Il Sole 24 Ore - 15 Dicembre 2016_Parte1

Download Report

Transcript Il Sole 24 Ore - 15 Dicembre 2016_Parte1

Soluzioni semplici per
proteggere bene la salute,
la casa e il tenore di vita!
e
Vieni a scoprir su
ti
i nostri prodot
oup.it
www.uniqagr
€2*
In Italia, solo per gli acquirenti edicola e fino ad esaurimento copie:
in vendita abbinata obbligatoria con Biblioteca Multimediale - Come
si legge il Sole (Il Sole 24 Ore € 1,50 + Come si legge il Sole € 0,50)
UNIQA Assicurazioni SpA - Milano - Aut. D.M. 5716 18/08/1966 (G.U. 217 01/09/1966)
Poste italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003
conv. L. 46/2004, art.1, c. 1, DCB Milano
Giovedì
15 Dicembre 2016
IMAGOECONOMICA
Via libera con 169 sì e 99 voti contrari - Ala e Lega non votano
POLITICA 2.0
Fiducia anche al Senato
per il governo Gentiloni
«Ora completare le riforme»
Emilia Pattau pagina 11
La Fed alza i tassi
di 25 punti base
Tre rialzi nel 2017
pLa
Federal Reserve come
previsto ha alzato il costo del denaro di 25 punti base, portandolo
allo 0,50-0,75%. È il secondo aumento degli ultimi dieci anni.
Nel 2017 previsti tre aumenti an-
zicché due come indicato a settembre. «È un voto di fiducia nell’economia statunitense» ha detto la presidente Janet Yellen che
ha rivisto al rialzo le previsioni di
crescita.
Valsania u pagina 6
FED / 1
FED/ 2
Una scelta
attesa
ma la rotta
è incerta
Ora i capitali
si spostano
dall’Europa
agli Usa
di Donato Masciandaro
di Morya Longo
L
S
a nave va, con un nocchiero,
ma senza una rotta. La nave
è la Fed, che si è mossa, aumentando il livello dei tassi di interesse, sotto la guida della Yellen, una banchiera centrale che rivendica la sua autonomia dal governo, presto rappresentato dal
Presidente Trump. Purtroppo
però la politica monetaria non ha
una rotta, in una situazione in cui
invece occorrerebbe averla, di
fronte alle incertezze che presto
potranno essere generate dalle
politiche del presidente eletto
Trump sia nel campo fiscale che
in quello monetario.
La decisione della Fed di aumentare di venticinque punti base la struttura di riferimento dei
tassi di interesse statunitensi era
stata largamente anticipata dai
mercati finanziari, come pure era
prevedibile che la banca centrale
americana continuasse a rinviare
la normalizzazione della azione
monetaria, con l’indicazione di
una chiara regola monetaria per i
mesi futuri. La normalizzazione
della politica monetaria implica
che le scelte della banca centrale
siano un fattore che aumenti la capacità di stabilizzare il ciclo economico. Nella caso della Fed tale
capacità è oggi molto bassa, per
due ragioni: una strutturale, l’altra
congiunturale.
Sul piano strutturale, la Fed ha
un mandato che le impone di cercare un equilibrio tra la ricerca
della crescita economica e della
piena occupazione da un lato, e la
tutela della stabilità monetaria
dall’altro. Tale mandato indebolisce la posizione della Fed, in quanto avere la discrezionalità di cercare arbitrariamente un equilibrio rende più probabili il rischio
di due tipi di cattura.
Il primo rischio è che la rotta
della politica monetaria sia distorta per assecondare gli obiettivi di breve periodo – elettorali o
ideologici – del Presidente di turno. Questo rischio sarà particolarmente alto nei prossimi mesi, in
presenza di un Presidente eletto –
Donald Trump – che ha annunciato una politica economica fatta di
tagli delle tasse e di aumento della
spesa pubblica, in un momento
congiunturale in cui l’economia
americana ha raggiunto – o è molto vicina – alla piena occupazione.
e non fosse uno slogan già
usato, e politicamente indigesto per i Repubblicani,
Wall Street accoglierebbe Donald Trump al coro «yes we
can». I tanti investitori che stanno spostando i capitali dall’esausta Europa all’altra sponda dell’Atlantico, spingendo
quasi ogni giorno Wall Street
sui massimi storici, sembrano
infatti crederci davvero: gli Stati Uniti, grazie alla turbo-politica fiscale di Donald Trump,
possono tornare a trainare la
crescita economica globale. E la
Federal Reserve può agevolmente rialzare i tassi d’interesse, perché ormai il sostegno all’economia arriva dalla Casa
Bianca e non più dalla banca
centrale. Tra i tanti scenari del
2017, ricchi di incertezze a livello mondiale, questo sembra uno
dei pochi punti fermi per gli investitori: perché l’economia
americana cresce (+3,2% annualizzata nel terzo trimestre), perché il drastico taglio delle tasse
alle imprese annunciato da
Trump potrebbe far risalire gli
utili aziendali, perché la
«Trumponomics» potrebbe
sostenere i salari dei lavoratori.
Se Wall Street è sui massimi storici, nonostante prezzi di Borsa
troppo elevati rispetto agli utili
attuali, è perché ci crede.
Ma è proprio per questo che
sarebbe utile una maggiore prudenza. Perché la turbo-politica
fiscale, associata al rialzo del
prezzo del petrolio, potrebbe
produrre un effetto collaterale
che alcuni economisti già iniziano a prevedere: un balzo oltre le attese dell’inflazione.
Qualcuno - come Patrick Artus
di Natixis - teme che il costo della vita a fine 2017 negli Usa possa
raggiungere il 3%. E non è l’unico a temere una fiammata eccessiva. Oltre i limiti tollerabili
da qualunque banca centrale. Se
così fosse, la Federal Reserve
potrebbe essere costretta ad alzare i tassi d’interesse più di
quanto il mercato oggi non preveda (già ieri sera la banca centrale ha aumentato leggermente le previsioni sui tassi per il
2017). E questo potrebbe sgonfiare quella crescita economica
che oggi fa sognare Wall Street.
di Lina Palmerini
Gli snodi politici fra art. 18 e Vivendi
L
a reazione del Governo
contro la scalata di Vivendi
è stata immediata. Una difesa in
qualche modo scontata ma che
rafforza quel clima dialogante
tra Pd e Forza Italia che già si respira in Parlamento. In Transatlantico si ragiona sugli effetti
tutti politici di questa interlocuzione tra Esecutivo e Media-
La fiducia al Senato. Il premier Paolo Gentiloni a Palazzo Madama
Yellen: è un voto di fiducia nell’economia Usa
Anno 152˚
Numero 344
set che potrebbe riavvicinare
Berlusconi a Renzi in vista di
due obiettivi: intesa sulla legge
elettorale e voto. Non è detto
che vada così ma il leader Pd ha
bisogno delle urne entro primavera - soprattutto se sarà
ammesso il referendum sul
Jobs act - e il Cavaliere potrebbe
aiutarlo.
Continua u pagina 11
LA CONSULTA
Jobs act, l’11 gennaio
esame di ammissibilità
del referendum
Donatella Stasiou pagina 10
ESECUTIVO E URNE
Il nuovo quesito sul lavoro
scuote Pd e maggioranza
Renzi: voto entro giugno
Emilia Pattau pagina 10
Bolloré raggiunge l’obiettivo - Il titolo ancora in rialzo (+1%), scambiato 7% del capitale - I pm indagano: manipolazione del mercato
L’assedio a Mediaset: Vivendi sale al 20%
Berlusconi: operazione ostile, la famiglia aumenterà la quota - Confalonieri: ci difenderemo
Calenda: scalata inappropriata, il Governo vigila - Guerini (Pd): azioni per blindare Mediaset
pVivendi ha raggiunto il 20% Titolo Mediaset in altalena a Piazza Affari
del capitale di Mediaset, la soglia
che voleva raggiungere, «almeno
per il momento»: lo ha reso noto il
gruppo francese guidato da Bolloré. Netta chiusura da Berlusconi: «Operazione ostile: abbiamo
aumentatolanostrapartecipazione in Mediaset e continueremo a
farlo nei limiti della legge».Il presidenteConfalonieriaidipendenti: «Sarà dura, ma ci difenderemo». Critico cn i francesi il ministro Calenda: da Vivendi «modo
di procedere inappropriato, il Governo monitorerà la situazione».
AltragiornatacaldainBorsa,dove
il titolo Mediaset è salito dell’1%
(+53%inunmese),scambiatoil7%
del capitale. La procura di Milano
intanto ha aperto un’inchiesta per
manipolazione del mercato.
Andamento del titolo a Milano
BOLLORÉ-BERLUSCONI
+1,0%
3,8
di Antonella Olivieri
3,7
Chiusura
13/12
3,620
3,584
3,5
Apertura
14 DICEMBRE
Chiusura
M&A, Francia batte Italia 5 a 1
di Andrea Franceschi u pagina 5
Servizi e analisi u pagine 2-5
LO SCENARIO
Tutte le «carte» Il futuro Mossa industriale
della scalata di Fininvest nel risiko europeo
Variazione
3,9
L’ATTACCO ALL’IMPERO
I
l tentativo di Vincent Bolloré
di far valer il 20% di Mediaset per risedersi al tavolo con
Silvio Berlusconi è andato a
vuoto. Il fondatore di Mediaset
gli ha chiuso la porta in faccia:
famiglia compatta a respingere
l’assalto. A questo punto Vivendi potrebbe passare alla
fase 2 e salire a ridosso del 30%.
Per la difesa resta la via legale.
Servizio u pagina 2
Confindustria: nel 2016 Pil a +0,9% - In 5 anni 905mila nuovi posti
CsC: in rialzo le stime del Pil
Più crescita ma pesa l’instabilità
di Marigia Mangano
«C’
è la compattezza più
assoluta della mia
famiglia su un punto molto
preciso: non abbiamo alcuna
intenzione di lasciare che qualcuno provi a ridimensionare il
nostro ruolo di imprenditori».
Ieri Silvio Berlusconi ha chiarito
un passaggio assai delicato: ad
Arcore non c’è alcuna spaccatura interna.
Continua u pagina 3
di Andrea Biondi
L’
ultimo colpo in ordine di
tempo l’ha battuto Amazon.
Il gigante di Seattle ha annunciato
ieri l’avvio del servizio Prime
Video, con film e serie in streaming in oltre 200 Paesi. Insomma,
il player che ha rivoluzionato il
mercato dei libri (e non solo)
sfruttando al massimo le potenzialità di web ed e-commerce, ora
punta sui contenuti video.
Continua u pagina 2
L’aumento di capitale. La Banca intende riaprire l'offerta di conversione per i subordinati
Mps: oggi il verdetto della Consob
Il Cda aspetta il via libera sui bond
Luca Davi, Gianni Trovati e Fabio Pavesi u pagina 37 e 39
Boccia: priorità all’economia reale, evitare le incertezze
pIl Centro studi di Confin-
CRESCITA,
LE STIME
DEL CSC
Vecchie
e nuove
previsioni
2016
dustria rivede al rialzo le stime
di crescita: +0,9% nel 2016 e
+0,8% l’anno successivo. Si
tratta di un ritocco rispetto alle
previsioni di settembre che
erano, rispettivamente, +0,7%
e +0,5 per cento. L’economia
tornerà a crescere ma pesa ancora il fattore instabilità. «L’incertezza politica rappresenta
un significativo rischio al ribasso», avverte il CsC. E dal
mondo del lavoro arrivano segnali positivi: alla fine del prossimo biennio l’occupazione
avrà recuperato 905mila unità
rispetto ai minimi di fine 2013.
Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia: ora
priorità all’economia reale, evitare le incertezze.
A
C
18606,32
-1,18
-12,53
B
variaz. %
var. % ann.
+0,7%
+0,8%
+0,5%
Settembre
Dicembre
Settembre
Dicembre
Contrastare il disagio sociale
di Rossella Bocciarelli
O
cchio al grafico dell’elefante. Nel presentare il
rapporto del CsC, il direttore
Luca Paolazzi non ha mancato,
per dar conto di una causa importante dell’incertezza politi-
Dow Jones I.
19792,53
-0,60
12,94
PIL 2017
L’ANALISI
Nicoletta Picchio u pagine 12 e 13
Mercati FTSE Mib
+0,9%
PIL 2016
B
variaz. %
var. % ann.
Xetra Dax
11244,84
-0,35
7,60
hiudono in calo le piazze finanziarie europee,
«appese» in attesa della decisione della Fed sui
tassi di interesse. Tra tutte fa peggio Milano (-1,18%),
trascinata al ribasso in particolare da Unicredit ed
Mps. Madrid cede l'1,1%, Francoforte –0,35% e Parigi -0,72 per cento.
B
variaz. %
var. % ann.
Nikkei 225
19253,61
0,02
3,70
ca e dei venti populisti, di far riferimento al famoso grafico
dell’economista Branko Milanovic su vincenti e perdenti
della globalizzazione.
Continua u pagina 12
L
variaz. %
var. % ann.
FTSE 100
6949,19
-0,28
15,48
B
variaz. %
var. % ann.
¤/$
1,0644
0,32
-3,15
L
variaz. %
var. % ann.
PRINCIPALI TITOLI - Componenti dell’indice FTSE MIB
Titolo
A2A
Atlantia
Azimut H.
B. Popolare
B.P. Milano
Banca Mediolanum
Bper Banca
Brembo
Buzzi Unicem
Campari
CNH Industrial
Enel
Eni
Pr.Rif.¤
Var.%
1,199
22,000
15,750
2,190
0,346
6,905
4,834
54,500
21,450
9,145
8,040
4,040
14,880
-1,40
-0,05
—
1,58
1,80
-0,36
-1,63
-1,09
-1,61
-1,88
-2,78
-1,17
-0,33
Titolo
Pr.Rif.¤
Var.%
Exor
40,450
0,62
FCA-Fiat Chrysler
8,080
-0,37
Ferrari
54,500
0,46
FinecoBank
5,425
-0,64
Generali
13,820
-1,00
Intesa Sanpaolo
2,366
-2,63
BORSA ITALIANA
Italgas
3,534
0,17
Var%
Leonardo-Finmecc.
13,220
-0,30
Indici Generali
14.12
13.12 Var% in.an.
Luxottica
51,350
0,10
Mediaset
3,620
1,00
FTSE It. All Share (31.12.02=23356,22) 20239,11 20451,96 -1,04 -12,90
Mediobanca
7,600
0,93
FTSE MIB (31.12.97=24401,54)
18606,32 18827,61 -1,18 -13,13
Moncler
16,200
-2,35
FTSE It. Mid Cap (31.12.02=20146,67) 31009,36 31059,71 -0,16 -11,08
Monte Paschi Si
20,060
-2,05
FTSE It. Star (28.12.01=10000)
25960,04 25989,32 -0,11 -0,50
Poste Italiane
6,200
-1,27
FTSE ITALIA
Mediobanca (2.1.06=100)
53,05
52,85
0,38 -16,51
Prysmian
24,080
-1,15
ALL SHARE
Recordati
25,580
-1,50
Comit Globale (1972=100)
1091,69 1088,28
0,31 -10,35
S. Ferragamo
21,270
-1,66
Base 31/12/02=23.356,22
Saipem
0,475
0,85
apertura
chiusura
20520
61215
Snam
3,744
-1,58
STMicroelectr.
