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La grande moschea di Algeri | 1
venerdì 27 maggio 2016, 17:30
La più grande dopo La Mecca e Medina
La grande moschea di Algeri
Faraonica autocelebrazione del regime, arriva in un momento di crisi per il Paese
di Alessandro Balduzzi
Rabat - Prossimamente la baia di Algeri vedrà svettare il minareto di una nuova moschea tra le più grandi al mondo, frutto di
un progetto controverso che dovrebbe al contempo coronare il lungo regno del Presidente della Repubblica, Abdelaziz
Bouteflika, e servire da baluardo contro l'estremismo. Situata sulla collina di Bouzaréah, la nuova moschea della capitale
algerina è un'ambiziosa opera caraterizzata dai grandi numeri: Djamaa El Djazair, questo il suo nome in arabo, per
dimensioni sarà preceduta solamente dalle immense moschee saudite della Mecca e di Medina, con una sala di
preghiera di 20.000 metri quadrati che potrà ospitare fino a 120.000 fedeli e un minareto di 265 metri, il più
alto al mondo. A ciò si aggiungano una biblioteca con un milione di volumi, una sala conferenze, una Casa del Corano, un
museo di arte e storia dell'Islam e un centro di ricerca sulla storia algerina. Interessante anche la posizione della moschea,
compresa tra la Promenade des Sablettes, lungomare in attesa di rilancio turistico, e quartieri popolari da cui provenirono
numerosi dei giovani membri dei gruppi armati islamisti protagonisti della guerra civile degli anni Novanta. Al momento,
tuttavia, a svettare sono solamente le gru del cantiere, 40 ettari accanto alla superstrada che collega Algeri
all'aeroporto. L'inaugurazione della moschea è prevista per l'inizio del 2017, ma molti tecnici hanno espresso
scetticismo a questo proposito. E questo non è il solo aspetto controverso del progetto. Dal punto di vista strettamente
tecnico, si rincorrono voci di misure insufficienti per un edificio eretto in una zona a forte rischio sismico e reso
ancora più sensibile dall'altezza del minareto e dall'assenza di piloni intermedi nella sala di preghiera lunga 150 metri. A
fronte di esperti che accusano la ditta tedesca responsabile delle misurazioni di sottostimare il pericolo di potenziali eventi
tellurici, le autorità algerine escludono ogni pericolo insito nel progetto. Ulteriore bersaglio di critiche è il proposito di
far diventare la nuova moschea un luogo di propagazione dell'Islam moderato. In molti, infatti, scommettono
che finirà per sortire l'effetto contrario, ossia di divenire un polo d'attrazione del fondamentalismo. Ahmed
Madani, consigliere di Abdelmadjid Tebboune, Ministro dell'edilizia e delle politiche abitative, committente dell'opera,
replica indignato a queste insinuazioni al quotidiano libanese 'L'Orient-Le Jour': « C'è chi ci accusa di avere eretto un tempio
per gli integralisti. Al contrario, sono proprio gli islamisti a osteggiare il progetto». Secondo Madani, « è dal 1962 [anno in
cui, con la firma degli Accordi di Evian, il Paese maghrebino ha ottenuto l'indipendenza da Parigi dopo una sanguinosa
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guerra cominciata nel 1956, ndr] che i dirigenti algerini accarezzano l'idea di costruire una moschea emblematica della
cultura algerina e del periodo post-indipendenza.» Coerentemente con l'immagine pubblica di uomo pio e vicino al
misticismo sufi, Bouteflika sembra aver voluto trasformare il sogno in realtà, soffiando il terzo posto nella classifiche delle
moschee più grandi al mondo a quella terminata nel 1993 a Casablanca per volontà del fu Hassan II, Re del Marocco e
padre dell'attuale sovrano Mohammed VI: l'edificazioni di luoghi di culto faraonici pare essere un (costoso) vizio nel
Maghreb. Nelle intenzioni degli ideatori, il valore aggiunto della Djamaa El Djazair rispetto alle 30000 e più moschee già
presenti in Algeria sarà il suo ruolo di luogo non solo di fede, ma anche di scienza e cultura, grazie all'ultramoderna
biblioteca e alla Casa del Corano, istituzione aperta a circa 300 studenti. Prevedibilmente, però, è il costo
spropositato dell'opera a costituire la principale ragione dello scontento tra la popolazione algerina. A detta di
molti, gli 1,2 miliardi di euro preventivati per la realizzazione della moschea sarebbero meglio investiti in
