Stati Uniti e Afghanistan a quindici anni da Enduring Freedom

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Stati Uniti e Afghanistan a quindici anni da Enduring Freedom | 1
venerdì 07 ottobre 2016, 18:00
Cosa è cambiato?
Stati Uniti e Afghanistan a quindici anni da Enduring
Freedom
Guardando indietro: Obama ci aveva puntato molto, ora toccherà al suo successore non fallire
di Gianluca Pastori
Il 7 ottobre 2001 prendeva ufficialmente il via l’operazione Enduring Freedom (OEF). Lanciata
dall’amministrazione di George W. Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre, essa mirava ad abbattere il governo
dell’Emirato islamico dell’Afghanistan e a impedire che il Paese – una volta stabilizzato – potesse essere di nuovo impiegato
come santuario da organizzazioni terroristiche come al-Qaeda, il cui leader, Osama Bin Laden, proprio in Afghanistan
aveva trovato riparo e protezione da parte del governo talebano. OEF si sarebbe chiusa formalmente il 31 dicembre
2014, dopo più di tredici di sforzi e con un bilancio che – nella migliore delle ipotesi – può essere definito
ambiguo. A fronte degli alti costi sostenuti (sia in termini umani, sia finanziari) la situazione dell’Afghanistan
appare ancora incerta. Nonostante il sostegno del quale continuano a godere, le forze di sicurezza nazionali (ASF) non
appaiono in grado di contenere la pressione di un nemico che, dal 2015, ha progressivamente esteso la porzione di territorio
sotto il suo controllo. Parallelamente, il compromesso che ha consentito di sanare lo stallo seguito alle ultime elezioni
presidenziali sembra reggere a fatica, mentre le sempre più aperte tensioni fra il Presidente Ghani e il Chief Executive
Officer Abdullah lasciano prevedere un percorso di avvicinamento tormentato alle consultazioni del 2019.
Si tratta di un’eredità deludente, specialmente per l’amministrazione Obama, che aveva scommesso molto su
un Afghanistan stabilizzato. Buona parte della prima campagna del Presidente si era imperniata sulla necessità di ridurre
l’impegno statunitense in Iraq così da liberare risorse a sostegno di quello in Afghanistan. Di fronte al deterioramento delle
condizioni di sicurezza nel Paese, Obama aveva sostenuto – peraltro in continuità con le scelte fatte dal suo predecessore
durante 2008 -- la necessità di un ‘surge’ della presenza militare, ‘surge’ concretizzatosi poi – fra il 2009 e il 2012 – nell’invio
nel Paese di oltre 33.000 uomini. Tuttavia, anche questo sforzo (che, secondo le stime di ‘Forbes’, sarebbe costato al
contribuente americano ben oltre i 30 miliardi di dollari all’anno preventivati dall’amministrazione) non si è dimostrato in
grado di ottenere risultati duraturi. In altre parole, la strategia di ‘Shape, Clear, Hold, and Build’ prefigurata dal
comandante delle forze ISAF,
Stanley
McChrystal,
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del ‘surge’
costituiva
Estrattogenerale
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dimostrata capace di innescare l’atteso ‘circolo virtuoso’ fra messa in sicurezza del territorio, instaurazione di
un sistema politico efficace e credile, e avvio di un processo stabile di sviluppo socio-economico; elementi che,
insieme, avrebbero dovuto intaccare alla base i fattori che sino allora avevano sostenuto le forze insorgenti.
Il fallimento della strategia del ‘surge’ concorre a spiegare la disaffezione che, nel corso del secondo mandato,
sembra essere prevalsa a Washington riguardo all’Afghanistan. Il ridimensionamento della presenza militare –
realizzato quasi in sordina fra la primavera e l’estate 2012 – ha rappresentato, da questo punto di vista, l’anticamera per la
chiusura di OEF, annunciata dal Presidente nel maggio 2014. Nonostante l’avvio contestuale alla fine di OEF di una
nuova missione (‘Freedom’s Sentinel’), il profilo di Washington nel Paese asiatico è rimasto significativamente
basso. Ciò non solo in termini numerici e di impegno, quanto, soprattutto, di aspettative. Solo nel corso degli ultimi mesi -di fronte al deteriorarsi ulteriore delle condizioni di sicurezza – si è assistito a un ennesimo – per quanto cauto – incremento
delle truppe schierate. Tuttavia, anche in questo caso, le cifre coinvolte sono lontane da quelle degli anni passati. Ad
esempio, il bilancio della Difesa per il 2016 parla di una consistenza media nell’ordine dei 9.800 uomini, mentre il ‘minisurge’ annunciato dal Pentagono agli inizi di settembre vedrebbe il dispiegamento – nel corso dei prossimi mesi – di circa
1.400 uomini dal 3° Brigade Combat Team della 101^ divisione aviotrasportata e di alcuni assetti aerei forniti dalla Guardia
Nazionale di New York, questi ultimi, peraltro, solo a partire dal gennaio 2017.
Le incertezze che hanno caratterizzato questo approccio sono state ampiamente rilevate. Come in altri teatri,
anche in Afghanistan l’amministrazione Obama è stata accusata di avere tenuto una condotta incerta, sempre in bilico fra un
interventismo sostenuto poco e male e la continua tentazione di sganciarsi da un impegno divenuto troppo costoso. In
realtà, il declino dell’Afghanistan nel novero delle priorità statunitensi si lega in primo luogo all’intrattabilità
dimostrata dal problema della sua stabilizzazione e alle difficoltà incontrate nel costruire una relazione
positiva con le autorità locali. Correttezza formale a parte, i rapporti con il Presidente Karzai sono sempre stati difficili,
soprattutto quando si è trattato di definire gli obiettivi concreti dell’azione militare; la fine del mandato di Karzai ha coinciso
con la recrudescenza di queste tensioni, al punto di mettere a rischio la continuazione della presenza occidentale del Paese.
Le elezioni del 2014, con la loro coda polemica e il problematico accordo che ha permesso ad Ashraf Ghani di accedere alla
presidenza, hanno fatto ben poco per sanare la situazione. Oggi più che in passato, la possibilità per Washington di portare a
casa un risultato concreto dal pantano afgano si lega agli intricati giochi di potere che regolano la politica interna del Paese.
Un fatto, questo, destinato a porre al nuovo inquilino della Casa Bianca una sfida non diversa da quella che finora ha dovuto
affrontare il suo predecessore.
di Gianluca Pastori
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