10,050
-0,20
20420
Telecom Italia
0,765
-0,26
Tenaris
16,280
-0,67
20320
Continua u pagina 6
© RIPRODUZIONE RISERVATA
9 770391 786418
Terna
4,212
-0,94
UBI Banca
2,482
-0,80
20220
Unicredit
2,630
-6,41
Prezzi di vendita all’estero: Austria €2, Germania €2, Monaco P. €2, Svizzera Sfr 3,20, Francia €2, Inghilterra GBP.1,80, Belgio €2
Unipol
3,282
-0,36
* con “Le Società Immobiliari” € 9,90 in più; con “Nuovi Rapporti di Lavoro” € 9,90 in più; con “Operazioni Straordinarie” € 9,90 in più; con “Il Danno alla Persona” € 12,90 in più; con “Principi Contabili Internazionali” € 12,90 in più; con “L’Impresa” € 6,90 in più; con “Norme e Tributi” € 12,90 in più; con “Codice del Condominio” € 9,90 in più; con “Condominio Day” € 9,90 in più; con “Beni d’Impresa ai Soci” € 9,90 in più; con “Welfare Aziendale” € 9,90 in più; con “Transfer Pricing” € 9,90 in più;
UnipolSai
2,020
-0,88in più
con “Sovraindebitamento” € 9,90 in più; con “Processo del Lavoro” € 9,90 in più; con “IMU & TASI Saldo 2016” € 9,90 in più; con “Guida Pratica alla Rottamazione Cartelle” € 9,90 in più; con “Auto e Fisco” € 9,90 in più; con “Affitti” € 9,90 in più; con “How To Spend
It” € 2,00 in più; con “IL
Maschile” € 2,00
Yoox Net-A-Porter
26,790
-1,00
-1,04
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
2
La partita dei media
La potenza di fuoco
A fine settembre nelle casse francesi c’era liquidità per 2,5 miliardi:
cifra da decurtare per tener conto dei nuovi acquisti
VIVENDI SALE IN MEDIASET
La grande sfida a Piazza Affari, ecco le mosse della scalata
Bolloré, il jazzista della finanza
dalle molte carte da giocare
Antonella Olivieri
pVincent Bolloré è un jazzista
della finanza: improvvisa con
estro. Forse il disegno finale non è
chiaro neppure a lui, ma sa che ha
diverse carte da giocare. Ora ha
avviato l’affondo su Mediaset con
l’obiettivo - «in un primo tempo»,
come espressamente dichiarato
da Vivendi - di arrivare fino al 20%
del gruppo televisivo che fa capo
alla famiglia Berlusconi. Ma Vivendi è anche l’azionista di riferimento (incontrastato) di Telecom Italia, con una quota che sta
ricostituendo appena sotto il 25%,
perché di lanciare un’Opa non se
ne parla. E in più in Francia è in
trattative avanzate con Orange,
per far entrare l’incumbent transalpino con una quota di minoranza in Canal Plus, la pay-tv che naviga in profondo rosso tra scioperi e maretta sulla sua linea editoriale. Non è escluso - e
conoscendo il modus operandi di
Bolloré è probabile - che sul tavolo dei negoziati con l’ex France
Telecom ci sia anche uno scambio azionario, con un ingresso
“simbolico” di Vivendi in Orange.
Del resto è quello che Vivendi
ha fatto anche nei confronti di Telefonica, dove è entrata con una
quota di poco inferiore all’1% nell’ambito della cessione della brasiliana Gvt e del subentro nel capitale di Telecom.
È ancora una nebulosa in attesa che si componga un quadro
definito, ma - nell’ottica di Parigi
- quello che potrebbe uscirne è
un “reticolato” che comprenda i
contenuti di Vivendi e Mediaset, da una parte, e i canali di trasmissione delle tlc di Orange e
Telecom dall’altra, per dar vita
al progetto sbandierato già da
tempo di costruire una Netflix
europea, partendo - per iniziare dall’Europa mediterranea, con
la Francia, l’Italia e la propaggine spagnola di Mediaset che
controlla Telecinco.
In questo scenario, almeno per
ora, resterebbe fuori Telefonica,
che pure è ancora presente con
una quota di poco superiore al
10% in Mediaset Premium, la paytv per la sistemazione della quale
ha avuto origine tutto l’ambaradan. Solo pochi mesi fa - a quanto
risulta - Bolloré l’aveva buttata lì
quasi per scherzo all’ex presidente di Telefonica, Cesar Alierta,
che un ruolo di dominus sul grup-
Industriale e finanziere.
Vincent Bolloré, classe
1952, è, fra l’altro, maggior
azionista di Havas e del
gruppo Vivendi, che
controlla il 25% di
Telecom Italia e il 20% di
Mediaset
AFP
LA NETFLIX EUROPEA
LE TAPPE
po iberico ancora ce l’ha. Magari
vi rivendo a 1,5 euro la quota di Telecom, avrebbe detto Bolloré rivolto all’interlocutore spagnolo.
Non se ne è fatto niente e ora l’asse
privilegiato sembra essere quello
domestico, con Orange che, a intermittenza, non ha nascosto le
mire su Telecom, rintandosi ogni
volta di fronte a qualche accenno
di “sorpresa” da parte italiana. Ma,
per l’appunto, ora a parlarsi sono
direttamente i francesi.
Bene, ma che c’entra tutto questo con Mediaset? C’entra, perché
- almeno in questa fase - l’obiettivo di Bolloré sembra proprio essere quello di sedersi a trattare in
posizione di forza con la famiglia
Berlusconi, puntando a riaprire
un dialogo direttamente con il capostipite Silvio che, nell’impres-
Un «reticolato» che
comprenda i contenuti
di Vivendi e Mediaset
e i canali di trasmissione
di Orange e Telecom
Se non sarà possibile sedersi
a trattare col 20%, è possibile
che scatti la fase 2, con altri
acquisti per avvicinarsi
alla soglia d’Opa del 30%
sione che se ne sarebbe fatto, sarebbe forse più disponibile dei figli impegnati nelle aziende a considerare in prospettiva la
possibilità di “diluirsi” in un polo
più articolato e “potente”. Una
scommessa che è anche un azzardo perché non tiene conto delle
possibilità di arrocco di un gruppo che comunque è fortemente
radicato nel sistema italiano. Ovvio che Vivendi, con il suo 20%,
punta a diventare l’interlocutore
“obbligato” di Mediaset e a costituire una minoranza di blocco che
impedisca altre alternative. La
scommessa si gioca sulla spregiudicatezza di chi prova a porre l’alternativa: meglio avermi amico o
nemico, considerato che ho in
mano anche la leva delle tlc?
Nella fase successiva all’assalto
ad arma bianca è probabile che ci
sia una tregua per tentare l’accordo che a luglio non è riuscito: spostare cioè il tavolo sul piano di un
coinvolgimento avvolgente dell’intero gruppo Mediaset, di cui
Premium è solo un corollario problematico. Non c’è da dimenticare che Bolloré in proprio controlla
Havas, che si definisce una «fully
integrated global advertising
company» e l’interesse a puntare
su un collettore di pubblicità come Mediaset potrebbe andare anche oltre i confini di Vivendi.
Ad ogni modo, il blitz francese
è caduto - forse non proprio casualmente - in un momento in cui
c’era un vuoto di poteri a Roma,
con il passaggio di consegne tra
un Governo e l’altro. Ma la politica ieri una paletta l’ha alzata. «Il
Governo monitorerà con attenzione l’evolversi della situazione», ha promesso il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, che ha anche osservato come tentare una scalata ostile a
uno dei più grandi gruppi media
italiani non sia «il modo più appropriato» di rafforzare la propria presenza nel Paese.
È tutto da verificare quindi, se
non si ricomporrà la situazione
con un accordo, se Bolloré deciderà comunque di procedere con
la fase 2, di andare oltre cioè il 20%
che aveva fissato come prima tappa. Liquidità nelle casse di Vivendi ce n’è ancora: 2,5 miliardi di posizione netta attiva a fine settembre, da decurtare per tener conto
dei nuovi acquisti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Berlusconi in campo per difendere
la sua Tv dagli attacchi ostili
Antonella Olivieri
Politico e imprenditore.
Silvio Berlusconi, classe
1936, fondatore
di Fininvest e Mediaset
e presidente del Milan,
è stato nominato
per quattro volte
presidente del Consiglio
pLe armi azionarie della difesa
per ora sono finite qui. Fininvest,
che è salita al 38,266% del capitale
di Mediaset e al 39,775% dei diritti
di voto, non può andare oltre fino
ad aprile, quando si riaprirà la finestra di altri 12 mesi per poter incrementare la quota di un altro
5% senza dover lanciare un’Opa
(lo scorso aprile aveva già comprato poco meno dell’1,3%). Neppure Mediaset, che ha già il 3,79%
di azioni proprie, può dar corso al
buy-back per salire fino al 10% di
azioni proprie perchè farebbe
scattare la soglia d’Opa per Fininvest. A questo punto si può considerare che il 19% del capitale di
Mediaset che è passato di mano
nel corso delle ultime due sedute
sia in gran parte riferibile a passaggi collegati all’esercizio di derivati da parte di Vivendi per salire al 20% che ha raggiunto finora.
Per il momento non sembra
esserci spazio ad aperture per ritentare un dialogo, opzione che
in prima battuta Bolloré aveva
probabilmente considerato per
forzare un accordo alle sue condizioni. La famiglia Berlusconi
sembra compatta nella difesa di
quello che è il core business del
gruppo. «L’acquisto di azioni
Mediaset da parte di Vivendi,
non concordato preventivamente con Fininvest, non può essere
considerato altro che un'operazione ostile - ha dichiarato lo
stesso Silvio Berlusconi in una
nota diffusa prima del nuovo annuncio di Vivendi di essere già
salita al 20% -. Quanto a noi, c’è la
compattezza più assoluta della
mia famiglia su un punto molto
preciso: non abbiamo alcuna intenzione di lasciare che qualcuno provi a ridimensionare il nostro ruolo di imprenditori». Per
questo motivo, ha aggiunto, «abbiamo aumentato la nostra partecipazione e continueremo a
farlo nei limiti consentiti dalle
leggi. Vivendi ha avuto l'opportunità, con l'accordo strategico
firmato nello scorso aprile, di avviare con Mediaset una collaborazione che si preannunciava
proficua per entrambi i gruppi.
Purtroppo questo accordo è stato disconosciuto da Vivendi nei
modi e con le conseguenze anche
giudiziarie che sono note. Non è
certo questo il miglior biglietto
da visita che Vivendi possa esibi-
CONTRASTO
LE CONDIZIONI
IL TETTO AI FRANCESI
re nel riproporsi come azionista
industriale della società».
Porte chiuse, dunque, a qualsiasi tentativo di dialogo. L’intenzione dichiarata dall’azionista di
riferimento di Mediaset è di resistere all’assedio, perchè evidentemente i presupposti per ristabilire un rapporto di fiducia non ci
sono più. In teoria, Fininvest potrebbe avere già “prenotato” l’ul-
teriore 5% che potrebbe rilevare a
partire da aprile con un derivato,
magari con un'opzione put&call
(opzione a vendere/comprare)
che, se stipulato con la stessa controparte, neppure dovrebbe essere dichiarata. L’assemblea per
il rinnovo del consiglio è quella
della primavera 2018, la partita
potrebbe perciò essere lunga.
Nel frattempo, però, è possibi-
Fininvest non può superare
la quota fino ad aprile,
quando si riaprirà la finestra
per un incremento del 5%
senza obbligo d’Opa
È più probabile che la via
per la sterilizzazione
dei diritti di voto di Vivendi
passi dalla denuncia
presentata per aggiotaggio
le che Bolloré decida di salire oltre quel 20% dichiarato come prima tappa, per avvicinarsi alla soglia d’Opa del 30%. In questo caso
probabilmente raggiungerebbe
con certezza matematica la minoranza di blocco nelle assemblee straordinarie, che deliberano con la maggioranza dei due
terzi, limitando così gli spazi di
reazione della controparte.
Parte dell’azione di difesa è delegata al piano legale. Si potrebbe
cercare di far valere ancora il contratto di aprile su Premium, che i
francesi disconoscono ma che per
il Biscione è invece valido e vincolante. Secondo il contratto «nel
primo anno dalla data del closing
(che non c’è stato, ndr) Vivendi
nonpotràeffettuare,direttamente
o indirettamente, alcun acquisto
di azioni Mediaset». E, ancora,
«nel secondo e terzo anno dalla
data del closing Vivendi non potrà
effettuare, direttamente o indirettamente, acquisti di azioni Mediaset che la portino a possedere una
partecipazione complessiva superiore al 5% del capitale sociale di
Mediaset». In teoria, con una procedura d’urgenza, potrebbe essere fatto valere il divieto a salire oltreil3,5%cheerastatoconcordato,
chiedendo la sterilizzazione dei
diritti di voto. Ma è più probabile
che la via per la sterilizzazione dei
diritti di voto di Vivendi passi dalla
denuncia presentata per aggiotaggio, dopo la quale, per ora contro
ignoti, la Procura di Milano ha
aperto un’inchiesta.
È evidente, comunque, che in
questa fase Berlusconi conta anche sull’appoggio del sistemaPaese per respingere l’assalto. Il
Governo ha battuto un colpo e,
anche se strumenti diretti per poter intervenire su aziende private
non ne ha, la moral suasion è una
via praticata ovunque, certamente più altrove che in Italia. Se poi la
contesa dovesse sfociare in
un’Opa, il conto della spesa solo
per quanto riguarda l’equity, considerato che si dovrebbe procedere con un’Opa a cascata su Eitowers e la spagnola Telecinco, si
aggirerebbe sui 7 miliardi. In capo a Mediaset c’è un debito dell’ordine di 1,1 miliardo e su molti
contratti di finanziamento è prevista la clausola di change of control che farebbe scattare l’immediato obbligo di rimborso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Cambiamento epocale. Nei video online a pagamento tre player (Netflix, Apple e Amazon) hanno già il 67% del mercato globale e vedono la loro quota crescere
La «rivoluzione copernicana» nel mercato video
Andrea Biondi
u Continua da pagina 1
pPer chi fosse alla ricerca della
“pistola fumante” indicativa della
rivoluzione copernicana che sta
avvenendo nel mercato del consumo di video (un tempo neanche
troppo lontano appannaggio solo
della televisione) la discesa in
campo di Amazon risponde al requisito, pur non essendo né la prima, né l’ultima. Del resto basta
considerare quel che ha prodotto
l’irrompere sulla scena mondiale
di Netflix. Guardando anche solo
all’Italia, gli abbonati al servizio
sarebbero attorno ai 170mila (stima recente di Pwc perché dal colosso californiano ovviamente
non arriva nulla). Ma ai broadcaster tradizionali è bastato solo subodorare l’arrivo del colosso del
videostreaming, oggi presente in
più di 190 Paesi con oltre 86 milioni di iscritti, per partire in anticipo
(per una volta è andata così) rispetto allo sbarco di Netflix con
servizi come Infinity (Mediaset),
Skyonline (ora Now Tv), cui si aggiungono fra gli altri Chili Tv o Timvision, già esistenti e che nel
frangente hanno ridato slancio alla propria attività.
La chiave per ragionare sui destini del mercato televisivo passa
inevitabilmente attraverso un fil
rouge che collega videostreaming
(possibilità offerta anche e innanzitutto dalla moltiplicazione degli
schermi attraverso i quali fruire di
contenuti video), reti (inevitabilmente i contenuti pregiati devono poter contare su autostrade capienti e costruite bene), dimensione internazionale dei player.
Assolutamente non trascurabile
quest’ultimo elemento: come dimostrano le elaborazioni di eMedia Institute (si veda grafico a
LE NUOVE SFIDE
Il destino del mercato tv passa
inevitabilmente attraverso un fil
rougechecollegavideostreaming,
reti e dimensione
internazionale dei player
lato) il mercato internet si caratterizza nel mondo per elevati tassi
di concentrazione. Nel mercato
dei video online a pagamento (serie tv e film) nelle diverse modalità tre player (Netflix, Apple e
Amazon) hanno già il 67% del
mercato globale e vedono la loro
quota crescere. Se in questo quadro Alphabet-Youtube dovesse
entrare con maggiore decisione
sul mercato dei contenuti video
premium (ora ha una quota quasi
inesistente), il peso dei colossi del
web (tutti made in Usa) potrebbe
arrivare ben oltre il 90 per cento.
Si può obiettare che la tv tradizionale, free e in chiaro, continui
ad avere un peso preponderante e
che le dimensioni dei due mercati
(tv tradizionale e consumi di videostreaming) siano molto distanti ancora. È vero, ma le abitudini di consumo di video stanno
cambiando molto velocemente. E
qui si inseriscono i nuovi player,
di dimensioni, come visto transnazionali. In questo senso, che il
video on demand bussi prepotentemente alla porta della tv tradizionale, quasi a voler buttar giù
l’architrave del palinsesto come
lo abbiamo conosciuto finora, lo
dicono anche alcuni studi.
Il Report Tv & Media del ConsumelLab di Ericsson – rappresentativo delle abitudini di 1,1 miliardi di consumatori in 24 Paesi –
indica una percentuale settimanale di tempo trascorso a guardare tv e video su dispositivi mobili
in crescita dell’85% fra 2010 e 2016,
nel mondo. Ai consumatori piacciono sempre di più le maratone
“binge watching” (il 37% guarda
due o più episodi di seguito dello
stesso programma su base settimanale) e solo concentrandosi
sull’on demand il tempo speso
nella visualizzazione di contenuti à la carte è aumentato del 50%
dal 2010. Limitando l’analisi al dato italiano, il sorpasso fra on demand e tv lineare è già in un certo
senso avvenuto, dal momento
che il 55% degli intervistati dichiara di preferire l’on demand rispetto alla tv tradizionale.
