Odissea - LIBRO OTTAVO

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Odissea - LIBRO OTTAVO
Odisseo tra i Feaci
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Quando sorge l’aurora (ἦμος δ᾽ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς) Alcínoo si alza dal letto: si alza anche
Odisseo (divino, διογενὴς) (distruttore di rocche, πτολίπορθος Ὀδυσσεύς). Alcínoo guida quindi tutti i
Feaci all’assemblea, che si tiene presso le navi. Arrivati al luogo dell’assemblea i Feaci siedono sulle lucide
pietre, vicini l’uno all’altro. Intanto Atena (Pallade) gira per la città: ha l’aspetto dell’araldo di Alcínoo, e si
occupa del ritorno di Odisseo. Si avvicina ad ogni uomo e lo invita ad andare in piazza a sentire le notizie
sul nuovo ospite appena arrivato al palazzo di Alcínoo, dopo aver a lungo errato per il mare.
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In questo modo desta in ognuno la curiosità, e le piazze si riempiono. Molti ammirano Odisseo: Atena lo
ha reso prodigiosamente bello, più alto e robusto nell’aspetto, in modo che i Feaci lo ammirino. Ma anche
in modo che l’aspetto susciti ammirazione e timore, cosí da poter vincere le molte gare nelle quali i Feaci
volevano metterlo alla prova. Appena tutti si sono radunati, Alcínoo prende la parola, rivolgendosi a tutti i
principi e i capi dei Feaci: è giunto alla sua casa uno straniero, naufrago, di cui ignora l’identità. Può essere
giunto da genti che abitano le terre orientali, o dalle esperie: Alcínoo non lo sa. L’ospite però domanda
aiuto, chiede di essere accompagnato alla sua patria, e di poter essere accompagnato là rapidamente.
Come sempre, continua Alcínoo, loro gli daranno subito l’accompagnamento che chiede: nessuno deve
venire presso di lui e rimanere a lungo a soffrire e domandare aiuto. Dunque ordina di mettere in mare
una nave, nuova, con cinquantadue giovani tra i migliori scelti tra il popolo. Chiede dunque ai giovani di
preparare la nave, legando bene i remi agli scalmi, e poi di tornare indietro per preparare rapidamente un
banchetto: Alcínoo vuole offrire a tutti un banchetto nel suo palazzo. Chiede invece ai re di voler entrare
nella sua casa per onorare l’ospite: nessuno rifiuti. E ordina di fare venire il cantore Demòdoco, per
dilettarli, cantando quello che il cuore gli comanda.
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καλέσασθε δὲ θεῖον ἀοιδὸν
Δημόδοκον: τῷ γάρ ῥα θεὸς πέρι δῶκεν ἀοιδὴν
τέρπειν, ὅππῃ θυμὸς ἐποτρύνῃσιν ἀείδειν.
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E chiamate il cantore divino,
Demòdoco; a lui in sommo grado un dio donò il canto,
a darci diletto, comunque il cuore lo spinga a cantare.
Alcínoo precede i re a palazzo: questi lo seguono, mentre l’araldo va in cerca del cantore (divino). Intanto i
cinquantadue giovani scelti vanno in riva al mare, ed eseguono gli ordini del re. Tirano la nave nel mare,
mettono l’albero e la vela, legano i remi negli stroppi di cuoio: fanno ogni cosa con ordine. Infine stendono
le vele bianche e ormeggiano la nave alla fonda. Tornano quindi al palazzo di Alcínoo.
Intanto i portici, i cortili e le sale del palazzo si riempiono di una folla di uomini, giovani ed anziani. Per loro
Alcínoo uccide dodici pecore, otto maiali e due buoi: quindi li scuoiano e li preparano, mentre preparano
per il pranzo. Intanto l’araldo arriva guidando il cantore. La musa lo amava molto, ma gli donò un bene
insieme ad un male: gli donò la dolcezza del canto, ma lo fece privo degli occhi. Pontònoo sistema per lui
un trono con borchie d’argento, al centro dei convitati, appoggiato ad una colonna. Ad un chiodo l’araldo
appende la cetra (sonora, φόρμιγγα λίγειαν): la appende sopra la sua testa, e gli insegna a prenderla con
le sue mani quando ne avrà bisogno. Gli mette vicino un canestro, una tavola, ed una coppa di vino per
berne quando ne avrà voglia.
κῆρυξ δ᾽ ἐγγύθεν ἦλθεν ἄγων ἐρίηρον ἀοιδόν,
τὸν πέρι μοῦσ᾽ ἐφίλησε, δίδου δ᾽ ἀγαθόν τε κακόν τε:
ὀφθαλμῶν μὲν ἄμερσε, δίδου δ᾽ ἡδεῖαν ἀοιδήν.
