Duterte: gli assetti del Pacifico e l`incognita delle Filippine

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Duterte: gli assetti del Pacifico e l’incognita delle Filippine | 1
venerdì 30 settembre 2016, 16:30
La situazione
Duterte: gli assetti del Pacifico e l’incognita delle
Filippine
Tra i temi in ballo il cattivo stato dei rapporti fra Stati Uniti e Filippine
di Gianluca Pastori
Le dichiarazioni rilasciate dal Presidente Rodrigo Duterte a margine del vertice ASEAN di Vientiane (Laos) hanno portato
clamorosamente alla luce il cattivo stato dei rapporti fra Stati Uniti e Filippine, due Paesi che, dopo anni di solida
vicinanza, sembrano avere rimesso in discussione le loro relazioni. Già colonia spagnola, passate sotto la sovranità
statunitense con la guerra del 1898, anche dopo l’indipendenza formale conseguita nel 1946, le Filippine hanno mantenuto
con Washington una legame privilegiato, rafforzato del loro rappresentare un importante avamposto militare nel quadro
della guerra fredda. La chiusura delle installazioni militari statunitensi presenti nell’arcipelago (prime fra tutte la base aerea
di Clark e quella navale di Subic Bay), all’inizio degli anni Novanta, non ha modificato questo stato di cose. Anche nel nuovo
quadro geostrategico, Manila ha continuato a guardare a Washington come al principale garante della sua sicurezza, a
maggior ragione di fronte alle nuove ambizioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e all’attivismo politico e militare che le
sostiene. Un politica che trova nel c.d. ‘Visiting Forces Agreement’ del 1998 e nelle esercitazioni congiunte condotte
annualmente dai due Paesi (‘Balikatan’) il suo cardine e la sua maggiore espressione.
Tuttavia, con Duterte, questo quadro sembra destinato a cambiare radicalmente. Giunto alla Presidenza nel giugno scorso, il
leader filippino ha cercato ben presto di rimarcare la distanza che lo separa dal predecessore, Benigno Aquino III, figlio di
quella Corazón Aquino che nel 1986 aveva sostituito al potere l’ex ‘protégé’ di Washington, Ferdinando Marcos. In una
serie di duri interventi pubblici, Duterte ha riaffermato la sua volontà di indirizzare le Filippine verso una ‘politica estera
indipendente’ contro tutte quelle che ha definito le ingerenze esterne. Bersaglio degli attacchi non sono stati solo gli Stati
Uniti, sia nella persona del Presidente Obama che in quella del candidato repubblicano Donald Trump. Gli strali di Duterte
si sono rivolti, fra gli altri, alla Chiesa cattolica (realtà assai forte nella vita politica filippina), al Papa e alle Nazioni Uniti, che
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su
http://www.lindro.it/duterte-gli-assetti-del-pacifico-e-lincognita-delle-filippine/
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il Presidente ha detto di volere lasciare in favore di un’organizzazione alternativa, cui ha invitato a partecipare la Cina e i
Paesi africani. Sinora, queste ‘intemperanze’ non hanno sollevato reali timori. Manila e Pechino rimangono, infatti, separate
da un contenzioso in merito alla sovranità sulle isole Spratly e lo Scarborough Shoal, contenzioso aperto alla Corte
Permanente di Arbitrato e che lo stesso Duterte ha posto al centro di alcune esternazioni.
L’annunciata volontà di porre fine alle esercitazioni congiunte fra forze armate filippine e statunitensi
potrebbe però rappresentare un inatteso elemento di rottura. La possibilità ventilata dal governo di Manila
marcherebbe, da una parte, una prima concreta presa di distanza da Washington, dall’altra, lasciando il Paese asiatico
sostanzialmente privo di referenti internazionali potrebbe favorire un suo avvicinamento alla Cina, nonostante i numerosi
punti che lo separano da quest’ultima. Sul piano simbolico, essa segnerebbe, infine, la crisi di un’alleanza che,
nonostante il succedersi dei governi, sopravvive dal 1951, nel quadro di un trattato di difesa reciproca che
ricalca le linee di quelli – coevi – che Washington ancora intrattiene con la stragrande maggioranza degli
alleati regionali. Le implicazioni di un tale passo sono potenzialmente notevoli, soprattutto in una fase in cui un certo
grado di malcontento sembra serpeggiare fra partner fedeli degli Stati Uniti, come il Giappone e la Corea del Sud. La
proposta rimodulazione della presenza militare USA nello scacchiere Asia-Pacifico, con il concentramento di una maggiore
quantità di assetti a Guam e il parallelo ridimensionamento della loro presenza sul territorio degli Stati ‘amici’, è un altro
fattore che alimenta questo malcontento.
Quali possibilità di concretizzarsi ha realmente la sfida di Duterte? Al momento, appare difficile dare una
risposta precisa. Al di fuori del ruolo-guida che il Presidente si è auto-attribuito, le autorità filippine sono profondamente
divise al loro interno intorno al tema del rapporto da tenere con gli Stati Uniti. In questa prospettiva, la retorica nazionalista
del Presidente potrebbe fornire un punto di incontro fra quanti – da destra e da sinistra – criticano quello che considerano
l’‘asservimento’ del Paese alle priorità di Washington. Di contro, il favore di cui Washington gode presso i circoli militari
filippini rimane alto. La rotta di collisione adottata da Duterte verso parte del vecchio establishment potrebbe
rafforzare le tensioni insite in questo stato di cose. Per quanto coerente con l’immagine che lo ha portato alla
presidenza, la strategia adottata da Duterte non è, quindi, priva di rischi: primi fra tutti, quello di non riuscire a costruire il
reticolo di alleanze su cui il suo disegno di politica estera deve poggiare e quello di non riuscire a conseguire l’auspicato
riavvicinamento alla Cina; ben consapevole, quest’ultima, di quanto le sue ambizioni di egemonia regionale riposino sulla
possibilità e sulla capacità di definire con Washington un rapporto costruttivo e di reciproca soddisfazione.
di Gianluca Pastori
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