La Letteratura - Fondazione SInAPsi

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RIVISTA DI APPROFONDIMENTO CULTURALE DELLA FONDAZIONE SINAPSI

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Editoriale Lo specchio della società

Soprattutto nell’ultimo trentennio del secolo, si è assistito ad un progresso che ha cambiato l’approccio verso il mondo della disabilità.

Infatti la sensibilità degli editori verso tali tematiche è cresciuta notevolmente, come pure è aumentato il numero dei lettori che si sono avvicinati a queste problematiche per cercare di capire e comprenderne le difficoltà.

Ciò nonostante, ritengo necessario tenere sempre alta la guardia: impegnarsi e responsabilizzarsi affinché il termine indicare,

diversamente abile

non sia usato più solo come un segno di rispetto, molte volte ipocrita, ma voglia

persone con abilità differenti.

E penso anche al termine

extra comunitario

, usato tante volte senza che si accetti nella sostanza questa diversità… di religione, razza e origine.

Migliorare la qualità della vita di persone che si trovano per una miriade di motivi ad avere dei deficit di vario tipo, necessita di un percorso a 360 gradi: non è sufficiente l’aiuto tecnologico e psicologico.

La persona che deve progettare la propria vita, sviluppare al massimo la personale autonomia, ha bisogno di un contesto culturale adeguato nel quale non devono assolutamente esistere barriere di nessun tipo. Solo così può fare dei progressi in tutti i campi e sentirsi sicura.

Poiché la letteratura è come un grande specchio nel quale si riflettono desideri, paure, disagi, ansie, ecco che tanto possono gli autori, letterati che, attraverso questo potente mezzo, sanno arrivare alla mente e al cuore di chi legge e, se valenti, possono farlo con grande incisività.

Nel passato l’argomento letterario più trattato era la follia: oggi invece ci sono testi nei quali gli autori mostrano attenzione e sensibilità verso tante forme di disabilità e si parla sempre di più di persone con difficoltà in modo naturale, consapevoli che queste stesse persone il più delle volte sanno dare molto di più delle persone così dette normodotate.

Orione in questo numero svela grandi firme.

Non cito gli autori, ma li ringrazio per la loro opera, attraverso la quale ci saranno sempre meno contesti inadeguati.

Approfitto inoltre per fare a tutti voi gli auguri di un Santo Natale e un Felice 2017 e lo faccio con una nuova veste grafica, frutto di un progetto moderno e accattivante.

Buon lavoro a tutti.

Attilio Sofia

Presidente Fondazione Sinapsi 1

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Le parole dell’autobiografia Per la formazione umana Linguaggi Duccio Demetrio

Professore ordinario di filosofia dell’educazione e della narrazione alla Università Bicocca di Milano

PASSATO

La scrittura autobiografica si fonda sul passato. Sfata la convinzione che noi si viva solamente nel presente, nelle sue felicità o drammatiche ferite. Siamo il nostro passato anche quando non vorremmo più fare i conti con lui; desidereremmo dimenticarlo per sempre. Il passato ci può perseguitare, far gioire e desiderare il presente e il futuro. Accoglierlo, accettarlo è uno degli scopi della scrittura autobiografica. La sua è una dimensione esistenziale, indica la totalità del nostro essere stati ed essere, si impiccia del nostro futuro anche quando preferiremmo di no. La sua lingua è ora poetica, ora drammatica; ora dolcissima e malinconica, ora preziosa ora maligna. Insomma, se

siamo in fuga da noi stessi,

se non vogliamo rivisitare quello che ci è accaduto affidandoci alla scrittura, tra ragioni e sentimenti, meglio sarà sceglieremo di dedicarci ad una scrittura creativa, fantasiosa, piuttosto che affrontare con coraggio, trasfigurandoli con la penna, i fatti che hanno marcato indelebilmente la nostra storia.

MEMORIA

La memoria nell’antichità classica era considerata una dea (

Mnémosine

), era la madre di ogni arte. Poiché i nostri talenti – per i greci – oltre ad essere un dono degli dei affondavano nelle radici, nel passato, di chi ci aveva preceduto. La memoria era considerato un destino fecondo, fortunato, generativo: chi avesse accettato di raccoglierlo, talvolta di riscattarlo, in premio avrebbe ricevuto il dono, oltre che della fama, di sapere quale fosse il proprio destino. Le memorie sono molte: nella nostra mente vanno e vengono a seconda delle esigenze pratiche del presente o della rievocazione autobiografica: sono di tipo emotivo, sensoriale, fattuale, relazionale…La scrittura in solitudine o quando ci si affidi ad un laboratorio di scrittura, si incarica di farci sperimentare questa tipologia, ma soprattutto è affascinante e entusiasmante offrire alle diverse memorie trame, intrecci, plot. Il suo compito è dunque di carattere ri compositivo. Un’ operazione, questa, che se soltanto mentale o orale, se di una certa complessità, è destinata all’ insuccesso. Ed è in questo processo di riorganizzazione narrativa, romanzesca, autoanalitica dei nostri vissuti che man

Ogni storia è legata a chi ci ha nutrito, educato, insegnato a camminare a leggere e a scrivere, ad amare, a credere e via dicendo

mano dalle pagine affiora il nostro profilo. Scopriremo che se anche esse non saranno mai la copia esatta di quel che crediamo di essere, ci assomiglieranno non poco.

ALTRO

Nel corso del nostro scrivere la nozione di

Altro

, assume significati diversi: ci sono

gli altri

, innanzitutto, il nostro prossimo. Ogni storia è legata a chi ci ha nutrito, educato, insegnato a camminare a leggere e a scrivere, ad amare, a credere e via dicendo. In una certa misura un’ autobiografia, pur affidata alla sensibilità e al discernimento di un Io narrante, assume quasi sempre un valore corale. Affiorano volti dal passato, gli incontri fatali, gli affetti, le fedeltà e i

tradimenti, le colpe e le espiazioni dei quali gli altri sono stati responsabili o rispetto alle cui vite abbiamo avuto un peso. Gli altri sono il banco di prova della nostra maturazione umana, del nostro altruismo, piuttosto che del nostro egocentrismo e narcisismo. Ma, con questo concetto, dobbiamo anche intendere, i tanti momenti “altri” della nostra vita: mi riferisco a tutto quanto è rimasto enigmatico, non abbiamo ben compreso, irrisolto, misterioso. Mi avvalgo di un esempio: amori perduti e mancati, scelte disattese, cose rimaste avvolte tra le nebbie dei ricordi. L’altro, insomma, è tutto quanto non siamo riusciti ben a capire, a definire, a possedere, a desiderare. In una autobiografia, anche questi lati oscuri, queste ombre, queste domande inevase e inquietanti contano non poco e con esse non fa male confrontarsi, sfidandole mutandole in storie dedicate ai nostri incontri, appunto, con l’Altro.

PAROLA

Le parole (scritte) sono l’ anima più autentica dell’autobiografia. Non v’è dubbio che possiamo raccontarci usando anche altri mezzi espressivi: il corpo, la fotografia, la musica, la pittura… Tuttavia se vogliamo essere coerenti con questo genere narrativo (e qualche volta anche letterario) è al termine

Gràphein

(scrivere), che

Duccio Demetrio, professore ordinario di filosofia dell’educazione e della narrazione alla Università Bicocca di Milano, ha lasciato l’ insegnamento per dedicarsi alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Ar) e ad Accademia del silenzio; associazioni no profit da lui fondate nel 1998 e nel 2010. È autore di molte opere di carattere filosofico dedicate alla scrittura, all’educazione, ad alcuni temi salienti della condizione umana.

dobbiamo il merito di consentirci di recapitolare nella consapevolezza e nella coscienza di essere esistiti la nostra storia, anzi le tante storie che abbiamo interpretato in una realtà di cui sovente ci sfuggivano possibilità e limiti: unica comunque sempre; simile a quella di tanti altri, in assoluto però soltanto nostra. Sono le parole scritte quindi, che potranno in seguito essere lette o ascoltate. Però redatte da noi in prima persona, nell’orgoglio di saperle agire, muovere a piacere, andare a cercarle, affinarle, correggerle finalmente anche senza maestri. Sono parole che aiutano chi decide di scrivere perché ha bisogno di ritrovare il filo della sua intricata matassa; parole che ci fanno sentire autori, ancora con un filo di energia e di attaccamento alla vita. Scopriamo così che scrivere è arte della cura, talvolta persino una via terapeutica. Secondo la lezione filosofica più antica: terapia come coltivazione di sé, della propria anima, del proprio presente afflitto nel quale facciamo posto, sempre, al passato allo scopo di liberarcene, paradossalmente, però trattenendolo sulla carta…

OBLIO

Oblio, obliare, obliato:

sostantivo, verbo, aggettivo. Dobbiamo considerarle tutte e tre queste parole: rappresentano gli avversari dannosi che attentano imperterriti ai benefici di

Mnémosine

, come ho sottolineato. L’oblio non è la smemoratezza, inutile è tentare di arginarlo, di uscirne vincitori. Noi dimentichiamo, ed anche per nostra fortuna e salvezza; in caso contrario il perdono, la misericordia, la riconciliazione sarebbero eventi impossibili. Nella grande sua caverna (l’inconscio?) finiscono i giorni, le persone conosciute, i nostri atti e misfatti, che siamo ben contenti di obliare. L’oblio (anch’esso una divinità:

Lete

) è amico e nemico al contempo: ci impedisce di racimolare ricordi e rimembranze, quando cerchiamo la materia necessaria per la scrittura autobiografica. Però nondimeno la sua ineliminabile presenza e voracità; ci aiuta, diceva Marguerite Yourcenar, a

scolpire

la nostra storia. Ci pensa lui a aiutarci a scoprire quanto di più essenziale è importante scrivere. I fatti quindi obliati, e irrecuperabili, occorre accettare che restino la zavorra che abbiamo buttato a mare, coscienti o meno. Può darsi, qualche volta, che la penna riesca a riportarli a galla, misteriosamente, e allora sarà una gran festa offrire il nostro libro alla dea della memoria.