Citazione
Citazione
Intanto l’araldo arrivò guidando il gradito cantore,
che la musa amò molto, ma un bene e un male gli dava:
degli occhi lo fece privo e gli donò il dolce canto.
Tutti a questo punto cominciano a servirsi e a mangiare. Quando hanno mangiato e bevuto a sazietà, la
Musa ispira il cantore: gli fa cantare le glorie degli eroi, e in particolare un episodio1 del quale allora
grande era la fama: la lite tra Achille (Pelide) ed Odisseo. Questi un giorno litigarono ad un banchetto con
terribili parole. Agamennone godeva in cuor suo che i primi fra gli Achei litigassero: nella divina Pito infatti
cosí gli aveva predetto Apollo (Febo), un giorno in cui Agamennone là si era recato per interrogarlo. In
quel momento iniziavano, per volere di Zeus, tutti mali per i Teucri e gli Achei.
L’episodio è ignoto. Sappiamo solo che una volta Odisseo ed Achille litigarono perchè il primo voleva conquistare Troia con
l’astuzia, e il secondo con la sola forza.
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Mentre Demòdoco canta queste cose, Odisseo si tira sulla testa il grande manto purpureo, nascondendosi
il viso2: prova vergogna a farsi veder piangere dagli Achei. Quando Demòdoco ha finito, Odisseo si asciuga
le lacrime e si toglie il mantello dal capo. Poi alza la duplice coppa (δέπας ἀμφικύπελλον) e liba agli dèi.
Ma quando i re dei Feaci spingono nuovamente Demòdoco a cantare, e lui riprende il canto – perchè i
Feaci godono nel sentirlo cantare – ancora Odisseo si copre il capo e piange. Riesce a nascondere a tutti le
lacrime, ma non ad Alcínoo. Gli si siede accanto, lo sente piangere forte, e si rivolge ai Feaci (amanti del
remo, Φαιήκεσσι φιληρέτμοισι): sono ormai sazi di cibo, ma anche di ascoltare la cetra, che accompagna
il banchetto. Invita dunque tutti ad uscire all’aperto e a cimentarsi in ogni sorta di giochi e gare atletiche.
Cosí Odisseo potrà raccontare ai suoi amici, una volta tornato in patria, quanto i Feaci eccellano su tutti
nel pugilato, nella lotta, nella corsa e nel salto (ὅσσον περιγιγνόμεθ᾽ ἄλλων / πύξ τε παλαιμοσύνῃ τε καὶ
ἅλμασιν ἠδὲ πόδεσσιν). Alcínoo li precede, e tutti lo seguono. L’araldo appende al chiodo la cetra
(sonora), prende per mano Demòdoco e lo guida fuori della sala: lo guida per la stessa via per la quale gli
altri re dei Feaci andavano per vedere le gare. Vanno verso la piazza: li segue una grandissima folla. E si
alzano molti giovani valenti: Acròneo, Ochíalo, Elatrèo, Nautèo, Primnèo, Anchíalo, Eretmèo, Pontèo,
Prorèo, Tòonte e Anabesíneo, e Anfíalo, figlio di Polinèo Tettoníde.3 Si alza anche Euríalo, il Naubolíde:
simile ad Ares (flagello degli uomini), il più bello dei Feaci per aspetto e per corpo, ad eccezione del
perfetto Laodàmante. Si alzano anche i tre figli di Alcínoo: Laodàmante, Alio e Clitòneo (divino).
Questi si cimentano prima di tutto nella corsa: il persorso è lungo; il gruppo vola per la pianura, tra la
polvere. Vince Clitòneo. PARAGONE  Clitòneo distanzia gli altri di una lunghezza pari a un solco di mule.
Poi si cimentano nella lotta, ed è Euríalo il vincitore. Nel salto è Anfíalo a vincere, mentre nel disco il
migliore è Elatrèo. Nel pugilato il migliore è Laodàmante, il figlio di Alcínoo. Quando poi tutti si sono
goduti le gare, parla Laodàmante, figlio di Alcínoo: propone di chiedere all’ospite se c’è una gara (ἄεθλον),
nella quale eccella. L’ospite non è certo gracile nè di gambe nè di cosce: ha braccia, collo e petto robusti.
Non è nemmeno vecchio: è solo spezzato dalle molte sventure che ha passato. Non c’è infatti nulla che
possa conciare male un uomo come il mare, anche se l’uomo è molto forte. Gli risponde Euríalo: ha
parlato a proposito, vada dunque lui stesso ad invitarlo, e a parlargli.
