La delusione della Madama Butterfly alla Scala

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venerdì 09 dicembre 2016, 09:30
La delusione della Madama Butterfly alla Scala
Finché si lavorerà solo sulla 'tattica invece che sulla strategia' i risultati saranno poco apprezzabili
di Nicola Colabianchi
«Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate, i soliti gridi solitari di bis fatti apposta per eccitare ancor di più gli
spettatori, ecco, sinteticamente, qual è l’accoglienza che il pubblico della Scala fa al nuovo lavoro del maestro Giacomo
Puccini». Con queste parole Giulio Ricordi alcuni giorni dopo la prima del 17 febbraio del 1904 commentava l’insuccesso
della prima esecuzione della Madama Butterfly alla Scala. Ci si era messo anche lui distribuendo ai dipendenti della
Ricordi fischietti e richiami ornitologici per rendere più realistica la scena dell’attesa di Butterfly, con il pubblico che si mise
ad imitare i versi degli uccelli suscitando una generale gazzarra. Era stato un insuccesso forse preorganizzato ma in
parte previsto, tanto da far indirizzare da parte di Arturo Toscanini alla Rosina Storchio, prima protagonista dell’Opera,
le seguenti parole: «Ma siete matti a mandare in scena quest’opera in due atti? È troppo lunga, mal sagomata. Andrete al
macello». Dopo la catastrofe Puccini prese atto della necessità di qualche modifica, ed a più riprese operò
alcuni tagli e qualche aggiunta (Addio fiorito asil del tenore), consegnandoci la Butterfly che conosciamo e che
è una delle opere più amate ed anche più eseguite in assoluto (credo sesta o settima a livello mondiale), di gran lunga
superiore e più equilibrata di quella proposta alla prima del 1904. Non concordiamo, quindi, nella legittimità della scelta di
riesumare una versione precedente a quella definita in ultima istanza dall’autore, che nulla aggiunge se non nel dare
un’immagine di Pinkerton come di una figura più grossolana, nell’annacquare svariati momenti, nel dividere l’opera in due
atti invece che tre: in poche parole nel proporre un’opera 'mal sagomata'. Naturalmente quella della Milano di oltre
cento anni dopo è stata un’accoglienza diversa, un po’ imbalsamata, come ormai sempre sono le prime alla
Scala, con un pubblico prevalentemente incompetente, che non si cura più di tanto di cosa e di come viene
allestito: si va a teatro come ad un evento alla moda, preoccupati solo di farsi vedere e di poter dire 'Io c’ero', tra i tanti
banchieri presenti, qualche ex re (Juan Carlos di Spagna) e, stavolta, nessuno dei politici italiani, impegnati com’erano a
trovare, per noi, una soluzione alla crisi di governo (in compenso si sono potuti mettere in vendita alcuni dei biglietti loro
destinati con un incasso ulteriore…). Gli aspetti musicali o musicologici, in effetti, interessano solo a pochi
appassionati ed esperti (il cui parere non interessa a nessuno e viene richiesto solo nella speranza che possa collimare
con il proprio apprezzamento). Era una Butterfly adatta ad un pubblico televisivo, forse un po’ oleografica, con scene
tradizionali e gradevoli, bei costumi anch’essi in linea con la tradizione (apprezzabile ed opportuna l’idea di mostrare la
protagonista al secondo atto con abiti occidentali), senza idee particolari da parte del regista Alvis Hermanis, ma per
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su http://www.lindro.it/la-delusione-della-madama-butterfly-alla-scala/
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fortuna anche senza quelle trasposizioni temporali in epoche diverse da quella prevista dall’autore che lasciano il tempo che
trovano e sono fuori moda dal giorno dopo. Sull’opportunità di mettere in scena questa prima versione rispetto a
quella corrente abbiamo già accennato di essere in disaccordo: sembra un’operazione che nasconde il timore,
un po’ provinciale, di essere considerati 'populisti' nel programmare opere popolari, per cui si ricorre alla
versione della prima esecuzione o ad altre versioni particolari per ammantarsi di quell’aura di novità data dall’interesse
musicologico (come per Turandot con l’orribile finale di Luciano Berio e per Fanciulla del West ripresa dai manoscritti). Alla
Scala riteniamo però, non siano necessarie operazioni musicologiche per godere di un ribalta privilegiata, ed il
repertorio (che ricordiamolo è molto ampio: conta, infatti, almeno alcune centinaia di titoli), anche quello più ricercato,
dovrebbe rappresentare, per storia e vocazione, la base della programmazione del teatro più importante del mondo. Della
direzione musicale dello spettacolo rileviamo che si è mostrata accurata ma prevalentemente lenta ed
uniforme, con scarso senso del teatro e quindi poco capace in quei cambiamenti di registro che l’intensa
'tragedia giapponese', come del resto tutta la musica di Puccini richiedono (difetti riscontrati anche in Turandot ed
in Fanciulla del West). Il maestro Riccardo Chailly ha cercato una asciuttezza musicale che oggi va tanto di moda, ma che
tradisce spesso l’incapacità di assecondare la 'parola scenica', così come la chiamò Giuseppe Verdi, definendo
perfettamente l’aspetto che forse più di tutti avvince nello spettacolo di teatro musicale. Tutto sommato un’esecuzione
piuttosto incolore anche se l’orchestra ha suonato bene, con accuratezza e precisione, segno di prove lunghe e meticolose e
di una compagine qualificata che ci tiene a ben figurare. Del cast si fa fatica a parlare e soprattutto si fa fatica a
parlarne bene. La protagonista Maria Josè Siri, uruguaiana, ha una voce monocorde non particolarmente
piacevole e dal vibrato troppo ampio. Nei momenti più drammatici accentua l’inespressività e rivela la sua
inadeguatezza, mostrandosi totalmente fuori ruolo. Ciononostante è stata apprezzata dal pubblico che alle prime è sempre
piuttosto indulgente... È incomprensibile su quali basi sia stata scritturata anche perché non mostra neanche quelle
particolari doti fisiche di credibilità scenica che oggi stanno tanto a cuore a chi, a teatro, richiede maggiore soddisfazione
dagli aspetti visivi che non da quelli musicali. Dissensi piuttosto marcati sono arrivati per il tenore statunitense
Bryan Hymel, oggettivamente troppo al disotto del compito richiesto: voce troppo leggera (si confondeva con quella di
Goro…), di mediocre qualità, tecnicamente “scoperta”, che a volte ha sfoggiato acuti imbarazzanti. Da dimenticare. Meglio si
andava con il baritono, lo spagnolo Carlos Àlvarez, dalla voce ferma e più gradevole anche se un po’ camuffata dal voler
cantare più 'scuro' della sua natura. Quest’ultimo, difetto anche della Suzuky di Annalisa Stroppa. Accettabili il Goro di
Carlo Bosi e tutte le altre parti di contorno (tutti italiani…). Forse possiamo dire che La Scala prova a cambiare marcia, ma
finché si lavorerà solo sulla 'tattica invece che sulla strategia' i risultati potranno essere solo in parte apprezzabili. Gli
appassionati, intanto, attendono.
di Nicola Colabianchi
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