PER APPROFONDIRE D. Demetrio,

Didattica dell’intelligenza

, F. Angeli, 1995 Idem, Raccontarsi.

L’autobiografia come cura di sé

, R. Cortina, 1996 Idem,

Il gioco della vita. Trenta proposte per il piacere di raccontarsi

, Guerini, 1998 Idem,

Ricordare a scuola

, Laterza, 2003 Idem,

Album di famiglia

.

Scrivere i ricordi di casa

, Meltemi, 2003.

Idem,

La scrittura clinica

. Cortina, 2008 Idem,

Perché amiamo scrivere

. 2011 Idem

Educare è narrare

, Mimesis, 2012 Idem,

I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora

, Mimesis, 2012 Idem,

Green Autobiography

, Booksalad, 2015 Idem,

Scritture d’ amore. Scrivere i sentimenti taciuti

, Mimesis, 2015

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Linguaggi Flatlandia, storia di una società a due dimensioni I rapporti tra letteratura e matematica Marco Crespi

Redattore ed esperto in didattica della scienza Parlare di letteratura e matematica non è così difficile come possa sembrare. I due mondi, che agli occhi dei giovani studenti sono come il bianco e il nero, l’inferno e il paradiso, il fuocoe l’acqua, non sono poi così lontani. Immaginate di costruire un racconto. Ci vuole fantasia, certo. Ma bisogna anche costruire un ambiente, identificare bene i personaggi e le relazioni tra loro, dargli una serie di caratteristiche, definire le leggi che valgono nel mondo narrato e che saranno diverse se parlo di un epoca o di un’altra, se scrivo un romanzo fantasy o un giallo realista. Ora, giriamo lo sguardo, apriamo un libro di matematica e cosa ci troviamo: la definizione degli oggetti prima di tutto, quegli oggetti che poi faremo muovere come burattini -che siano numeri, simboli o figure geometriche poco importa. Poi giriamo qualche pagina e andiamo a scoprire quelle che sono le relazioni possibili tra di loro, congruenze, similitudini, opposti… Infine, o prima di tutto, c’è il mondo in cui loro vivono, con le sue proprietà. Ed ecco che abbiamo gli stessi elementi di una narrazione. Il problema è che i ragazzi non vedono questa costruzione. Viene data per scontata. La geometria è quella di Euclide, i numeri sono i soliti, i naturali, i reali, con le loro regole stabilite. Ma chi della matematica ha fatto il suo mestiere sa che gli spazi vanno inventati, le regole si possono scegliere. Così sono nate tante branche della nuova matematica, così sono nate le geometrie euclidee. Il desiderio di raccontare storie nuove dove in spazi diversi gli stessi oggetti si comportassero in modi differenti. Anche strani, perché no. Dall’altro lato la Matematica è sempre stata un argomento nella letteratura. Ci sono fior di libri, saggi molto seri e testi divertenti che affrontano questa contaminazione. Ci sono le storie dei matematici, spesso avventurose, ci sono gialli alla ricerca di un teorema, ci sono storie d’amore. Il panorama è vasto e ognuno di questi tasselli ci dà uno spunto, ci dà uno sguardo sulla matematica narrata.

FLATLANDIA

Ma c’è un libro, uno in particolare, che usa proprio la matematica come struttura della sua narrazione. La geometria in particolare. È un libro profondo nel suo essere divertente e sarcastico. Si tratta di vedere.

Flatlandia

, scritto nel 1884 da Edwin A. Abbott. Il libro è la storia di una società che vive in un mondo a due dimensioni. Ogni personaggio ha identificato il suo grado sociale dal numero di lati che possiede, dal clero che tende al cerchio fino alla plebaglia che sono pericolosi triangoli con un angolo via via più acuto. Meno intelligenti ma pericolosi, in quanto pungenti. Fino all’estremo inferiore rappresentato dalle donne -dei semplici segmenti- obbligate a muovere una delle estremità per farsi Prima di continuare, un piccolo appunto sulla questione femminile: il libro è una satira, neanche tanto velata, al maschilismo imperante di epoca vittoriana. Questo va detto, visto che per oltre un secolo, alcuni passi del libro hanno generato accuse di misoginia sulla testa del reverendo Abbott. Il libro rappresenta in modo esemplare la costruzione di un mondo e dei suoi protagonisti. È intorno alla figura di un quadrato che si evolve tutta la storia. Tra il quotidiano e le rivolte. Fino alla scoperta, grazie all’incontro del quadrato con un sfera, dell’esistenza della terza dimensione. Le difficoltà sociali del povero quadrato nel fare accettare la sua scoperta ma anche… Il finale non lo raccontiamo qui. Per non togliervi il piacere della scoperta. Basta solo dire che in quel finale c’è tutta la magia di un libro che aiuta ad andare oltre ciò che vediamo. Un libro che insegna a non fermarsi e a non accettare quello che gli altri affermano essere la normalità. A scoprire che ci sono altri mondi, con altre regole e altri personaggi che, se anche all’inizio fanno paura, il loro incontro ci può solo far crescere. Che sia solo una questione di geometria o, più profondamente, di vita, sta solo al lettore deciderlo.

Psicologia C’era una volta… Il piacere di leggere

Stefania Lauri

Psicoterapeuta Consulente La Nostra Famiglia 5 C’era una volta… e si apre un mondo: si può viaggiare nel tempo, nello spazio, in luoghi lontani e sconosciuti, abitandoli con la propria fantasia.

L’incipit con cui il pensiero libera nel bambino la sua capacità immaginifica, per costruire scenari inediti, vivere emozioni, formulare giudizi.

La lettura non è solo un piacevole passatempo, è la fonte, per bambini e adulti, di esperienze sconosciute che si integrano con la propria realtà, mettendo le basi per costruire la propria cultura.

Nelle fiabe i bambini possono distinguere in modo netto il bene dal male, possono vivere l’emozione della paura più terribile, scoprendo che è superabile, si possono identificare con il personaggio che più li rappresenta, vivendo con lui incredibili esperienze e forti emozioni, possono inoltre arricchire il proprio linguaggio di parole che, pur non appartenendo al loro quotidiano, diventano facilmente comprensibili, senza tante spiegazioni.

Fino a qui tutto sembra facile, la lettura è associata al piacere dell’ascolto, alla curiosità di come va a finire la storia, all’osservazione incantata dell’immagine, poi viene la letteratura, come materia scolastica e qui le cose si complicano.

Subentrano l’analisi logica, quella grammaticale, la ricerca sul vocabolario dei significati delle parole sconosciute, il sapere cosa era nell’intenzione dell’autore, la valutazione della comprensione del testo, rispondendo a domande precise.

Il libro può diventare un oggetto nemico, fonte di fatica, in cui viene sacrificata la curiosità di scoprire cosa ci vuole dire, a favore di cosa si dirà al prof!

Così anno,

I Promessi Sposi l’Iliade La

,

Divina l’Eneide

e diventa una lunghissima storia da leggere in un

Commedia l’Odissea

nomi e i nessi parentali.

un’opera colossale, zeppa di cose da sapere, dei tomi pieni di personaggi di cui ricordare i Gli insegnanti si trovano nel difficile compito di seguire i programmi ministeriali, senza far perdere agli allievi il piacere della lettura! Ma chi questo piacere riesce a mantenerlo, avrà fra le mani uno strumento tanto semplice, quanto prezioso.

Ciascuno può usare la lettura nel modo che gli è più congeniale: per soddisfare i propri bisogni di conoscenza o per immergersi in storie che fanno dimenticare la propria o meglio che fanno condividere con l’autore, al di là delle vicende narrate, emozioni simili, in un processo di identificazione e differenziazione dai personaggi, che danno il senso di una magnifica appartenenza al genere umano, al di là delle epoche storiche e delle esperienze vissute.

La letteratura è una compagna di vita, allontana i pensieri faticosi, fa compagnia nei momenti di solitudine, allena la propria capacità critica e arricchisce la propria esperienza di vita: è un modo affascinante per conoscere se stessi, attraverso le storie di altri, che l’autore ci racconta.

Penso che non si possa chiedere di più a dei pezzi di carta rilegata, che emanano un profumo di stampa, pieni di parole, che aspettano solo di sprigionare tutta la loro capacità comunicativa ed il loro potere di assorbire totalmente i nostri pensieri.

I lettori non risolveranno leggendo i propri problemi esistenziali ma, come tutte le esperienze che mettono in contatto con il mondo dell’arte, possono vivere dei momenti di piacere durante i quali è legittimo dire: «E vissero felici e contenti…»

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Psicologia Il bisogno di dare significato alla vita Narrazione e spazio transizionale

Susanna Chiesa

Psichiatra e socio analista CIPA, Centro Italiano Psicologia Analitica

La narrativa, a partire dalle storie che narriamo ai bambini, apre il mondo interno, lo nutre e struttura, consente i processi di identificazione, l’empatia, permette lo sviluppo della curiosità e della conoscenza

Immaginiamo un bimbo piccolo nel suo letto, la mamma gli siede accanto e mormora una ninna nanna, una storia o forse una filastrocca… Gli occhi del piccolo si chiudono ma lui indugia ancora nel limite fra veglia e sonno mentre nelle mani stringe un lembo della copertina o un animale di peluche.

Le sue dita toccano, accarezzano, giocano con una parte dell’oggetto morbido, il movimento è ritmico, sempre più lento finché il sonno sopraggiunge.

La voce materna ha accompagnato il bambino nel sonno.