Laodàmante si porta dunque in mezzo ai presenti e si rivolge ad Odisseo: lo invita a cimentarsi in una gara
nella quale eccella, visto che dall’aspetto gli sembra una persona esperta nelle gare atletiche. Non c’è
infatti gloria maggiore per un uomo di quella che riesce a procurarsi con le mani o con i piedi (οὐ μὲν
γὰρ μεῖζον κλέος ἀνέρος ὄφρα κ᾽ ἔῃσιν, / ἤ ὅ τι ποσσίν τε ῥέξῃ καὶ χερσὶν ἑῇσιν). Lo invita dunque a
cimentarsi, scacciando la sua sofferenza dal cuore: ormai manca poco al suo viaggio, le nave è in mare e i
compagni sono già pronti. Gli risponde Odisseo: chiede a Laodàmante perchè lo invitino. Forse per
prenderlo in giro ? Ha il cuore occupato piu’ dalle sofferenze che dalle gare sportive, lui che dopo aver
tanto sofferto siede lí nella loro piazza, supplice verso il re ed il popolo, impaziente di partire.
Gli risponde allora Euríalo, offendendolo: non è il caso di invitarlo alle loro gare, dato che Odisseo non gli
sembra davvero un atleta. Sembra piuttosto una di quelle persone che viaggiano per mare a capo di una
nave e di marinai che si danno al commercio: solo interessati al proprio carico, rapaci di guadagni4.
Davvero non un atleta ! Odisseo lo guarda male e gli risponde: non ha parlato bene, ma come un pazzo.
Certo gli dèi non danno tutti i doni agli uomini5: a qualcuno possono dare un aspetto meschino, ma
grande eloquenza, mentre ad altri danno la bellezza, ma non la grazia nella parola. Ad Euríalo gli dèi
hanno dato una bellezza sorprendente, ma una mentre vuota. Lui l’ha fatto adirare con le sue parole: nei
giochi Odisseo dice di non essere davvero un novellino, ma al contrario di essere stato tra i primi, quando
poteva contare sul vigore delle braccia. Ora è molto provato dalla sciagura e dai mali, ed ha molto
sofferto. Comunque, avendolo cosí offeso ed irritato, accetterà di competere in una gara.
Dette queste parole Odisseo, ancora avvolto nel mantello, con un balzo afferra un disco: molto più grande
e pesante di quelli che i Feaci usano per provare i lanci. Lo rotea e lo scaglia via: i Feaci (dai lunghi remi,
navigatori famosi) devono appiattirsi per terra tanto è l’impeto della pietra. Il lancio supera tutti gli altri. È
Atena stessa, simile ad un uomo, che segna il termine del lancio: commenta che anche un cieco, a tentoni,
riconoscerebbe il suo lancio, essendo il primo. Nessuno tra i Freaci potrà uguagliarlo o superarlo.
Paragone
Commercio
Ricordiamo il pianto di Telemaco mentre si trova in visita al palazzo di Menelao (IV, 113 sgg.): anche lui si copre il viso con il
mantello purpureo affinchè Menelao non lo veda piangere.
3 Quasi tutti i nomi dei Feaci fanno riferimento al mare e alla navigazione.
4 Si vedano – a proposito della pirateria e del commercio (vista come attività non nobile) – le note riportate ai versi III, 69 e sgg. e
VII, 27 e sgg.
5 Si veda Iliade, IV, 320.
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Queste le parole di Atena. Odisseo è felice del risultato, e nell’udire qualcuno nell’arena parlargli con tono
amico. Un po’ più rilassato parla ai Feaci: provino adesso ad uguagliare il suo lancio i giovani. Lui potrà poi
uguagliare ancora il suo stesso lancio, o lanciare più lontano. E se qualcuno vuole ancora sfidarlo,
accetterà qualsiasi gara: pugilato, lotta o anche corsa. Troppo l’hanno irritato. Non rifiuterà alcuna sfida,
da parte di nessuno tra i Feaci: escluso solo Laodàmante, il suo ospite. È infatti spregevole provocare a
gara chi ci accoglie in un paese straniero. Affronterà chiunque, perchè in tutte le gare Odisseo è sicuro di
valere qualcosa. Maneggia bene l’arco, e sa colpire con la prima freccia un uomo in mezzo ad una folla di
nemici, anche se gli stanno tutti intorno e tirano frecce. Solo Filottète lo superava con l’arco, a Troia,
quando gli Achei tiravano d’arco6. Dice ancora di essere molto migliore di tutti gli altri uomini che ora
vivono sulla terra (appunto con l’eccezione di Filottéte): ma non vorrebbe certo misurarsi con gli uomini
antichi, come Eracle, o Èurito Ecalièo, che gareggiavano con l’arco anche con i numi7. Per questio Èurito
morí d’improvviso, e non di vecchiaia: lo uccise Apollo perchè egli osò sfidarlo a gara con l’arco.