Certo, c’è un’importante disclosure in questo ragionamento.
Il panel di riferimento dello studio Ericsson (per l’Italia la proiezione è su 26 milioni di abitanti) è
composta da consumatori fra 16 e
69 anni già dotati di connessione
internet a banda larga in casa e che
vedono contenuti video almeno
una volta a settimana. Insomma,
una platea già avanti quanto a uso
della tecnologia.
Va dall’altra parte considerato
però che la tv del futuro inizia a
misurarsi con l’esigenza di accompagnare gusti e aspettative di
questa tipologia di clientela. Non
è un caso che proprio Vivendi nelle ultime settimane abbia lanciato
in Italia il servizio “Studio +”: miniserie (10 minuti ogni episodio)
pensate soprattutto per i Millennials. Il tutto con investimento totale di 70 milioni nel 2017.
Da queste considerazioni passano inevitabilmente le mosse
che sul mercato ormai intrecciato
di tv e tlc stanno prendendo forma
sempre più chiara. Sky ha da un
paio d’anni fatto una scelta paneu-
ropea, unendo le attività di Uk, Irlanda, Germania, Austria e Italia e
ora 21st Century Fox ha deciso di
non limitarsi al 39% posseduto in
Sky Plc, puntando ad acquisirne la
totalità. Servono spalle forti per
affrontare un futuro in cui AT&T,
colosso delle telecomunicazioni
Usa, si è mosso su Time Warner.
Triple-play o Quad-play (offerte
integrate) sono la realtà in Uk e
Usa. In Uk l’ingresso di BT nella
pay-TV è stato roboante con la
conquista dei diritti dello sport. In
Spagna, dopo l’acquisizione da
parte di Telefonica di Digital + e
l’acquisizione di Ono da parte di
Vodafone, l’intero mercato della
pay-TV è in mano a operatori di
telecomunicazione.
Nello scacchiere globale Vivendi, come Mediaset, si trovano
a competere in questo scenario.
L’unione avrebbe potuto fare la
forza, almeno questo era stato
promesso. Mediaset ha i contenuti, la leadership pubblicitaria in
Italia e un affaccio importante e
redditizio in Spagna. Vivendi ha
contenuti, massa, ma anche la
possibilità di mettere a frutto sinergie via Telecom. Per ora però
il conflitto fra le società ferma
qualsiasi prospettiva strategica.
Con ogni probabilità, a nocumento di entrambi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
La fotografia del settore
LA PAROLA
CHIAVE
IL BOOM
Quote sul mercato mondiale del video online premium (Vod e SVoD)
dei tre global player Usa (Netflix, Apple, Amazon)
65%
2014
2016
2018*
2020*
Streaming
67%
68%
70%
IL CONFRONTO EUROPEO
Quota parte del mercato della pay-TV integrato con le offerte TLC
Operatori TV-TLC
Operatori solo TV
100%
Stati Uniti
100%
Regno Unito
100%
Spagna
37%
63%
29%
71%
Francia
Germania
100%
Italia
(*) Stime
Fonte: e-Media Institute
7 Con il termine streaming si
definisce il trasferimento di
dati audio o video attraverso
una rete telematica, in modo
continuo ed ininterrotto. I dati
vengono trasmessi da una
sorgente a una o più
destinazioni.
Generalmente si possono
identificare due tipi di
streaming: lo streaming live
(offerto anche da parte di
diverse emittenti televisive) e
lo streaming on demand. A
quest'ultima famiglia
appartengono i flussi
streaming di real video e real
audio, windows media player,
quick time, adobe flash video.
Lo streaming è alla base dei
servizi Ott forniti dai
broadcaster che stanno
avanzando negli ultimi tempi.
L’ultimo colpo in ordine di
tempo l’ha battuto Amazon.
Il gigante di Seattle ha
annunciato ieri l’avvio del
servizio Prime Video, con film e
serie tv in streaming in oltre
200 Paesi. Per quanto riguarda
Netflix, gli abbonati in Italia
sarebbero intorno ai 170mila.
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
3
La partita dei media
La mossa di Bolloré e le reazioni
Il pacchetto francese è sufficiente per chiedere l’assemblea
Possibile che partner storici intervengano a supporto di Berlusconi
COME CAMBIA L’AZIONARIATO
Vivendi sale al 20% di Mediaset
L’ANALISI
Marigia
Mangano
Berlusconi: operazione «ostile». La procura di Milano apre indagine - L’ipotesi sterilizzazione dei voti francesi
Laura Galvagni
pSilvio Berlusconi ha rotto il si-
lenzio ed è intervenuto con parole
dure contro l’operazione promossadaVivendisuMediasetdefinendo la manovra «ostile». Lo ha fatto
pochi istanti prima che il gruppo
transalpino annunciasse al mercato di aver raggiunto, «almeno per il
momento», l’obiettivo: è al 20% del
gruppo del Biscione. L’intera vicenda, però, è ora nel mirino della
procura di Milano che ha aperto
un’indagine a carico di ignoti per
manipolazione del mercato in seguito all’esposto presentato da Fininvest contro il gruppo francese
Vivendi. La denuncia è stata firmata dall’avvocato Niccolò Ghedini.
Intanto, va segnalato che il
pacchetto francese, sulla carta, è
più che sufficiente per chiedere
la convocazione di un’assemblea
e la relativa rappresentanza in
consiglio di amministrazione.
Ma il pool di legali della famiglia
Berlusconi sarebbe al lavoro per
arginare ulteriori affondi. In particolare, si sta cercando di capire
se ci sono gli estremi per chiedere
a un giudice ordinario un provve-
GLI OBIETTIVI
Vivendi potrebbe non aver
chiuso con gli acquisti e salire
ancora al punto di portarsi
molto vicina a una vera
minoranza di blocco
dimento d’urgenza per bloccare i
diritti di voto in capo a Vincent
Bolloré sulla scia della denuncia
già presentata. Si vedrà.
Nel mentre, come ha detto ieri il
presidente di Mediaset, Fedele
Confalonieri, il gruppo d’ora in poi
dovrà proteggersi dalla concorrenza esterna «ma anche dall’interno stesso dell’azienda». Senza
contare che, e sono in molti a crederlo, Vivendi potrebbe proseguire nella sua ascesa portandosi il più
possibile a ridosso del 30%. Mossa
che si rivelerebbe ancor più aggressiva di quanto già non sia stato
l’aver dichiarato un 20% in poco
più di quarantotto ore. Tanto più
che quel numero di azioni potrebbe rappresentare una vera e propria minoranza di blocco. Rispetto
a quest’ipotesi, da Parigi rispondono con un «no comment» ma lo
spettro che ciò accada si agita evidentemente nel palazzo di via Paleocopa. Di qui la presa di posizione netta dell’ex premier. «L’acquisto di azioni Mediaset da parte di
Vivendi, non concordato preventivamente con Fininvest, - ha detto
Berlusconi - non può essere considerato altro che un’operazione
ostile».AciòlafamigliaBerlusconi
intende rispondere in maniera
compatta, soprattutto su un punto:
«Non abbiamo alcuna intenzione
di lasciare che qualcuno provi a ridimensionare il nostro ruolo di imprenditori. Per questo abbiamo
aumentato la nostra partecipazione e continueremo a farlo nei limiti
consentiti dalle leggi». Fininvest
ha di fatto raggiunto il tetto massimo di titoli acquistabili nell’arco di
un anno, salvo non intenda lanciare un’Opa totalitaria. A maggio
scorso, sulla scia dell’accordo firmato proprio con Vivendi per Premium aveva rilevato l’1,27% del capitale che, sommato allo shopping
recente, 3,527%, porta di fatto il
conto a un soffio dal 5%. E non potrà compiere ulteriori operazioni
finoadaprile2017.Peraltro,Mediaset non può neppure arrotondare
ulteriormente le azioni proprie,
oggi pari al 3,75%. Il rischio, infatti,
è che possa scattare comunque in
capo alla holding l’obbligo d’Opa.
A questo punto, si ipotizza sul
mercato, per mettere ulteriormente al sicuro la società di Cologno potrebbero intervenire soggetti terzi. Plausibile? Di certo il
mondo da sempre vicino al Cavaliere sembra aver fatto quadrato
attorno al gruppo. Ecco perché
non si può escludere che partner
di lunga data, qualcuno ipotizza
anche la famiglia Doris, possa intervenire per dare man forte allo
storico socio. Si vedrà. Molto dipenderà da come lavoreranno le
diplomazie. Di certo i due advisor
di Mediaset, UniCredit e Intesa
Sanpaolo, sono al lavoro per supportare al meglio l’azienda di Cologno Monzese. E la strada maestra passa evidentemente dalle
modifiche all’assetto societario.
Anche perché, allo stato, Berlusconi sembra aver chiuso la porta
al dialogo: «Vivendi ha avuto l’opportunità - ha sottolineato ieri con l’accordo strategico firmato
nello scorso aprile, di avviare con
Mediaset una collaborazione che
si preannunciava proficua per entrambi i gruppi. Purtroppo, questo
accordo è stato disconosciuto da
Vivendi nei modi e con le conseguenze anche giudiziarie che sono
note. Non è certo questo il miglior
biglietto da visita che Vivendi possa esibire nel riproporsi come
azionista industriale della società». Comprensibile quindi che,
durante il vertice con i famigliari e
nei successivi contatti, Berlusconi
abbia più volte ribadito che ora bisogna «resistere in tutti i modi» innanzitutto costruendo un’argine
che serva per rendere molto improbabile il successo di un’eventuale Opa ostile dei francesi.
E con i suoi tempi, anche la politica è intervenuta oggi in maniera
netta sulla vicenda. Il ministro allo Sviluppo Carlo Calenda ha avvertito: quella che appare una
«scalata ostile» non è il modo più
appropriato di procedere «per
rafforzare la propria presenza in
Italia». Calenda ricorda anche
che la società di Cologno «opera
in un campo strategico come
quello dei media, il modo in cui si
procede non è irrilevante».
Infine, il mercato continua a credere che lo scontro non sia finito:
ieri le azioni Mediaset sono salite
dell’1% ma tra scambi boom pari al
7% del capitale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
SPACE24
Il futuro
di Fininvest
e il ruolo
della famiglia
u Continua da pagina 1
L
Sotto attacco. Le torri delle antenne del gruppo Mediaset
L’azionariato Mediaset
Dati in percentuale
Fininvest
Mediaset*
Mercato
34,70%
3,79%
61,51%
FINO
A VENERDÌ
Fininvest**
Mediaset*
Vivendi
Mercato
38,26%
3,79%
12,32%
45,63%
Fininvest**
Mediaset*
Vivendi
Mercato
38,26%
3,79%
20%
37,95%
FINO
A MARTEDÌ
OGGI
(*) Azioni proprie; (**) a partire da martedì
Fonte: dati societari
Riassetti. I capitali sono arrivati martedì mattina da Hong Kong, in contemporanea con l’attacco francese
Milan, i soldi dei cinesi cruciali per la contesa
di Carlo Festa
N
el giorno dell’arrivo
della seconda caparra,
tanto attesa, da parte
della cordata cinese per il Milan, in Fininvest devono correre ai ripari per difendere l’ammiraglia del gruppo, Mediaset,
dall’attacco francese.
Coincidenza vuole che via
Paleocapa si trovi costretta ad
arrotondare la sua quota in
Mediaset (a quasi il 40%) mettendo sul piatto circa 150 milioni per intervenire ai «blocchi», più o meno nello stesso
momento in cui da Hong
Kong parte un bonifico da
Credit Suisse, con i secondi
100 milioni di caparra dei ci-
nesi e destinazione un conto
di Fininvest in Italia.
Con questa ulteriore caparra i soldi ricevuti per il futuro
acquisto del Milan da parte
della cordata Ses (visto che il
closing è stato spostato ai primi di marzo) raggiungono
quota 200 milioni: i primi 100
milioni erano stati pagati in
settembre in due rate (prima 15
milioni e poi 85 milioni).
IL BILANCIO
In via Paleocapa
entrano 200 milioni
come caparre per il club:
spesi 150 milioni
per i titoli ai «blocchi»
Insomma, provvidenziale
diventa questa doppia caparra cinese per le casse di Fininvest: 200 milioni entrano negli ultimi mesi e circa 150 milioni escono per difendersi
dall’aggressione transalpina.
Altri 320 milioni sono invece
attesi in marzo dalla cassaforte della famiglia Berlusconi
per chiudere la vendita del
club rossonero alla cordata
Sino Europe Sports.
L’avanzata di Vincent Bollorè su Mediaset, apre un nuovo fronte caldo borsistico, visto che la controversia con i
francesi era fino ad oggi stata
soltanto in Tribunale a causa
della ritirata transalpina su
Premium: con lavoro per noti
avvocati come Vincenzo Mariconda, il professor Andrea
Di Porto e lo studio Chiomenti. Ora entra in scena anche
Niccolò Ghedini per la controversia penale.
I cinesi, con buona pace dei
tifosi, diventano così un problema secondario per Fininvest: proprio nel momento in
cui cominciano ad emergere i
nomi della cordata. Ci sarebbero infatti tutte banche a fianco
di Yonghong Li: Huarong International, la Industrial Bank,
la Bank of Guangzhou, la China
Zheshang Bank. I restanti 320
milioni, a questo punto, diventano cruciali come munizioni
nella battaglia con i francesi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
a precisazione non è
banale, perché la contesa
con Vincent Bolloré per il
controllo di Mediaset arriva in
un momento chiave per
l’impero del Cavaliere. Da
tempo il tema della successione
è sul tavolo di Silvio Berlusconi
e mai come adesso gli eventi
rischiano di accelerare scelte
che fino a pochi mesi fa erano
solo puri esercizi teorici. Sarà
una successione industriale o
finanziaria quella che
coinvolgerà la famiglia
Berlusconi? In futuro i cinque
figli, Marina, Piersilvio,
Barbara, Eleonora e Luigi si
divideranno le aziende o il
patrimonio? Immersa in questo
contesto, non appare casuale,
dunque, la dichiarazione di ieri
di Silvio Berlusconi e l’uso
esplicito del termine
“imprenditori”.
Con quasi 5 miliardi di
fatturato e oltre 20 mila
dipendenti, Fininvest è una
delle maggiori realtà
imprenditoriali italiane. La
holding ha il controllo di
Mediaset, Mondadori, del
Milan, partecipa in
Mediolanum con una quota
rilevante e ha altri investimenti
finanziari. C’è poi il patrimonio
immobiliare, gran parte del
quale è custodito nella società
Dolcedrago, di proprietà
esclusiva del Cavaliere.
Tuttavia, mai come oggi, il
susseguirsi di una serie di
situazioni espone il ricco
portafoglio partecipazioni:
tutte, tranne Mondadori,
potrebbero essere a rischio.
Il Milan, ormai da tempo, è in
vendita. E sembra che ora ci
siamo quasi. In base al contratto
preliminare siglato con la
cordata cinese, a marzo nelle
casse di Fininvest finiranno 320
milioni, a cui si sommano i 200
milioni già versati in questi
giorni. C’è poi Mediolanum. In
questo caso Fininvest, risulta
titolare del 30,124% di Banca
Mediolanum, ma il 20,125% è
ora privo dei diritti di voto.
Questo dopo l’opposizione
della Bce al ritorno nella piena
disponibilità della holding della
sua quota nell’istituto come
aveva stabilito la sentenza del
Consiglio di Stato della scorsa
primavera. La società del
Biscione ha già presentato
ricorso. Ma è evidente che se la
posizione dovesse essere
confermata, la vendita sarebbe
obbligata. Infine, c’è Mediaset.
E anche qui, almeno sulla carta,
l’ingresso di Bolloré in forze nel
capitale apre scenari
molteplici. L’unica certezza è
che appare difficile immaginare
una Mediaset in cui Fininvest si
trovi a dover gestire un socio
così ingombrante come
Vivendi. L’impressione,
dunque, è che presto si possa
riaprire un dialogo tra i due
gruppi. Se questo poi si tradurrà
in un ridimensionamento di
Fininvest nel capitale di una
società più europea è difficile
dirlo. Ma se dovesse succedere
è evidente che sembra
profilarsi più una successione
finanziaria nel futuro di Arcore,
con la famiglia meno «socio
imprenditore» e più
«azionista», e con una holding
sempre più ricca.
