Distinguiamo tra conflitto e violenza di Daniele Novara

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Distinguiamo tra conflitto e violenza di Daniele Novara
(direttore del Cpp - Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti )
La parola "conflitto" continua a essere utilizzata come contenitore generale, mentre appartiene
all’area della competenza relazionale. Al contrario di "violenza" e "guerra", che appartengono a
quella della distruzione, cioè dell’eliminazione relazionale.
Conflitto, litigio, guerra, violenza, bullismo, aggressività, prepotenza appaiono termini connotati
da un’unica matrice semantica e vengono utilizzati anche dagli addetti ai lavori con una libertà
discrezionale che aumenta la confusione.
Quella che io chiamo l’elaborazione sana e intelligente dei conflitti ha a che fare con una buona
educazione sentimentale; la paranoia, la guerra, l’aggressività, la prepotenza, hanno a che fare, al
contrario, con quello che si potrebbe chiamare analfabetismo in materia di sentimenti. Vale a dire una
difettosa coniugazione del verbo "amare"(1).
Il caso dell’enfasi bullismo in Italia mette in luce la questione della chiarezza sui contenuti delle
espressioni che si vanno a utilizzare in ambito educativo. Il concetto di bullismo viene strutturato
scientificamente alla fine degli anni ’70 da un gruppo di psicologi sociali svedesi guidati da Dan Olweus
per definire un grappolo di comportamenti che attiene a una vessazione che ha queste caratteristiche:
 la prepotenza reiterata nel tempo;
 l’indirizzamento verso una vittima incapace di difendersi;
 l’intenzionalità di fare del male(2).
Dan Olweus prende in prestito questo termine dalla lingua inglese, in cui ha un significato più generico,
ma abbastanza vicino. To bully significa «costringere a fare qualcosa che non verrebbe fatto
spontaneamente, trattando in modo molto spiacevole, usando la forza e il potere» (3). In realtà, il
termine scientifico di "bullismo" sta ad indicare un grappolo di comportamenti ben più definiti che il
termine stesso inglese to bully. Sta di fatto che in italiano(4) si fa fatica a trovare una traduzione
adeguata per compiere le necessarie rilevazioni fra gli studenti. Alla fine la decisione è quella di
utilizzare genericamente il termine prepotenza. I questionari si orientano quindi non tanto verso
l’individuazione del bullismo così come sistematizzato da Dan Olweus, bensì verso un più generalizzato
comportamento di prepotenza. La domanda tipica che viene fatta ai bambini ruota attorno a una
matrice di questo genere: «Hai mai subito prepotenze dai tuoi compagni di classe?». Alla fine il
risultato appare quanto meno fuorviante: nell’utilizzo generico delle parole, piuttosto che in quello
specifico, i bambini italiani risultano essere i più bulli del mondo, con percentuali del 50% di vittime
nell’area delle elementari. Nessun insegnante si sente di certificare nella sua esperienza, magari anche
trentennale, una situazione così tragica, che se fosse vera costringerebbe effettivamente alla
presenza di Polizia e Carabinieri in quasi tutte le scuole Elementari italiane. In realtà, è la domanda che
risulta sbagliata, utilizzando i termini in maniera impropria. Viene infatti compiuta una rilevazione sul
bullismo utilizzando come rilevatori dei termini che non sono attinenti al bullismo, ma hanno una natura
più generica.
Si tratta di un esempio abbastanza tragico per le sue componenti di terrorismo psicologico e sociale
che ha creato in Italia, ma che denotano come sia necessario identificare con onestà e precisione i
contenuti a cui ci si riferisce usando termini appropriati. Ciò non toglie che esista comunque una
percezione soggettiva e che questa soggettività faccia parte del gioco fra soggetto e realtà, ma allo
stesso tempo è noto come l’attribuzione terminologica ha effetti retroattivi sui vissuti e sui
comportamenti attinenti a questi stessi fenomeni, così come vengono identificati dai termini utilizzati.
