Mind the gap: più parità per le donne, oltre le `quote rosa`

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giovedì 17 novembre 2016, 17:30
Referendum
Mind the gap: più parità per le donne, oltre le ‘quote
rosa’
Bene il riequilibrio delle rappresentanze, ma attenzione alle inversioni di priorità
di Virgilio Carrara Sutour
«Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari
opportunità tra donne e uomini». La disposizione, chiara nel significato e mirata negli intenti, appartiene già al nostro
ordinamento, e al livello più alto: si tratta dell’art. 51 della Costituzione, come riformato nel 2003. In risposta a questo
precetto costituzionale (confermato, nella sua valenza di ‘risultato’ da perseguire, dal Consiglio di Stato), la Legge elettorale
215/2012, stabilisce la doppia preferenza alternata di genere relativamente agli organi d governo degli enti locali e ai
consigli regionali. Concepita come misura per ovviare a un dato di fatto, ossia la sotto-rappresentazione delle donne
nelle pubbliche istituzioni, in base a tale preferenza l’elettore potrà scegliere, nella stessa lista, due candidati di sesso
diverso. Con la sentenza n. 4/2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato la legittimità della doppia preferenza. L’equilibrio di
genere, ribadito dal TUEL («Testo Unico Enti Locali») per i relativi statuti e la nomina degli assessori, è stato
successivamente stabilito con la legge 56/2014, che prevede, per le giunte dei comuni che superino i 3000 abitanti, che
«nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento» (Art. 1, c. 137). Una soluzione fondata
unicamente sulle quote non può esaurire il problema, socialmente radicato, di un’asimmetria tra donne e uomini diffusa
nell’ambiente politico e in tutti quei contesti, pubblici o privati, in cui si assumano ruoli riconosciuti mediante posizioni di
responsabilità e di potere. Restando in tema di leggi elettorali, a livello regionale sono state affossate importanti proposte
paritarie, come è avvenuto nel 2015 per la Regione Puglia (insieme alla Basilicata, il caso più evidente, con un collegio
composto al 95% da uomini). Una simile chiusura comprometterebbe anche la rappresentatività interna al Senato,
nel caso fosse approvata l’attuale riforma costituzionale. Ed è proprio in ragione della nuova composizione di quest’organo
che si sono avute spinte verso un rafforzamento costituzionale del principio di parità: mentre, ad oggi, il Parlamento
conta una percentuale femminile del 31% (superando stati come il Portogallo, la Francia, il Regno Unito), l’attenzione è
concentrata sui consigli regionali, i cui membri potrebbero diventare futuri senatori. Il gap era stato segnalato, già nel 2014,
dalla Senatrice Sel Loredana De Petris al Ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. Vediamo ora le modifiche al testo
costituzionale previste dalla riforma. All’art. 55, c.2 (ordinamento delle Camere), troviamo un imperativo riservato alle
leggi elettorali: «Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e
uomini nella rappresentanza». Coerentemente, l’art. 122, nel Titolo dedicato agli enti territoriali, prevede l’esistenza di
una legge di livello nazionale che definisca i principi per le leggi elettorali regionali (compresa la durata degli organi
elettivi e i relativi compensi). Tale legge dovrà anche stabilire i principi fondamentali per «promuovere l’equilibrio» di cui
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su
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al precedente articolo. Si tratta, né più né meno, della necessaria adozione di un sistema di contro-bilanciamento: una
traduzione specifica dei più vasti principi di pari dignità sociale ed eguaglianza sostanziale (art. 3 Costituzione), con
un’attenzione per le discriminazioni di genere analizzate dalla sociologia politica, denunciate dai movimenti per i diritti delle
donne e tuttora in atto, di fronte a un’identità maschile che connota ancora fortemente le istituzioni. ‘Identità’, in senso
indeterminato, e ‘genere’, come sua particolare modalità, sono entrambi costruzioni, vale a dire processi capaci di porre
le relazioni umane su di un asse ‘orientato’. Così, il ‘genere’ (un fatto culturale) parte dal ‘sesso’ (un fatto genetico) per
coprire molte diverse realtà e polarizzazioni. Trovando il suo posto nel diritto, il principio di parità tutela la donna non solo in
quanto persona umana, ma come soggetto antropologico storicamente discriminato. In base a queste considerazioni,
una reale rappresentanza di genere corrisponderebbe a una parità sostanziale nei diversi ambiti istituzionali e sociali, a
un’equità ‘naturalmente’ garantita per entrambi i sessi, oltreché alla tutela degli orientamenti sessuali minoritari
nell’accesso a ruoli e funzioni politicamente rilevanti. Su impulso della Commissione europea, che ha adottato una
«Strategia per l’uguaglianza tra donne e uomini 2010-2015», è stato definito il GEI («Gender Equality Index), un indice
elaborato in base a sei fattori costitutivi (occupazione, reddito, rapporti sociali, potere decisionale, tempo libero e salute) e
due esemplificativi esterni (violenze subite, diseguaglianze trasversali). In una scala da 0 a 100, l’Italia ha attualmente un
punteggio di 41,1 con una media europea del 52,9 e il record detenuto dai paesi scandinavi (il picco, del 74,2 , spetta alla
Svezia). A partire da quest’anno, la policy europea prosegue con l’ «Impegno strategico per la parità di genere