ospedali in un Paese dalle infrastrutture sanitarie carenti; a ciò si aggiunga che i probabili ritardi nella consegna
dell'opera porterebbero le spese a lievitare ulteriormente: secondo il quotidiano francese 'Le Parisien', quella che
ormai è stata soprannominata 'Moschea Bouteflika' sarà consegnata non prima del 2019, con un costo finale di
due o tre miliardi di euro. Benché si parli molto di Caracas sui media occidentali, anche ad Algeri il crollo del prezzo
del petrolio ha innestato uno scenario simil-venezuelano. In caduta libera dal 2014 e solo da poco in graduale ripresa,
il barile di greggio è rimasto a lungo sotto i 35 dollari, soglia critica che il rallentamento dell'economia cinese e l'incremento
nella produzione americana di shale-gas hanno contribuito a raggiungere. Se con il petrolio a 100 dollari al barile il
regime di Bouteflika poteva comprarsi la pace sociale e concepire un'impresa faraonica come la nuova
moschea della capitale (il cantiere è stato inaugurato nel 2012), alle quotazioni attuali i ricavi derivanti
dagli idrocarburi, spina dorsale dell'economia algerina, non bastano neppure a finanziare la spesa pubblica
corrente, figuriamoci investimenti straordinari. La corsa ai ripari è passata dalla riduzione delle importazioni
all'aumento delle tariffe di elettricità gas e carburante (+30% dal primo gennaio 2016). Sia ben chiaro: la
situazione non era rosea neppure prima per gran parte degli Algerini, con la disoccupazione che interessava circa metà della
popolazione anche con il petrolio a 80 dollari. Proprio la mancanza di lavoro si intreccia a un ennesima motivazione di
protesta legata all'ormai famigerata moschea. Per una quota importante del milione di laureati che ogni anno escono dalle
università algerine, l'assenza di imprese esterne all'indotto petrolifero e di un settore terziario sviluppato significa che la
ricerca di un impiego ha buone probabilità di essere vana. E la stessa situazione interessa anche i lavoratori meno qualificati,
come i tre giovani disoccupati che il primo marzo scorso sono saliti sul tetto della prefettura di Annaba, a circa 600 km a est
di Algeri, e si sono scarificati davanti ai passanti, accusando l'amministrazione locale di brogli nell'assegnazione di impieghi
pubblici. In un paese in cui il tasso ufficiale di disoccupazione dell'11,2% tra la popolazione attiva (1,3 milioni di
persone su una popolazione attiva di 11,9 milioni) e raggiunge il 30% tra i giovani, l'assegnazione dei lavori di
costruzione della Djamaa El Djazair alla ditta cinese China State Construction Engineering Corporation
aggiunge al danno la beffa. Se da una parte questa collaborazione rafforzare ulteriormente i rapporti di Algeri con
Pechino a scapito del vicino Marocco, dall'altra la formula prescelta è quella della 'moschea chiavi in mano': cinese la
ditta e cinesi pure i diecimila operai impiegati sul cantiere così come una parte significativa del materiale. E i
disoccupati algerini? Alla moschea ci verranno a pregare, forse. La crisi petrolifera va ad aggiungersi al grande
interrogativo sulla successione al settantanovenne Bouteflika, alla guida del Paese dal 1999, il cui stato di
salute precario ha innescato una guerra di successione dietro le quinte del potere. L'Algeria viene talvolta
definita un polo di stabilità nel mondo arabo da Rabat a Baghdad. Ritengo che il confine tra stabilità e immobilismo sia
piuttosto labile, soprattutto all'occhio esterno. Il fatto che il Paese maghrebino non sia stato scosso dalle
cosiddette primavere arabe non significa che la necessità di cambiamento non sia sentita dagli Algerini,
trattenuti piuttosto dal timore di una nuova guerra civile e dall'evenienza di un salto nel buio, come nella quasi totalità dei
Paesi protagonisti dei moti del 2011, dove la cura si è rivelata peggiore del male. La duplice combinazione di crisi degli
idrocarburi e dubbi sulla successione a Bouteflika potrebbe quindi rivelarsi terreno fecondo per una ventata di rinnovamento.
In tale congiuntura, più che la grande moschea di Algeri sarebbe il regime a dover temere un terremoto, anzi, un
Big One senza ritorno.
di Alessandro Balduzzi
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