In altre parole, una cosa chiamata in un modo è diversa da una cosa chiamata in un altro modo. Dal punto
di vista educativo rappresenta una specifica responsabilità a cui non è legittimo sottrarsi.
Purtroppo oggi esiste nell’immaginario più o meno comune un insieme di parole che tendono ad acquisire
lo stesso significato: conflitto, litigio, guerra, violenza, bullismo, aggressività, prepotenza appaiono
termini connotati da un’unica matrice semantica (come se appartenessero concretamente alla stessa
area di comportamenti) e vengono utilizzati anche dagli addetti ai lavori con una libertà discrezionale,
che aumenta ulteriormente la confusione. In particolar modo, è proprio la parola conflitto a essere
utilizzato come contenitore generale, quasi rappresentasse il termine che racchiude tutti gli altri. Nella
cultura comune, veicolata in particolar modo dagli strumenti mediatici, il termine conflitto presenta un
range di significati amplissimo che va dalla semplice discussione fino alla guerra, se non al genocidio,
passando per il litigio, il contrasto, la prepotenza, il bullismo... Cercherò di dimostrare in questo mio
intervento come sia nell’espressione generale che, tanto più, nelle situazioni educative sia importante,
necessario e anche corretto, favorire le dovute distinzioni e, in particolar modo, evitare lo
snaturamento della parola conflitto, restituendole i suoi legittimi significati.
Distinguere tra conflitto e violenza è una necessità imprescindibile. I vocabolari italiani non aiutano, a
differenza di quelli stranieri. Prendiamone uno qualsiasi. Nel Devoto-Oli, per esempio, cercando il
termine conflitto troviamo: «Contesa rimessa alla sorte delle armi»; cercando il termine guerra
troviamo: «Lotta armata fra Stati e coalizioni per la risoluzione di una controversia internazionale più o
meno direttamente motivata da veri o presunti, ma in ogni caso parziali, conflitti di interessi ideologici
ed economici non ammessa dalla coscienza giuridica moderna».
Lo stesso vale con l’ultimo De Mauro(5); anche lo Zingarelli come prima spiegazione del termine conflitto
dà questo: «Scontro di armati, combattimento», solo come secondo significato offre: «Contrasto,
scontro, urto, specialmente aspro e prolungato di idee, opinioni e simili». Sempre nello Zingarelli la voce
guerra riporta come prima spiegazione: «Situazione di conflitto armato tra due o più Stati». Il
significato di guerra e conflitto appare, dunque, sostanzialmente sovrapponibile, quasi peggiorativo
quello di conflitto. Se la guerra è una delle forme estreme di violenza è evidente che ci troviamo di
fronte a una confusione semantica particolarmente accentuata, che anche la ricerca sui vocabolari non
aiuta a dirimere.
Diversa la situazione nell’ambito delle lingue inglese e tedesca. Nel caso inglese la distinzione è netta:
per conflict la definizione è «Serious disagreement and argument about something important»; per war
«Period of fighting between countries or states when weapons are used and lots of people get killed».
Ma anche nel caso tedesco la distinzione fra Konflikt e Krieg (guerra) è piuttosto netta e senza
possibilità di sovrapposizione(6).
L’uso corrente del termine conflitto che si fa nella lingua italiana è probabilmente legato ad aspetti
della cultura mediterranea che più di quella anglosassone risente di componenti di carattere fusionale,
se non simbiotico, per cui si passa dall’armonia totalizzante alla violenza o alla guerra. È una lingua che
fatica a considerare un’area intermedia basata sulla compresenza di relazione e contrasto. È come se la
nostra cultura, molto fondata sulla dimensione dell’appartenenza onnicomprensiva di famiglia, stentasse
a cogliere come l’armonia stessa sia l’esito di un processo che include l’elemento dialettico del
confronto, se si vuole anche dello scontro, per mantenere un sistema, tanto più un sistema relazionale,
in equilibrio(7).