La difesa di Mediaset, ad
ogni modo, rappresenta ora la
priorità. Un concetto emerso
con chiarezza martedì sera dal
primo, rapido, confronto tra
Silvio Berlusconi, Marina e
Piersilvio. Un vertice a cui ha
partecipato anche
l’amministratore delegato di
Fininvest Danilo Pellegrino e
nel corso del quale si è preso
atto della decisione di salire nel
SUCCESSIONE
Decisiva sarà
la compattezza
dei figli su una partita
complessa che offre
anche opportunità
capitale del gruppo televisivo,
scelta peraltro già presa in
mattinata dopo il giro di
telefonate che ha coinvolto
tutti i figli del fondatore. C’è
dunque condivisione e
«compattezza» sulla strategia
da seguire nell’immediato. Ma
non è chiaro se ci sia la stessa
visione comune sul futuro
industriale del gruppo. Perché
se Marina e Piersilvio hanno
già dimostrato in passato di
essere decisi a mantenere saldo
il controllo della famiglia in
Mediaset, posizioni meno
rigide avrebbero fatto
trapelare gli altri figli di Silvio
Berlusconi che vedrebbero in
questa complessa partita non
solo criticità, ma anche
opportunità. Due correnti di
pensiero che, se non oggi, in
futuro potrebbero misurarsi
anche con i rispettivi pesi
azionari in Fininvest. Oggi la
struttura della società di via
Paleocapa vede sette holding di
proprietà della famiglia
Berlusconi detenere il
controllo del cento per cento.
Quattro di loro fanno capo
direttamente a Silvio
Berlusconi per circa il 61% a
titolo personale. Il resto del
capitale fa capo invece ai figli
ed è suddiviso in parti uguali.
Ma se Marina e Piersilvio
Berlusconi hanno una quota
del 7,65% a testa che insieme fa
15,3%, i figli di secondo letto,
Barbara, Eleonora e Luigi
Berlusconi, possono contare
sul 21,4%. Una quota del 6% in
più che in prospettiva potrebbe
essere decisiva.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
4
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
5
La partita dei media
Il ministro dello Sviluppo
Nel mirino il tentativo di «rafforzare la propria presenza in Italia»
attraverso la «scalata ostile a uno dei più grandi gruppi media italiani»
IL GOVERNO E I FRANCESI
Calenda: scalata inappropriata, il Governo vigila
«Regole di mercato ma il modo di procedere è rilevante» - Guerini (Pd): azioni per mettere in sicurezza Mediaset
Carmine Fotina
ROMA
La posizione del governo viene ufficializzata a Borsa chiusa, con un comunicato firmato
dal ministro dello Sviluppo
economico Carlo Calenda e
condiviso con il nuovo presidente del Consiglio Paolo
Gentiloni. Solo dieci righe, ma
dirette: il governo rispetta «le
regole di mercato» ma quella
che appare a tutti gli effetti una
scalata ostile è ritenuta «non
appropriata».
Se l’affondo di Vivendi, martedì, era caduto in una giornata
di delicata transizione per il
nuovo esecutivo, colto di sorpresa mentre proprio in quelle
ore incassava la prima fiducia
del Parlamento, alla Camera,
ieri il governo ha scelto di non
apparire impreparato e di
mandare un primo segnale al
gruppo francese, pur in una
giornata non meno complessa
tra fiducia al Senato e primo
consiglio dei ministri.
Proprio in una pausa di questi due impegni ufficiali, Calenda ha sottoposto a Gentiloni la nota, condivisa dal neopremier nei contenuti e nei toni. La premessa è che «gli
investimenti stranieri sono
sempre benvenuti, quando
portano capitale di crescita e
competenze e contribuiscono
allo sviluppo del tessuto industriale italiano», linea che del
resto Calenda ha sostenuto
prima da viceministro dello
Sviluppo con delega all’internazionalizzazione poi da titolare del ministero. «Quando
però - aggiunge - si tratta di
un’azienda che opera in un
campo strategico come quello
dei media, il modo in cui si
procede non è irrilevante. Mi
pare che questo principio sia
in Francia ampiamente riconosciuto e assertivamente difeso». Il governo, è l’avviso,
esige reciprocità e «monitorerà con attenzione l’evolversi della situazione».
Il ministro dello Sviluppo
premette «l’assoluto rispetto
del governo per le regole di
mercato», ma - prosegue «non sembra davvero che
GLI EVENTUALI STRUMENTI
Escluso l’esercizio
di un potere di veto
come «golden power»
si possono semmai valutare
paletti legislativi
quello che potrebbe apparire
come un tentativo, del tutto
inaspettato, di scalata ostile a
uno dei più grandi gruppi media italiani, sia il modo più appropriato di procedere per
rafforzare la propria presenza in Italia».
Sono benvenuti gli investimenti finalizzati da subito e in
modo trasparente a un rafforzamento industriale - è l’interpretazione filtrata ieri - meno
operazioni che possano apparire incursioni da raider finanziari. Opinione che non a caso
anche il governo Renzi, in quel
caso con il sottosegretario alla
presidenza Claudio De Vincenti, aveva espresso nei gior-
ni concitati delle mosse di un
altro operatore francese, Iliad,
su Telecom Italia.
A breve distanza dal comunicato di Calenda, ieri sera il
vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini parlava di «azioni
per mettere in sicurezza Mediaset che dovranno essere
studiate dal governo», anche
se qui, quando dal monito si
passa agli strumenti, a ben vedere il discorso diventa un
po’ più complesso. Non rientrano tra i poteri eventualmente esercitabili dal governo quelli di veto noti come
«golden power», in quanto si
applicano solo nel caso di
operazioni di soggetti non
comunitari e comunque, nel
settore delle comunicazioni,
solo per il servizio universale
e la banda larga. Né sembrano
esserci le condizioni per un
intervento difensivo come
quello che nel 2007, nel ruolo
all’epoca di ministro delle
Comunicazioni del governo
Prodi, confezionò proprio
l’attuale premier Gentiloni
autore di un emendamento,
poi rimasto sulla carta, per favorire la separazione della
rete Telecom di fronte all’affondo delle alleate AT&TAmerica Movil (per altro
operatori non comunitari).
Piuttosto, se mai si prospettassero scenari di controllo
francese di Mediaset, alla luce
del collegamento con Telecom andrebbero valutati con
attenzione i paletti previsti
dalla legge Gasparri sugli incroci nel mercato tlc-tv.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Retroscena. La scalata rivela il vero interesse di Bollorè: il gruppo tv del Biscione
I francesi e il pretesto
delle nozze sulla pay-tv
Simone Filippetti
A
inizio estate, gli uomini
di Vivendi e Mediaset
Premium erano tutti impegnati, a testa bassa, per preparare il palinsesto autunnale della
futura paytv paneuropea: Mediaset Premium era stata promessa sposa al colosso tv francese del finanziere Vincent Bollorè. E il matrimonio comprendeva anche un accordo più
ampio e strategico: uno scambio
incrociato di partecipazioni.
Mediaset metteva un piede dentro Vivendi; Vivendi dentro il
gruppo televisivo dell’ex premier Silvio Berlusconi.
Mediaset aveva bisogno di
maritare i suoi canali a pagamento: Mediaset Premium, nata per
fare la guerra a Sky, si è rivelata
un impegno più gravoso del previsto: la zavorra Premium. Ed è
una zavorra pesante: l’anno scorso Mediaset ha chiuso un bilancio praticamente in pareggio; un
lillipuziano utile di 4 milioni eroso proprio da Premium: senza la
pay-tv ci sarebbero stati quasi
100 milioni di utili. Da quando è
partita, la pay-tv del Biscione non
è ancora riuscita a chiudere un
bilancio in utile e quest’anno le
perdite supereranno i 100 milioni. Sui conti ha pesato lo sforzo
per soffiare alla rivale Sky l’esclusiva della Champions League: i
diritti per la più seguita competizione calcistica sono costati
un’enormità, circa 600 milioni e
ora Premium fatica a rientrare
dei costi. Perché Vivendi, che già
aveva i suoi problemi in casa con
la propria pay-tv Tele+, che ha
conti in dissesto ed è costata numerosi salvataggi a Bollorè,
avrebbe dovuto farsi carico di un
altro fardello? Di due zoppi si sarebbe riusciti a fare un gruppo sano? Sulla carta c’erano molte sinergie, ma il problema non si è
mai posto perchè a fine luglio, il
clamoroso voltafaccia di Vivendi. Salta il matrimonio.
Ora il Blitz di Natale, e il Berlusconi furioso (segnale di una famiglia colta alla sprovvista), dimostrano le vere intenzioni di
Bolloré: altro che piattaforma
comune sulla pay-tv. Cade il velo: a Vivendi della pay tv importava poco o nulla. Era solo una foglia di fico. Quello che interessa
veramente è Mediaset, il boccone ghiotto. Il finanziere francese
è già il dominus in Mediobanca,
che è anche il principale azionista delle Assicurazioni Generali
(l’unico vero colosso finanziario
dell’Italia); ha preso il controllo
di Telecom Italia. E la tentazione
di mettere le mani anche sulle tv
del Biscione: la famosa e più volte agognata fusione TeleMediaset, in salsa francese però. Una
posizione del 20%, un quinto
delcapitale e la metà del pacchetto di controllo dello storico
azionista Fininvest, non è poca
cosa; e, soprattutto, non si co-
I DUE SCENARI
Il raider punta ad avere una
base negoziale nella lite
su Premium. Oppure
scommette sulla Mediaset
del dopo-Berlusconi.
LA PAROLA
CHIAVE
Opa
7 Per offerta pubblica di
acquisto o Opa s’intende ogni
offerta finalizzata all'acquisto
di prodotti finanziari sul
mercato. Esistono due
differenti tipologie di Opa.
Si parla di opa volontaria
quando l'iniziativa proviene
dall'offerente senza che
siano state superate delle
soglie chiave di possesso
azionario. Diversamente,
l'Opa è obbligatoria quando
è l'ordinamento a
costringere l'offerente a
promuovere l'offerta in
presenza di determinate
condizioni.
struisce in un giorno. Bollorè ha
pianificato da tempo, ha studiato
a tavolino con gli avvocati la
mossa. Ma per fare cosa? Il 20% è
sì una quota considerevole, ma
se c’è un dato di fatto è che Mediaset è inscalabile: il 40% in mano alla Finivest di fatto blinda la
società. Lanciare un’Opa costerebbe tantissimo (a cascata andrebbero lanciate offerte anche
su TeleCinco ed EiTowers) e
l’esito sarebbe incerto.
C’è chi vede nell’affondo
un’orizzonte a breve: costruirsi
una base negoziale. Con lo spettro del risarcimento da un miliardo, Bolorè avrebbe ora una merce di scambio per la causa legale
fatta da Mediaset, una fiche per
sedersi al tavolo e cercare un accordo. E dietro l’irrituale stillicidio di acquisti (prima il 3 poi 12
ora il 20% e domani chissà, forse
il 25% come fatto in Telecom Italia), ci sarebbe anche un messaggio diretto a Silvio medesimo
(che infatti ieri ha risposto): metterlo all’angolo, e costringerlo
magari a ritirare la causa o a trovare un accordo.
Ipiùcospirazionisti,invece,leggonodietrolascalataunoscenario
più a lungo termine: il Cavaliere ha
valicato la soglia degli 80 anni, e il
tema dell’eredità di Mediaset si fa
sempre più concreto. Da qui a
qualche anno, in una Mediaset
post-Silvio, potrebbero aprirsi
molti scenari. E Bollorè, con il suo
20%, sarebbe lì pronto a cogliere
l’occasione. E’ come se il francese
avesse preso una posizione Long,
lunga, sul titolo Mediaset scomettendo, nello stile arrogante della
casa, sull’anzianità del leader, e sul
passaggiogenerazionale.Ilprezzo
da pagare per avere un’opzione
sull’imperodiBerlusconièperòalto: 700 milioni di euro (tanto è costato il 20%) da tenere immobilizzati chissà per quanto tempo. Ma il
francese, che non ama la definizione di raider ma che ne ha tutta la fisionomia, ha un jolly: col balzo del
titolo, potrebbe uscire con una ricca plusvalenza, se le cose non dovessero andare per il verso giusto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
@filippettinews
I big di media e tv in Europa
Capitalizzazione in milioni di euro (al 13/12/2016)
Vivendi
Sky
Sfr Group
Rtl Group
Ses Fdr
Itv
Prosieben
Sat 1
Telenet
Gr. Holding
Eutelsat
Communic.
Mediaset
23.867
20.245
11.048
10.529
9.470
9.218
8.357
6.044
4.276
4.234
Regole e mercato. Governo e Authority possono lanciare segnali importanti ai contendenti
La legge Gasparri sulla strada di Vivendi
Marco Mele
pTelecom
e Mediaset non
possono essere controllate da
uno stesso soggetto. Lo impedisce il Testo unico dei servizi
media audiovisivi, che ha recepito la legge Gasparri. Un soggetto che abbia una quota superiore al 40% sul mercato delle
comunicazioni elettroniche
non avere ricavi superiori al
10% del Sistema Integrato delle
comunicazioni (il Sic). Mediaset era al 13% nel 2014. Per le altre
società il limite è pari al 20 per
cento. Vivendi controlla Tele-
com? Secondo il Testo Unico, il
controllo sussiste anche nella
forma dell’influenza dominante. Quando, tra l’altro, un soggetto, da solo o in concertazione
con altri soci, eserciti la maggioranza dei voti dell’assemblea
ordinaria o possa nominare o
revocare la maggioranza degli
amministratori.
A parte tale norma, nessun governo può impedire ad una società europea di tentare di prendere
il controllo di un gruppo televisivo italiano. Le istituzioni possono però dare “segnali” significati-
vi , e non solo segnali. Il rinnovo
della concessione Rai, ad esempio, che sarà prorogata dal Milleproroghe, può imporre un tetto
più rigido alla pubblicità del servizio pubblico, “liberando” un
centinaio di milioni in direzione
di Canale 5. C’è la questione frequenze: entro fine 2017 l’Italia dovrà far approvare dall’Europa la
road map per abbandonare entro
il2022labanda700sullaqualetrasmettono tre reti digitali di Mediaset, definendo accordi con i
paesi confinanti entro giugno
2017. Le reti che dovranno traslo-
care riceveranno un indennizzo,
forse in percentuale sui proventi
della gara per la banda mobile da
indire su quelle frequenze. La regolamentazione, infine, non è
stata finora “contraria” a Mediaset,: un “segnale” al mercato potrebbe essere dato dai regolatori.
Quello di un possibile cambio di
rotta. L’Agcom potrebbe, o meno, riconoscere una posizione
dominante a Mediaset sul mercato in chiaro (istruttoria in corso).
E potrebbe, o meno, misurare
davvero il limite del 20% sul totale dei programmi tv nazionali .
L’ANALISI
Andrea
Franceschi
Perché nella
partita M&A
Francia batte
Italia 5 a 1
C
on l’ultima sortita di
Vivendi nel capitale di
Mediaset il ruolo dei
francesi come investitori
esteri di peso nella Borsa
italiana si consolida
ulteriormente. Da uno
screening che Il Sole 24 Ore ha
fatto usando la banca dati
S&P Capital IQ risulta che il
controvalore delle
partecipazioni azionarie in
mano a investitori transalpini
sia oggi pari a 34,5 miliardi di
euro. Cifra che vale il 7% della
capitalizzazione del listino
milanese e il 17% del totale
delle partecipazioni estere.
Una presenza forte, quella dei
francesi a Piazza Affari, a cui
non corrisponde un pari
attivismo da parte degli
italiani a Parigi. Facendo il
percorso inverso, e cioè
andando a calcolare il valore
delle partecipazioni di
soggetti italiani nella Borsa
francese, si ricava una cifra di
18,7 miliardi che equivale a
una briciola (0,97%) della
capitalizzazione della Borsa
di Parigi.