Questa sequenza ritrae ciò che lo psicoanalista D. Winnicott ha definito come

fenomeni transizionali

e l’oggetto morbido scelto dal piccolo

oggetto transizionale

, un’area intermedia di esperienza tra il me e non me, qualcosa che il bambino usa come difesa dall’angoscia e a cui ricorre nei momenti di depressione o di stanchezza.

Si tratta di un’area che consente l’

illusione

egli

vede

e che nell’adulto è rappresentata dall’arte e dalla religione.

La possibilità di fantasticare e pensare nascerebbe in questo spazio ponte fra realtà e illusione, dove è possibile il formarsi del simbolo.

Nell’ascoltare una favola il bambino immagina: draghi, orchi, fate e streghe si rappresentano nel suo immaginario, nella sua mente ciò che non vedrà mai nella realtà.

Eppure queste immagini saranno per lui significative come ciò che ha il carattere della realtà concreta, pur non avendone mai fatta esperienza diretta.

La possibilità di immaginare, di rappresentare simbolicamente qualcosa apre la mente e ne consente lo sviluppo. La stessa acquisizione del linguaggio procede attraverso la percezione della mancanza e la necessità di richiamare l’oggetto assente ma rappresentato nel mondo interno.

C’è una storiella molto significativa in proposito: un bambino cresce ma non parla. I genitori consultano diversi specialisti, ma il bambino rimane silenzioso. Un giorno a colazione, improvvisamente chiede lo zucchero. I genitori stupiti, gli chiedono come mai si sia deciso a parlare e il bambino risponde: «Perché oggi a tavola manca lo zucchero, mentre gli altri giorni era già sul tavolo e non c’era bisogno di

chiederlo…» Questa sequenza descrive ironicamente una realtà psicologica: per dare un nome, richiamare l’oggetto occorre anche la sua assenza. Se tutto è troppo presente e concreto, si perde lo spazio del desiderio e della rappresentazione simbolica.

La realtà si appiattisce sul possesso dell’oggetto.

La narrativa, a partire dalle storie che narriamo ai bambini, apre il mondo interno, lo nutre e struttura, consente i processi di identificazione, l’empatia, permette lo sviluppo della curiosità e della conoscenza.

La letteratura declina l’universale umano e, parlando dell’altro, rivela anche qualcosa del lettore.

Scelgo le parole con cui la scrittrice Marlene Haushofer apre il suo romanzo racconto.

sconfigga».

La parete voglio perdere la

nell’esistenza.

, per provare a dire l’impulso che può spingere un Autore a scrivere un

«…Non scrivo per il gusto di scrivere; vi sono costretta dalle circostanze, se non ragione...mi sono imposta questo compito per impedirmi di fissare il crepuscolo e di aver paura. Perché ho paura. Da ogni lato la paura striscia verso di me, e non voglio attendere che mi raggiunga e mi

Di quale paura parliamo? La paura del vivere, del morire, del dolore e del male che rimane in agguato o irrompe Nella letteratura Autore e Lettore stringono una sorta di alleanza in cui si è in grado di condividere l’illusione della vicenda narrata.

Spesso, anche se non siamo degli scrittori, ricorriamo alla scrittura per tentare di elaborare i nostri vissuti più intimi, le esperienze più intense.

Il bisogno di dare senso, parole e immagini, la necessità di trasformare e dare significato alla vita che viviamo ogni giorno, muove al racconto, alla storia, al narrare.

Mi rendo conto che nel mio lavoro di analista i romanzi spesso possono essere

suggeritori

accorti, quando per esempio il ricordo di una trama, di un ambiente o personaggio, affiora dalla memoria richiamato e attivato dal contesto della seduta. L’emergere del materiale associativo non è mai casuale ma illumina e dà senso al materiale presentato dal paziente.

A. Ferro suggerisce di osservare lo

stile narrativo

del paziente e porre attenzione ai evoluzione.

personaggi

che si avvicendano nel campo analitico, considerandone caratterizzazione ed Sappiamo tutti come l’arte sia un elemento prezioso nel mestiere di analista, chiamata nelle sue diverse espressioni e secondo l’equazione personale di ogni terapeuta, non solo a dare senso al lavoro analitico, ma soprattutto a nutrire e curare la mente.

BIBLIOGRAFIA Ferro A.

la psicoanalisi come letteratura e terapia

Cortina ed. Milano, 1999 Haushofer M.

La Parete

E/O ed. Roma 1973 Winnicott D.

Gioco e realtà

Armando ed. Roma, 1983 7

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Quello che le fiabe non dicono La letteratura come strumento terapeutico Scuola

Lorella Giannattasio

Docente di Lettere I.C. D’Angiò - Trecase, Napoli

Il racconto fiabesco, nonostante la veste apparentemente fantastica e surreale, è profondamente radicato nella realtà umana, di cui mette in scena gli aspetti più significativi

Il ricordo delle storie ascoltate durante l’infanzia, che narrano prodigiosi accadimenti di luoghi indefiniti e senza tempo, ci accompagna per tutta la vita; ciò nonostante, le fiabe, etichettate semplicisticamente come letteratura per bambini, sono sbrigativamente liquidate come innocente narrativa di second’ordine. A dispetto delle apparenze, invece, le fiabe popolari, rappresentano un genere letterario estremamente complesso e denso di implicazioni pedagogiche e psicologiche.

Esse affondano le radici nell’antichissima tradizione spontanea orale e, dopo un secolare processo di stratificazione culturale, sono giunte a noi grazie alla sapiente opera di ricomposizione condotta da scrittori-trascrittori che, in epoca moderna, hanno raccolto e rielaborato il materiale scritto che circolava in forma sparsa. Nel suo celebre saggio

Le radici storiche dei racconti di fate

(1946), Vladimir Propp mise in relazione le fiabe con i riti di iniziazione che sancivano il passaggio dall’infanzia all’età adulta presso le comunità primitive. Secondo l’antropologo russo, l’immaginario sociale avrebbe esercitato dei condizionamenti sul prodotto culturale e la fiaba avrebbe ereditato ed inglobato i simboli presenti negli antichi rituali, facendoli suoi: le difficili prove di coraggio che il ragazzo doveva sostenere per poter varcare la soglia della pubertà, per esempio, avrebbero lasciato traccia in alcuni motivi ricorrenti, come quello dell’allontanamento da casa o dell’abbandono nel bosco. In questo senso, le fiabe si configurano come moderni rituali iniziatici, in cui il bambino fa i conti con le sue emozioni, in particolare con le sue paure.

TRA BENE E MALE

A differenza dei racconti moderni, che evitano qualsiasi minimo accenno ad aspetti dolorosi della realtà e presentano ai bambini esclusivamente immagini piacevoli, le fiabe popolari non rinunciano a rappresentare nessuna immagine del reale, mettendo in scena sia il bene che il male: il piccolo lettore, pertanto, si trova a fare i conti con una scelta di carattere morale e, dal momento che subisce la seduzione esercitata dalla figura dell’eroe buono e finisce per identificarsi con esso, opta per il bene. In questo senso la fiaba, pur non ostentando, come invece accade nel genere della favola, una chiara funzione

LA FIABA: STRUMENTO DI ACCESSO ALLA SFERA EMOTIVA

La fiaba, infatti, essendo un oggetto culturale noto e familiare, grazie ai processi che attiva in modo non manifesto, diventa uno strumento privilegiato per poter accedere alla sfera emotiva dei bambini e per creare agganci alla loro psiche. Volendo credere che tutti i bambini siano portatori di

specialità

, e volendo intendere l’insegnamento come ricerca e applicazione di strategie e metodologie di intervento personalizzate e in grado di soddisfare i bisogni speciali di ogni alunno, il ricorso alla fiaba nella pratica didattica si configura come scelta davvero inclusiva per ogni specifica individualità, ma, soprattutto, per quelle che la letteratura di settore e la recente normativa definiscono

Bisogni Educativi Speciali

.

Ogni piccolo lettore, infatti – è questa la vera magia della fiaba – , interpreterà la fiaba in modo diverso, personalizzandola e intercettando le risposte ed i significati di cui ha bisogno, esorcizzerà le sue ansie e le sue paure, proiettandole sulle immagini archetipiche che offrono percorsi validi per affrontarle e superarle. La paura ci accompagna in ogni fase della vita ed ogni fase ha le sue paure specifiche. I bambini potranno rileggere le fiabe in tempi differenti della propria evoluzione e ad esse attribuiranno significati diversi a seconda del momento, assimilando ciò per cui sono pronti e tralasciando ciò di cui non hanno ancora bisogno.

LE FIABE A SCUOLA

A scuola – come in famiglia - le fiabe andrebbero lette prestando la dovuta attenzione all’atmosfera, al tono di voce, agli sguardi, alla mimica del lettore, che devono contribuire a creare un clima di complicità; il bambino deve potersi sentire in un ambiente sicuro e protetto e deve poter cogliere la valenza affettiva del gesto che sta

moralistica e moralizzante, si configura ugualmente come straordinario strumento di formazione morale. Il racconto fiabesco, quindi, nonostante la veste apparentemente fantastica e surreale, è profondamente radicato nella realtà umana, di cui mette in scena gli aspetti più significativi. La fiaba è sospesa in una dimensione atemporale, perché essa sonda quei processi interiori profondi che fanno da sempre parte dell’animo umano: questo spiega il ricorrere dei medesimi temi in culture differenti. Create da adulti per aspiranti adulti, le fiabe rappresentano ed esternano le paure universali dell’uomo: il processo di esternazione e di condivisione all’interno di un ricorrente e rassicurante impianto narrativo permette di elaborarle e superarle.

Da quanto detto finora, si evince chiaramente come, da un punto di vista didattico, lavorare sulla fiaba a scuola possa avere una duplice finalità educativa: dovendo tralasciare quella legata agli aspetti prettamente linguistici e narratologici, in questa sede si propone il ricorso alla fiaba come strategia alternativa per una proposta didattica inclusiva.

