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Franco Carlisi - Su questa storia delle minacce all’Italia e al concreto pericolo che può
derivarne non ho opinioni solide. I miei pensieri al riguardo cambiano
continuamente,fluttuano nel magma degli stereotipi di una liturgia politica ipocrita,
spericolata e sempre più affaristica.Guardo la televisione e leggo i giornali con diffidente
curiosità: dichiarazioni baldanzose di banditori di apocalissi accrescono dentro di me un
moto di civile risentimento e la sensazione di essere manipolato.
“Siamo pronti a invadere la Libia”. E a quando l’invasione della Somalia e dell’Eritrea? E,
giusto per rinverdire i fasti infausti del fascismo, da paese creditore, potremmo dichiarare:
“Spezzeremo le reni alla Grecia”. Ma ciò sarebbe inconciliabile almeno con la mia
sicilianitudine,dato che mi sento anche un po’ greco, romano, arabo, normanno, catalano.
In Sicilia li abbiamo accolti tutti, e sono stati talvolta inquilini scomodi ma, più spesso,
portatori di benessere. Già duemila e quattrocento anni fa, Alcibiade diceva della Sicilia:
«Colà le città brulicano di uomini, ma si tratta di miscugli di varie razze; ed è facile per
loro cambiare cittadini e riceverne di estranei»1.La storia del progresso dell’umanità è il
frutto di incroci e di ricambi fra popoli. Tutto sta nel rispetto e nella gradualità con cui il
processo si compie.
Dalla mia finestra, oltre l’orizzonte c’è la Libia. Devo confessare di provare un grande
disagio di fronte alla possibilità di ritrovarmi nella condizione di inviato speciale nella
guerra “in difesa della nostra civiltà”. Al di là degli odierni lanzichenecchi, tagliatori di
teste,non riesco a riconoscere in senso assoluto lo specifico del nemico.Da bambino era
tutto più semplice. Si guerreggiava tra le stradine polverose del quartiere arabo della mia
città al grido di allarme: “Mamma li turchi!”. Espressione di panico disperato, residuo di
una cultura popolare pregressache riusciva aidentificareidealmente il topos della non
reciprocità.Infatti, nell’immaginario xenofobo popolare la Turchiasi trasformava in una
terra remota e sterminata sede di orde islamiche fuori dalla grazia di Dio, con le quali non
era ovviamente possibile stabilire alcun dialogo per loro difetto, smodatezza e iniquità. Il
“turco” era per antonomasia lo straniero, l’altro da temere. L’anti-me. Tanto più fossi
riuscito a riconoscere lo stigma della mia identità, tanto più il “turco” lo avrebbe negato e
contraddettocon la sua stessa natura.
Col passare del tempo,affrancato da questa eredità di pregiudizi e di paure, cominciavo a
ridefinire il concetto di identità. La forma dell’affiliazione etnica o religiosa mi sembrava
grossolana e cominciavo a chiedermi con stupore, quanto io siciliano potessi riconoscermi
tale secondo l’accezione comune. La mia identità si configurava sempre di più come il
risultato della sedimentazione diidentità diverse,di origine differente e tra di loro non
conflittuali; non aliene all’influsso omologante dei media e del Web.
Durante gli anni vissuti a Palermo, la città povera era un laboratorio naturale di
multiculturalità –mai come adesso-; un incrocio di lingue straniere e confuse, innestate al
palermitano. Una mescolanza di odori e di colori della pelle e degli occhi incontrati per
strada.
Era quella la città che volevo vivere e pensavo che gli studi, le letture, il cinema, i viaggi
avessero fatto crescere in me il valore della tolleranza e del rispetto della diversità.
Eppure, ogni tanto, la miamentalità multietnica e multiculturale mi franava addosso. Non
riuscivo a integrare il mio vissuto con movenze, abitudini, pratiche di vita totalmente altre,
di cui facevo esperienza. Il mio comportamento tendeva a mistificare una verità
incontrovertibile: l’altro esiste come un altro.
L’accelerazione attuale della storia ci fa assistere a una contaminazione dei popolia cui non
siamo preparati. Non riusciamo ad amare un prossimo che è diverso da noi e non cerca di
somigliarci.
Un’errata
culturadell’integrazione
inneggia
inconsapevolmente
all’omologazione. Tutti occidentali, insomma. Siamo portatori della stessa cultura
estremista che condanniamo e che ci vorrebbe migliori dell’altro, chiunque esso sia.La
legittima rivendicazione di identità è diventata una coperta corta tirata da tutte le parti e
cessa di essere sacrosanta quando s’arroga il diritto di discriminare le altre identità e in
maniera assolutamente strumentale.
Si può stare fuori dalla storia,rivendicando una malcelata supremazia della nostra civiltà in
preda a un furore di potenza che autorizza a dispiegare gli eventi come se fossero meri
calcoli matematici,oppure si accetta il suo corso, con le sue gravità e i suoi insegnamenti,
sapendo che ogni crescita è difficile ma pur sempre liberatoria.
La nostra rivista non può influenzare le scelte della politica, e so bene che il succedersi
degli eventi può obbligarmi a inciampare sulle parole. Tuttavia possiamo contribuire,
attraverso i portfolio che presentiamo, a sottrarci da questo diluviodi immagini che ci
raccontano di un mondo straniero barbaro il cui palcoscenico pare popolato soltanto da
tagliatori di teste.
La fotografia ci permette di conoscere gli altri in maniera meno mediata di qualunque altro
linguaggio. I fotografi accorciano le distanze, non soltanto con le macchine fotografiche
ma anche con la loro presenza fisica, si relazionano alle persone che fotografano,
frequentano il loro spazio e il loro tempo, conoscono la loro cultura e i loro modi quotidiani
e ci aiutano adavvicinarerealtà tanto lontane. Quando la parola è incomprensibile e il
dialogo si interrompe, sono le immagini a produrre paure, sofferenze, legami, speranze.
Esonoi reporter l’avamposto di un esercito dimiliardi di persone pacifiche, che non vogliono
esportare democrazia e libertà a un altro, contro ogni suo desiderio e volontà.
1
Citato in G. Bufalino, Opere, Vol. I, a cura di M. Corti e F. Caputo, Bompiani, Milano 2006,
p. 1145