In termini assoluti la
presenza francese nel capitale
di Piazza Affari è inferiore a
quella dei grandi fondi
americani che hanno in
portafoglio oltre 91 miliardi di
euro in azioni. Ma se si vanno
a vedere le partecipazioni
rilevanti si può constatare
chiaramente come la
presenza francese sia ben più
importante. Se gli americani
sono presenti perlopiù con i
colossi del risparmio gestito
come Blackrock, Vanguard e
altri la presenza francese ha
un connotato più
spiccatamente industriale. Le
vicende che riguardano
Vincent Bolloré, le cui
partecipazioni (Mediobanca
e Mediaset e Telecom Italia)
valgono circa 4,2 miliardi di
euro, ma anche la maxi
acquisizione di Pioneer da
parte di Amundi (operazione
da 3,5 miliardi) sono solo gli
ultimi capitoli di un
campagna acquisti che i
colossi dell’industria e della
finanza francese, a caccia di
saldi nel Belpaese, hanno
condotto in questi anni.
L’acquisto di Lactalis da parte
di Parmalat, quello di Edison
da parte di Edf, le banche Bnl
e Cariparma finite in mano a
Bnp Paribas e Crédit
Agricole. Per non parlare dei
nomi del lusso come Bulgari,
e Loro Piana finite in mano al
colosso Lvmh. L’elenco
potrebbe continuare ma la
sostanza non cambia: i
numeri dicono chiaramente
che in questi anni il nostro
Paese è stato terra di
conquista per le aziende
francesi. Che sono più
capitalizzate, sanno fare
sistema e sanno riconoscere
le occasioni quando gli
passano davanti.
Un altro confronto che fa
pensare è sulle cifre che in
questi anni i francesi hanno
messo sul piatto per
comprarsi pezzi dell’industria
italiana. Da uno screening che
Il Sole 24 Ore ha fatto su tutte
le acquisizioni messe in atto
da società francesi su aziende
italiane negli ultimi 10 anni
risultano operazioni per un
controvalore di 29 miliardi di
euro. Facendo il percorso
inverso, e cioè andando a
vedere quanto le aziende
italiane hanno messo sul
piatto per fare acquisizioni
oltralpe negli ultimi 10 anni,
risultano operazioni di questo
tipo per un controvalore di
appena 6,3 miliardi di euro. Se
la contesa si fosse giocata su
un campo di calcio il risultato
sarebbe stato di 5 a uno in
favore dei francesi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
6
Mercati globali
Le previsioni sul costo del denaro
Ci saranno tre rialzi nel 2017 contro
una stima di due nel settembre scorso
LE MOSSE DELLE BANCHE CENTRALI
Fed: la stretta sarà più rapida
Aumentato di 25 punti base a 0,50-0,75% il corridoio dei tassi sui fed funds
Marco Valsania
NEW YORK
pLa Federal Reserve ha fatto
scattare ieri l’ormai atteso rialzo
dei tassi d’interesse americani,
riprendendo il cammino di normalizzazione della politica monetaria alla vigilia dell’insediamento d’un nuovo presidente,
Donald Trump, finora accolto da
entusiasmi in Borsa e nel business. Ma la Banca centrale ha aggiunto qualcosa di più. Pur senza
abbandonare la cautela sull’outlook di medio e lungo periodo forse un indiretto invito a raffreddare eccessivi bollori per il
neoinquilino della Casa Banca ha offerto un giudizio decisamente sereno e ottimistico sulle
condizioni attuali del Paese. E indicato, di conseguenza, d’essere
pronta ad accelerare il ritmo delle strette: nel 2017 ne ipotizza tre
anziché due, allineandosi con le
scommesse di numerosi operatori di mercato.
I tassi interbancari, passati in
queste ore allo 0,50%-0,75% dallo 0,25%-0,50% dove erano arrivati con la prima stretta di ormai
un anno fa, stando alle attese medie dei governatori della Banca
centrale - la traiettoria dei “dots”,
dei puntini sulla curva dei tassi saliranno l’anno prossimo fino
all’1,4% e non all’1,1 per cento. Immediata la reazione sulle piazze
finanziarie alla sorpresa: i rendimenti dei titoli del Tesoro americano e il dollaro sono decollati.
«La crescita è leggermente più
solida, la disoccupazione lievemente inferiore», ha detto la
Chairperson della Fed Janet Yellen nella conferenza stampa trimestrale sottolineando la «fidu-
cia nei progressi dell’economia». Yellen ha poi temperato il
giudizio precisando che il nuovo
percorso dei “dots” rappresenta
una «correzione molto modesta». E ha avvertito che è presto
per considerare l’effetto-Trump
sulla congiuntura: «Cambiamenti nella politica fiscale sono
soltanto uno degli elementi che
possono influenzare l’outlook e
il corso dell’attività economica».
La decisione della Fed di alzare i tassi è stata unanime, con tutti
e dieci i votanti a favore della
stretta. Di per sé già questa una
rarità, dopo che nei recenti meeting erano al contrario emerse
spaccature tra falchi e colombe,
tra coloro che auspicavano cioè
un atteggiamento più aggressivo
sul rincaro del costo del denaro e
chi invece voleva mantenere tuttora la politica monetaria più accomodante possibile e adesso ha
ceduto le armi. Come sottolinea
il comunicato congiunto, la Banca centrale ha tenuto conto con
una crescita «moderata» da metà anno a oggi, meglio che «modesta» come giudicata in passato. L’inflazione é inoltre «aumentata» e non più semplicemente «un po’ in aumento»,
anche se sempre al di sotto della
soglia del 2 per cento.
Alla conclusione di due giorni
di incontri al vertice, la Fed ha
confermato la prudenza collettiva ancora sposata quando si tratta degli orizzonti della ripresa. La
Banca centrale vede al momento
una crescita sostanzialmente invariata rispetto alle precedenti
stime di settembre per l’anno in
corso, pari all’1,9% invece che all’1,8%, come anche per il 2017, al
2,1% dal 2 per cento. L’espansione
di lungo periodo rimane da parte
sua del tutto immutata al passo
dell’1,8 per cento. La disoccupazione dovrebbe attestarsi al 4,7%
l’anno prossimo rispetto al 4,6%
odierno e al 4,8% immaginato in
passato per scendere al 4,5% nel
2018. L’inflazione potrebbe raggiungere l’1,9% nel 2017 e il desiderato target del 2% nel 2018, una
tempistica a sua volta congelata.
L’azione e le valutazioni della
Fed appaiono però allo stesso
tempo escludere preoccupazioni per le più recenti batterie
di dati deboli, che potrebbero
dimezzare la crescita del Pil nel
quarto trimestre rispetto al
3,2% del terzo. Le vendite al dettaglio sono lievitate dello 0,1%
in novembre, con frenate del
comparto digitale e flessioni
dai picchi dell’auto. Ma ottobre
era stato un mese particolarmente robusto e rispetto all’anno scorso le vendite sono comunque aumentate del 3,8%, né
hanno ragione di arrestarsi davanti a continue schiarite sul
mercato del lavoro e al rafforzamento della borsa, dove il Dow
Jones sta provando la scalata alla vetta psicologa dei 20.000
punti, e che si traduce in ricchezza almeno sulla carta. La
produzione industriale il mese
scorso è scivolata dello 0,4%, un
il calo dovuto quasi interamente al settore delle utilities a causa del clima particolarmente
mite che ha limitato il ricorso al
riscaldamento. Recuperi hanno invece preso piede nel settore minerario, riflesso del rincaro del petrolio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
AFP
Le previsioni sulla crescita Usa
Il Pil aumenterà dell’1,9% quest’anno,
del 2,1% il prossimo e del 2% nel 2018
L’EDITORIALE
Donato
Masciandaro
Una rotta
difficile
da tenere
per la Yellen
u Continua da pagina 1
U
Accelera la stretta. Janet Yellen durante la conferenza stampa di ieri
La crescita Usa
Var. % annua del Pil
2,5
1,6
2,2
1,7
2,4
2,6
1,9
2,1
2,0
1,9
-0,3
-2,8
’08
’09
(*) Stime Fed
’10
’11
’12
’13
’14
’15
’16* ’17*
’18
’19*
Fonte: Dip. Commercio Usa e Federal Reserve
na politica fiscale pro
ciclica porta con sé
rischi
macroeconomici evidenti:
effetti reali trascurabili,
surriscaldamenti della
dinamica dei prezzi, che
possono essere quelli dei beni
e servizi, e/o quelli finanziari,
e/o quelli immobiliari.
Quanto rilevanti sono tali
rischi? Se la politica
monetaria non è
accondiscendente, quindi
se la banca centrale è
indipendente, l’entità di tali
rischi vengono registrati
dalla struttura dei tassi di
interesse, che tendono a
svolgere una positiva
funzione anticiclica. Ma se
la banca centrale è
istituzionalmente debole
rispetto alla politica come
la Fed, il rischio di
accondiscendenza diventa
più alto.
Ma il sorgere del rischio di
distorsione politica può
avere anche una radice
diversa: il governo di turno
può avere l’incentivo ad
agevolare gli interessi della
industria bancaria e
finanziaria. Per agevolare gli
interessi della banca e della
finanza occorre un mix di
politiche ben preciso:
deregolamentazione
finanziaria per far aumentare
il debito privato, intrecciato e
finanziato da una politica
monetaria accondiscendente.
È un mix che negli Stati Uniti
conosco bene, visto che è
stata la ricetta prodromica
alla Grande Crisi del 2008.
Ora lo stesso rischio si
ripresenta con il Presidente
eletto Trump, che ha
annunciato di voler
smantellare anche quel poco
di riforma finanziaria che il
Presidente Obama ha
definito con la cosiddetta
legge Dodd-Franck. In altri
termini, in presenza di
deregolamentazione
finanziaria ci sono rischi di
eccesso di debito. Quanto
sono alti questi rischi? Di
L’INCOGNITA TRUMP
Una politica fiscale
prociclica porta con sé
rischi macroeconomici
evidenti a partire dalla
dinamica dei prezzi
LA PAROLA
CHIAVE
Fed funds
7I Fed funds sono i fondi federali
di riserva che le banche Usa sono
obbligate a detenere sotto forma di
depositi presso la Federal Reserve.
L’eccedenza del deposito rispetto
al minimo stabilito può essere
venduto ad altri istituti. Il tasso di
riferimento ad essi applicato
alimenta il mercato interbancario
overnight.
nuovo, se la politica
monetaria non è
accondiscendente, la
struttura dei tassi di interesse
potrà fare da termometro, e
da ammortizzatore, della
crescita del rischio
finanziario sistemico. Ma di
nuovo, se la banca centrale è
dipendente come la Fed, il
rischio di cattura politica
diviene più alto.
È destino dunque della Fed
di essere vittima della cattura
politica? No, se è la stessa
banca centrale a definire una
regola di politica monetaria,
che definisca i suoi obiettivi,
nonché la sua flessibilità, per
aumentare le possibilità di
essere uno strumento di
stabilizzazione
macroeconomica.
Ma la Fed – soprattutto con
la Yellen – ha rinunciato da
tempo a questa possibilità,
scegliendo una strategia di
completa discrezionalità,
appena temperata dalla
definizione di un obiettivo in
termini di inflazione. È questa
la ragione strutturale di
debolezza della Fed. La
discrezionalità consente al
banchiere centrale la
completa autoreferenzialità.
Ma identificare
l’indipendenza della banca
centrale con la
discrezionalità del banchiere
centrale – è quello che nei
fatti fa la Yellen – indebolisce
la posizione della Fed,
soprattutto se l’interlocutore
governativo ha l’aggressività
– almeno potenziale – di
Trump. Una Fed debole priva
l’economia – statunitense e
mondiale - di un prezioso
elemento di stabilizzazione.
Il nocchiero senza rotta –
perché opportunista - non
danneggia solo la sua nave.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
7
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
8
Mercati globali
Il Vecchio Continente
Seduta in attesa della decisione sui tassi:
-0,35% Francoforte, -0,72% Parigi, -0,28% Londra
LA GIORNATA
Gli eccessi di New York
L’attuale valore del P/e di Shiller
riferito all’S&P 500 è di 28,3 volte
Balza il dollaro, sbandano i titoli di Stato Usa
L’ANALISI
Vittorio
Carlini
Il rialzo della Fed non scuote Wall Street - Seduta in flessione per le Borse europee: Milano cede l’1,18%
Maximilian Cellino
pAvanza il dollaro, sbandano i
titoli di Stato Usa mentre Wall
Street resta lì guardinga in attesa
di valutare con più calma la decisione con cui la Federal Reserve
ha aumentato i tassi per la seconda
volta a distanza esatta di un anno
dall’ultima stretta. Non si sono
certo strappati i capelli gli investitori di fronte a una scelta che in
fondo era nell’aria, a maggior ragione dopo l’elezione di Donald
Trump alla Casa Bianca.
Alla fine l’attenzione si è piuttosto concentrata sulle parole con
cui la presidente Janet Yellen ha
subito dopo giustificato la decisione e soprattutto sulle previsioni a medio-lungo termine degli
stessi banchieri Usa. I cosiddetti
«dots» (cioè i punti che individuano sul grafico il livello dei tassi che
ciascun membro Fomc vede per il
futuro) mostrano un atteggiamento potenzialmente più aggressivo rispetto al recente passato e lasciano presagire tre ulteriori
rialzi dei tassi nel 2017 (erano due
nel precedente meeting) e ancora
due l’anno successivo.
Proprio per tale motivo i rendimenti Usa sono saliti lungo tutta la
curva e i future sui Fed Funds sembrano adesso scontare al 100% un
ulteriore ritocco per la prossima
estate, mentre il dollaro ha da parte sua spinto l’euro di nuovo sotto
quota 1,06. Per la verità queste indicazioni si sono rivelate poi eccessive alla prova dei fatti nelle occasioni in cui la Fed si è mossa (un
anno fa si prevedevano addirittura 4 rialzi nel corso del 2016) ed è
forse per questo che la reazione
della Borsa di New York è stata incerta: prima un nuovo record per
il Dow Jones a un passo da quota
20mila, poi la successiva discesa.
In precedenza l’Europa aveva
vissuto in sostanziale attesa della
decisione Fed e con la prevalenza
sull'azionario di prese di beneficio dopo le sette sedute consecutive di rialzo e durante le quali gli indici continentali hanno raggiunto
i massimi degli ultimi 11 mesi. Così
si spiega infatti il -0,35% registrato
ha alzato i tassi per la prima volta, i mercati finanziari non
l’hanno presa bene bene: tra
gennaio e febbraio un violento
terremoto si è infatti abbattuto
sulle Borse mondiali, con epicentro i Paesi emergenti. Più o
meno la stessa cosa accadde tra
maggio e settembre 2013, quando la Fed iniziò a ridurre gli stimoli monetari con il cosiddetto
tapering. Ieri sera la Fed, come
atteso, ha alzato nuovamente i
tassi, ma - almeno in apparenza
- il clima sul mercato è completamente diverso: Wall Street
viaggia beata sui massimi storici, le Borse europee si stanno riprendendo nonostante l’incertezza politica, i Paesi emergenti non stanno soffrendo più di
tanto. È un buon segnale? Oppure è la classica calma prima
della tempesta? Rispetto all’anno scorso, ci sono almeno
tre motivi per non prevedere
particolari turbamenti. Ma
anche tre rischi da non sottovalutare. Eccoli.
Perché la Fed non spaventa
Tra gennaio e febbraio 2016 il
panico sulle Borse è nato nei Paesi emergenti, Cina in testa: cioè nelle aree del mondo
più fragili in caso di rialzo dei
tassi Usa. Il nesso tra la banca
centrale Usa e il Sud del mondo
è il debito. Calcolava un anno fa
Indipendent Strategy che il debito delle imprese dei Paesi
emergenti è infatti passato dall’85% del Pil nel 2008 al 105% di
fine 2015. Una montagna. Per di
più molti di questi debiti (fino al
al 60-80% in certi Paesi) sono
denominati in dollari. E, calcolava l’If, a fine 2015 solo il 30% di
questa esposizione era coperta
dal rischio valutario. Morale: il
rialzo dei tassi Fed a dicembre
2015 e il conseguente rincaro del
dollaro hanno causato il panico
nelle Borse dei Paesi emergenti. A partire dalla Cina. Portando la bufera in tutto il mondo.
