immobiliari nel 2015 è sceso del 10,6% rispetto all’anno precedente. Il credito, su cui si regge lo Stato, appesantito da un
altissimo debito interno, invece sembra resistere: +6,5% di prestiti nel 2015 rispetto al 2014. Le sorti del Libano sono
collegate agli istituti bancari nazionali che a loro volta si reggono sui prestiti e sulla capacità di far circolare denaro, fiducia e
rientrare dei finanziamenti elargiti. Il complesso ingranaggio è un vaso di Pandora che scricchiola a causa della
stagnazione del Pil. Se il vento cambiasse direzione, i nuovi e luccicanti appartamenti vista mare rimarrebbero vuoti, con
le ricadute del caso su economia nazionale e banche. In aiuto al meccanismo sono arrivati i rifugiati. I siriani, presenti in
Libano prima del 2011, erano la manodopera preferita nei cantieri della capitale. Adesso, senza alcuna assicurazione
e con un stipendio medio di 20 dollari al giorno, in calo del 50% rispetto a prima della guerra, costruire costa ancora meno.
Beirut è tutto questo. Cammini per le strade della città senza renderti conto che ha già deciso. Ha già deciso cosa fare con
te. I suoi odori e la sua bassa vivibilità diventano un’arma contro coloro che non sono benvenuti. Eppure se aspetti e ti fermi,
ti accorgi che Beirut è capace di donarti uno spazio. Il tuo spazio.
di Davide Lemmi
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su
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