Con l’asta è capace di colpire tanto lontano quanto un altro potrebbe colpire con una freccia. Solo nella
corsa ha paura di essere battuto da qualcuno dei Feaci: è stato troppo indebolito dalla navigazione, e sulla
nave non ha avuto cura costante del suo corpo, e le sue ginocchia si sono sciolte.
A queste parole di Odisseo tutti rimangono muti. Solo Alcínoo gli risponde: Odisseo non dice certo cose
che siano loro sgradite. Vuole solo mostrare la sua bravura a chi lo ha offeso apertamento, come non
avrebbe fatto qualcuno che sapesse parlare in modo più appropriato. Vuole poi dirgli qualcosa che possa
poi raccontare anche ad altri eroi, quando finalmente banchetterà nel suo palazzo accanto alla sposa e ai
suoi figli, e ricorderà le virtù dei Feaci, e in quali opere Zeus concede loro di eccellere sin da tempi molto
lontani. I Feaci non sono pugilatori o lottatori perfetti: corrono però veloci e sono navigatori eccellenti.
Amano le feste, la cetra e la danza, cambiarsi d’abito, i bagni tiepidi e l’amore. Invita poi i migliori
danzatori a danzare di fronte ad Odisseo, affinchè egli possa raccontare agli amici, una volta tornato in
patria, quanto i Feaci eccellano su tutti nell’arte della navigazione, nella corsa, nella danza e nel canto.
Ordina poi che si porti a Demòdoco la cetra, che – dice Alcínoo – deve essere rimasta nel palazzo.
Quando Alcínoo ha finito di parlare, l’araldo si alza per andare a prendere la cetra nella sala reale. Si
scelgono poi nove giudici di campo, eletti fra il popolo: questi si alzano ed allestiscono l’arena per la
danza. Arriva poi l’araldo portando la cetra per Demòdoco: questi si dispone nel mezzo, e intorno gli
stanno i giovani più esperti di danza tra quelli nel primo fiore degli anni. Battono con i piedi il ritmo
(divino). Odisseo ammira l’agile gioco dei piedi e si stupisce.
È l’aedo poi ad intonare un bel canto, toccando le corde della cetra: Canta gli amori di Ares e di Afrodite
(bella corona), e di quando si unirono per la prima volta di nascosto in casa d’Efesto: le diede molti doni e
disonorò il letto di Efesto. Ma il Sole li vide abbracciati, in amore, e fece la spia. Quando Efesto ascoltò
queste dolorose parole andò nella sua fucina meditando vendetta: e sull’incudine battè catene che non si
possono sciogliere o rompere, in modo che gli amanti restassero prigionieri. Terminata questa trappola, e
sdegnato con Ares, andò nella sua stanza, dov’era il letto, ed attaccò ai sostegni del letto le catene, in
cerchio, da tutte le parti: molte pendevano anche dall’alto, dal soffitto, sottili come fili di ragni. Nessuno
avrebbe potuto vederle, nemmeno un dio, tanto erano fatte con astuzia. Terminata la trappola, Efesto
finse di andare a Lemno (rocca ben costruita), carissima sopra tutte le terre. Ares (dalle redini d’oro) lo
spiava: quando vide Efesto (inclito artefice) andarsene, corse alla casa di Efesto bramando l’amore di
Afrodite (Citerea bella corona). Afrodite era ritornata da poco dalla case del padre Zeus (somma potenza),
ed era seduta. Ares entra nella casa, la prende per mano e la invita a stendersi con lui nel letto: Efesto non
è più in casa, tra loro, e forse è già giunto a Lemno, fra i Sintii (dal rozzo linguaggio, μετὰ Σίντιας
ἀγριοφώνους). Anche Afrodite è desiderosa di distendersi con lui: entrano dunque nella trappola e si
distendono, e subito cadono intorno a loro le ingegnose catene di Efesto. Non possono più né alzarsi né
muoversi, ma lo capiscono quando è troppo tardi, e non hanno più scampo.
La danza
Gli amori
di Ares ed
Afrodite in
casa di
Efesto
Odisseo è sicuramente un grande arciere : lo si desume dall’episodio della prova con l’arco. Ma già nell’Iliade egli non usa più
quel’arma, che i Greci già da tempo hanno abbondonato : era considerata un’arma poco nobile, buona per i combattenti mediocri,
ed eliminata il più possibile anche dalle leggende. Al tempo dei poemi l’arco rimane nell’epica quando ormai è un attributo
insostituibile di certi eroi, come Filottète o Eracle, o un elemento fisso di certri episodi, come appunto la vendetta sui pretendenti.