Viceversa, nella nostra cultura la paura nasce proprio dalla differenziazione vista come componente
minacciosa della relazione stessa, che viene pertanto esorcizzata con elementi distruttivi legati alla
violenza. Da questa mia enucleazione, già si può capire qual è la distinzione che, nell’ambito della ricerca
ventennale dell’istituto che presiedo, il Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti,
siamo andati a definire e a trasferire in molteplici azioni educative e formative in Italia e all’estero (8).
Esiste un territorio di esperienza che appartiene alla violenza ed esiste un territorio di esperienza che
appartiene al conflitto.
Le tre facce della violenza
Come si nota dalla tabella proposta, le caratteristiche della violenza, in opposizione a quelle del
conflitto sono sostanzialmente tre:
 il concetto di danno irreversibile;
 il concetto di identificazione del problema con la persona;
 il concetto di eliminazione del problema con la persona.
Forse l’elemento più importante in questa formulazione è la connotazione di violenza come danno
irreversibile. Sia dal punto di vista fisico che psicologico, intendo per danno irreversibile un’azione
estemporanea o prolungata nel tempo volta a creare intenzionalmente un danneggiamento permanente in
un’altra persona. Abusi fisici, abusi sessuali, abusi psicologici rientrano ovviamente in questa categoria.
Non rientrano azioni non intenzionali tra bambini piccoli, sostanzialmente sotto il sesto anno di vita,
come i morsicatori a due anni, che possono effettivamente produrre un danno irreversibile, anche se
molto raramente, ma il cui scopo non è quello, venendo pertanto a mancare un’intenzionalità consapevole.
In tempi più recenti, potremmo considerare il fumo passivo come una forma di danno irreversibile in
quanto le conseguenze sono state ormai ampliamente verificate dalla ricerca medica. Non possiamo però
parlare di violenza mancando in questi casi il criterio dell’intenzionalità.
Questa caratterizzazione presenta eccezioni e confutabilità, ma consente comunque di avere un
orientamento per individuare il fenomeno violento come tale.
Inoltre, la violenza appare un’azione, più o meno premeditata, volta proprio a sospendere la relazione
ritenendo che la problematicità della relazione corrisponda alla persona stessa e che quindi sia
necessario eliminare la persona per eliminare la problematicità della relazione stessa. Appare pertanto
una strategia arcaica, banale, semplicistica, ma proprio per questo in grado di far uscire dall’ansia e
dall’incertezza per raggiungere uno spazio ripulito dalle complicazioni conflittuali.
La violenza insomma non risulta, come nel pensiero o senso comune, una sorta di conseguenza del
conflitto, ma proprio al contrario un’incapacità di stare nel conflitto, visto il conflitto come momento
fondativo, differenziativo della relazione e capace di creare una distanza che preservi la relazione
stessa dalle sue componenti inglobanti e tiranniche.
Il conflitto non è irreversibile
Al contrario della violenza, nel conflitto il danno si presenta come reversibile. Si tratta di un contrasto,
di una divergenza, di un’opposizione, di tutto quello che attiene a uno scontro nell’ambito legittimo di
questa parola, che esclude comunque componenti di dannosità irreversibile. Anche un eventuale insulto,
o comunque un gesto fortemente critico verso una persona o un gruppo non appare irrimediabilmente
lesivo nella logica della permanenza di questa lesione e pertanto consente una retroazione che mantiene
il rapporto dentro binari praticabili. Il conflitto appartiene all’area della competenza relazionale,
mentre la violenza e la guerra appartengono all’area della distruzione, cioè dell’eliminazione relazionale.
L’elemento più interessante di questa distinzione è che permette di definire il superamento della
violenza non tanto nella rimozione degli elementi critici della convivenza, quanto nell’assunzione
consapevole di questi elementi come parte integrante della relazione stessa, generativi dell’incontro e
con la funzione di garantire all’interno dello scambio la necessaria propensione al cambiamento, ossia la
dinamica rinnovatrice che proprio il conflitto produce dentro le situazioni di incontro.