2016-2019». La Commissione ha definito i seguenti obiettivi: maggiore inserimento delle donne nel mercato del lavoro,
indipendenza economica e retributiva, garanzie contro la discriminazione di genere nei processi decisionali, lotta alla
violenza contro le donne e tutela delle vittime, diffusione di istanze paritarie su scala mondiale. In linea con l’indirizzo
unitario e offrendo un esempio virtuoso agli altri paesi, il 4 agosto 2014 la Francia ha emanato la «Legge per l’uguaglianza
reale tra le donne e gli uomini», in cui sono adottate misure concrete rispetto allo scopo rubricato nel titolo: dalla fruizione
paterna del congedo parentale alla garanzia dei sussidi alimentari per le madri sole, dal rafforzamento delle misure
specifiche contro le molestie sessuali al rispetto della parità nelle professioni come condizione di accesso, per le imprese, ai
pubblici appalti. Rispetto alla storia legislativa d’oltralpe, il documento è stato presentato come una ‘legge pioniera’, che
disciplina la diseguaglianza di genere in tutte le sue dimensioni sociali. Tornando all’Italia, per i sostenitori del SÌ
l’eliminazione del bicameralismo perfetto, con un Senato riformato in senso ‘territoriale’, comporterebbe una drastica
riduzione del divario di genere nelle cariche legislative. Oltre alla conquista in termini di uguaglianza sostanziale, si
prospetta anche un aumento dell’efficienza economica e della produttività. Sembra, infatti, che una maggiore
rappresentanza politica delle donne porti a investire in settori aventi forti implicazioni sociali, come la tutela della vita
familiare, l’istruzione, l’accesso alle cure sanitarie. Da queste scelte deriverebbe, quale effetto secondario, un aumento di
credibilità nelle istituzioni e nella legittimazione democratica. Tali previsioni si fondano su studi e ricerche condotte in ambito
internazionale: pensiamo allo studio dell’OCSE sulla partecipazione politica delle donne o al Global Gender Gap Index
elaborato dal WEF («Forum Economico Mondiale»), una fondazione senza fini di lucro con sede presso Ginevra. L’ ‘Indice’ in
questione misura le disparità di genere per ogni paese su scala mondiale, in base a una combinazione articolata di fattori; i
principali sono quattro: sopravvivenza alla nascita e aspettativa di vita in stato di buona salute; accesso all’istruzione;
mercato del lavoro (accesso, ruoli, remunerazione e possibilità di carriera); emancipazione politica (cariche parlamentari,
ministeriali, presidenziali). Quest’anno l’Italia è arretrata di 9 posti rispetto al 2015, a detrimento della partecipazione a
livello economico (pochi ruoli tecnici o di comando per le donne). In questo calcolo, il talento umano e la pari dignità si
intrecciano alla forza-lavoro, all’efficienza di un’impresa o alla competitività di uno stato. Pur rappresentando un reale
incentivo all’occupazione e a maggiori opportunità sociali, la scelta di trattare gli stessi soggetti discriminati come
fattori di vantaggio materiale generale mostra che l’utilitarismo economico non è mai venuto meno, e costituisce la
specialità, se non la ricetta aggiornata delle politiche di sviluppo promosse nel Sud del mondo dalla Banca Mondiale.
Tuttavia, partire dalla nostra esperienza storico-giuridica potrebbe aiutare a ridimensionare i calchi di indirizzo e le
condizioni di ‘crescita’ dettati dalle sedi dell’alta finanza mondiale, aiutando a pensare i diritti delle donne in termini
partecipativi, prima che produttivi. Il genere è una funzione sociale, un meccanismo capace di definire e attribuire ruoli
che poco o nulla hanno di ‘naturale’, ma si costruiscono all’interno delle relazioni che l’individuo si trova a vivere. Questi
ruoli cambiano a seconda del luogo e del momento storico. I movimenti sociali possono trasmettere importanti ri-definizioni
di ruolo, grazie alla circolazione delle idee, all’adozione di nuove politiche e pratiche sociali. Esiste un gioco di specchi che
collega, attraverso la diversità come valore, un paese alle sue istituzioni. Anziché dal PIL, un discorso di riforma sulla
parità potrebbe iniziare da qui. Infine, varrà la pena notare che le dichiarazioni contenute nelle strategie e in altri
documenti programmatici (nazionali, internazionali, europei) sono atti di indirizzo, capaci di orientare le politiche dei singoli
Paesi ma sprovvisti di forza vincolante. La Costituzione di uno stato è, invece, la fonte più ‘forte’ a cui fare
riferimento di fronte a leggi che non seguano la direzione da essa indicata. Pertanto, più la Costituzione si farà ‘specchio’,
contenendo situazioni giuridiche tutelate rispondenti all’attualità storica, più il legislatore dovrà tenerne conto, a rischio di un
vuoto (un altro gap) che solo una dichiarazione di illegittimità della Corte Costituzionale potrebbe colmare. Inoltre, prima di
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chiamare in causa i rapporti fondati sui World Development Indicators, troveremo atti internazionali vincolanti che
‘aspettano’ di essere coniugati direttamente con il vecchio e il nuovo dettato costituzionale. Una speciale
menzione spetta alla CEDAW («Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne»,
del 1979, ratificata dall’Italia nel 2002), che rimane un esempio di trasparenza linguistica in termini di partecipazione,
rappresentanza a tutti i livelli della vita pubblica e garanzie di cittadinanza.
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