7 Ancora un riferimento alla superiorità degli uomini antichi.
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Efesto (lo zoppo glorioso, περικλυτὸς ἀμφιγυήεις) è subito loro addosso: il Sole ha fatto la spia, e lui è
ritornato immediatamente indietro, prima di raggiungere Lemno. Corre a casa, e si ferma sotto il portico:
è dominato da un’ira selvaggia. Grida paurosamente, quindi raggiunge gli altri dèi e li chiama a vedere una
cosa ridicola e vergognosa: Afrodite, che disprezza sempre Efesto perché è zoppo, ama invece il crudele
Ares, bello e sano di gambe. Efesto è nato invece sciancato, e nessuno, tranne i genitori, ne ha colpa: non
l’avessero mai generato! E hanno fatto l’amore sul suo letto ! Efesto è adirato. Adesso probabilmente non
vorebbero più giacere insieme neppure un minuto, per quanto si amino: ma la trappola, le catene, li
terranno insieme, finchè il padre non gli renderà tutti i doni di nozze, tutti i doni che ha dovuto pagare per
Afrodite, la sua sposa senza pudore. Bella, ma incapace di controllarsi.
Queste le parole di Efesto. Arrivano allora tutti i numi, e si radunano sulla soglia di bronzo. Arriva
Poseidone (che cinge la terra, Ποσειδάων γαιήοχος), Ermete (benefico, ἐριούνης / Ἑρμείας), Apollo (il
sovrano preservatore, ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων). Per pudore le dee rimandono nelle loro case. Gli dèi sono
in piedi nel portico, e scoppiano in un irrefrenabile riso al vedere la trappola dell’abilissimo Efesto.
Qualcuno ridendo dice che le male azioni non fruttano bene: il lento Efesto ha acchiappato Ares, il più
veloce tra gli dèi. Efesto (lo zoppo, χωλὸς) l’ha catturaro con la sua arte e lui adesso pagherà l’adulterio.
Gli dèi dicevano tra loro queste cose. Apollo si rivolge ad Ermete (messaggero, datore di beni, διάκτορε,
δῶτορ ἑάων) e gli chiede se vorrebbe, così schiacciato sotto pesanti catene, dormire di fianco ad Afrodite
(aurea). Ermete (messaggero Argheifonte) risponde ad Apollo (lungisaettante, ἄναξ ἑκατηβόλ᾽ Ἄπολλον)
che lo vorrebbe, anche se le catene fossero tre volte più grosse, se tutti gli dèi e le dee venissero a
vederlo. Allora dormirebbe con Afrodite (dorata) ! Dette queste cose, gli dèi scoppiano in una irrefrenabile
risata. Poseidone non ride: prega continuamente Efesto (artefice illustre) di sciogliere Ares. Chiede ad
Efesto di scioglierlo, e gli promette che in cambio Ares gli pagherà di fronte agli altri numi tutto quello che
vorrà. Gli risponde Efesto: Poseidone non gli chieda questo: è una garanzia ben misera garantire per un
vile (δειλαί τοι δειλῶν γε καὶ ἐγγύαι ἐγγυάασθαι). Come potrebbe infatti obbligarlo davanti agli dèi se
Ares dovesse fuggire eludendo sia la catena che la pena ? Poseidone (che scuote la terra, Ποσειδάων
ἐνοσίχθων) risponde ad Efesto che se Ares dovesse loro sfuggire eludendo il pagamento di quello che
deve, sarà lui stesso a pagare. A questo punto Efesto acconsente: non è bene opporsi a quello che
Poseidone dice. Così dicendo il dio scioglie la trappola: non appena i due sono liberi dalle catene, d’un
balzo Ares se ne va in Tracia, mentre Afrodite (che ama il sorriso, φιλομμειδὴς Ἀφροδίτη) se ne va a Cipro,
a Pafo, dove ella ha un tempio ed un altare odoroso. Qui le Cariti8 la lavano e la ungono di olio immortale,
e la vestono con amabili vesti.
Queste le cose che il cantore canta: Odisseo e gli altri Feaci (dai lunghi remi, navigatori famosi) godono in
cuore ascoltandolo. Alcínoo vuole poi che Alio e Laodàmante danzino da soli, perché nessuno può
competere con loro. Essi prendono in mano una palla purpurea, che Pòlibo ha fatto per loro: uno dei due
la lancia all’altro, piegato all’indietro, lanciandola altissima verso il cielo; l’altro balza da terra e la riprende
con agilità prima di ritoccare terra con i piedi. Dopo aver dato prova della loro abilità nel lancio della palla,
danzano sulla terra. Gli altri giovani battono il tempo in piedi nell’arena, mentre sale alto il clamore.