È pertanto la relazione e non la bontà come nel senso comune si è spesso portati a credere, la misura
discriminante fra conflitto e violenza. Come a più riprese ha dimostrato Franco Fornari (9) nei suoi testi
di psicanalisi della violenza, non va dimenticato che la guerra appartiene da un punto di vista simbolico a
una matrice di amore alienato, ossia di disponibilità sacrificale per i propri oggetti d’amore che porta
alla distruzione del campo avverso e degli oggetti d’amore avversi, in una logica che ha raggiunto proprio
in questi ultimi anni il suo parossismo col presentarsi sulla scena storica della figura drammatica dei
kamikaze che va oltre il mors tua vita mea per introdurre addirittura il mors mea mors tua. Un esito
drammatico di quella che possiamo considerare un’incompetenza alla gestione del conflitto che risulta
particolarmente tragica in un contesto tecnologico così spinto e così ricco di accessibilità come quello
contemporaneo.
La fatica nel conflitto è condizione imprescindibile per buone relazioni. Evitare il conflitto appare
pertanto una scorciatoia sempre più impraticabile. La violenza e la guerra, anche nei casi dei grandi
drammi famigliari che compaiono spesso sui giornali, paiono legati non tanto al tema dell’ escalation,
quanto all’incapacità di stare e di gestire le situazioni di tensione e conflittualità problematica. Allo
stesso tempo, possiamo dire che le buone relazioni consentono il conflitto, viceversa le cattive relazioni
impediscono il conflitto e stabiliscono una specie di tranquillità cimiteriale dove non è possibile alcun
disturbo reciproco, alcuna comunicazione discordante e dove tutto sembra morire in una sorta di
cimitero degli elefanti conformistico e appiattente.
Si potrebbe dire che finché c’è conflitto c’è speranza. Questa conflittualità consente di vivere le
relazioni come vitali e significative, e quindi rappresentare l’antidoto naturale alla distruttività umana.
Occorre però un processo di alfabetizzazione di lunga durata.
La tendenza naturale dell’essere umano è piuttosto quella di ripristinare la simbiosi, intra ed
extrauterina dei primi tempi della vita e che appare come un desiderio sistematicamente risorgente e
come il mito a cui ci si aggrappa nell’incapacità di accettare la crisi come occasione di crescita.
Il caso dei genitori alle prese con gli adolescenti, o anche preadolescenti, è abbastanza emblematico.
Per il genitore è sempre uno shock il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza e all’adolescenza quando
il figlio o la figlia reclamano uno spazio di indipendenza e quindi un bisogno di allontanamento che appare
quasi minaccioso. In realtà questo conflitto fra genitore e adolescente ha una funzione generativa
straordinaria, non per niente si dice che l’adolescenza rappresenti una seconda nascita, cioè il passaggio
verso il mondo e la vita adulta da parte del bambino.
Si tratta di un passaggio che anche da un punto di vista biologico segna una destabilizzazione
notevolissima: il ragazzo dà fondo alle risorse per farcela e lo scontro coi genitori è un modo per
mettersi alla prova. Anche la trasgressione delle regole, nel momento in cui le regole ci sono,
rappresenta per lui un confronto estremamente significativo, carico di sviluppi. Per i genitori è una
grande fatica perché vivono anche loro un sogno di fusionalità e di permanenza molto forte con i figli.
Il conflitto adolescenziale è una necessità imprescindibile per costruire un allontanamento
individuativo. Dal punto di vista pedagogico ci sono tanti modi per vivere questa situazione: lo si può
fare in modo isterico, in modo punitivo, tirannico o anche in modo eccessivamente confidenziale. Quello
che conta è capirne la sostanza e stabilire una distanza giusta che non è più quella dell’infanzia.
Nell’ideogramma cinese di conflitto la parola ha il doppio significato di opportunità e di catastrofe.