LA FIABA: STRUMENTO DI ACCESSO ALLA SFERA EMOTIVA

La fiaba, infatti, essendo un oggetto culturale noto e familiare, grazie ai processi che attiva in modo non manifesto, diventa uno strumento privilegiato per poter accedere alla sfera emotiva dei bambini e per creare agganci alla loro psiche. Volendo credere che tutti i bambini siano portatori di

specialità

, e volendo intendere l’insegnamento come ricerca e applicazione di strategie e metodologie di intervento personalizzate e in grado di soddisfare i bisogni speciali di ogni alunno, il ricorso alla fiaba nella pratica didattica si configura come scelta davvero inclusiva per ogni specifica individualità, ma, soprattutto, per quelle che la letteratura di settore e la recente normativa definiscono

Educativi Speciali

.

Ogni piccolo lettore, infatti – è questa la vera magia della fiaba – , interpreterà la fiaba in modo diverso, personalizzandola e intercettando le risposte ed i significati di cui ha bisogno, esorcizzerà le sue ansie e le sue paure, proiettandole sulle immagini archetipiche che offrono percorsi validi per affrontarle e superarle.

Bisogni

La paura ci accompagna in ogni fase della vita ed ogni fase ha le sue paure specifiche. I bambini potranno rileggere le fiabe in tempi differenti della propria evoluzione e ad esse attribuiranno significati diversi a per cui sono pronti e tralasciando ciò di cui non hanno ancora bisogno.

seconda del momento, assimilando ciò

Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere. (G. Chesterton)

compiendosi. Il

setting

d’aula andrebbe rivisto in funzione di tali obiettivi: la disposizione dei bambini in cerchio, attorno al docente lettore - narratore, riproponendo la lettura attorno al focolare, crea un ambiente familiare e favorevole e attiva le abilità di ascolto e di concentrazione. Anche la produzione di fiabe, da parte dei bambini, può rivelarsi un efficace strumento terapeutico, in grado di risolvere o comprendere problemi emozionali o comportamentali. Inventando la sua fiaba, il bambino trova una strada familiare per liberare, proiettandole sui personaggi, emozioni nascoste o represse: identificandosi in uno dei suoi personaggi, riuscirà a parlare di sé in modo impersonale, vincendo inconsapevolmente le sue segrete resistenze. Vale la pena ricordare che esistono anche fiabe create ad hoc da psicoterapeuti, che sfruttando appieno le potenzialità compreso.

fine.

curative

del genere letterario, attivano soluzioni a problemi che popolano l’inconscio del bambino, rassicurandolo e facendolo sentire La fiaba rassicura, offre sempre al bambino le risposte di cui egli ha bisogno. La fiaba insegna che, nonostante le difficoltà incontrate, al protagonista è sempre garantito il lieto

LE FIABE A SCUOLA

A scuola – come in famiglia - le fiabe andrebbero lette prestando la dovuta attenzione all’atmosfera, al tono di voce, agli sguardi, alla mimica del lettore, che devono contribuire a creare un clima di complicità; il bambino deve potersi sentire in un ambiente sicuro e protetto e deve poter cogliere la valenza affettiva del gesto che sta BIBLIOGRAFIA B. Bettelheim,

Il mondo incantato

, Feltrinelli Vladimir Propp,

Le radici storiche dei racconti di fate

, Bollati Boringhieri P.Santagostino,

Guarire con una fiaba

, Feltrinelli

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Scuola Come aprire brecce nel muro dell’infelicità Soltanto la Letteratura ci può svelare il mistero del professor Giampietro

Milena Agus

Scrittrice

La Letteratura.

Più di ogni altra cosa è l’espressione di ciò che ci rende umani nella nostra ricerca di senso e più di tutto ci dice quanto abbiamo in comune fra noi

Non sono un cuor contento e le volte in cui ho avuto l’occasione di esserlo ho sentito come la felicità sia ingenua quando è ignara di quanto la terra sia instabile sotto i nostri piedi. Pensando agli infelici mi dicevo: «Non sono la figlia della gallina bianca».

Ma l’allegria data dalle infinite possibili felicità non mi abbandona mai. E su queste possibilità si basano le mie storie, il piacere di scriverle e che qualcuno le legga.

Senza queste possibilità mi sembrerebbero storie inutili, che è la cosa peggiore.

Insegno Italiano al Liceo e sempre mi chiedo a cosa serva la Letteratura. Senz’altro a proporre altri modi di pensare, di vivere, a inventare altre realtà rendendole così vere che il lettore finisce per considerarle in qualche modo esistenti.

Per questo, nel mio piccolo, racconto che è possibile aprire brecce nel muro dell’infelicità. Il succo di tutto quello che ho scritto sta, in fondo, nell’epigrafe di

Mentre dorme il pescecane

. Pinocchio e Geppetto sono dentro il pescecane, perduti.

«E ora?» domandò Pinocchio. «Ora, ragazzo mio, siamo bell’e perduti». «Perché perduti? Datemi la mano babbino, e badate di non sdrucciolare». «Dove mi conduci?» «Dobbiamo tentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura».

Mentre il pescecane dorme, quando il respiro del mostro butta fuori una gran quantità d’acqua dalla bocca, pronti, al momento giusto, Pinocchio e Geppetto si lasciano trascinare dall’onda e si salvano. Così fanno tutti gli altri personaggi delle mie storie: aprono brecce nei muri e li scavalcano togliendo a poco a poco i cocci di bottiglia. La Letteratura, dal mucchio indistinto del gran numero degli umani, ne sottrae qualcuno e in questo qualcuno è possibile immedesimarsi, stabilire una fratellanza. Se quel personaggio ce l’ ha fatta, non è che ce la posso fare anch’io?

I miei non sono certo personaggi splendidi, le bellissime come la zia di

Mentre dorme il pescecane

, o Madame di

Ali di babbo

, o la nonna di

Mal di pietre

, o il piccolo Carlino pianista genio della

Contessa di ricotta

non se li fila nessuno. Sulla felicità gli studiosi hanno detto di tutto. Alcuni storici hanno concluso che la gioia della nostra comoda borghesia urbana non è niente in confronto a quella di un gruppo di cacciatori raccoglitori del Paleolitico dopo una caccia fortunata a un mammut. Antropologi, filosofi,

psicologi, sociologi, medici hanno perfino sottovalutato l’importanza del benessere economico, delle conquiste della medicina, della quantità di serotonina e dopamina nel sangue che renderebbe alcuni Sapiens naturalmente felici. Gli scienziati hanno tentato con la vita bionica. Retina Implant, una società tedesca sponsorizzata dal governo, sta sviluppando una protesi retinica in grado di consentire ai ciechi di acquisire una vista parziale. I ciechi saranno allora felici? Se la risposta fosse ancora un no, a che sarebbe valso il progresso?

La felicità, concludono, sta nel senso della vita: «Una vita che ha senso può essere estremamente soddisfacente anche in mezzo alle difficoltà, mentre una vita senza senso è un travaglio terribile, per quanto confortevole essa sia». È a questo punto che penso c’entri in qualche modo la Letteratura. Più di ogni altra cosa è l’espressione di ciò che ci rende umani nella nostra ricerca di senso e più di tutto ci dice quanto abbiamo in comune fra noi. Un singolo personaggio è sempre il risultato di numerose persone somiglianti. Una storia inventata riesce a diventare vera, questo è il suo potere. Da poco mi è capitato di leggere un romanzo che mi aveva convinto che la nostra vita è senza senso e l’infelicità una condanna a cui non possiamo fuggire. Ero a letto malata con la febbre, ma la conclusione era talmente insostenibile che ho messo uno straccio sopra la camicia da notte e sono corsa in libreria a cercare una storia che mi convincesse del contrario. A proposito di tutto questo mi piacerebbe riuscire a scrivere un racconto sul professor Giampietro.

A scuola avevamo una collega che sapevamo sposata a un cieco. Sapevamo che ne era molto innamorata e l’avevamo immaginato di sicuro bellissimo. Ora lei non insegna più da noi, ma è lui, il professor Giampietro, il nostro collega ed è tutt’altro che bellissimo. Grande e largo, si accartocciano su di lui giacche, camicioni e pantaloni sbrindellati da randagio. Al suo apparire ci siamo resi conto di quanto fosse stata rozza la nostra stupidità. Forse che un cieco debba compensare con la bellezza il fatto di non vederci? Ma la stupidità non ha fine e abbiamo allora concluso che per forza doveva essere un genio. Soprattutto perché il professor Giampietro procedeva alla conquista degli studenti. Allievi maleducati erano perfetti gentleman alle sue lezioni, gli annoiati e i demotivati stavano attenti a non perdere una virgola. Di sicuro, ci dicevamo, è un genio. È cieco, non è bello, quindi è un genio. Per scoprire il segreto del suo fascino alcuni dei colleghi chiedevano delle lezioni in copresenza. Ottime lezioni, ma niente di più. Eppure veniva voglia di partecipare, perché il professor Giampietro, senza dire o fare nulla di particolarmente spiritoso, metteva una grande allegria e senza elevarsi all’altezza del genio metteva una gran voglia di studiare e amare il mondo, di perdonarlo e di essergli solidale. Di nuovo ci siamo vergognati della nostra rozza stupidità, ma senza arrivare a nessuna conclusione. Perché il professor Giampietro, cieco, non bello, non genio, avvolto nei suoi panni da randagio, è tanto affascinante? Cos’ha di speciale? Qual è il suo segreto? Forse qualcosa che ha a che fare con la possibilità di essere felici, idea irresistibile per qualunque umano? Non possiamo saperlo con altro mezzo che facendolo diventare un personaggio.