A questo punto Odisseo si rivolge ad Alcínoo per dirgli che davvero i Feaci sono danzatori eccellenti, come
il re aveva vantato. Odisseo si dice davvero stupito (della loro abilità). Alcínoo è felice, e all’improvviso
parla ai Feaci (amanti del remo): Odisseo gli pare molto saggio, quindi propone agli altri principi e capi
feaci di dare a Odisseo un dono9. Sul popolo dei Feaci governano sovrani dodici re, Alcínoo essendo il
tredicesimo: propone dunque che ciascuno porti un manto lavato, una tunica ed un peso d’oro.
Riuniranno quindi tutto sul posto, in modo chel’ospite, avendo già i doni nella mani, venga a cenare con
loro gioioso in cuore. Suggerisce poi che Euríalo lo plachi, sia con parole, sia con un dono: ha infatti parlato
a sproposito. Tutti approvano le sue parole, e ciascuno manda il suo araldo a prendere i doni.
Danza
Cariti (gr. Χάριτες) Divinità dell’antica Grecia (dette dai Romani Gratiae), personificazioni della grazia e della bellezza e loro
dispensatrici. Figlie di Zeus e di Eurinome, furono presto comprese fra le divinità apollinee e spesso unite alle Muse. Il centro più
antico del loro culto sembra essere stato Orcomeno di Beozia, dove fu fissato il numero delle C. e fu deciso il loro nome: Aglaia, la
splendente; Eufrosine, la rallegrante; Talia, la fiorente.
9 I doni si danno all’ospite subito prima della partenza: infatti è già stabilito che Odisseo partirà la sera (VII, 317-18). La nave è
pronta, l’imbarco è imminente e fra poco Odisseo di congederà da Nausicàa. In realtà la partenza sarà rimandata all’indomani sera
(XI, 351). Il racconto delle peripezie di Odisseo, che comincia nel libro seguente, è stato allargato con aggiunte secondarie da un
poeta che ha anche pensato di introdurre l’intermezzo del libro XI, 333-84 (con il rinvio della partenza) per spezzare il racconto
diventato troppo lungo e per collegare meglio le aggiunte all’episodio-cornice dei Feaci.
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Euríalo risponde ad Alcínoo: placherà l’ospite con un dono. Gli donerà una spada (ἄορ παγχάλκεον, spada
appesa alla cintura) in bronzo massiccio, con l’elsa in argento. È avvolta in una custodia in avorio appena
tagliato (ᾧ ἔπι κώπη / ἀργυρέη, κολεὸν δὲ νεοπρίστου ἐλέφαντος / ἀμφιδεδίνηται): è di grande pregio.
Dette queste parole mette la spada con borchie d’argento (ξίφος ἀργυρόηλον) nelle mani di Odisseo, e gli
parla: se ha detto qualche parola cattiva, se la portino via i turbini nella loro rapina. A lui augura di
rivedere la sposa e tornare in patria, poiché ha già troppo sofferto lontano dai suoi. Gli risponde Odisseo:
augura anche lui salute. Gli dèi gli diano fortuna, e lui non abbia mai a rimpiangere questa spada che gli ha
donato con parole di scusa. Detto questo si getta a tracolla la spada a borchie d’argento. Il sole intanto
cala, e giungono i doni (gloriosi): gli araldi li portano alla casa d’Alcínoo. Sono i figli di Alcínoo a riceverli, e
li depongono presso la regina. Poi Alcínoo guida tutti i convenuti, e, giunti, si siedono sopra i troni.
Alcínoo (μένος Ἀλκινόοιο) si rivolge ad Arète: le chiede di portare un’arca di pregio, la più bella, e di
mettervi dentro un manto lavato ed una tunica. Chiede poi che mettano una caldaia sul fuoco e scaldino
l’acqua, così che dopo essere stato lavato ed aver visto in ordine tutti i suoi doni, recati dai Feaci, possa
gustare il banchetto e godere del canto del cantore. Alcínoo vuole poi ancora donargli un suo bellissimo
calice (ἄλεισον) in oro, perché ricordandosi ogni giorno di lui libi nella sala a Zeus e agli altri dèi. Dette
queste parole, Arète comanda alle ancelle di mettere subito sul fuoco un grande tripode (τρίποδα μέγαν).
Le ancelle obbediscono e mettono sul fuoco il grande tripode da bagno, versano l’acqua e portano legna
da bruciare. La fiamma avvolge il tripode e scalda l’acqua. Intanto Arète porta per Odisseo l’arca più bella,
e vi mette i doni stupendi donati dai Feaci, vesti ed oro: lei stesse mette anche un bel manto e una tunica.
Arète si rivolge poi ad Odisseo, e gli chiede di fare un abile nodo sul coperchio in modo che durante il
viaggio nessuno possa forzarlo, mentre dormirà viaggiando sulla nave. Udite queste patole, subito Odisseo
adattò il coperchio e vi fece un abile nodo, complesso: un nodo che un tempo gli insegnò Circe (πότνια
Κίρκη). In quel momento la dispensiera entra ed invita Odisseo a farsi lavare entrando nel bagno: Odisseo
vede con grande piacere il bagno caldo, dal momento che non si era molto curato da quando aveva
lasciato la casa di Calipso (bei riccioli), dove aveva cure continue, come un dio.
