Il Dubbio 1° settembre 2016

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IL DUBBIO
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GIOVEDÌ 1 SETTEMBRE 2016
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Magistrati: le valutazioni
e il rischio di diventare burocrati
GIOVANNI PASCUZZI
C
irca un decennio è trascorso da quando è stata introdotta la “valutazione della
professionalità” per i magistrati.
L’articolo 11 del decreto legislativo
160 del 2006 (modificato dalla legge 111/2007) stabilisce che essa avvenga sulla base di quattro parametri: la capacità, la laboriosità, la diligenza e l’impegno.
Numerose circolari del Consiglio
superiore della Magistratura (oltre
ad individuare la documentazione
utilizzabile ai fini della formulazione del giudizio: rapporti del Capo dell’ufficio, pareri dei Consigli
giudiziari, provvedimenti e verbali a campione, statistiche, produzioni spontanee) hanno specificato gli indicatori da prendere in
considerazione per ciascun parametro.
Ad esempio, per valutare la “capacità” tra i parametri da considerare ci sono: la tecnica redazionale ed espositiva; l’uso dello
strumento informatico; l’aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale; le conoscenze interdisciplinari e la cultura ordinamentale; la capacità decisionale.
Ma si deve guardare anche alle
modalità di gestione dell’udienza, al livello di contributi forniti
in camera di consiglio, all’attitu-
I PARAMETRI
UTILIZZATI SONO:
CAPACITÀ,
LABORIOSITÀ,
DILIGENZA
E IMPEGNO
dine del magistrato ad organizzare il proprio lavoro e così via.
Per quel che riguarda la “laboriosità” diventano rilevanti dati come il numero dei procedimenti
definiti e il rispetto degli standard medi di definizione dei procedimenti.
La “diligenza” viene valutata sul
rispetto degli impegni prefissati
(numero di udienze, termini per il
deposito dei provvedimenti, etc.),
sulla tempestività del compimento
delle funzioni di direzione amministrativa e, ancora, sulla partecipazione alle riunioni previste
dall’ordinamento giudiziario per la
discussione e l’approfondimento
delle innovazioni legislative nonché per la conoscenza e l’evoluzione della giurisprudenza.
Per valutare l’“impegno” si considerano elementi come la disponibilità alle sostituzioni o la partecipazione a corsi di aggiornamento.
Si tratta di un sistema molto
complesso che induce alcune riflessioni.
Ogni sistema di valutazione retroa-
gisce sui comportamenti del soggetto valutato. Provo a fare un
esempio noto a chi ha frequentato
l’Università. Spesso gli studenti
che devono sostenere un esame seguono intere sessioni di quell’esame e trascrivono le domande poste
dai professori e il tipo di risposte
considerate soddisfacenti. Si cerca,
attraverso questa defatigante attività, di affinare la preparazione alla
luce delle domande che vengono
chieste. Insomma, poiché l’obiettivo è superare l’esame, l’insieme
degli sforzi tesi all’apprendimento
si riduce a conoscere tutto ciò che
permette di raggiungere quel risultato. Ecco, allora, che le modalità
di verifica della preparazione retroagiscono sui contenuti della
preparazione stessa.
Un altro esempio si ricava proprio
dalla storia della valutazione dei
magistrati. Per molto tempo (dagli
anni 40 a metà degli anni 60 in poi
del secolo scorso) il concorso per
ottenere l’avanzamento di carriera
si articolava intorno a prove scritte
ed orali ed alla valutazione dei titoli (provvedimenti redatti o altri
scritti), da parte di una commissione composta da consiglieri di Cassazione o equiparati. Ne derivava
che i magistrati focalizzavano la
propria attenzione più che sull’obiettivo di amministrare la giustizia sullo studio per l’esame e
sulla tecnica di redazione del sin-
golo provvedimento (a tacere della
tendenza a uniformare i propri
orientamenti a quelli della Cassazione, i cui membri erano chiamati a valutare i “candidati” alla promozione).
Un sistema di valutazione è necessario: esempi di persone non all’altezza del ruolo o inclini a disattendere i propri doveri esistono in
ogni categoria professionale.
Ma quello attualmente in vigore
per i magistrati sembra da una parte privilegiare l’aspetto quantitativo rispetto a quello qualitativo (si
veda lo spasmodico ricorso alle
cosiddette statistiche) e, dall’altra,
attingere a criteri di difficile interpretazione/applicazione: come si
valuta, ad esempio, la “capacità
decisionale”?
Il rischio è quello di trasformare il
magistrato in un burocrate senza
più alcuna motivazione ideale per
il quale le cause sono solo pratiche
da sbrigare. Una serie di fenomeni
(sui quali si tornerà un’altra volta)
induce molti a credere che l’importante sia avere una sentenza indipendentemente da quale essa
sia. Una idea che non coincide con
quella di giustizia.
Un sistema di valutazione non appagante rischia di demotivare i
magistrati migliori e di rendere appetibile la professione unicamente
a quelli che cercano un “buon impiego”.