Nella tesi che sostengo, la catastrofe non è il conflitto bensì la guerra e la violenza. Se è vero che la
cultura mediatica utilizza il termine conflitto come sinonimo di guerra, è anche vero che nella vita
quotidiana questo è impossibile. Nessuno si sognerebbe di definire la dura discussione avuta col figlio
sulle regole con lo stesso termine utilizzato per definire i combattimenti in Iran, in Iraq o in
Afghanistan. In altre parole, la confusione appare anche legata a componenti ideologiche, abbastanza
palesi, volte a edulcorare le componenti più tragiche dello scontro armato. Anche la tendenza a volere
aggiungere parole di benevolenza al termine conflitto per caratterizzarlo in un certo modo come
"gestione non violenta dei conflitti, gestione positiva dei conflitti" appare anch’essa frutto di una
visione ancora piuttosto bipolare dove la polarizzazione è fra il mondo dell’armonia e il mondo del
conflitto. Si tratta di una visione arcaica, tipica di una società rigida, volendo, anche piuttosto
patriarcale.
Nel mondo attuale, sempre più complesso, la capacità di stare nei conflitti, usando anche il termine nel
senso di "sostare nel conflitto", come abbiamo utilizzato nell’ambito del nostro istituto, appare una
necessità quasi di sopravvivenza in una società in cui i cambiamenti implicano una tensione quasi
frenetica nell’affrontare nuove situazioni, leggerle, capirle, decodificarle.
Imparare a vedere un altro punto di vista
Dice giustamente la psicologa francese Isabelle Filliozat: «Nel conflitto l’altro mi obbliga a
considerarlo, mi invita a vedere un altro punto di vista che non sia il mio, amplia il mio campo di
comprensione del mondo. La felicità non dipende dalle circostanze piacevoli o spiacevoli, ma dal nostro
atteggiamento di fronte a queste circostanze»(10). Questa frase che la Filliozat utilizzò come augurio di
Natale nel dicembre 2006 appare particolarmente emblematica di un nuovo modo di impostare
l’avvicinamento ai temi caldi di questi ultimi anni. Non più l’ostinata, disperata ricerca di bypassare la
problematicità e la conflittualità del vivere, ma piuttosto l’assunzione di questa come il motivo faticoso,
ma generativo, della capacità di stare al mondo appare oggi urgentissima per le nuove generazioni, un po’
troppo cullate nel mito consumistico e narcisistico dei principi e delle principesse. Si stanno creando le
condizioni per una nuova cultura relazionale e sociale che progressivamente emerge anche dalle ceneri
sia dell’autoritarismo fine a sé stesso, che dal lassismo, dal confidenzialismo educativo che non aiuta a
crescere, ma crea più problemi di quanti cerchi di risolverne(11).
Mi permetto di chiudere con una piccola mappa orientativa nei confronti della gestione dei conflitti.
Parlo di gestione, mai di soluzione, rimandando a una visione processuale e non a una visione finalistica
per mantenere il conflitto in quest’area di trasformazione piuttosto che di dimensione aperturachiusura:
1 distinguere la persona dal problema, in modo da evitare ogni forma di giudizio e di colpevolizzazione
generalizzante, limitandosi a individuare i contenuti specifici del conflitto, restando sugli aspetti
tangibili piuttosto che su componenti arbitrarie;
2 aspettare il momento giusto, lasciando decantare emozioni negative, creando una distanza sufficiente
per vedere il conflitto dall’alto piuttosto che dall’interno;
3 capire le ragioni altrui, dando senso e comprensione a quello che sta succedendo, cogliendone i
significati soggettivi e non solo quelli della propria parte;
4 strutturare critiche costruttive, e in generale evitare un linguaggio giudicante, preferendo piuttosto
una comunicazione che faciliti la comprensione del conflitto.
Daniele Novara
Note:
1 Luigi Pagliarani, "Educazione sentimentale", in Le radici affettive dei conflitti, a cura di Daniele
Novara, Diego Miscioscia, La Meridiana, Molfetta (Ba) 1998, p. 68.
2 Dan Olweus, Bullismo a scuola, Editrice Giunti, Firenze 1995.
3 Citazione tratta dal dizionario inglese Collins.
4 Ada Fonzi, Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze 1997.
5 «Conflitto: scontro di eserciti, combattimento; urto, contrasto, opposizione». «Guerra: conflitto fra
stati, nazioni, popoli condotto con l’impiego di mezzi militari; estens., contrasto condotto su un piano
non militare; fig., situazione di ostilità, discordia o aspra polemica fra persone o gruppi».