Quando le ancelle l’hanno lavato e unto d’olio, gli mettono addosso un bel manto di lana ed una tunica.
Uscito dal bagno, Odisseo raggiunge quindi i principi, già uniti a bere. Nausicàa, che ha la bellezza come
dono dei numi, si ferma accanto al pilastro del tetto: si stupisce nel vedere Odisseo e gli parla. Gli augura
di essere felice, e gli chiede – una volta ritornato alla sua patria – di non scordarla: è a lei per prima che
deve la sua vita. Odisseo le risponde: voglia Zeus, sposo di Era, che egli possa ritornare a casa e rivedere il
ritorno. Anche laggiù le farà voti ogni giorno, come si fa ad un dio: è stata lei a salvarlo. Dette queste
parole si siede sul trono accanto al re Alcínoo. I commensali stanno già dividendo le parti e versando il
vino. Intanto giunge l’araldo guidando Demòdoco (venerato dal popolo): lo fa sedere tra i banchettanti,
appoggiandolo ad una colonna. Allora Odisseo chiama l’araldo: taglia un pezzo di lombo di maiale (zanna
candida) – restava comunque la parte più grossa – intorno al quale fioriva il grasso, e lo glielo porge. Gli
chiede di portarlo a Demòdoco, affinchè mangi: Odisseo quantunque angosciato saluta il cantore: per tutti
gli uomini i cantori sono degni di onore, perché la Musa insegnò loro i canti ed ella ama i cantori. L’araldo
prende il pezzo di carne in mano e lo depone davanti a Demòdoco (divino), che l’accetta e gioisce in cuore.
πᾶσι γὰρ ἀνθρώποισιν ἐπιχθονίοισιν ἀοιδοὶ
τιμῆς ἔμμοροί εἰσι καὶ αἰδοῦς, οὕνεκ᾽ ἄρα σφέας
οἴμας μοῦσ᾽ ἐδίδαξε, φίλησε δὲ φῦλον ἀοιδῶν.
Per tutti gli uomini sulla terra i cantori
Son degni d’onore e rispetto, perché la Musa
Insegnò loro i canti; ella ama i cantori.
A questo punto tutti si gettano sulle vivande pronte e servite. Quando la voglia di cibo e di vino è stata
soddisfatta, Odisseo parla ancora a Demòdoco: gli dice di onorarlo al di sopra di tutti i mortali. Certo
Apollo o la Musa figlia di Zeus lo hanno istruito, prechè ha cantato troppo bene la sorte degli Achei,
quanto hanno subito, quanto hanno fatto e sofferto. Proprio come se fosse stato presente o qualcuno
glielo avesse narrato. Gli chiede dunque di raccontare a tutti loro lo stratagemma del cavallo di legno, che
Epèo costruì con Atena: la trappola che Odisseo (luminoso) portò sull’acropoli, riempita degli eroi che
distrussero Ilio. Se saprà raccontare perfettamente anche questo, allora dirà a tutti gli uomini che un
nume benigno gli ha donato il canto divino.
I cantori
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Dopo che Odisseo ha parlato, Demòdoco, guidato dal dio, comincia a cantare: comincia il racconto da
quando i Greci salgono sulle navi per tornare indietro, dopo aver dato fuoco alle tende. Intanto altri, con il
glorioso Odisseo, sono nella piazza dei Teucri, nascosti dentro il cavallo. Gli stessi Teucri li avevano tirati
fin sulla rocca. Così il cavallo è là: i Teucri seduti intorno fanno un gran parlare confuso. Sono tre i pareri,
discordi: o trapassare il cavallo con le lance (con il bronzo spietato), o issarlo su una rupe e scagliarlo
contro le rocce, o conservarlo come grande voto per gli dèi, un incantesimo propiziatorio. Doveva finire
proprio in quest’ultimo modo, perché era destino che i Teucri perissero dopo che la città aveva accolto il
grande cavallo di legno dove sedevano tutti i più forti degli Argivi, portando la morte, la Chera, ai Troiani.
Canta poi di come i Danai, dopo essere usciti dal cavallo, dalla concava insidia (ἤειδεν δ᾽ ὡς ἄστυ
διέπραθον υἷες Ἀχαιῶν / ἱππόθεν ἐκχύμενοι, κοῖλον λόχον ἐκπρολιπόντες) abbatterono la rocca di Troia.