Oggi alcuni di questi motivi
sono, almeno in parte, ridimensionati. Innanzitutto non c’è
più l’aggravante del petrolio
debole: questo è il primo elemento che rende oggi molti Paesi emergenti più resistenti al
rialzo dei tassi Usa. Inoltre le
imprese dei Paesi emergenti, e
quelle cinesi in prima fila, hanno avuto tutto il tempo per “coprirsi” dal rischio cambio. Questo è il secondo motivo che le
rende probabilmente meno
vulnerabili. Ricordate quando,
nei mesi scorsi, lo yuan si indeboliva rispetto al dollaro e costringeva la banca centrale ci-
Dollari per un euro
1,068
1,0637
1,0576
to anche alla rapida soluzione della crisi politica nel nostro Paese.
Tornando alla Germania resta
tuttavia da segnalare che la continua discesa sui rendimenti sulla
parte a breve della curva dopo le
decisioni prese la scorsa settimana dalla Bce ha portato il biennale
al minimo storico di -0,77%, ben al
di sotto del -0,40% del tasso sui depositi che del resto non è più il limite minimo di riacquisto da parte di Francoforte.
Unica ma rilevante eccezione
nel panorama europeo è stata la
nuova fiammata dei rendimenti
greci (il decennale è tornato sopra
il 7%, il 2 anni addirittura all’8%)
che si è accompagnato alla seduta
pesante della Borsa di Atene
(-3,21%) dopo la decisione dell’Eurogruppo di sospendere le misure
di alleggerimento del debito ellenico: un duello, quello fra il governo Tsipras e Bruxelles, che gli investitori lasciano evidentemente
per il momento confinato alle sole
attività greche.
C
W
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
nese a bruciare riserve per evitare la svalutazione eccessiva?
Ebbene: il motivo era in buona
parte legato al fatto che le imprese cinesi compravano dollari (e vendevano yuan) per
rimborsare anticipatamente i
debiti in valuta americana. Secondo i dati della Bri, l’esposizione delle banche mondiali
verso la Cina è infatti calata da
1.100 miliardi del 2014 a 695 miliardi di fine marzo 2016. Insomma: le aziende emergenti
sono oggi verosimilmente meno esposte sul dollaro. Questo
non significa che siano forti o
meno indebitate, ma che sono
probabilmente meno vulnerabili di un anno fa.
C’è poi un terzo motivo che
rende i mercati oggi più indifferenti alla «stretta» della Fed:
la speranza, avvalorata dall’elezione di Donald Trump,
che i Governi varino politiche
fiscali più espansive sopperendo - in questo modo - alle “carenze” della politica monetaria. Questo è vero negli Usa, ma
anche da altre parti del mondo.
Meno in Europa. Infine la Cina
- osserva Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo - si
sta un po’ riprendendo dal punto di vista economico: un anno
fa stava registrando un pesante
rallentamento.
I tre rischi da monitorare
1,066
1,064
1,062
1,060
1,058
1,056
1,054
15:30
20:26
© RIPRODUZIONE RISERVATA
inque mesi fa i “mercati”
scontavano a malapena la
metàdellestrettemonetarie previste dalla Fed. E, ancora a
inizio novembre, non credevano
nemmeno a un piccolo rialzo dei
tassi a dicembre. Per anni hanno
avuto ragione, poiché la banca
centrale aveva sempre (tranne
nel dicembre scorso) trovato
motivi o pretesti per lasciare le
cose come stavano. Se la Fed era
accusata d’essere «dietro la curva», ossia di muoversi in ritardo, i
mercati erano rimasti ben oltre le
spalle di Yellen e compagni.
Ma con l'elezione di Donald
Trump, i mercati hanno deciso
che l’era dei bassi tassi d’interesse è finita e che l’inflazione
avrebbe corso grazie alla «rivo-
luzione» promessa dal nuovo
presidente. Si direbbe che i mercati siano diventati più realisti
del re, se non fosse che l’euforia
per la ventura presunta rivoluzione ha portato, assieme alla
diffidenza per l’establishment,
la demitizzazione della Fed.
Il prossimo passo sarà (forse)
demonizzarla, visto che il Fomc,
pur ritoccando i tassi dello 0,25%,
non ha sposato l’entusiasmo per
la presunta rivoluzione di
Trump. Il pil è previsto crescere
un decimale in più e i tassi nei
prossimi anni saliranno un po’
più di quanto si prevedesse a settembre, ma meno di quanto la
Fed stimava 6 mesi fa.
Se sotto molti punti di vista oggi
i mercati sono più resistenti alle
«strette» della Fed, restano però almeno tre rischi. Innanzitutto le aziende dei Paesi emergenti restano indebitate: forse
meno esposte al dollaro rispetto a un anno fa, ma comunque
indebitate ancora fino al collo.
Calcola la Bri che il 10% delle
obbligazioni aziendali denominate in dollari giungeranno a
scadenza nel 2017: questo potrebbe portare comunque instabilità sui mercati. Poi - come
sottolinea Alberto Gallo di Algebris - i mercati emergenti
hanno ancora varie fragilità: da
un lato soffrono per il crescente
protezionismo commerciale
(non solo da parte di Trump),
dall’altro potrebbero subire
pressioni se la Fed rialzasse i
tassi più velocemente del previsto. Il mercato si attende infatti solo due rialzi dei tassi nel
2017, ma se l’inflazione dovesse
correre più del previsto le
«strette» potrebbero essere di
più. E il comunicato della Fed di
ieri sera un po’ lascia pensare
che questa possibilità sia concreta: in tal caso i mercati, a partire da Wall Street, potrebbero
essere presi in contropiede.
I tre motivi per cui
la «stretta» Fed
non allarma i mercati
pUn anno fa, quando la Fed
L’euro-dollaro
all Street ha
collezionato
record su record.
Livelli impensabili fino a
qualche tempo fa. Tanto che
molti temono lo scoppio di
una bolla. La paura è
giustificata? Oppure, nell’era
dell’eccesso di liquidità, i
tradizionali multipli sono
inadatti e c’è nulla da temere?
La risposta è articolata. Il
classico rapporto, ad
esempio, tra prezzo del titolo
e utile per azione ha ormai
poco significato. E, tuttavia,
altri indicatori possono dare
una mano per comprendere
il reale stato della situazione.
Tra questi c’è il cosiddetto
P/e di Shiller, dal nome
dell’economista che lo ha
costruito. Siamo sempre di
fronte al confronto tra le
quotazioni di un’azione e i
profitti aziendali. Qui però
sono stati realizzati alcuni
correttivi. In primis sul
fronte del reddito aziendale,
al fine di eliminare l’effetto
del ciclo economico, si
considerano gli ultimi 10
anni. Inoltre gli utili sono
normalizzati rispetto a
inflazione e fluttuazioni del
dollaro. Ciò detto l’attuale
valore del P/e di Shiller,
riferito all’ S&P 500, è 28,3
volte. Vale a dire un livello
superiore alla sua media
storica di 16,7. Insomma: il
rapporto indica una
rischiosa sopravalutazione
di Wall Street. Al che però
sorge il dubbio. Nel recente
passato il ratio aveva già
toccato livelli elevati.
Ciononostante la Borsa di
New York ha proseguito il
rally. L’obiezione è corretta.
E però c’è una novità da
sottolineare. Due
economisti, Valentin
Dimitrov e Prem C. Jan,
hanno passato ai raggi X la
reale validità del P/e di
Shiller. Dopo avere
confrontato molti dati e
considerato complesse
statistiche sono giunti alla
seguente conclusione:
l’indicatore ha una sua
validità predittiva solo
quando è realmente elevato.
Cioè nel momento in cui
supera la soglia di 27,6.
Ebbene: attualmente il P/e di
Shiller è oltre quel livello.
Con il che, seppure non ci
troviamo in una situazione di
panic selling, può dirsi che il
rischio di un ritracciamento
non è da escludere. Anche
perchè ci sono due altre
condizioni importanti. La
prima è il proseguire, da
parte della Fed, lungo la
strada della stretta
monetaria. È vero: il mercato
l’ha scontata e la
«Trumpenomics» traina i
listini. E però, al di là della
possibilità delle aziende di
sfruttare ancora l’ingente
cassa per effettuare buyback
(125,1 miliardi di dollari tra
inizio maggio e fine luglio),
l’età dell’eccesso di liquidità
potrebbe iniziare a vedere la
fine. La seconda, invece,
riguarda la cosiddetta
Warren Buffet rule. Questa è
costituita dal rapporto del Pil
statunitense con la
capitalizzazione
complessiva dei mercati a
stelle e strisce. Il ratio,
attualmente, vale il 127,3%
cioè una percentuale che,
secondo GurusFocus,
implica una significativa
sopravalutazione. Alla fine,
da una parte, i segnali che
Wall Street possa invertire la
rotta sono sempre più
pressanti. Ma dall’altra non è
detto che gli investitori, da
troppi anni drogati dal
«monetadone», decidano di
tirare il freno a mano.
Almeno adesso.
Lo scenario. I cambiamenti negli Emergenti
Morya Longo
da Francoforte, il -0,72% di Parigi e
il -0,28% di Londra.
Leggermente più pesante il bilancio di Madrid (-1,21%) e quello
di Piazza Affari (-1,18%) dove la
parte forte degli scambi si è di
nuovo concentrata su UniCredit
(in calo del 6,5% dopo il rally che
aveva seguito l’annuncio del piano industriale il giorno precedente) e su Mediaset (+1,6% dopo aver toccato anche +9% e con
volumi scambiati pari al 7% del
capitale mentre è in corso l’operazione Vivendi).
Relativamente più movimentata la giornata sull’obbligazionario, caratterizzata da un generale
recupero (il terzo consecutivo)
delle quotazioni dei titoli e dal
conseguente calo dei rendimenti
dei titoli di Stato. Il fatto che il movimento sia stato più accentuato
sulle scadenze lunghe e sui bond
della periferia ha permesso al BTp
decennale di ridurre il proprio tasso all’1,80% e lo spread con il Bund
di pari durata a 150 punti base: un
riflesso quest’ultimo in parte lega-
La Wall Street
dei record
Politica monetaria. La reazione dei mercati
Se la Fed non sposa l’entusiasmo e il rischio
della «bolla»
per il «paradigma-Trump»
W.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
9
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
10
Il nuovo governo
L’oggetto dei quesiti referendari
Jobs act e articolo 18, responsabilità solidale
di appaltatore e appaltante, lavoro accessorio
IL CONFRONTO POLITICO
Referendum Jobs act,
l’11 gennaio la Consulta
decide l’ammissibilità
La Corte si pronuncerà sui tre quesiti proposti dalla Cgil
Donatella Stasio
ROMA
pTra il 15 aprile e il 15 giugno
del 2017 si potrebbe andare a
votare per un altro referendum, quello chiesto dalla Cgil
per abrogare una serie di disposizioni in materia di occupazione e licenziamenti, molte delle
quali contenute nel cosiddetto
Jobs Act. Il condizionale, però,
è d’obbligo, perché si andrà alle
urne soltanto se la Corte costituzionale, l’11 gennaio, dichiarerà «ammissibili» le tre richieste referendarie, supportate da
oltre 3 milioni di cittadini italiani e giudicate legittime dalla
Cassazione il 9 dicembre scorso. Peraltro, in caso di via libera
della Consulta, il referendum
potrebbe saltare qualora, prima del voto, il Parlamento approvasse una legge che va nella
stessa direzione indicata dai
proponenti(cosa improbabile
con questa maggioranza) oppure vi fosse (cosa invece più
probabile) lo scioglimento anticipato delle Camere, con conseguenti elezioni politiche (nel
qual caso, la consultazione popolare slitterebbe di un anno).
L’udienza della Consulta è
stata fissata ieri. L’11 gennaio alla ripresa dei lavori dopo la
pausa natalizia - saranno quindi esaminati in camera di consiglio i tre quesiti referendari del-
la Cgil, alla luce dei criteri di
ammissibilità: «omogeneità,
chiarezza, univocità».
Tre i giudici cui è stato assegnato il compito di relatore. Silvana Sciarra - professoressa di
diritto del lavoro eletta dal Parlamento a novembre 2014 in
quota Pd - si occuperà del primo quesito, che punta all’abrogazione del cosiddetto Jobs Act
(il decreto legislativo n. 23 del
2015) e di alcune disposizioni
dell’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori, con l’obiettivo di ripristinare - ma anche nelle
aziende con più 5 dipendenti l’obbligo di reintegrare in servizio chi sia stato licenziato per
motivi disciplinari giudicati illegittimi (salvo che il lavoratore opti per un congruo risarcimento); per le aziende fino a 5
dipendenti, invece, il reintegro
non sarebbe automatico ma a
discrezione del giudice.
Mario Morelli - presidente di
sezione della Cassazione, che
lo ha eletto nel 2011 - sarà il relatore del secondo quesito, riguardante l’abrogazione delle
disposizioni che limitano la responsabilità solidale di appaltatore e appaltante (articolo 29
del decreto legislativo n.
276/2003); l’obiettivo del referendum è assicurare piena tutela a tutti i lavoratori, a prescindere dal loro rapporto con
il datore di lavoro.
Infine, il terzo quesito è stato
assegnato al giudice Giulio
Prosperetti - giuslavorista
eletto dal Parlamento a dicembre 2015 in quota centristi - e
punta all’abrogazione delle
norme, sempre del Jobs Act,
sul «lavoro accessorio», i cosiddetti voucher usati in maniera flessibile, inventati per
cercare di regolarizzare le piccole prestazioni di lavoro solitamente pagate in nero ma che,
secondo la Cgil, sono invece
diventati lo strumento per
«accettare impieghi al ribasso,
senza diritti e con una risibile
contribuzione ai fini previdenziali»: dunque, uno strumento
che «non combatte il lavoro
nero e irregolare» ma ne determina una «sommersione».
Il verdetto della Corte è temuto, da governo e maggioranza, più di quello del 24 gennaio
sull’Italicum perché un eventuale via libera al referendum
sul Jobs Act rischia di trasformarsi nella bocciatura di un’altra riforma (dopo quella costituzionale) targata Renzi. L’unico modo per evitare una seconda débacle sarebbe, quindi,
andare alle elezioni anticipate
in primavera inoltrata, facendo
così saltare la consultazione referendaria.
pStringere sul programma, ri-
partire dalle piazze - con un doppio flash mob domani a Siena e
domenica in Val di Susa, in nome
delle battaglie su Mps e No Tav - e
ritrovare la freschezza delle origini. Perché «certi sguardi non mi
piacciono». All’assemblea dei
parlamentari Cinque Stelle che si
è riunita ieri sera a Montecitorio il
capo politico Beppe Grillo, insieme a Davide Casaleggio, ha di
nuovo chiamato alle armi “gli
eletti” su questo triplo fronte. Motivandoli: «State facendo la storia
della politica italiana. Ogni qualvolta parlano male di voi vuol dire
che abbiamo vinto».
È stato il primo incontro dei
vertici con i parlamentari dopo la
vittoria del No al referendum. Nel
giornodelvotodifiduciaalgoverno Gentiloni in Senato, cui il M5S
ha stavolta deciso di votare contro (questione di numeri, spiegano, per marcare l’esiguità della
maggioranza) esponendo, nonostante il richiamo del presidente
Pietro Grasso, una serie di cartelli
gialli con la scritta “20 milioni di
no”. Ma il vertice arriva anche dopo il monito di Grillo via blog, la
scorsa settimana, a evitare «correnti» e divisioni e in piena ennesima bufera sulla giunta capitolina di Virginia Raggi.
Il Movimento ha bisogno di
carburante per correre verso le
prossime elezioni. Più piazza e
meno palazzi, è la strategia dettata da Grillo. Da qui i flash mob nei
luoghi simbolo delle lotte del M5S
e la carica contro le prossime misure dell’esecutivo su Mps: oggi i
pentastellati illustreranno la loro
strategia per la nazionalizzazione
dell’istitutoseneseelariformadel
sistema bancario, con la proposta
di una banca pubblica per gli investimenti.
«Sono ottimista, ci iniziano a
vedere come forza di governo»,
ha detto Grillo ai suoi. L’orizzonte
del voto a giugno o anche prima,
ventilato dal Pd per scongiurare il
rischio di un referendum sul Jobs
Act, impone di accelerare su programma e squadra di governo.
Anche se la linea ufficiale dei grillini resta quella del voto subito,
dopo la pronuncia della Consulta
sull’Italicum, con quella legge
modificata estesa anche al Senato. «Qui in Parlamento stanno già
facendo di tutto, invece, per durare il più possibile cercando di arrivare alla scadenza del 2018», ha affermato il vicepresidente della
Camera Luigi Di Maio, che resta il
candidato premier in pectore.