6 Konflikt = (dal latino conflictus = scontro, da confligere = scontrarsi):
«1.a) situazione difficile (sorta dallo scontro fra concezioni, interessi o cose analoghe contrastanti fra
loro) che può portare alla discordia: un conflitto latente, un conflitto politico; intervenire in un c.;
all’interno della direzione del partito si arrivò ad un c.; entrare in c. con qualcosa»;
«1.b) contrapposizione fra avversari, condotta con mezzi bellici: un c. armato, un c. militare; tenersi
fuori da un conflitto fra due stati»;
«2) dissidio, contrasto basato su problemi interiori: un c. spirituale; uscire da un c. (interiore); questa
cosa mi mette in serio c. con la mia coscienza».
Krieg = (dal medio-alto-tedesco kriec, anche = sforzo, ricerca (*); antico-alto-tedesco chreg =
ostinazione):
«conflitto fra stati o popoli, condotto col potere delle armi; ampio scontro militare, che si estende per
un lungo lasso di tempo: una guerra convenzionale, una guerra atomica; una guerra persa; la guerra
totale; una g. santa (con motivazioni religiose); vincere, perdere una g.; dichiarare g. ad un Paese;
partecipare ad una g.; tornare a casa dalla g.; il Paese è / si trova in g. (con un altro Paese); entrare in
g.; prima, dopo la g.; armarsi per la g.; la Guerra dei 7 anni; la G. dei 30 anni; la G. dei 100 anni;
(colloquiale) la guerra familiare, matrimoniale li snervò; quei due vivono costantemente in guerra fra
loro; la guerra fredda; intimare guerra a qd. / qc».
7 Anche nella mitologia greca la dea Armonia era figlia di Marte e di Venere, a significare che armonia
non è solo derivata da bellezza, ma anche dalla dimensione del contrasto e della conflittualità.
«Agli occhi dei Greci non si possono isolare, nel tessuto delle relazioni sociali così come nella struttura
del mondo, le forze del conflitto da quelle dell’unione», J.P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia,
Einaudi, Torino 1981.
8 Vedi sito del Centro psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti:www.cppp.it
9 Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1971: Franco Fornari, La malattia
dell’Europa, Feltrinelli, Milano 1985.
10 Tratto dal sito www.filliozat.net
11 Marianella Sclavi, L’arte di ascoltare, Mondadori, Milano 2004; Fulvio Scaparro (a cura di), Il
coraggio di mediare, Guerini, Milano 2000; Daniele Novara, L’ascolto si impara, Gruppo Abele, Torino
2000; R. Fisher - W. Ury - B. Patton, L’arte del negoziato, Corbaccio, Milano 2005; Thomas
Gordon, Relazioni efficaci, La Meridiana, Molfetta (Ba) 2005; Luigi Pagliarani, Violenza e bellezza,
Guerini, Milano 2000; D. Novara - L. Regoliosi, I bulli non sanno litigare, Carocci Faber, Roma 2007. Si
veda anche la rivista Conflitti, edita dal Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di
Piacenza, www.cppp.it
SCUOLA DI LITIGIO
Daniele Novara, pedagogista, consulente e formatore e dirige dal 1989 il Centro psicopedagogico per la
pace e la gestione dei conflitti (Cpp) di Piacenza, è autore di diversi testi, tra cui I bulli non sanno
litigare! L’intervento sui conflitti e lo sviluppo di comunità, scritto per Carocci Faber insieme con Luigi
Regoliosi, psicopedagogista che insegna Politiche sociali e prevenzione della devianza all’Università
Cattolica di Milano.
Si tratta di un testo che, lungi dal seguire l’usuale tendenza a cercare di rendere i bulli più buoni e le
vittime meno indifese, propone una lettura alternativa e modelli operativi basati su interventi concreti,
partendo dall’approfondimento del potere del gruppo di trasformare i comportamenti individuali.