Canta di come saccheggiarono la città. Di come Odisseo, simile nell’aspetto ad Ares, insieme a Menelao
(divino) giunse davanti alla casa di Deífobo, e di come ancora una volta ingaggiasse un terribile
combattimento, e ancora una volta vincesse, protetto da Atena
Demòdoco canta queste cose, e Odisseo si commuove e piange. PARAGONE  piange come una donna
che si getta sullo sposo caduto davanti alla città e ai suoi guerrieri, per difendere i figli e la rocca nel giorno
fatale. Lei l’ha visto annaspare e morire, e gli si getta sopra e piange. E i nemici da dietro le pungono la
schiena e le spalle con le lance e la traggono schiava, per un destino di lacrime e di sofferenze, e le guance
le si scavano per lo strazio. Allo stesso modo piange Odisseo. Odisseo riesce a nascondere a tutti le proprie
lacrime, ma se ne accorge Alcínoo, e capisce, poiché gli è seduto accanto. Subito si rivolge ai principi e ai
capi dei Feaci (amanti del remo): chiede che Demòdoco faccia tacere la cetra, dal momento che racconta
cose che non sono a tutti gradite. Da quando hanno finito di cenare, e Demòdoco ha iniziato a cantare,
mai l’ospite ha smesso di piangere: certo soffre molto nel cuore. Smetta dunque il cantore, così che tutti,
loro e il loro ospite, siano felici: è molto meglio così. Hanno fatto tutto questo per l‘ospite (venerando): la
promessa di accompagnarlo in patria e i doni che gli hanno fatto per amicizia. L’ospite è come un fratello
per l’uomo che abbia un po’ di sensibilità ed intelligenza.
ἀντὶ κασιγνήτου ξεῖνός θ᾽ ἱκέτης τε τέτυκται
ἀνέρι, ὅς τ᾽ ὀλίγον περ ἐπιψαύῃ πραπίδεσσι.
L’ospite, il supplice, è come un fratello
Per l’uomo che abbia anche solo un poco di senno.
Alcínoo chiede poi all’ospite di dirgli le cose che gli chiederà: gli chiede di non nascondergli con abili giri di
parole la verità che gli domanda. È più bello che parli con sincerità. Prima di tutto vuole sapere il suo
nome: nessun uomo è senza nome dal momento in cui nasce, sia egli vile o nobile. Gli chiede poi di dirgli
quale sia la sua terra, il suo popolo, la sua città, in modo che le navi possano portarcelo (le navi sono
guidate dal pensiero, ὄφρα σε τῇ πέμπωσι τιτυσκόμεναι φρεσὶ νῆες). I Feaci infatti non hanno nocchieri, e
sulle loro navi non ci sono timoni come sulle altre navi: le navi conoscono da sole la volontà degli uomini,
conoscono tutte le città e tutte le terre, ed attraversano il mare velocissime, avvolte nella nebbia e nelle
nubi. Non hanno mai paura di subire un danno o di andare perdute.
Solo questo ha sentito una volta predire dal padre Nausitòo: che un giorno Poseidone si sarebbe adirato
con i Feaci, che sono i trasportatori di tutti, sempre incolumi. Un giorno dunque una loro nave, di ritorno
dopo aver accompagnato qualcuno per mare, verrà distrutta da Poseidone, e poi il dio coprirà la città dei
Feaci con un monte. Queste le cose che il vecchio Nausitòo diceva: e queste cose Poseidone compirà, o
lascerà incompiute, secondo quello che piacerà al suo cuore.
Alcínoo gli chiede ancora di dirgli, con sincerità, dove è stato nei suoi viaggi, in quali paesi degli uomini sia
giunto. Gli chiede di parlargli di loro e delle loro città, di dirgli quali erano violenti, selvaggi o senza
giustizia, e quali erano ospitali e adoravano i numi. Gli chiede infine di dirgli perché pianga e gema dal
profondo del cuore quando ode della sorte dei Danai Argivi e di Ilio. Questa è stata la volontà dei numi, e
questa la rovina che hanno destinato agli uomini, che fosse anche in futuro materia di canto.
τὸν δὲ θεοὶ μὲν τεῦξαν, ἐπεκλώσαντο δ᾽ ὄλεθρον
ἀνθρώποις, ἵνα ᾖσι καὶ ἐσσομένοισιν ἀοιδή.
Questo vollero i numi e rovina filarono
Agli uomini, chè anche ai futuri fosse materia di canto.
Forse Odisseo ha perso un congiunto davanti ad Ilio: forse un genero o un suocero, che dopo il proprio
sangue e la stirpe sono le cose più degne di affetto ? O forse un amico ? Un amico saggio non è meno di
un fratello.
Il racconto
del cavallo
di legno
Paragone
La figura
dell’ospite
Le navi dei
Feaci
guidate dal
pensiero
La profezia
sulla fine
dei Feaci
Citazione