L’ASSE CON LA LEGA
Salvini lo smentisce:
«In questo momento
un’alleanza con i grillini
sarebbe impossibile.
Peggio per loro»
LE PROSSIME MOSSE
L’assemblea dei parlamentari
 Ieri Beppe Grillo (foto) e
Davide Casaleggio sono scesi a
Roma per partecipare
all’assemblea congiunta di
deputati e senatori M5S
convocata per calendarizzare le
prossime iniziative di piazza
I due flash mob
 Due al momento gli
appuntamenti in programma
due “flash mob” in due luoghi
simbolo delle battaglie del
Movimento: domani a Siena
proprio mentre imperversa la
bufera sul Mps e poi in Val di
Susadomenica, per sostenere la
storica battaglia dei No Tav
L’ANALISI
Claudio
Tucci
I QUESITI
LEGITTIMITÀ
AMMISSIBILITÀ
LA DATA
Il 1° luglio la Cgil ha depositato in
Cassazione 1,1 milioni di firme
per ciascuno di tre referendum:
cancellazione dei voucher,
reintroduzione della piena
responsabilità solidale in tema di
appalti e nuovo reintegro in caso
di licenziamento illegittimo in
aziende sopra i 5 dipendenti
Le richieste dei tre referendum
abrogativi su disposizioni in
materia di lavoro presentate
dal sindacato di Susanna
Camusso sono state dichiarate
conformi a legge dall’Ufficio
centrale per il referendum
presso la Cassazione lo scorso
9 dicembre
Spetta ora alla Corte
costituzionale pronunciarsi
sull’ammissibilità dei quesiti.
La Consulta ha stabilito che li
esaminerà nella camera di
consiglio dell’11 gennaio 2017 (il
termine ultimo era il 20 gennaio),
in aggiunta ad altre cause
già fissate
Ricevuta comunicazione della
sentenza della Consulta, il
Presidente della Repubblica
fissa le elezioni in una
domenica compresa tra il 15
aprile e il 15 giugno. Ma in caso
di elezioni anticipate i termini
vengono sospesi per un anno
dalla data del voto
Regole certe
che hanno dato
credibilità
all’Italia
S
«Noi non ci prestiamo ad alcuna
manovra dilatoria. Compresa
quella di tavoli e sottotavoli sulla
riforma della legge elettorale che
sono solo armi di distrazione di
massaedidistruzionedellapolitica che si occupa dei problemi dei
cittadini e non del palazzo». Il
possibile rivale di Di Maio nella
corsa per la premiership, Roberto
Fico, ha aggiunto, rispondendo a
chi gli chiedeva la posizione del
Movimento sull’ipotesi di una
consultazione sulla riforma del
lavoro: «Se andiamo a votare subitosaràilpiùgrandereferendum
e se vinciamo alle elezioni noi il
Jobs Act sarà solo un ricordo».
Sul programma il lavoro dei
Cinque Stelle è a buon punto. Ieri
gli attivisti hanno cominciato a
votare online i primi punti riguardanti l’energia. Sarà Casaleggio jr
il regista dell’operazione: oggi incontrerà uno alla volta i gruppi tematici di parlamentari incaricati
di scrivere le linee programmatiche sui singoli dossier. Politica
estera e difesa sono in dirittura
d’arrivo. Su lavoro e pensioni si
stringe: è là, con il reddito di cittadinanza, il cuore della proposta
politica con cui il M5S tenterà la
scalata al timone del Paese. Non a
caso, tra le mobilitazioni allo studio, c’è anche un tour dedicato
proprio alla misura universale
contro la povertà, magari nelle
periferie. Potrebbe ripartire Alessandro Di Battista, che ieri ha
scritto ai «denigratori del M5S» e
agli elettori dem: «Restate del Pd,
votateeternamenteilPd,fatequel
che volete ma non chiudete gli occhi. Proprio chi è del Pd dovrebbe
indignarsi per quel che sta accadendo oggi. Pensateci».
Grillo sarà in prima linea nelle
piazze. Ma più volte, nel corso
dell’assemblea, ha chiamato “leader” Casaleggio jr: la certificazione della diarchia ai vertici del
M5S. Che continuano a escludere
apparentamenti. Come la Lega,
principale “indiziata” di avvicinamenti. Un’alleanza, ha detto Salvini in un’intervista a Panorama,
sarebbe impossibile. E ha aggiunto: «Peggio per loro».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
M5S: «Non ci presteremo
a manovre dilatorie»
ROMA
I passaggi verso la consultazione
e c’è un effetto che viene
riconosciuto, in modo
piuttosto pacifico, al Jobs
act è quello di aver ridato
credibilità all’Italia, dopo
decenni di ritardi e riforme
mancate. È sufficiente
ricordare i numerosi solleciti
ricevuti dal nostro Paese (a
partire dalla “famosa” lettera
della Bce del 2011) a rendere più
flessibile il mercato del lavoro,
puntando su un moderno
sistema di protezioni sociali,
per cogliere l’importanza della
legge Renzi-Poletti anche fuori
dai confini nazionali. Il
provvedimento, poi attuato da
otto decreti legislativi, è stato
subito apprezzato dai
principali enti e organismi
esteri; e in Europa è
considerato un tassello
centrale del processo
riformatore italiano.
Il perchè risiede anche nella
fisolofia che ha animato la sua
promulgazione. Le nuove
regole, con l’introduzione del
contratto a tutele crescenti e il
giro di vite sui rapporti di
impiego “fasulli”, ha un
obiettivo piuttosto chiaro:
cogliere quei timidi segnali di
crescita, incentivando, con il
mix sgravi contributivi e regole
chiare, le forme di lavoro
virtuose (vale a dire, quelle
“alle dipendenze”), e al tempo
stesso, contrastando le forme
“più precarie” (cercando, così,
di porre un argine all’abuso di
partite Iva e finte
collaborazioni, penalizzanti in
primis per i giovani).
La sfida è quella di far
tornare a rendere “appetibile”
alle imprese la forma normale
d’ingresso nel mercato del
lavoro, cioè il contratto a
tempo indeterminato. E i primi
numeri mostrano che ciò si sta
realizzando: la percentuale di
nuovi ingressi stabili - sul totale
dei contratti attivati - è salita,
ha detto l’Inps, al 29,3% (quasi
uno su tre), e da marzo 2015
(entrata in vigore delle tutele
crescenti) a ottobre 2016
(ultimo dato disponibile) l’Istat
ha certificato un aumento di
421mila occupati, di cui ben
365mila “permanenti”.
Certo, l’economia, ancora
fiacca, non è riuscita a fare “da
moltiplicatore”; ma aver ridato
certezza del diritto agli
operatori è stato senz’altro un
altro passo avanti.
In questo senso, proporre un
nuovo cambiamento delle
regole, per reintrodurre la
tutela reale in caso di
licenziamento disciplinare
giudicato illegittimo, come
chiede uno dei tre quesiti della
Cgil, e riaffidando, in ultima
analisi, alle decisioni
“discrezionali” dei giudici le
scelte di politica aziendale,
addirittura nelle realtà fino a 5
dipendenti, rischia di
vanificare gli sforzi finora fatti;
e come nel classico gioco
dell’oca, di far tornare tutti alla
casella di partenza.
Anche perchè l’evocata
crescita dei licenziamenti
disciplinari non è collegata
all’arrivo del contratto a tutele
crescenti, quanto piuttosto al
crollo delle dimissioni per la
nuova procedura piuttosto
ostica specie per i lavoratori
stranieri; e inoltre sul boom dei
voucher (qui la Cgil chiede di
cancellare l’istituto) ancora
non si vedono gli effetti della
tracciabilità, in vigore da
ottobre, introdotta dal
governo Renzi.
Insomma, tornare indietro,
andando addirittura oltre lo
Statuto dei lavoratori degli
anni ’70 ,rischia di riportarci
nel passato. E soprattutto di
allontanarci dalle sfide che ci
attendono nell’immediato
futuro: Industria 4.0,
nuovi lavori, una rinnovata
politica industriale.
Opposizioni. No alla fiducia - Grillo motiva i parlamentari e annuncia due giorni di flash mob
Manuela Perrone
La possibile data
Se la Corte li riterrà ammissibili si andrà
alle urne tra il 15 aprile e il 15 giugno 2017
Esecutivo e data del voto. Poletti: «Elezioni prima del referendum» - È polemica per le parole del ministro - Ma Guerini conferma l’orizzonte per le politiche
Il nuovo quesito scuote Pd e maggioranza
Renzi conferma la linea: elezioni entro giugno
Emilia Patta
ROMA
pSul Pd, sul suo leader Matteo
Renzi e sulla maggioranza di governo irrompe come una bomba
ad orologeria la data in cui potrebbe svolgersi il referendum
sul Jobs Act dopo che la Consulta
ha reso noto che inizierà l’11 gennaio 2017 l’esame sull’ammissibilità delle richieste relative a tre
referendum abrogativi proposti
dalla Cgil e sottoscritti da tre milioni di italiani. Se i giudici costituzionali riterranno ammissibili
i quesiti, dunque, come detta la
legge si dovrà celebrare il referendum tra il 15 aprile e il 15 giugno. Ed è il ministro del Lavoro
Giuliano Poletti a lasciarsi sfuggire, durante le votazioni sulla fiducia al nuovo governo Gentiloni in Senato, che la soluzione sarà
quella di andare a votare prima di
giugno in modo da far slittare il
referendum di un anno. Un’uscita che ha provocato irritazione
tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno, tanto che lo stesso Poletti
ha voluto precisare: «Le mie af-
SINDACATI DIVISI
Camusso: «Ogni slittamento è
mancanza di coraggio». Uil:
«Nella contrattazione la via
per le correzioni al Jobs act».
Cisl: «Aspettiamo la Consulta»
fermazioni non sono altro che
l’ovvia constatazione che, qualora si andasse a elezioni politiche
anticipate, la legge prevede un
rinvio del referendum».
Come che sia, l’orizzonte
temporale del nuovo governo è
stato fissato dallo stesso Renzi
già nelle ore successive alla
sconfitta referendaria del 4 dicembre ed è stato ribadito per
maggiore chiarezza ieri sera dal
vicesegretario del Pd Lorenzo
Guerini a Porta a porta: al voto
entro giugno. Rilanciando la
candidatura di Renzi per il congresso del Pd, e dunque smentendo indirettamente l’ipotesi di
celebrare solo le primarie per la
premiership, Guerini ha sottolineato come giugno è una data realistica per tornare alle urne: «Il
G7 importante è a maggio, poi ci
sono i G7 di settore... Ma volendo si può votare a giugno. È tutto
un ragionamento italico dire che
non si possono fare le elezioni
perché ci sono appuntamenti internazionali, dal momento che
c’è comunque un governo in carica». E certo il Pd di Renzi non
può rischiare un’altra batosta refendaria sul suo progetto riformatore, e il Jobs Act è il cardine
dell’esperienza di governo nata
nel 2014. Per motivi opposti la
minoranza Pd salta sul carro
aprendo un altro fronte di guerra: «Più che invocare le urne per
evitare che si svolga il referendum - attacca Roberto Speranza
- è necessario cambiare subito il
Jobs act». Dura anche la leader
della Cgil Susanna Camusso:
«Ogni slittamento significa non
avere il coraggio di affrontare i
problemi». Diversa la posizione
del leader della Uil Carmelo
Barbagallo, che indica nella contrattazione la via per le “correzioni”. Mentre la leader della Cisl Annamaria Furlan invita ad attendere la decisione della Consulta sull’ammissibilità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Sole 24 Ore
Giovedì 15 Dicembre 2016 - N. 344
11
Il nuovo governo
Il rispetto delle Camere
«Invito chi ha avversato la riforma alzando
la bandiera del Parlamento a rispettarlo adesso»
L’OK DI PALAZZO MADAMA
Il disagio sociale
L’appello del premier: «Serve serietà perché
la povertà in crescita non si risolve con facili slogan»
Gli snodi politici tra art.18 e Vivendi e il «caso» Napoli che scuote il Parlamento
u Continua da pagina 1
G
li scenari continuano a muoversi di ora
in ora ma i calcoli sulle elezioni si fanno
sempre più insistenti, al punto da cominciare a individuare anche le date possibili.
Tra l’altro, il gravissimo episodio capitato all’ex deputato di Forza Italia, Osvaldo Napoli,
aggredito da un blitz dei “Forconi” a due passi
da Montecitorio, rivela tutta la tensione che si
sta scaricando sul Parlamento. Anche questo è
un elemento che entra nelle valutazioni sul voto e sulla possibilità di tenuta della legislatura
fino al 2018. Soprattutto se la pressione sociale,
se la spinta della “piazza”, si faranno più forti.
POLITICA 2.0
Economia & Società
di Lina Palmerini
169
I sì alla fiducia in Senato
I voti di fiducia a Gentiloni a Palazzo Madama
In questo senso il prossimo appuntamento
referendario sull’articolo 18 potrebbe esasperare il clima. Si attende il responso della
Consulta, che l’11 gennaio deciderà sull’ammissibilità del quesito sul Jobs act, ma il Pd ha
già mostrato di temere questo nuovo round
con l’opinione pubblica. Quella dichiarazione del ministro Poletti – poi corretta e reinterpretata – è il chiaro segno di una debolezza
quando si dice apertamente che le elezioni
anticipate rinvierebbero il test popolare. A
maggior ragione perché per tutti questi mesi,
Matteo Renzi non ha fatto che rivendicare i risultati di quella legge, insistendo sui dati posi-
tivi dell’occupazione. Insomma, invece di un
rilancio politico su un tema in cui l’ex Governo ha investito molto – anche nei suoi rapporti con l’Europa – si è quasi fatto un passo indietro. Una stravaganza.
È chiaro che una parola definitiva si aspetta
dal discorso di Renzi domenica prossima, all’assemblea del Pd. Lì si capirà sia lo schieramento sull’eventuale referendum sia il timing
delle primarie e quindi delle elezioni. Quello
che sembra evidente è il bisogno di urne del
leader Pd che con un Governo così debole,
“macchiato” dal caso Boschi, rischia di logorare la sua leadership nel partito e nel Paese. E in-
fatti ieri in ambienti a lui vicini si ragionava sulla data-limite di maggio perché dopo si salterebbe subito a febbraio 2018 visto che l’autunno è impegnato dalla legge di stabilità.
In questi calcoli si è inserita anche la vicenda Vivendi. Una scalata definita «inappropriata» dal ministro Calenda che ha parlato a
tutela dell’italianità di una grande azienda. Ma
in Transatlantico si calcolano anche gli effetti
collaterali di una collaborazione tra GovernoGentiloni e Mediaset soprattutto dopo le dichiarazioni molto pro-azienda del vice di
Renzi, Guerini. «Azioni per blindare Mediaset», ha detto. Sta nelle cose, quindi, che quel
A Gentiloni fiducia dal Senato: «Ora riforme»
I sì raggiungono quota 169, la stessa avuta da Renzi - Il premier ai senatori: «Mi fido di voi»
Emilia Patta
ROMA
pDopo
il via libera della
Camera, il premier Paolo
Gentiloni ha ricevuto ieri
anche la fiducia del Senato.
Senza l’apporto dei verdiniani di Ala, usciti dall’Aula
come preannunciato assieme alla Lega, i voti sono stati
gli stessi della prima fiducia
a Renzi: 169 favorevoli e 99
contrari (i senatori grillini
hanno votato contro). Nessun patema, insomma, anche perché la minoranza del
Pd non si è differenziata sulla fiducia, come aveva precisato Pier Luigi Bersani, anche se per il futuro si riserverà “mani libere” sui singoli
provvedimenti. I senatori
della minoranza dem sono
almeno venti, mentre quelli
di Ala sono 18. E dunque anche questo governo, come
quelli Letta e Renzi dopo
l’uscita di Silvio Berlusconi
dalla maggioranza e la conseguente scissione di Fi con
la nascita del partito di Alfano, parte con numeri per così dire non solidi. Soprattutto nelle commissioni, dove
senza Ala la maggioranza è
sotto o in vantaggio di un solo senatore.
Ma una differenza tra la fiducia di ieri e quella chiesta e
ottenuta da Matteo Renzi c’è,
e non è da poco. «Chiedo la
vostra fiducia ed esprimo la
mia nelle prerogative del Senato», è l’esordio di Gentiloni a Palazzo Madama. Il confronto con il trentanovenne
Renzi («non ho l’età per sedere su questi banchi») che, mani in tasca, annuncia che la riforma costituzionale “chiuderà” il Senato è l’immagine
più tangibile della vittoria del
No al referendum dello scorso 4 dicembre. Il Senato è sopravvissuto, e per questo la
fiducia che Gentiloni chiede
«è un po’ particolare». «Ho
condiviso la riforma costituzionale, ma il popolo ha deciso con un referendum dal risultato molto netto», spiega
infatti il premier.