Anche se non ho neppure iniziato a scrivere il racconto, so già quale sarà la scena finale. La moglie viene a prenderlo a scuola, li vedo allontanarsi, di spalle, lui che affonda la mano nei magnifici capelli di lei che gli fa da guida. La guida è piccola ed esile, colui che viene guidato è grande e largo. Devo far capire al lettore che hanno trovato una breccia e che dal muro dell’infelicità hanno tolto i cocci di bottiglia. Devo convincere il lettore che nella pancia del pescecane potevano essere perduti e hanno trovato il modo di fuggire.

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Tecnologie Da un mondo di carta a un mondo di bit Evoluzione della diffusione culturale

Aldo Torrebruno

Ricercatore nel campo della media education presso il Politecnico di Milano e “lettore forte”

Stiamo assistendo a un momento di svolta storico, in cui la forma stessa del libro, da sempre nostro punto di riferimento per il sapere, sta radicalmente cambiando

Negli ultimi anni il rapporto tra tecnologia e letteratura è cambiato in maniera radicale, in particolare grazie alla diffusione sempre più capillare di strumenti hardware che consentono la lettura di libri elettronici

ebook

Gli

reader

dall’altro i

ebook

con tecnologia

tablet reader

.

-ebook e-ink,

ovvero di inchiostro elettronico, -Amazon Kindle l’effetto che può offrire un libro non sono retroilluminati, quindi e Kobo sono i più noti- simulano , o come loro principale prerogativa, o tra le altre possibili attività. La distinzione tra le due tipologie di hardware è il primo passo da cui occorre partire: da un lato infatti abbiamo i cosiddetti cartaceo, perché possono essere letti anche in piena luce solare e soprattutto non stancano la vista ed è possibile utilizzarli per leggere per molte ore. Inoltre hanno batterie di lunga durata, che possono mantenere la carica anche un mese. Gli ebook reader hanno principalmente una sola funzionalità: la lettura, e non prevedono se non in forme estremamente basilari altre funzionalità; le versioni più evolute presentano un sistema di illuminazione della pagina integrato, che consente anche di leggere al buio senza dover utilizzare una sorgente luminosa esterna. Dall’altro lato abbiamo invece il variegato mondo dei tablet: i più noti commercialmente sono sicuramente gli

Apple iPad

e i

Samsung Galaxy tab

, ma ne esistono di ogni formato e di ogni prezzo. I tablet sono di fatto dei computer portatili con il solo schermo e funzionalità touch, e tra le altre attività per cui sono pensati, permettono anche di leggere ebook. Da un lato sono dispositivi molto più complessi e completi rispetto agli ebook reader, consentendo anche la navigazione Internet, l’invio e la ricezione di mail, la modifica e la lettura di documenti, la possibilità di videogiocare, e molto altro ancora; dall’altro si rivelano sicuramente meno efficaci per la semplice attività di lettura, poiché presentano sempre retroilluminazione, il che rende di fatto impossibile utilizzarli in piena luce solare, e causa un rapido scaricamento della batteria, che raramente arriva a più di 3-4 giorni prima di necessitare una ricarica.

In entrambi i casi, però, questi dispositivi stanno cambiando in maniera radicale sia le abitudini di lettura, sia il modo in cui autori e editori stanno pensando alla forma del libro, che ci ha accompagnato

pressoché immutata da Gutenberg in poi. Come sempre una nuova tecnologia -e con Walter Ong consideriamo anche la scrittura una tecnologia- porta con sé grandi cambiamenti nel modo in cui fruiamo della stessa, e come ha rilevato Marshall McLuhan, il medium che utilizziamo è talmente importante da divenire il messaggio stesso che comunichiamo. Noi stiamo ora assistendo, in definitiva, a un momento di svolta storico, in cui la forma stessa del libro, da sempre nostro punto di riferimento per il sapere, sta radicalmente cambiando. Se da un alto è troppo presto per comprendere tutta la portata di tali cambiamenti, dall’altro non possiamo non osservare i primi fenomeni che portano con sé, soprattutto se consideriamo che, nonostante una lieve flessione nel 2015, le analisi di mercato affermano che nel 2018 si acquisteranno in Italia più ebook che libri tradizionali.

Dobbiamo ammettere che, in questo caso, Umberto Eco aveva torto, evento raro! Il grande scrittore e filosofo scriveva infatti in una famosa Bustina di Minerva risalente al 2000:

«I libri da leggere non potranno essere sostituiti da alcun aggeggio elettronico. Son fatti per essere presi in mano, anche a letto, anche in barca, […] si leggono tenendo la testa come vogliamo noi, senza imporci la lettura fissa e tesa dello schermo di un computer, amichevolissimo in tutto salvo che per la cervicale. Provate a leggervi tutta la Divina Commedia, anche solo un’ora al giorno, su un computer, e poi mi fate sapere».

Ed è vero, leggere Dante sullo schermo di un computer è un’impresa infernale, ma gli ebook reader possono essere letti ovunque, proprio come i libri e consentono di tenere la testa comodamente appoggiata sul cuscino, esattamente come per i loro omologhi di carta. Chi scrive ha passato una settimana su un’isola remota della Croazia, senza elettricità, col suo fido ebook reader, e ha potuto leggere sulla spiaggia una dozzina di libri, quindi migliaia di pagine… avendo portato con sé il peso equivalente ad un unico volume cartaceo in formato economico! Il testo elettronico ha poi altri vantaggi: per esempio è

liquido

: consente a ciascun lettore un’impaginazione adatta alle proprie capacità visive o ai propri gusti. In tal senso gli ebook sono davvero rivoluzionari: la pagina non è un’entità bloccata dall’editore, ma può avere caratteri molto grandi -preziosissimo aiuto per chi ha difficoltà visive- o molto piccoli, può essere più o meno fitta, avere caratteri con o senza grazie…insomma, può rispettare le esigenze di ogni lettore. Inoltre tutti i sistemi che permettono di leggere ebook consentono anche la funzionalità

text-to-speech

, ovvero la possibilità di lasciare che una voce sintetica legga ad alta voce il libro, il che rappresenta una straordinaria opportunità per ipo e non vedenti.

Infine il libro elettronico porta con sé anche una filiera di edizione e distribuzione che può essere notevolmente accorciata e davvero rivoluzionata: molti casi editoriali nel campo degli ebook, sui vari store online, sono oggi rappresentati da autori che si auto-pubblicano, saltando l’intermediazione delle case editrici e rinunciando all’oggetto fisico di carta in favore di quello fatto di bit. La capacità di promuovere il proprio lavoro, assieme a quello strumento di grande potenza che Surowiecki ha battezzato

saggezza della folla

naso ai bibliofili. può garantire ampi spazi anche ad autori indipendenti, pur facendo storcere il In definitiva, possiamo dire di essere davvero in un momento di passaggio, in cui molte delle dinamiche connesse all’attività più diffusa e più nota del mondo -raccontare e leggere storie-, sta cambiando in maniera radicale. Non possiamo sapere che direzione prenderà, ma siamo certi che la letteratura e la lettura, in qualsiasi forma, ci accompagneranno per sempre.

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Educazione Un libro per tutti… Il Braille come strumento di lettura

Le mani di Erika scorrono leggere e veloci tra le righe. È seduta a indiano sul suo letto con il grande libro aperto sulle gambe e la testa sollevata, come in ascolto, in ascolto delle parole che, appena accennate dal movimento delle sue labbra, emergono dalle pagine e diventano emozione sul suo viso. Quando parla dei libri e del suo amore per la lettura e per la scrittura, le compare un sorriso quasi automatico sul suo volto.

tranquilla «Scrivere, inventare storie fantastiche mi aiuta ad essere più

– mi racconta –

Leggere è il mio passatempo preferito, trascorrerei ore e ore con i miei libri, peccato che siano così pesanti e difficili da trasportare.» Manuela, una bambina non vedente dalla nascita, legge con le dita e, come tanti altri bambini della sua età, considera la lettura una porta che le permetta di immergersi in una dimensione altra. Come avviene con un amico, il libro è un punto di riferimento, un appoggio, un compagno fedele di avventure, di pensieri, d’immagini che entusiasmano.

Il libro apre anche alla relazione con l’altro, è individualità e universalità.

«Questa è la parte più bella di tutta la letteratura: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

(Francis Scott Fitzgerald).

La lettura, nella sua dimensione individuale ed intimista, fa riscoprire all’uomo moderno ipertecnologicizzato, iperdigitalizzato ed ipervelocizzato la qualità del tempo e del prendersi cura di sé.

Carmen Bruna Ibello

Pedagogista tiflologo Fondazione Sinapsi

«Interrogo i libri e mi rispondono. E parlano e cantano per me. Alcuni mi portano il riso sulle labbra o la consolazione nel cuore. Altri mi insegnano a conoscere me stesso».

(Francesco Petrarca) Il libro, nell’odierna progressiva dematerializzazione del reale, resta l’ultimo baluardo della conservazione di tempi sostenibili e soggettivamente organizzati secondo logiche legate unicamente all’individualità lettore. Del resto la lettura è pensata per un consumo lento, per acuire le percezioni emotive, mettendo in contatto il sé del lettore con idee, personaggi e situazioni credibili e profonde, reali e fantastiche.

Riappropriarsi dei propri tempi, secondo le singole esigenze è presupposto fondamentale di una visione del bambino prima e dell’uomo poi che permetta comprensione della diversità e reale inclusione. Spesso capita ancora di incontrare resistente ideologiche e, a mio avviso, anti-inclusive, minimizzando l’uso del codice braille, o addirittura condannando la per acquisire il

suo fatica

cognitiva e il tempo più lungo a cui un bambino non vedente è esposto

impegno

codice di letto scrittura. Sarebbe utile spazzar via accezioni scorrette e negative già nella loro denominazione. La fatica andrebbe sostituita con la parola , presupposto necessario e fondamentale insito in qualsiasi obbiettivo da perseguire; il tempo più lungo è quello che naturalmente viene richiesto alla conoscenza tattile rispetto all’immediatezza di quella visiva. Louis Braille nel 1829 dischiuse le porte della cultura alle persone non vedenti, mettendo a punto un sistema di letto-scrittura tattile puntiforme. Esso è composto da una cella formata da 6 puntini disposti su due colonne. Dalle 63 combinazioni differenti di puntini a rilievo è possibile riprodurre le lettere dell’alfabeto, le vocali accentate, le cifre, i segni matematici, i segni di interpunzione e le note musicali. La struttura e la dimensione della cella Braille, 7x4 millimetri, rispondono perfettamente alle esigenze della lettura tattile, permettendo ai polpastrelli la percezione dell’intera superficie della cella e contemporaneamente la distinzione dei singoli puntini che la compongono. Nonostante siano passati secoli questo è stato ed è il codice di letto-scrittura senza il quale l’accesso e la produzione di cultura alle persone prive di vista sarebbero preclusi. Le innovazioni e i supporti tecnologici hanno modificato e migliorato la qualità della vita per i vedenti come per le persone non vedenti; ma la diffusa tendenza ad impiegare supporti audio in sostituzione alla lettura tradizionale tattile, non solo in campo scolastico/ lavorativo, ma anche ricreativo riduce il piacere ed i tempi legati alla lettura. Il libro in qualsiasi codice di letto scrittura sia prodotto resta un

medium

insostituibile i cui aspetti culturali, affettivi e sociali sono evidenti a tutte le età, in tutte le culture ed in qualsiasi epoca. Come disse lo scrittore e fumettista statunitense, il Dr. Seuss

più posti visiterete».

«Più leggerete e più cose saprete, più cose saprete e

Testimonianze La rocca incantata Dalla storia alla realizzazione di un libro tattile

Abbiamo chiesto a Nello di raccontarci la sua esperienza di creazione di un libro tattile, La Rocca Incantata Nello Capuano

Bambino di 11 anni della Fondazione Sinapsi 15 Ma come nasce un libro? Io ho avuto la fortuna di fare questa esperienza unica.

Mi ricordo che in terza elementare abbiamo realizzato un libro che si intitola «La rocca Incantata». Michele Casella ci ha aiutati a realizzare e a scrivere questa magnifica storia.

Ogni classe ha inventato dei personaggi, dei luoghi, degli abiti e abbiamo immaginato che i fatti si svolgessero a Roccapiemonte, il paese della nostra scuola delle elementari.

Ognuno di noi ha fatto dei disegni aderenti alla storia, poi sono stati scelti i più belli; non è stato affatto semplice unire le idee di ognuno di noi e poi facendo dei passi avanti ci siamo resi conto di come stava venendo bene la storia, di come essa stava nascendo sotto le nostre mani.

Abbiamo letto più volte le parti mischiate tra di loro per capire come dovevamo finirla e dopo tanti tentativi la storia si è conclusa.

Le parti mischiate che abbiamo inventato alla fine della storia sono state separate in capitoli e poi è nato questo bellissimo libro: la storia di amicizia tra due Topini.

Noi eravamo soddisfatti del lavoro svolto insieme a tutte le classi dell’Istituto delle Suore Francescane Alcantarine. Il nostro libro si è diffuso in tutte le zone dell’Italia.

Questa esperienza mi ha fatto capire che la letteratura è importante, perché serve a diffondere la cultura in tutto il mondo.

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Tante storie tra le mie mani Ho insegnato l’amore per la lettura ai miei alunni Testimonianze

Anna Cortesi

Coordinatrice Scuola Infanzia di Mandello del Lario

Sentii il desiderio di creare un angolo lettura e individuai, all’interno dell’aula, lo spazio che meglio sembrava rispondere alle esigenze dei bambini che avrebbero ascoltato

È universalmente risaputo che, in genere, un avido lettore è stato un bambino cresciuto tra i libri. Coccolato nella primissima infanzia dall’ascolto di letture di fiabe, abituato a ricevere libri in dono in occasione del proprio compleanno. Più avanti, affascinato da argomenti di natura culturale trattati in famiglia, o frequentemente solito ad osservare un genitore assorto tra una lettura e l’altra. La mia passione per la lettura nacque invece in un contesto di deprivazione culturale. Un giorno, a metà degli anni sessanta, mentre frequentavo le scuole elementari, vidi recapitare a casa di una cugina il primo testo dell’Enciclopedia

Conoscere

, acquistata dagli zii tramite il sistema

porta a porta

. Il mio viaggio nel mondo della conoscenza iniziò grazie a questi testi, magici ai miei occhi di bambina, che, mese dopo mese, arrivavano tramite posta e che io aspettavo, neanche fossero miei, con la stessa curiosità di chi sta per ricevere un pacco a sorpresa. Da allora cominciai a chiedere libri in dono, come regalo di Natale e per tutti i miei compleanni a seguire.

Quando, appena terminato il ciclo di studi alle magistrali, iniziai ad insegnare in una scuola dell’infanzia, ero ben consapevole di quanto fosse importante per i bambini accedere precocemente all’ascolto di svariate tipologie di lettura per uno sviluppo armonico delle loro competenze. Dovevo però scoprire quali strategie adottare per iniziare con loro quell’avventura che aveva portato me, sognando ad occhi aperti, a esplorare quei mondi inimmaginabili in cui venivo catapultata ogni qualvolta che avviavo un nuovo libro.

Inizialmente iniziai a leggere in classe le fiabe classiche. Racconti la cui origine si perde nel tempo e tutti popolati di fate, streghe, gnomi, animali dotati di poteri soprannaturali che nel loro agire manifestano una nutrita gamma di comportamenti umani. Non c’era bimbo, negli anni settanta, che non conoscesse, almeno per sommi capi, la storia di Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola e tante altre ancora. Il mio intento era quello di promuovere nei bambini l’abitudine e l’amore per la lettura stessa, ma anche di aiutarli, attraverso la trama delle favole, a trarre suggerimenti utili al superamento delle difficoltà che via via si sarebbero potute presentate durante il loro percorso di crescita.

Man mano che il mio spirito di osservazione si affinava, cominciai ad analizzare il comportamento

dei bambini, non sempre adeguato, durante l’attività di ascolto. Mi resi conto che, per attirare l’attenzione di tutti e allungare i tempi di permanenza attiva di ciascun bambino presente nel gruppo, non fosse sufficiente proporre storie nuove dai contenuti più o meno accattivanti, ma che avrei dovuto meglio strutturare il mio fare attraverso l’organizzazione di spazi e tempi ben definiti. Sentii il desiderio di creare un angolo lettura e individuai, all’interno dell’aula, lo spazio che meglio sembrava rispondere alle esigenze dei bambini che avrebbero ascoltato. L’angolo dei libri fu reso accogliente grazie ad una libreria appositamente costruita dal falegname di fiducia della scuola e da un ampio materasso rivestito di stoffa colorata. Una discreta quantità di testi, tra quelli in dotazione alla scuola, furono selezionati e sistemati dai bambini sui ripiani del nuovo mobile. I bambini ebbero un nuovo spazio che dimostrarono nel tempo di saper utilizzare anche in autonomia, rispettando le regole stabilite per una corretta fruizione e imparando a prendersi cura dei libri a disposizione. Ebbi inoltre modo di verificare, attraverso il monitoraggio e la raccolta dati tramite griglie, come nei bambini l’incontro spontaneo con il libro aiutasse a migliorare sia lo sviluppo del linguaggio, in tutti i suoi aspetti, che quello creativo mediante la lettura delle meravigliose immagini che completano i testi di letteratura infantile.

Anche il tempo da dedicare alla lettura divenne un rituale della giornata scolastica finalizzato a creare nei bambini la piacevole aspettativa nei confronti di un’attività che arriva sempre in un preciso momento del quotidiano.

Con l’esperienza anch’io divenni più abile nel coinvolgere meglio i bambini all’ascolto grazie alla capacità acquisita nel modulare la voce, nel rispettare il ritmo che il racconto esige e nell’utilizzare momenti di pausa per accogliere tutte quelle genuine divagazioni emozionali che il contenuto del testo riesce a suscitare. L’attività di lettura è per me un momento di crescita personale e ancora oggi, dopo tanti anni di lavoro, quando leggo a voce alta ai bambini che mi ascoltano curiosi, avverto la magia del rapporto che si instaura tra me, i bambini e i libro che ho nelle mani. Uno dei vantaggi della scuola dell’infanzia, rispetto ad altri ordini di studi, dove esiste una strettissima relazione tra apprendimenti e valutazione, è quello di poter utilizzare la lettura per accrescere le competenze cognitive e sociali dei bambini sfruttandone al massimo la sua gratuità. Un’occasione da non perdere per promuovere nei piccoli il piacere della scoperta e del capire, nella convinzione che possa continuare a vivere anche quando l’impegno scolastico diventerà più oneroso.

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Il trattato di Marrakesh L’accesso alla lettura dei libri Territorio

Giampiero Griffo

Membro del Consiglio mondiale di Disabled Peoples’ International

È più complicato per una persona analfabeta leggere un libro che per una persona cieca

Il libro è un patrimonio culturale a cui dovrebbero avere accesso tutti. Sembra un’affermazione ovvia, ma purtroppo non è così scontata. Nata su supporti poco pratici -le terrecotte sumere cuneiformi, le tavolette ricoperte di cera degli stylo romani-, la scrittura ha poi utilizzato i papiri e le pergamene, per poi arrivare infine alla carta. Con l’invenzione dei caratteri mobili da utilizzare per la stampa da parte di Gutemberg e le conseguenti macchine linotypiche, l’accesso al libro cartaceo -prima costoso e riservato ad un numero limitato di beneficiari- è divenuto alla portata di tutti. L’ultimo passaggio, quello della scrittura elettronica, ha ulteriormente allargato il campo della diffusione del libro che può essere inviato a distanza e stampato con comodo. Per una persona cieca quest’ultimo formato consente di leggere il libro attraverso un particolare programma informatico, a condizione che il documento, il file, sia prodotto in un determinato formato leggibile per mezzo di un software di sintesi vocale. Cioè un testo scritto viene trasformato in un formato vocale.

Questo ha prodotto un paradosso: è più complicato per una persona analfabeta leggere un libro che per una persona cieca. I limiti naturali – prima invalicabili – oggi sono superati dai prodotti delle nuove tecnologie.

Questa straordinaria rivoluzione ha sviluppato un dibattito vivace sul rischio della sparizione del libro cartaceo. I fiumi di inchiostro spesi su questa polemica, oggi appaiono prematuri. Sembra che il libro cartaceo non sparirà, però il libro in formato elettronico accessibile non ha ancora la diffusione che vorremmo per le persone cieche o ipovedenti. Per esempio google ha avviato la digitalizzazione dei libri delle biblioteche nazionali di vari paesi, ma in un formato poco accessibile. Le tecnologie inappropriate infatti possono produrre barriere.

Le persone cieche o ipovedenti fino all’altro ieri usufruivano solo dei volumi trascritti in braille -molto ingombranti e poco maneggevoli- o dei libri parlati -libri letti da lettori volontari e forniti gratuitamente alle persone cieche tramite le biblioteche di Monza e di Feltre. Sono soluzioni che prevedevano un numero limitato di opere disponibili e tempi relativamente lunghi di produzione.

La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite (2006) ha introdotto un

principio importante: le persone con disabilità

«abbiano accesso ai prodotti culturali in formati accessibili»

(art. 30); ed ha impegnato gli stati ad adottare

«tutte le misure adeguate, in conformità al diritto internazionale, a garantire che le norme che tutelano i diritti di proprietà intellettuale non costituiscano un ostacolo irragionevole e discriminatorio all’accesso da parte delle persone con disabilità ai prodotti culturali».

Infatti l’obiezione degli editori e degli autori è che dare accesso ad un libro in formato elettronico consentirebbe la riproducibilità del volume a terzi, danneggiando le vendite delle case editrici e quindi i proventi degli autori, il cosiddetto copyright.

Nel 2013 l’approvazione del Trattato di Marrakesh

per facilitare l’accesso ai testi pubblicati alle persone cieche, con incapacità visive o altre difficoltà ad accedere al testo stampato,

approvato su impulso dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (OMPI), ha definito uno standard internazionale sul tema. Il trattato ha introdotto il principio che il diritto d’autore trova una importante deroga di fronte alla necessità di permettere ai non vedenti o ipovedenti di accedere su un piano di parità al sapere. ll documento contiene eccezioni alla proprietà intellettuale solo per i testi destinati a persone con disabilità visiva (in audio, Braille, con caratteri ingranditi o in versione elettronica). Il trattato, inoltre, sancisce che tali libri possano essere scambiati, a livello transnazionale, fra organizzazione e organizzazione.

Un totale di 51 paesi ha sottoscritto il trattato nella conferenza diplomatica di Marrakech. Per entrare in vigore era prevista la ratifica del trattato da parte di almeno 20 paesi quota, raggiunta nel giugno 2016. Purtroppo l’Italia non ha ancora ratificato il trattato ed è tra i paesi che ne rallentano l’applicazione.

L’Unione Europea ha sottoscritto il trattato e sotto la presidenza greca ha spinto i paesi a ratificarlo, ma in concreto all’interno dell’Unione sono sorte delle remore ad una conclusione rapida dell’iter procedurale, che si cerca di superare attraverso la strada della ratifica da parte dell’Unione per tutti i 28 paesi membri Per evitare estensioni abusive, si pensa di limitare l’esenzione alle sole biblioteche specializzate per ciechi o ipovedenti.

Sono sorte divergenze tra Unione Europea ed alcuni dei suoi paesi membri sulla competenza in materia. L’Unione propende per una sua competenza esclusiva, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Romania, Slovacchia e Slovenia per una competenza concorrente.

Il 3 marzo 2015 è stata presentata una interrogazione al Parlamento europeo: che a fronte delle indiscrezioni secondo cui Italia, Germania e Regno Unito, insieme ad altri Paesi, starebbero bloccando il Trattato di Marrakesh,

di Marrakech” “si impegna a collaborare attivamente con gli attori interessati per trovare una soluzione pragmatica ai fini dell’adesione al trattato

ancora lunga.

, lo stesso è avvenuto a fine maggio 2015 al Senato Italiano. La strada per una piena tutela dei diritti umani delle persone con disabilità è 19

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Vi porto in mondi altri Intervista commossa a Franco Arminio, poeta scrittore e regista Intervista

Francesca Porrari

Assistente sociale Fondazione Sinapsi

È verissimo che scrivere è un tentativo di salvarsi ma nello stesso tempo è un modo di calarsi sempre più nel pozzo di se stessi e di restare imprigionati in esso

Si definisce paesologo, autore del blog

Comunità provvisorie.

Mi piace perché fa sue molte battaglie civili, perché difende con l’anima e con il cuore il paesaggio che vive, e quello che vivono gli uomini. Con Terracarne edito da Mondadori, ha vinto il premio Carlo Levi e il premio Volponi; ma non è solo questo quello che fa di lui un grande autore del nostro tempo. Ho scelto di intervistare perché mi commuove, perchè i suoi scritti sono mappa e guida nei territori interiori.

Maestro di geografia emotiva, esperto delle zone dell’osso, Franco Arminio, poeta irpino, ogni volta che posa lo sguardo sui paesi dell’Italia interna da Comiso a Merano ce ne fa innamorare.

«Andate in giro dove non va nessuno, turisti della clemenza, viaggiatori che non cercano solo la bellezza, l’armonia, la solarità, ma i posti più sperduti e affranti, i posti che aspettano qualcuno che li guardi, li riconosca, prima che diventino luoghi senza storia e senza geografia».

Quanto l’autore si allontana dal reale o vi si immerge per esprimere una nuova parola?

Gianni Celati ad esempio parla di fantasticazione come atto fondamentale al vivere umano.

Qual è il grado di contaminazione tra la memoria del reale e l’immaginazione?

Non credo di saper rispondere a questa domanda. In effetti scrivere non significa sapere le cose. Io parto da inquietudini, mai da sapienze. Mi fido di quello che dice Celati, anche se il suo concetto di fantasticazione non è affatto semplice. Io non so bene cosa sia l’immaginazione, comunque non mi pare una cosa separata a cui attingere. Immagino, mi immagino, mi pare che non si faccia altro, sempre, anche quando non scriviamo.

Ci sono dei luoghi privilegiati per produrre la letteratura? Luoghi antropologici, pregni di significazione relazionale, identitaria e storica, che conciliano l’autore col compito di produrre l’immaterialità della parola.

Posso rispondere per me: il mio luogo per scrivere è il mio paese. Si può dire che io non vivo nel mio paese, io scrivo nel mio paese. Praticamente da quando ero adolescente non ho fatto altro. Posso pensare, in modo un po’ arbitrario, che il mio paese sia più adatto di altri luoghi per la scrittura. Ci sono luoghi intensi e luoghi gradevoli. Il mio paese è un luogo intenso. La scrittura è un tentativo di intensità, almeno nella mia visione, ed ecco che ho costituito una parentela tra la scrittura e un paese di montgna, freddo, desolato, leggermente ostile. Forse la scrittura ha

bisogno del vento contrario e nel paese il vento contrario non manca mai. Quella che viene chiamata comunità, almeno nel luogo in cui vivo, si manifesta come un conclave degli scoraggiatori militanti. Nel mio caso scrivere è stato, almeno all’inizio, un tentativo di lenire l’infiammazione della residenza.

Il periodo in cui viviamo è caratterizzato da una grande instabilità sociale e identitaria che espone continuamente l’individuo a situazioni di rischio, rendendolo vulnerabile, richiedendogli degli sforzi per allinearsi a equilibri di volta in volta nuovi. Come si inserisce la letteratura in questo contesto?

È una domanda che richiederebbe una risposta sconfinata. Intanto a me viene da dire che esistono ancora gli scrittori, esistono i libri, ma la letteratura come ambito specifico direi quasi non esiste più. Il mondo non chiede nulla alla letteratura. Le parole stanno in bocca a tutti. Siamo tutti mercanti del frastuono. Non c’è un silenzio in cui ad un certo punto arriva la parola degli scrittori. Direi che la drammaticità della situazione, una situazione che io definisco di autismo corale, impone agli scrittori di dismettere ogni sperimentalismo vacuo, ogni compiacimento autoriferito. La scrittura deve essere un gesto caldo, accorato, diretto.

Qual è il rapporto dello scrittore con la parola? La scrittura aiuta a capire le cose? Se è una cura, chi scrive come se lo vive questo rapporto con la scrittura? Qual è il ruolo dello scrittore in questo processo di cura? La cura stessa è una forma di ossessione/ malattia?

Ovviamente ogni scrittore ha il suo rapporto con le parole. Se scrivere è una cura, io direi che facilita la crescita, ma non la salute. Ed è verissimo che scrivere è un tentativo di salvarsi ma nello stesso tempo è un modo di calarsi sempre più nel pozzo di se stessi e di restare imprigionati in esso. Lo scrittore è sempre al lavoro, non riposa mai. Nella mia idea è una creatura che ha le ore contate, è uno che non si sente mai al sicuro. La lingua nel suo muoversi in un certo senso aumenta l’instabilità, come se smuovesse il terreno su cui stiamo appoggiati. La questione della malattia è comunque cruciale. Kafka brutalmente diceva che poesia è malattia. Io penso la stessa cosa. Si parte dalla malattia e nel mio caso anche dalla morte. La morte mi colpisce, mi smuove la lingua, direi che è il lato della vita a cui rispondo più facilmente. Alla morte non riesco a sfuggire. La vita mi pare una cosa più vaga, la vita è presente in dosi omeopatiche nella mia vita e direi anche nella mia scrittura. La mia questione è il morire. La parola agisce sia in maniera lenitiva che in maniera abrasiva. Mi combatte e mi difende.

Arminio la poesia la fa con il corpo e con i luoghi ed è per questo che gli ho chiesto di regalarci una riflessione sui luoghi della letteratura e sulla vulnerabilità umana, insomma su vita e morte. Grazie Franco per aver diviso con noi.

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Le mie storie non sono il mondo dei sogni Intervista a Simonetta Agnello Hornby Intervista

Gabriella Sorrentino

Direttore responsabile Orione e designer

È una responsabilità atroce, cercare di dare i messaggi giusti, fare del bene a chi legge

Mi faccio coraggio, le scrivo un messaggio su Facebook, perché non riesco a trovare la sua mail privata.

Lei non solo mi risponde, ma si preoccupa anche di organizzare l’intervista nel più breve tempo possibile, per rispettare la data di scadenza come da brief.

Lei ha vissuto ad Agrigento fino ai dodici anni, oggi vive a Londra dal 1972, dove fonda il primo studio legale in Inghilterra che pensa a dedicare un dipartimento ai casi di violenza all’interno della famiglia, oltre che ad occuparsi prevalentemente di comunità musulmane e nere.

Quando le telefono, nessun convenevole: entriamo subito nel vivo della mia intervista. Sono a telefono con Simonetta Agnello Hornby: la conosciamo anche per aver scritto, tra gli altri,

Caffè amaro

, caso letterario dell’anno.

Pragmatica, lavora come avvocato e come scrittore per ottenere quello che vuole.

«Quello che voglio in tribunale, è che il giudice ascolti, e spero che accetti le tesi del mio cliente»

determinazione;

decisioni»

vuole: infatti, mi confessa , mi confida senza mascherare la sua forte

«quello che voglio con i miei libri è che chi legge ascolti quello che scrivo, guardando la situazione dal mio punto di vista, e poi prenda le sue

. Lei mette la mente anche quando cucina. Schiva, non ama la fama. Una donna dai grandi contrasti: fuori dalle righe -forse l’unica donna in città a quei tempi a fumare la pipa in pubblico-, le piacerebbe molto non essere riconosciuta per strada, perché così si sentirebbe più libera di agire. Anche se io non ho alcun dubbio che lei faccia comunque quello che

«hanno dovuto insegnarmi la timidezza»

. Se le chiedi del futuro, lei non sa dove andremo a finire. Ma sa dove siamo e

«siccome io sono pratica, cerco di rendere la vita un po’ migliore ora, a tutti, per come siamo».

Quanto l’autore si allontana dal reale o vi si immerge per esprimere una nuova parola? Gianni Celati ad esempio parla di fantasticazione come atto fondamentale al vivere umano. Qual è il grado di contaminazione tra la memoria del reale e l’immaginazione?

Ho lavorato felicemente come avvocato fino ai cinquantacinque anni e poi mi è venuta la Mennulara in mente, come se fosse stato un film. Mi allontano dal reale quando devo. Scrivo quando ho tempo. A volte faccio una passeggiata e penso al romanzo. Questa frase, “fantasticazione come atto fondamentale del vivere umano”, non la capisco. Tra il lavorare e lo scrivere la differenza non è molta. Se per esempio

faccio un lavoro di cucito, mi immergo nei ricordi e nell’immaginazione e non penso al filo. La Mennulara

in 19 lingue)

dettagli i fatti.

(ndr, il romanzo d’esordio del 2002. tradotto

Il libro, che ha ricevuto vari premi italiani e stranieri è nato con un’illuminazione: io ero in attesa di salire su un aereo e ho iniziato a vedere la storia nella mia mente. Non ho mai dimenticato il consiglio del mio primo editore, Alberto Rollo. «Devi permettere al lettore di immaginare», una cosa per me difficilissima, abituata a descrivere nei

Ci sono dei luoghi privilegiati per produrre la letteratura? Luoghi antropologici, pregni di significazione relazionale, identitaria e storica, che conciliano l’autore col compito di produrre l’immaterialità della parola.

Io scrivo dovunque. Avevo tanto da fare perché facevo ancora l’avvocato. Appena trovavo una mezz’ora libera, scrivevo il film che avevo visto con la mente. Se avevo più tempo facevo le scene più complicate.

Il periodo in cui viviamo è caratterizzato da una grande instabilità sociale e identitaria che espone continuamente l’individuo a situazioni di rischio, rendendolo vulnerabile, richiedendogli degli sforzi per allinearsi a equilibri di volta in volta nuovi. Come si inserisce la letteratura in questo contesto?

Con la mia letteratura non si esce dalla realtà. Il mondo che io descrivo è spesso brutto: non c’è giustizia. Non scrivo per creare un mondo più bello e più giusto dove mettere i miei personaggi. Io racconto ingiustizie, il mio obiettivo è quello di informare, intrattenere ispirare e dare speranze. Vivo di speranza. Chi legge deve decidere quello che vuole.

Qual è il rapporto dello scrittore con la parola? La scrittura aiuta a capire le cose? Se è una cura, chi scrive come se lo vive questo rapporto con la scrittura? Qual è il ruolo dello scrittore in questo processo di cura? La cura stessa è una forma di ossessione/ malattia?

Cerco di non scrivere mai un libro per dare piacere e basta. Io scrivo anche messaggi. È una responsabilità atroce, cercare di dare i messaggi giusti, fare del bene a chi legge. Sono soddisfatta del mio ruolo di avvocato, ma non di quello di scrittore. ho ancora tanto da imparare. Voi intellettuali usate belle parole, ma io non le conosco. Mentre scrivevo la Mennulara, ho avuto la bruttissima notizia della diagnosi di mio figlio

(ndr, sclerosi multipla primaria progressiva)

. Io feci di tutto per dimenticarlo, ma non ci riuscivo. Qualunque cosa facessi, non riuscivo a dimenticare. Invece scrivendo lo dimenticavo, perché entravo nel mondo dell’immaginario. E mi dimenticavo, per cui ho scritto per dimenticare. Sappiamo tutti che la lettura trasporta in altro mondo lontano dalla realtà. Ho imparato, scrivendo, che scrivere da anche sollievo e piacere, tanto quanto leggere. Così avviene anche quando una qualsiasi cosa - un fiore, un insetto, una vetrina- concentra l’immaginazione. Ad esempio, io disegno. Disegnando si può anche dimenticare, perché ci si immerge in quello che si fa. Impegnare mente e mano.

Non esistono bene e male, per lei. Crede nella giustizia - di cui fa parte anche l’amore per la vita e per gli altri-, Simonetta Agnello Hornby: per lei è un dovere. La giustizia c’è perché il mondo non è perfetto:

«non possiamo vivere insieme e amarci senza giustizia. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro».

Mi piace pensare che, anche grazie a tutte le storie che ci raccontiamo, che ci racconteremo, avremo un mondo più giusto, un giorno o l’altro.

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La Fondazione

Fondazione SInAPsi è una realtà socio-psico-educativa che offre servizi in favore di persone nella fascia d’età da zero a diciotto anni con disabilità visiva e plurima. L’équipe della Fondazione predilige l’approccio psico-educazionale per raggiungere la famiglia e il suo sistema di relazioni. La metodologia si articola in diverse fasi: l’osservazione, la consulenza e l’affiancamento a genitori, insegnanti e operatori dei servizi territoriali. La presa in carico del bambino avviene considerando il contesto di riferimento per favorire l’inclusione.

Aree

— Sociale — Psicologica — Pedagogica — Ortottica — Educativa — Tiflologica — Tecnologie assistive

Servizi

— Consulenza — Valutazione — Diagnosi visiva — Valutazione visiva funzionale — Progettazione del piano socio-psico-educativo — Affiancamento — Formazione

Laboratori

— Educazione visiva — Psicologia della percezione e dell’arte — Gioco condiviso affettività e comunicazione — Psicoeducativo fratelli — Training educativo — Attività espressive per genitori — Tiflologico — Tiflo-informatico

CENTRO IN.TER.MEDIA

Fondazione SInAPsi risponde alle esigenze di innovazione tecnologica al servizio della persona con disabilità con il progetto del centro In.Ter.Media, che dispone di un laboratorio informatico con le più aggiornate tecnologie assistive.

ANNO 3

N. 9

Dicembre 2016 Direttore responsabile

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Editore

Fondazione SInAPsi

Rappresentante legale

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Comitato di redazione

Alessandra de Robertis Stefania Lauri Francesca Porrari Luca Spagnulo

Progetto grafico

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Stampa

Grafica Metelliana Rivista quadrimestrale anno 3, numero 9 - Dicembre 2016 Testata regolarmente iscritta al Tribunale di Salerno Reg. n. 20 del 12 dic 2013

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Redattore ed esperto in didattica della scienza

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Psicoterapeuta Consulente La Nostra Famiglia

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Susanna Chiesa 

Psichiatra e socio analista CIPA, Centro Italiano Psicologia Analitica

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Lorella Giannattasio

Docente di Lettere I.C. D’Angiò - Trecase, Napoli

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Milena Agus

Scrittrice

Aldo Torrebruno 

Ricercatore nel campo della media education presso il Politecnico di Milano e “lettore forte”

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Carmen Bruna Ibello 

Pedagogista tiflologo Fondazione Sinapsi

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Nello Capuano

Bambino di 11 anni della Fondazione Sinapsi

Anna Cortesi

Coordinatrice Scuola Infanzia di Mandello del Lario

Giampiero Griffo

Membro del Consiglio mondiale di Disabled Peoples’ International

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Francesca Porrari 

Assistente sociale Fondazione Sinapsi

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Gabriella Sorrentino

Direttore responsabile Orione e designer

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