Ma l’impegno riformatore
non si ferma con la bocciatu-
ra della riforma Boschi. Gentiloni torna a sottolineare la
continuità con il governo
Renzi: «Il compito principale di questo governo è completare le riforme avviate in
questi ultimi anni». E precisa
ancora una volta che il suo
governo non nasce «per
amore della continuità» bensì nel segno della «responsabilità», dal momento che le
altre forze politiche hanno
rigettato la proposta del Pd
di fare un governo tutti insieme per affrontare il nodo della legge elettorale. Nodo che
va comunque sciolto, anche
MAGGIORANZA FRAGILE
I 18 senatori di Ala non
partecipano al voto,
i 20 della minoranza Pd
votano sì ma si tengono
mani libere per il futuro
IL RAPPORTO
Istat: resta alta
la sfiducia
nei partiti
pResta alta la sfiducia dei
cittadini nei confronti dei
partiti, nonostante nel 2016 si
sia registrata una lieve inversione di tendenza. Lo rileva
l’Istat nel suo rapporto sul
Benessere equo e sostenibile, registrando “un voto me-3
dio” pari a 2,5. Sotto la sufficienza anche per il Parlamento (3,7), i Consigli regionali,
provinciali e comunali (media 3,9) e per il sistema giudiziario (4,3). «Il clima sociale
nei confronti delle istituzioni
continua ad essere negativo», sottolinea l’Istat, ma nel
2016 si osserva un'inversione
di tendenza nella fiducia verso la politica e le istituzioni
pubbliche». Valutazione superiore alla sufficienza solo
per vigili del fuoco e forze
dell’ordine: voto medio 7,2.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
REUTERS
se il governo «non sarà attore protagonista» ma «avrà il
compito anche di sollecitare
la ricerca di una soluzione e
anche le forze politiche». E la
“sollecitatrice” sarà, come
scritto ieri dal Sole 24 Ore, la
neo ministra per i Rapporti
con il Parlamento Anna Finocchiaro. L’orizzonte del
governo resta tuttavia limitato, dal momento che il leader del Pd Renzi con la sua
maggioranza non vuole andare oltre giugno. Ed è un
orizzonte che Gentiloni condivide, anche se questo non
significa non lavorare con
serietà ai prossimi impegni, a
partire dall’importante Consiglio Ue di oggi (si veda l’ar- La fiducia di Palazzo Madama. Il premier Paolo Gentiloni nell’aula del Senato
ticolo in pagina). Lo fa capire
citando Carlo Azeglio Ciampi: «Chiedo ai ministri di lavorare con responsabilità e La fiducia al Senato
dignità. Ciampi quando presentò il suo governo disse, e
SÌ
NO
lo dico anche io, che per il
tempo che sarà necessario in
questa delicata transizione
111
14
3
1
servirò con umiltà gli intePd
Autonomie
Gal
Enrico Rossi
ressi del Paese».
Quanto alle opposizioni,
anche in Senato non manca il
richiamo già fatto alla Camera
NON PARTECIPANTI
al rispetto del Parlamento, olAL VOTO
traggiato dalla non partecipazione alla fiducia al nuovo goQuorum
verno e dai banchi semideserSEGGI
ti durante gli interventi in Aula. «Difenderò le prerogative
Seggi 320
9
28
3
del Parlamento nei confronti
Gruppo misto Ap
Senatori a vita*
di tutti. Invito chi in questi
I Sì
(*) Giorgio Napolitano, Elena Cattaneo, Mario Monti
mesi si è battuto alzando
111 Pdla
bandiera del Parlamento
con28 Ap
tro ipotetici e a mio
avviso
14 Autonomie
senatori
a vita tentativi
(Giorgio Napolitano,
inesistenti
autoritari Elena Cattaneo, Mario Monti)
9 gruppoemisto
a rispettare il Parlamento
a Il caso. Correzione dopo le polemiche sul titolo di studio del neoministro dell’Istruzione
Rossi
partecipare alle sue1 Enrico
riunioni
3 Gal
in modo civile». E con sceneggiate e facili slogan, d’altra
Totale 169
parte, non si risolveranno i
problemi del Paese. A
cominQuorum
161pAllafine,dopolepolemicheele nalista Mario Adinolfi. Dallo staff dandole di essere la prima firmataciare dal problema della po- ironie sul web, quella voce sul cur- del ministro avevano replicato che ria del ddl sull’introduzione
vertà («i dati sono in cresciriculum del neo ministro del- quelloconseguitodaFedelinel1971 dell’educazione di genere e della
99 no
ta») passando per il Sud, le l’Istruzione Valeria Fedeli è stata era una sorta di post-diploma per prospettivadigenerenellescuolee
banche e la priorità del lavoro. modificata: e così il «diploma di assistenti sociali: oggi sarebbe una chiedendole di «abbandonare
Il traguardo, dice Gentiloni, è laurea in Scienze sociali» è stato laurea triennale. La spiegazione questo tentativo di colonizzazione
un sistema di tutele universa- “ridimensionato” a «diploma per non aveva placato gli attacchi. Così ideologica della scuola pubblica».
li: «Serve serietà e consape- assistenti sociali». Intervento ne- ierièscattatalacorrezione.Ancora Ma ieri sono arrivate anche le mavolezza perché questo tra- cessario per cercare di tamponare ieri,CarloGiovanardi(Idea)inAu- nifestazioni di solidarietà, come
guardo non lo risolviamo pur- il caso a poche ore dall’insedia- laalSenatosièrivoltoaFedeli(fini- quella della presidente della Catroppo con facili slogan».
mento del governo Gentiloni. A tanelmirinoinparticolaredeglior- mera Laura Boldrini.
sollevarlo era stato martedì il gior- ganizzatori del Family day) ricor© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
169
99
161
320
Sul sito di Fedeli via «laurea», resta «diploma»
clima di dialogo su cui già Berlusconi si era impegnato per trattare al tavolo della legge elettorale, possa ulteriormente rafforzarsi. E che
possa accelerare una più stretta interlocuzione con Matteo Renzi. Quello che vuole il leader Pd è chiaro, intesa sulle regole elettorali e
voto, e in questo nuovo contesto il Cavaliere
potrebbe aiutarlo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
APPROFONDIMENTO ONLINE
«Politica 2.0 - Economia & Società»
di Lina Palmerini www.ilsole24ore.com
La squadra economica. Difficile la conferma con un Governo di scopo
Nannicini verso l’addio
a Palazzo Chigi, ipotesi
viceministro al Lavoro
ROMA
pLa
squadra economica
attivata a Palazzo Chigi dopo la nomina, a fine gennaio,
del sottosegretario Tommaso Nannicini, potrebbe
aver esaurito la sua corsa
con il cambio di Governo. E
il professore della Bocconi
già consigliere economico
dell’ex premier, Matteo
Renzi, potrebbe trasferirsi
al ministero del Lavoro come vice di Giuliano Poletti
per dare un supporto tecnico-politico considerato
cruciale in vista dell’attuazione delle misure previdenziali (e non solo) varate
con la legge di Bilancio.
L’ipotesi di uno stop alla
policy unit ieri è circolata
anche in ambienti Pd, con
la motivazione secondo la
quale non avrebbe più senso confermare una struttura del genere in un Esecutivo di scopo.
La delega che sarebbe
destinata a cadere è piuttosto ampia e prevede, come
si legge nel Dpcm di nomina, «le valutazioni strategiche nella elaborazione e
nella realizzazione delle
politiche pubbliche in materia economica e sociale,
anche in riferimento alle
azioni da intraprendere in
tema di ricerca scientifica
e tecnologica».
Al gruppo di lavoro, articolato su due livelli, ha collaborato una decina di professionisti, docenti universitari e tecnici provenienti
da diverse amministrazioni.
E nei pochi mesi di operatività ha sfornato diverse misure entrate in legge di Bilancio a partire, appunto,
dal “pacchetto previdenza”,
che attiva sei nuovi canali di
uscita dal mercato del lavoro anticipata (come la famosa Ape, l’anticipo finanziario a garanzia pensionistica) e riconosce un aiuto economico aggiuntivo a una
fascia di pensionati con assegni leggeri.
Per portare a casa queste
misure Nannicini è stato
protagonista, insieme con
Poletti, di un confronto con
i sindacati che ha consentito in soli tre mesi (agosto
compreso) di chiudere un
verbale d’intesa che prevede due fasi di intervento. La
prima con le misure entrate
in legge di Bilancio. La seconda che prevede la riduzione strutturale del cuneo
contributivo sul lavoro stabile, misure di rilancio della previdenza integrativa
fino all’ipotesi di una “pen-
LO SCENARIO
Nella sua nuova veste
potrebbe gestire in tandem
con Inapp e Anpal i dossier
su contrasto alla provertà
e politiche attive
sione contributiva di garanzia” calibrata per i giovani lavoratori con redditi
bassi e discontinui.
Ma i provvedimenti da
adottare (o implementare)
sul fronte della spesa sociale sarebbero anche altri: dal
contrasto alla povertà alle
politiche attive. E dal Lavoro la gestione di questi dossier sarebbe condivisa con
le agenzie appena attivate,
come l’Inapp, nata sulle ceneri dell’Isfol e guidata da
Stefano Sacchi, e l’Anpal di
Maurizio Del Conte, anche
se quest’ultima agenzia dovrà fare i conti con l’esito del
No al referendum costituzionale che lascia alle Regioni un ruolo chiave sul
fronte delle politiche attive.
Per capire se l’ipotesi di
un trasloco di Tommaso
Nannicini al ministero del
Lavoro è fondata bisogna
aspettare uno dei prossimi
Consigli dei ministri,
quando verrà completata
la squadra di governo con
le nomine di sottosegretari
e, viceministri.
D.Col.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oggi il primo vertice del premier. Juncker: «I costi che l’Italia sostiene non possono rientrare nel campo di applicazione del Patto di stabilità»
Immigrazione. Via libera al piano di riparto tra i Comuni
Consiglio Ue, Bruxelles apre sui migranti
Migranti, intesa Anci-Viminale:
2,5 persone ogni mille abitanti
Gerardo Pelosi
ROMA
pAlla vigilia dell’arrivo questa
mattina a Bruxelles per partecipare al suo primo vertice europeo da presidente del Consiglio,
Paolo Gentiloni ha incassato già,
oltre a quella del Senato, la “fiducia” del capo dell’esecutivo europeo. Jean-Claude Juncker ha
reso infatti molto più esplicita
che nel passato la volontà della
Commissione di stralciare dal
Patto di stabilità le spese sostenute dal nostro Paese per far
fronte alla crisi dei migranti.
Una richiesta più volte avanzata nelle ultime settimane dall’ex
premier, Matteo Renzi, insieme
allo stralcio dell’emergenza terremoto che finora non aveva ricevuto una risposta definitiva. «Non
possiamo disconoscere la situa-
zione in Italia, non possiamo lasciarla sola nella crisi migratoria ha messo in chiaro ieri Juncker
parlando a Strasburgo - i costi che
l’Italia sostiene per affrontare la
crisi migratoria non possono rien-
LE REGOLE SULL’ASILO
Sultavoloanchelemodifiche
alregolamentodiDublino.
Inopposizioneaipaesidell’Est
l’Italiaèfavorevoleameccanismi
obbligatoridiricollocamento
trare nel campo di applicazione
del Patto di stabilità».
Il primo appuntamento di Gentiloni a Bruxelles sarà però la riunione dei leader socialisti europei.
In discussione oltre ai temi econo-
mici e alla Brexit anche la “rottura”
del patto con il Ppe sulla nomina
del nuovo presidente dell’Europarlamento al posto di Schulz. In
lizza per il Ppe c’è l’ex vicepresidente Antonio Tajani mentre il
Pse sostiene Gianni Pittella. Un
duello tra connazionali che non
potrà però che vedere Gentiloni
schierarsi con il Pse.
Ieri, proprio in vista del Consiglio europeo, Gentiloni ha avuto
un intenso giro di colloqui telefonici: dal presidente del Consiglio
Ue Donald Tusk al presidente
francese Francois Hollande che si
è congratulato con il neo capo del
Governo Gentiloni con il quale si è
trovato d’accordo sull’attuazione
al più presto della “road map” di
Bratislava. Di Brexit Gentiloni ha
parlato con la premier britannica
Theresa May mentre i prossimi
appuntamenti internazionali a cominciare dal G7 sono stati al centro di un colloquio con il primo ministro canadese Justin Trudeau.
Sul tavolo del Consiglio Ue oggi a Bruxelles Gentiloni si troverà
ad affrontare temi per lui familiari essendo già al centro del Consiglio Affari generali come la crisi
dei migranti. Si discuteranno le
modifiche al regolamento di Dublino. L’Italia non considera realistico fissare una scadenza precisa per la revisione del regolamento di Dublino sul diritto di asilo
puntando innanzitutto a cercare
un difficile accordo di principio.
In opposizione ai Paesi dell’Est,
l’Italia è favorevole a meccanismi
obbligatori di ricollocamento,
mentre i cosiddetti “4 di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) sono
orientati a una solidarietà che
non si basi sull’accoglienza ma
sul sostegno economico volontario ai Paesi di prima linea.
Si passerà poi ai temi economici e sociali, con una relazione del
presidente della Bce Mario Draghi sulle prospettive per l’economia dell’Eurozona.
Nel pranzo di lavoro Gentiloni si troverà a discutere con i suoi
colleghi la ratifica da parte dei
Paesi Bassi dell’accordo di associazione tra l’Ue e l’Ucraina,
bloccata da mesi dopo che un referendum consultivo si è espresso contro la ratifica. Nella stessa
sede il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel dovrebbero raccomandare la proroga di
altri sei mesi delle sanzioni economiche nei confronti della Rus-
sia per le azioni in Ucraina, in
scadenza il 31 gennaio 2017, condizionate all’applicazione degli
accordi di Minsk.
I capi di Stato e di Governo della
Ue dovranno decidere (nella cena
di stasera) anche tempi e modalità
per l’attivazione dell’articolo 50
del Trattato di Lisbona per la
Brexit con la fissazione di un vertice ad hoc probabilmente in aprile.
Un accordo di massima si profila
poi sull’unione bancaria. L’Ue dovrà procedere non solo sulla “riduzione” ma anche sulla “condivisione” dei rischi legati alle banche
nel completare l’Unione bancaria
almeno stando all'ultima bozza di
conclusioni del vertice di oggi dove è passata la richiesta avanzata
dall’Italia insieme a Spagna, Francia e Portogallo di modificare il testo precedente in cui si parlava solo di “riduzione” chiudendo la
porta ai passi in avanti anche sull’assicurazione sui depositi (Edis)
dove la Germania è contraria.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
pVia libera al piano di ripar-
tizione dei migranti tra i Comuni. Ieri l’intesa è stata suggellata al Viminale nella riunione del tavolo di coordinamento nazionale: presente il
ministro Marco Minniti, l’Anci,esponenti delle Province,
delle Regioni, dell’Unhcr, dell’Oim e delle organizzazioni
non governative. L’obiettivo
del piano è distribuire i migranti da accogliere tra tutti i
centri urbani e non più solo nei
2mila700 Comuni finora impegnati. Come spiega un comunicato dell’Anci, il piano si fonda
su alcuni principi cardine. Come la proporzionalità dell’accoglienza dei migranti rispetto
alla popolazione residente che,
in linea di massima, si attesta su
circa 2,5 posti di accoglienza
ogni 1.000 residenti con alcuni
correttivi per i piccoli centri, i
capoluogo sedi delle città metropolitane e le zone terremotate. In prima linea ci sono i
prefetti che dovranno dialogare con le istituzioni locali. I Comuni che aderiscono alla rete
Sprar (Sistema di protezione
per richiedenti asilo e rifugiati)
saranno esentati da altri arrivi,
così come ha disposto una direttiva di Angelino Alfano alcune settimane fa. Il progetto,
fa poi notare l’Anci, è fondato
«sulla volontaria adesione
delle amministrazioni» . Per
l’attuazione serve un ulteriore
passaggio alla Conferenza
Stato Regioni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA