La fede nella vita del sacerdote

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Transcript La fede nella vita del sacerdote

L’Osservatore
Romano
il Settimanale
Città del Vaticano, giovedì 9 marzo 2017
anno LXX, numero 10 (3.883)
La fede nella vita
del sacerdote
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 marzo 2017
#editoriale
C’
è stato dibattito in Italia sull’ordinanza del
giudice di Trento che ha accettato di considerare due uomini come genitori di due gemelli,
nati attraverso il ricorso all’utero in affitto. Ma
il dibattito è stato pesantemente falsato dal
prevalere di un punto di vista parziale: considerare cioè questa decisione come inevitabile,
perfettamente in linea con il progresso umano,
e di conseguenza giudicare ogni atteggiamento
critico come un segno di assurda resistenza alla modernità.
È una modalità che imprime su ogni intervista, anche a coloro che sono contrari a questa
decisione, una interpretazione obbligata. Sarebbe infatti solo questione di tempo per vedere realizzato anche in Italia ogni “sogno di
genitorialità” che coinvolge l’utero in affitto e
l’accettazione di due persone dello stesso sesso
come genitori.
Colpisce una donna come me, femminista, il
fatto che in un momento come questo in cui
tante energie e tante voci sono impegnate nel
Nuova schiavitù
per le donne
di LUCETTA SCARAFFIA
denunciare, giustamente, la violenza sulle donne, siano invece così poche le donne che denunciano quanto sta avvenendo contro di loro
sul piano fondamentale della maternità. Cioè
che la vendita del corpo femminile — tradizionalmente limitata alle prestazioni sessuali o,
un tempo, all’allattamento — si sia estesa
all’intero corpo della donna, al suo interno,
all’utero, e a un tempo lungo, i nove mesi di
una gravidanza.
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Una nuova schiavitù che non può essere
giudicata diversamente solo perché è pagata e
volontaria. Le penose condizioni legali imposte alla donna — come accettare l’aborto se così decidono i committenti, ad esempio, oppure
di avere già dei figli affinché si affezioni di
meno al bambino che porta in grembo — non
fanno che rivelare maggiormente il carattere
disumano della transazione. Così come l’altra
condizione alla quale sempre, per “prudenza”,
si ricorre: non utilizzare mai l’ovulo della madre che affitta, ma acquistarlo da un’altra donna. Con il risultato che la figura materna viene
definitivamente distrutta, fatta a pezzi.
È quello che hanno fatto i due padri, per
assicurarsi che i figli fossero veramente solo di
loro proprietà. Con l’assenso della legge canadese.
Come è possibile che non si veda un atto
profondamente misogino in questa operazione
di tipo commerciale, che vuole essere nobilitata da un desiderio che non può essere considerato un diritto per nessuno? Si tratta infatti di
una cosciente e voluta distruzione della figura
materna, portata a termine con pervicacia, in
modo che quei bambini una madre non ce
l’abbiano mai. Tutti sanno che due padri non
sostituiscono una madre, così come due madri
non possono sostituire un padre.
Se la vita, talvolta, impone a degli esseri
umani di convivere fin dall’origine con questa
grave mancanza, si deve cercare di porvi rimedio. Ma creare la mancanza volontariamente —
per di più protetti dalla legge — solo per esaudire il desiderio di due adulti è veramente un
atto crudele.
E la cultura che ci circonda, che insiste
nell’interpretare questa situazione abnorme come un risultato del progresso che avanza, quasi come se fosse animato da uno spirito proprio, e quindi non controllabile, sta macchiandosi di gravi colpe. L’allarme si deve invece
lanciare, e ad alta voce. E sono soprattutto le
donne, le più danneggiate da queste assurde
manipolazioni, a dover lottare per difendere se
stesse e i bambini.
L’utero
in affitto
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Non praevalebunt
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il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 marzo 2017
#editoriale
I
Vivere e morire
con dignità
di FERDINAND O
CANCELLI
l rapporto tra malato e medico «deve tornare a
basarsi su di un dialogo fatto di ascolto, di rispetto, di interesse; deve tornare a essere un
autentico incontro tra due uomini liberi o, come è stato detto, tra una fiducia e una coscienza» diceva Giovanni Paolo II ai medici riuniti
in congresso che lo ascoltavano nell’ottobre
del 1980. Il Papa parlava alle coscienze e, indirettamente, anche alle «fiducie»: parlava a tutti, medici e pazienti, sicuramente avendo bene
in mente che vi sono medici divenuti pazienti
e pazienti-medici.
In Italia, i fatti di questi ultimi giorni, vissuti da medico palliativista, fanno soffrire e fanno riflettere. Da una parte c’è la sofferenza di
chi non vede via d’uscita alla propria situazione se non quella di chiedere la morte e dall’altra parte c’è chi usa questa sofferenza come un
grimaldello per scardinare non solo il rapporto
tra medico e paziente ma anche quello alla base del vivere civile. Per portare avanti questa
operazione, il cui vero volto è spesso quello di
interessi economici palesi se si pensa al costo
per la società di assistere i propri membri più
fragili, non ci si può limitare a raccontare i fatti: si deve distorcere la realtà.
E così ai cittadini viene insinuato il sospetto
che i malati inguaribili vorrebbero morire al
più presto magari con il suicidio assistito, vengono presentati dati dai quali si evincerebbe
che l’Italia, consueto fanalino di coda di un
dubbio progresso, sarebbe uno degli ultimi
posti dove certi presunti diritti non vengono
riconosciuti, viene affermato che l’alternativa è
tra il soffrire senza speranza e il richiedere la
morte. Il risultato che si ricerca non è quello
di informare la popolazione in modo corretto
ma di frastornarla, di confonderla, di impaurirla cercando di far andare quello che si immagina come un gregge in una direzione ben
precisa: per portare ancora una volta alla trasformazione dei desideri in diritti, facendo credere che darsi la morte sia scontato e quasi
doveroso in certe situazioni.
Le cose non stanno così. Lo scrivo di sera,
dopo una mattina trascorsa, come tante altre,
con i malati e con le loro famiglie. I pazienti
giunti al termine della loro vita non vogliono
morire, ma vivere con dignità. Vorrebbero avere, come mi diceva poche ore fa il signor Giovanni, affetto da una sclerosi laterale amiotrofica che gli ha tolto la parola ma che ancora
gli permette di scrivere, il tempo per pensare
se di fronte a una crisi respiratoria vorranno
essere tracheostomizzati o no. Vorrebbero provare, come la signora Anna affetta da un carcinoma del polmone con metastasi cerebrali,
semplicemente a farsi leggere qualcosa dalla figlia «per sentirne la voce ancora una volta».
Vorrebbero non soffrire e continuare a vivere
fino alla fine.
La realtà è piena di sfumature, complessa
come l’essere umano, piena di passi avanti e di
ripensamenti: molto diversa da quello che
molti in questi giorni vorrebbero farci credere,
e comunque l’alternativa non è tra il soffrire
senza speranza e il chiedere di morire. È come
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se si dimenticasse la vita con la sua forza dirompente, una forza incontenibile anche quando va tutto male. L’uomo è fatto per la vita e
il medico ha il grande privilegio di distinguere
questo sigillo anche quando è nascosto sotto le
piaghe. Questo non vuol dire accanirsi per la
vita a tutti i costi ma nemmeno abbandonare
una persona alla propria scelta di suicidarsi,
una scelta che vista sotto la giusta prospettiva
è sempre e solo una sconfitta.
Dialogo, ascolto, rispetto, interesse, incontro, libertà, fiducia, coscienza: sono le parole
che Giovanni Paolo II ha utilizzato per indicarci la strada di una relazione vitale, sono le
parole che in questi giorni paiono soffocate da
un’onda di marea che vorrebbe privare l’uomo
della sua complessità e della sua vera autonomia anche nell’estrema debolezza e nella dipendenza, rendendolo vittima di quella «cultura dello scarto» tante volte evocata da Papa
Francesco.
Verità
distorta
«La concezione dei diritti umani è naufragata — scriveva Hanna Arendt — nel momento in
cui sono comparsi individui che avevano perso
tutte le altre qualità e relazioni specifiche,
tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha
trovato nulla di sacro nell’astratta nudità
dell’essere umano». Ma sappiamo che l’uomo
non è mai astrattamente nudo: la mano di Dio
o quella di un altro uomo lo riscaldano anche
nel freddo più intenso.
il Settimanale
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giovedì 9 marzo 2017
#ilpunto
4
di ANTONIO
ZANARDI LANDI
I
l presidente Trump ha annunciato un consistente aumento dei finanziamenti per potenziare le forze armate, che già assorbono una
quantità di risorse ben superiore alle spese militari di Russia, Cina, India, Pakistan, Brasile,
Germania e Francia messi insieme. Con una
crescita di 54 miliardi di dollari, in parte recuperati con tagli alle spese del Dipartimento di
Stato e per la cooperazione, il bilancio della
difesa degli Stati Uniti salirà a circa 600 miliardi, a cui vanno aggiunti i costi delle missioni militari all’estero e delle operazioni antiterrorismo.
Il Governo russo ha subito reso noto che
non potrà non seguire Washington con adeguati aumenti del proprio bilancio per la difesa, che rappresenta un decimo di quello degli
Stati Uniti. Pechino, le cui spese per le forze
armate sono meno di un quarto di quelle statunitensi, ha invece voluto dimostrare calma
ed equilibrio, annunciando che il proprio bilancio per la difesa aumenterà nel 2017 del 7
per cento, mentre per anni aveva registrato aumenti del 10 per cento.
Queste notizie non sono positive, ma bisogna constatare che la causa della pace già da
anni sta conoscendo rovesci significativi. Dal
2000 si è verificata un’inversione di tendenza
rispetto al calo globale delle spese per gli armamenti dopo la caduta del Muro e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La tendenza alla crescita si è rafforzata con la crisi in Ucraina, la lotta contro Daesh e le tensioni nel Mar
Cinese Meridionale, oltre i programmi nucleari
della Corea del Nord.
Se riprende
la corsa
agli armamenti
Gli ultimi dati resi noti dal Sipri, l’Istituto
internazionale di ricerche sulla pace di
Stoccolma, indicano che negli ultimi cinque
anni si è registrato un aumento dell’8,4 per
cento del commercio di armamenti a livello
globale. Il dato considera gli scambi tra paesi
produttori e acquirenti, senza tener conto delle
produzioni a uso interno dei maggiori
produttori mondiali (Stati Uniti, Russia e
Cina).
E vi è un ulteriore genere di considerazioni
che deve indurre a leggere questi dati con ancora maggiore preoccupazione. Se si considera
che il peso di un paese negli equilibri mondiali dipende essenzialmente da potenza economica e finanziaria, strumento militare e capacità di proiezione dei propri valori (soft power),
bisogna constatare che le due superpotenze
stanno entrambe soffrendo di un marcato sbilanciamento a favore della potenza militare, a
danno degli altri elementi.
La Russia mantiene il secondo arsenale nucleare, ereditato dall’Unione Sovietica e poi
ammodernato, ma il peso della sua economia
è diminuito insieme all’influenza politica rispetto a quando Mosca era il centro di
un’ideologia diffusa nel mondo. Gli Stati Uniti, che continuano a rappresentare la maggior
economia del pianeta, hanno visto dal 2000 al
2015 scendere il proprio peso economico dal 31
al 24,5 per cento del prodotto interno lordo
mondiale, mentre la posizione che detenevano
nel commercio internazionale, enormemente
aumentato in valori assoluti, si è quasi dimezzata negli ultimi quarant’anni. E anch’essi attraversano una crisi sociale e valoriale notevole, mentre lo strumento militare è cresciuto.
Ci si trova quindi di fronte a due superpotenze dotate di strumenti militari che non riflettono più il peso relativo nell’economia globale e la funzione di modello mantenuta per
decenni. Contemporaneamente stanno crescendo altri attori, come la Cina, che tra l’altro
persegue un rafforzamento navale e militare
accelerato, ma in linea con lo sviluppo economico e con una intelligente capacità di esercitare un efficace soft power. In questa situazione
solo un grande sforzo di inventiva e di creatività politica consentirà di capire come lavorare
con efficacia per la pace.
Un test missilistico nordcoreano
in un’immagine televisiva
da Seoul (Epa)
il Settimanale
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giovedì 9 marzo 2017
#internazionale
S
Storie di bambini
migranti in Libia
di FRANCESCA
MANNO CCHI
ono i bambini le prime vittime dei trafficanti
di esseri umani. A sottolinearlo, ancora una
volta, sono le Nazioni Unite attraverso l’ultimo report dell’Unicef sulla condizione dei migranti in Libia, pubblicato il 28 febbraio. Secondo il documento, nel 2016, anno che ha tristemente fatto segnare il record di morti accertate nel Mediterraneo, almeno 26.000 bambini
(per la maggior parte non accompagnati) hanno attraversato le centosettanta miglia che separano la Libia dall’Italia. Su barconi di legno
o più spesso gommoni strapieni di uomini,
donne e appunto bambini disperati, in fuga da
fame, guerra e malattie.
L’Unicef sottolinea che la Libia è diventata
per i bambini e gli adolescenti un limbo di
abusi e violenza, da parte di contrabbandieri e
trafficanti pronti a tutto. «Un viaggio fatale
per i bambini», questo il titolo del rapporto,
che vuole arrivare dritto alle coscienze di chi
legge e ascolta le voci dei minori che coraggiosamente hanno deciso di parlare e denunciare
gli abusi subiti.
Il report fornisce uno sguardo approfondito
delle difficoltà del viaggio dei minori, a partire
dai paesi di provenienza (spesso paesi
dell’Africa subsahariana), la pericolosa traversata del deserto fino ad arrivare alle coste libiche in attesa di un posto su un barcone.
Un numero altissimo, ben tre quarti dei
bambini intervistati dall’Unicef, hanno dichiarato di aver subito violenze durante il viaggio.
Molte donne e bambini sono rimasti vittime di
abusi sessuali. «Il Mediterraneo centrale dal
Nord Africa verso l’Europa è tra i più mortali
e più pericolosi percorsi compiuti dai migranti
di tutto il mondo» ha detto Afshan Khan, direttore regionale dell’Unicef e coordinatore
speciale per la crisi dei rifugiati e dei migranti
in Europa. «Il percorso è in gran parte controllato da contrabbandieri, trafficanti e le altre persone che cercano di depredare i bambini e le donne disperate che sono semplicemente alla ricerca di rifugio o una vita migliore»
ha spiegato Afshan Khan. «Abbiamo bisogno
di percorsi e di garanzie di sicurezza e legali
5
per proteggere la migrazione dei bambini, che
garantiscano loro la sicurezza».
Secondo l’Unicef, ci sarebbero al momento
256 mila migranti in Libia, tra cui 23.000 bambini. I dati reali sarebbero tuttavia almeno tre
volte superiori.
I bambini intervistati raccontano che nei
centri di detenzione per migranti gestiti sia dal
ministero dell’interno libico sia illegalmente
dalle milizie armate, c’è una grave mancanza
di acqua, cibo e cure mediche. Le storie raccontate dai più vulnerabili hanno lasciato gli
stessi operatori dell’Unicef senza parole.
Kamis, una bambina di nove anni partita
dalla Nigeria con la madre e i fratelli, ha visto
morire delle persone in mare durante il
naufragio del gommone su cui stavano
tentando di partire. Dopo il recupero da parte
della guardia costiera libica è stata detenuta
nella zona di Sabratha per mesi. «Ci hanno
picchiato ogni giorno, per giorni. Non c’era
Centro di detenzione in Libia
(Reuters)
Prime vittime
dei trafficanti
niente da mangiare, da bere. Eravamo terrorizzati. Io pensavo solo che volevo arrivare
in Europa, diventare grande, studiare. Era
l’unico pensiero che mi dava forza» dice la
piccola.
Il report dell’Unicef sottolinea che molti
bambini sono stati vittime di abusi soprattutto
nei luoghi di snodo, ai confini, ai posti di
blocco e che spesso queste terribili violenze
sono state perpetrate proprio da soldati e mili-
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giovedì 9 marzo 2017
#internazionale
ziani. «La violenza sessuale è sistematica ai
posti di blocco» sottolinea il rapporto. E questo spiega anche perché tantissime persone abbiano paura di denunciare gli abusi subiti, nel
timore di ritorsioni. «Molti centri di detenzione sono gestiti direttamente da milizie armate,
Incertezza sul futuro
Aperto il 7 marzo 2016 a Grande-Synthe,
sulla costa nord della Francia, di fronte
alla Gran Bretagna, il campo di rifugiati
della Linière è stato considerato un
esempio di collaborazione proficua tra lo
stato francese, il comune e le associazioni
locali di fronte alla crisi migratoria in
Europa. Quel giorno, 1200 migranti
lasciarono il terreno libero poco distante
dove campeggiavano da mesi in cattive
condizioni per insediarsi nel nuovo
campo creato su iniziativa del sindaco,
con la collaborazione di numerose
associazioni. Due mesi dopo, a maggio, il
governo francese accettò di finanziare il
campo per un anno, con quattro milioni
di euro circa. Ora, all’avvicinarsi della
scadenza, si pone l’interrogativo di cosa
succederà a maggio.
Oggi, il campo è occupato da 1500
persone, mentre si prevedeva all’inizio di
non superare idealmente gli 800 migranti.
Nel frattempo, tuttavia, è stata
sgomberata la “giungla” di Calais,
distante una quarantina di chilometri, e
alcuni dei suoi occupanti hanno
raggiunto il campo della Linière.
Anche se non ha niente a che vedere con
l’ex-giungla di Calais, la
sovrappopolazione nel campo di GrandeSynthe è sinonimo di forte promiscuità,
che ha provocato ultimamente molte
tensioni tra le diverse etnie, facendo
vittime soprattutto tra donne e minorenni
isolati. Per questi motivi, la settimana
scorsa il sindaco ha progettato di limitare
al massimo, se non addirittura vietare
l’ingresso sul campo di nuove persone.
Dei braccialetti sono stati distribuiti ai
rifugiati già presenti per facilitare la loro
identificazione. Ciò nonostante, si
prevede di installare un container
all’ingresso del campo per garantire
un’accoglienza di notte. In effetti, molte
associazioni hanno fatto presente che
bisogna trovare soluzioni per i nuovi
profughi che arrivano tuttora a
Grande-Synthe, per evitare che si formino
nuovamente delle baraccopoli a Calais.
Adesso, spetterà al governo francese di
decidere o no se rinegoziare la
convenzione tripartita firmata
nel maggio 2016, che permetterebbe di
prorogare gli incentivi. Secondo ogni
probabilità, i rifugiati e l’associazione che
gestisce il campo conosceranno l’esito dei
negoziati in corso tra il comune di
Grande-Synthe, il ministero
dell’interno e quello in
carica degli alloggi entro
una decina di giorni. (charles
de pechpeyrou)
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siamo molto preoccupati» dice Justin Forsyth,
vicedirettore dell’Unicef. «In quei luoghi si
consumano abusi inenarrabili e purtroppo noi
abbiamo un accesso molto limitato».
Solo la settimana scorsa sulla spiaggia di
Zawya, cittadina ad ovest della Libia, epicentro di traffico di carburante e traffico di esseri
umani, sono stati recuperati i corpi di settantaquattro migranti. Avevano provato ad attraversare il mare. I trafficanti li hanno abbandonati; li hanno lasciati annegare, ma hanno avuto
il tempo di portare via il motore del gommone, per usarlo ancora. Per mettere in pericolo
altre persone.
Questo è uno dei tanti drammi cui sono
sottoposti i bambini in fuga che si trovano in
Libia: la costante presenza della morte. «Avrei
voluto attraversare il mare, avrei voluto lavorare — dice Issa, un ragazzo di 14 anni, fuggito
dal Niger da solo, in cerca di fortuna e lavoro
per potere aiutare la sua famiglia — per mandare i soldi ai miei cinque fratelli più piccoli,
la mia famiglia non sa come sfamarli».
Suo padre ha raccolto i soldi per pagare il
suo viaggio verso l’Europa, gli ha augurato
buona fortuna e l’ha lasciato andare. Issa ha
lavorato per due anni in una fattoria, per una
manciata di dollari al mese, è stato abusato,
sfruttato, così un giorno ha deciso di scappare
in cerca di un posto su un gommone, ma è
stato arrestato dai soldati libici e da sette mesi
è detenuto in un centro con altre decine di ragazzi.
Molte volte — sottolinea ancora il rapporto
— le vittime sono sottoposte a un duplice strazio, non solo devono affrontare il dolore di
abbandonare la propria casa, rischiando la vita
in cerca di un futuro migliore, ma spesso —
non avendo i soldi necessari per pagare tutto
il viaggio — vengono ricattati dai trafficanti
che impongono loro di prostituirsi finché non
hanno saldato tutto il loro debito.
La Libia è anche un punto nodale nella
tratta di donne che arrivano in Europa per essere sfruttate sessualmente — si legge ancora
sul rapporto. Tanto più in Libia continua a regnare il caos politico e militare, tanto più sarà
difficile garantire ai migranti il supporto necessario.
L’immagine di copertina
del rapporto
che si può leggere sul sito
www.unicef.it
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giovedì 9 marzo 2017
#cultura
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Icona
di san Giovanni Cassiano
Difficile equilibrio
L
di GIOVANNI CERRO
a direzione spirituale, intesa come relazione tra
maestro e discepolo finalizzata al perseguimento della perfezione interiore, è comune a
tradizioni culturali e religiose molto diverse,
dal pitagorismo al neoplatonismo, dal confucianesimo al buddhismo. Tuttavia, è solo
all’interno del cristianesimo che storicamente
si impone come strumento fondamentale sia
per l’indagine della coscienza individuale sia
per la costruzione di modelli comportamentali
e disciplinari, assumendo nel corso dei secoli
caratteristiche specifiche. Il fenomeno si istituzionalizza tra basso medioevo e prima età moderna, anche attraverso una diffusione trasversale ai ceti sociali e l’estensione al laicato, come mostra il recente volume di Gabriella Zarri, Uomini e donne nella direzione spirituale (secc.
XIII-XVI). Uno dei meriti di Zarri — protagonista della stagione di rinnovamento storiografico sul tema della direzione spirituale in età
moderna — sta nel proporre un affresco di lunga durata in chiave storico-critica, capace di rilevare come al centro della cura animarum vi
fosse un sistema di relazioni non solo di tipo
spirituale, ma anche umano e sociale. Due sono i fili conduttori che attraversano il libro: da
una parte, l’intenzione di studiare la direzione
spirituale sia nei suoi aspetti teorici, così come
vengono presentati nei testi agiografici e letterari, sia nella sua attuazione pratica, attraverso
un’attenta ricognizione di epistolari, scritture
autobiografiche e agiografiche; dall’altra parte,
la volontà di porre a confronto la dimensione
maschile e quella femminile nell’esercizio del
consiglio e della predicazione, mostrando come non fossero infrequenti i rovesciamenti di
ruoli.
Nella ricostruzione che apre la prima parte
del volume, Zarri rileva che le origini della
pratica della guida delle anime risalgono a
quel rapporto di fiducia tra padre spirituale e
discepolo che si sviluppa all’interno della tradizione monastica e che mira al progresso spirituale e al discernimento dei pensieri. Rispetto al mondo antico, dove pure esisteva un percorso di iniziazione alla vita filosofica, il modello monastico presenta almeno due elementi
di novità: anzitutto, il maestro deve avere una
profonda conoscenza del discepolo, dei suoi
desideri, delle sue tentazioni, dei suoi dubbi;
quindi, il discepolo deve dimostrarsi obbediente e umile, fino ad annullare la propria volontà. Questa forma comunitaria di direzione,
in cui spetta all’abate il compito di pastore
delle anime, trova una prima teorizzazione
nelle Conferenze di Giovanni Cassiano ai suoi
monaci e resta sostanzialmente immutata fino
al basso medioevo. La direzione spirituale, tuttavia, non si esaurisce nell’esempio monastico
e nella prassi del discernimento degli spiriti.
Zarri ne individua infatti una modalità ulteriore nell’amicizia spirituale, in cui non esiste una
relazione di genere fissa del tipo uomo/direttore e donna/diretta. Lo dimostra, ad esempio,
il caso della terziaria Angela da Foligno, la più
importante mistica italiana del Duecento, che
diventa maestra del suo stesso confessore e
biografo.
La seconda parte del libro è dedicata all’indagine di tre figure carismatiche di madri spirituali vissute tra fine Quattrocento e primo
Cinquecento. La prima ad essere presentata è
Camilla Battista da Varano, figlia di Giulio
Cesare, che dopo aver preso i voti tra le clarisse osservanti divenne abbadessa del monastero
di Santa Maria Nuova di Camerino. Significativa è anche l’esperienza di direzione spirituale
rivolta ad alcuni membri dell’aristocrazia bresciana da parte di suor Laura Magnani, agostiniana vissuta nel monastero di Santa Croce. Il
terzo e ultimo esempio riportato da Zarri è
quello della mistica Chiara Bugni, clarissa veneziana di nobile famiglia, costretta negli ultimi anni della sua vita alla carcerazione e al silenzio.
In conclusione, Zarri dimostra che la lunga
durata del concetto di direzione spirituale non
implica affatto l’accettazione della sua «atemporalità», ma al contrario richiede un’indagine
storiografica attenta, capace di tener conto dei
cambiamenti relativi alle concezioni della religiosità, della spiritualità e della pratica sacramentale. Solo così si può accedere alla comprensione di un fenomeno complesso, che si
definisce nel difficile equilibrio tra libertà e
dottrina, coscienza individuale e relazione con
l’altro.
Fra coscienza
individuale
e relazione
con il maestro
spirituale
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 marzo 2017
#copertina
8
Meditazione
di Papa Francesco
per i preti
di Roma
all’inizio
della quaresima
La fede nella vita
del sacerdote
«Signore, accresci in noi la fede!» (Lc 17, 5).
Questa domanda sorse spontanea nei discepoli
quando il Signore stava parlando loro della
misericordia e disse che dobbiamo perdonare
settanta volte sette. “Accresci in noi la fede”,
chiediamo anche noi, all’inizio di questa conversazione. Lo chiediamo con la semplicità del
Catechismo, che ci dice: «Per vivere, crescere e
perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo
nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla». È una fede che
«deve operare “per mezzo della carità” (Gal 5,
6; cfr. Gc 2, 14-26), essere sostenuta dalla speranza (cfr. Rm 15, 13) ed essere radicata nella
fede della Chiesa» (n. 162).
Mi aiuta appoggiarmi a tre punti fermi: la
memoria, la speranza e il discernimento del momento. La memoria, come dice il Catechismo, è
radicata nella fede della Chiesa, nella fede dei
nostri padri; la speranza è ciò che ci sostiene
nella fede; e il discernimento del momento lo
tengo presente al momento di agire, di mettere
in pratica quella “fede che opera per mezzo
della carità”.
Lo formulo in questo modo:
— Dispongo di una promessa — è sempre
importante ricordare la promessa del Signore
che mi ha posto in cammino —.
— Sono in cammino — ho speranza —: la speranza mi indica l’orizzonte, mi guida: è la stella e anche ciò che mi sostiene, è l’ancora, ancorata in Cristo.
— E, nel momento specifico, ad ogni incrocio di strade devo discernere un bene concreto,
il passo avanti nell’amore che posso fare, e anche il modo in cui il Signore vuole che lo faccia.
Fare memoria delle grazie passate conferisce
alla nostra fede la solidità dell’incarnazione; la
colloca all’interno di una storia, la storia della
fede dei nostri padri, che «morirono nella fede, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li
videro e li salutarono solo da lontano» (Eb 11,
13)1. Noi, «circondati da tale moltitudine di testimoni», guardando dove essi guardano, teniamo lo sguardo «fisso su Gesù, colui che dà
origine alla fede e la porta a compimento» (Eb
12, 2).
La speranza, da parte sua, è quella che apre
la fede alle sorprese di Dio. Il nostro Dio è
sempre più grande di tutto ciò che possiamo
pensare e immaginare di Lui, di ciò che gli appartiene e del suo modo di agire nella storia.
L’apertura della speranza conferisce alla nostra
fede freschezza e orizzonte. Non è l’apertura
di un’immaginazione velleitaria che proiette-
In cattedrale
Una lunga e approfondita
meditazione sul «progresso
della fede nella vita del
sacerdote» e una
pubblicazione
sull’importanza del
perdono: sono i doni che
Papa Francesco ha lasciato
al clero di Roma al termine
del tradizionale incontro
d’inizio quaresima, svoltosi
giovedì 2 marzo al
Laterano. All’uscita dalla
basilica di San Giovanni i
preti romani hanno infatti
trovato il testo stampato
delle parole pronunciate
poco prima dal Pontefice e
copie di un libro intervista a
Luis Dri, cappuccino
novantenne di Buenos Aires,
dal titolo Non avere paura di
perdonare. Il “confessore” del
Papa si racconta. «Si legge
bene come un romanzo —
ha detto Francesco
congedandosi — ma è la
verità e forse ci aiuterà a
crescere nella fede».
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#copertina
«Sta la Croce, mentre
il mondo gira»
rebbe fantasie e propri desideri, ma l’apertura
che provoca in noi il vedere la spogliazione di
Gesù, «il quale, di fronte alla gioia che gli era
posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono
di Dio» (Eb 12, 2). La speranza che attrae, paradossalmente, non la genera l’immagine del
Signore trasfigurato, ma la sua immagine
ignominiosa. «Attirerò tutti a me» (Gv 12, 32).
È il donarsi totale del Signore sulla croce
quello che ci attrae, perché rivela la possibilità
di essere più autentica. È la spogliazione di
colui che non si impadronisce della promesse
di Dio, ma, come vero testatore, passa la fiaccola dell’eredità ai suoi figli: «Dove c’è un testamento, è necessario che la morte del testatore sia dichiarata» (Eb 9, 16).
Il discernimento, infine, è ciò che concretizza
la fede, ciò che la rende «operosa per mezzo
della carità» (Gal 5, 6), ciò che ci permette di
dare una testimonianza credibile: «Con le mie
opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2, 18). Il
discernimento guarda in primo luogo ciò che
piace al nostro Padre, «che vede nel segreto»
(Mt 6, 4.6), non guarda i modelli di perfezione dei paradigmi culturali. Il discernimento è
“del momento” perché è attento, come la Madonna a Cana, al bene del prossimo che può
fare in modo che il Signore anticipi “la sua
ora”, o che “salti” un sabato per rimettere in
piedi colui che stava paralizzato. Il discernimento del momento opportuno (kairos) è fondamentalmente ricco di memoria e di speranza: ricordando con amore, punta lo sguardo
con lucidità a ciò che meglio guida alla Promessa.
E ciò che meglio guida è sempre in relazione con la croce. Con quello spossessarmi della
mia volontà, con quel dramma interiore del
«non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt
26, 39) che mi pone nelle mani del Padre e fa
in modo che sia Lui a guidare la mia vita.
9
dium — che è un documento programmatico —
vedrete che parla sempre di “crescita” e di
“maturazione”, sia nella fede sia nell’amore,
nella solidarietà come nella comprensione
della Parola2. Evangelii gaudium ha una
prospettiva dinamica. «Il mandato
missionario del Signore comprende
l’appello alla crescita della fede quando indica: “insegnando loro a osservare
tutto ciò che vi ho comandato” (Mt
28, 20). Così appare chiaro che il primo annuncio deve dar luogo anche
ad un cammino di formazione e di
maturazione» (n. 160).
Sottolineo questo: cammino
di formazione e di maturazione
nella fede. E prendere questo sul
serio implica che «non sarebbe
corretto interpretare questo appello alla crescita esclusivamente
o prioritariamente come formazione (meramente) dottrinale» (n. 161).
La crescita nella fede avviene attraverso gli incontri con il Signore nel corso
della vita. Questi incontri si custodiscono
come un tesoro nella memoria e sono la
nostra fede viva, in una storia di salvezza
personale.
In questi incontri l’esperienza è quella di
una incompiuta pienezza. Incompiuta, perché dobbiamo continuare a camminare; pienezza, perché, come in tutte le cose umane e
divine, in ogni parte si trova il tutto3.Questa
maturazione costante vale per il discepolo come per il missionario, per il seminarista come
per il sacerdote e il vescovo. In fondo è quel
circolo virtuoso a cui si riferisce il Documento
di Aparecida che ha coniato la formula “discepoli missionari”.
Il punto fermo della croce
Quando parlo di punti fermi o di “fare perno”, l’immagine che ho presente è quella del
giocatore di basket o pallacanestro, che inchioda il piede come “perno” a terra e compie movimenti per proteggere la palla, o per trovare
uno spazio per passarla, o per prendere la rincorsa e andare a canestro. Per noi quel piede
inchiodato al suolo, intorno al quale facciamo
perno, è la croce di Cristo. Una frase scritta
sul muro della cappella della Casa di Esercizi
di San Miguel (Buenos Aires) diceva: “Fissa
sta la Croce, mentre il mondo gira” [“Stat crux
dum volvitur orbis”, motto di san Bruno e dei
Certosini]. Poi uno si muove, proteggendo la
palla, con la speranza di fare canestro e cercando di capire a chi passarla.
La fede — il progresso e la crescita nella fede — si fonda sempre sulla Croce: «È piaciuto
a Dio salvare i credenti con la stoltezza della
predicazione» di «Cristo crocifisso: scandalo
per i giudei e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,
21.23). Tenendo dunque, come dice la Lettera
agli Ebrei, «fisso lo sguardo su Gesù, colui
che dà origine alla fede e la porta a compimento», noi ci muoviamo e ci esercitiamo nella memoria — ricordando la «moltitudine di
testimoni» — e corriamo con speranza «nella
corsa che ci sta davanti», discernendo le tentazioni contro la fede, «senza stancarci né perderci d’animo» (cfr. Eb 12, 1-3).
Memoria deuteronomica
Crescere nella fede
Torno per un momento al tema del “crescere”. Se rileggete con attenzione Evangelii gau-
In Evangelii gaudium ho voluto porre in rilievo quella dimensione della fede che chiamo
deuteronomica, in analogia con la memoria di
Israele:
Portare la Bibbia
sempre con sé
La Bibbia come il cellulare.
Un «paragone paradossale»
adoperato da Papa
Francesco all’Angelus del 5
marzo, prima domenica di
quaresima, per ricordare ai
fedeli riuniti in piazza San
Pietro che «se avessimo la
parola di Dio sempre nel
cuore, nessuna tentazione
potrebbe allontanarci da
Dio e nessun ostacolo ci
potrebbe far deviare dalla
strada del bene; sapremmo
vincere le quotidiane
suggestioni del male che è
in noi e fuori di noi; ci
troveremmo più capaci di
vivere una vita risuscitata
secondo lo Spirito,
accogliendo e amando i
nostri fratelli, specialmente
quelli più deboli e
bisognosi, e anche i nostri
nemici».
il Settimanale
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«La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata: è una grazia
che abbiamo bisogno di chiedere. Gli Apostoli
mai dimenticarono il momento in cui Gesù
toccò loro il cuore: “Erano circa le quattro del
pomeriggio” (Gv 1, 39)» (n. 13).
Nella «“moltitudine di testimoni” [...] si distinguono alcune persone che hanno inciso in
modo speciale per far germogliare la nostra
gioia credente: “Ricordatevi dei vostri capi, i
quali vi hanno annunciato la Parola di Dio”
(Eb 13, 7). A volte si tratta di persone semplici
e vicine che ci hanno iniziato alla vita della fe-
Messa è la mia vita e la mia vita è una Messa
prolungata»4.
Per risalire alle sorgenti della memoria, mi
aiuta sempre rileggere un passo del profeta
Geremia e un altro del profeta Osea, nei quali
essi ci parlano di ciò che il Signore ricorda del
suo Popolo. Per Geremia, il ricordo del Signore è quello della sposa amata della giovinezza,
che poi gli è stata infedele. «Mi ricordo di te
— dice a Israele —, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, [...].
Israele era sacro al Signore» (2, 2-3).
de: “Mi ricordo della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Loide e tua madre Eunice” (2 Tm 1, 5). Il credente è fondamentalmente “uno che fa memoria”» (ibid.).
Il Signore rimprovera al suo popolo la sua
infedeltà, che si è rivelata una cattiva scelta:
«Due sono le colpe che ha commesso il mio
popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene
di crepe, che non trattengono l’acqua. [...] Ma
tu rispondi: “No, è inutile, perché io amo gli
stranieri, voglio andare con loro» (2, 13.25).
Per Osea, il ricordo del Signore è quello del
figlio coccolato e ingrato: «Quando Israele era
fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; [...] agli idoli bruciavano
incensi. A Efraim io insegnavo a camminare
tenendolo per mano, ma essi non compresero
che avevo cura di loro. Io li traevo con legami
di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi
chinavo su di lui per dargli da mangiare. [...]
Il mio popolo è duro a convertirsi» (11, 1-4.7).
Oggi come allora, l’infedeltà e l’ingratitudine
dei pastori si ripercuote sui più poveri del popolo fedele, che restano in balia degli estranei
e degli idolatri.
La fede si alimenta e si nutre della memoria.
La memoria dell’Alleanza che il Signore ha
fatto con noi: Egli è il Dio dei nostri padri e
nonni. Non è Dio dell’ultimo momento, un
Dio senza storia di famiglia, un Dio che per
rispondere ad ogni nuovo paradigma dovrebbe scartare come vecchi e ridicoli i precedenti.
La storia di famiglia non “passa mai di moda”.
Appariranno vecchi i vestiti e i cappelli dei
nonni, le foto avranno color seppia, ma l’affetto e l’audacia dei nostri padri, che si spesero
perché noi potessimo essere qui e avere quello
che abbiamo, sono una fiamma accesa in ogni
cuore nobile.
Teniamo ben presente che progredire nella
fede non è soltanto un proposito volontaristico
di credere di più d’ora innanzi: è anche esercizio di ritornare con la memoria alle grazie fondamentali. Si può “progredire all’indietro”, andando a cercare nuovamente tesori ed esperienze che erano dimenticati e che molte volte
contengono le chiavi per comprendere il presente. Questa è la cosa veramente “rivoluzionaria”: andare alle radici. Quanto più lucida è
la memoria del passato, tanto più chiaro si
apre il futuro, perché si può vedere la strada
realmente nuova e distinguerla dalle strade già
percorse che non hanno portato da nessuna
parte. La fede cresce ricordando, collegando le
cose con la storia reale vissuta dai nostri padri
e da tutto il popolo di Dio, da tutta la Chiesa.
Perciò l’Eucaristia è il Memoriale della nostra fede, ciò che ci situa sempre di nuovo,
quotidianamente, nell’avvenimento fondamentale della nostra salvezza, nella Passione, Morte e Risurrezione del Signore, centro e perno
della storia. Ritornare sempre a questo Memoriale — attualizzarlo in un Sacramento che si
prolunga nella vita — questo è progredire nella
fede. Come diceva sant’Alberto Hurtado: «La
Speranza non solo nel futuro
La fede si sostiene e progredisce grazie alla
speranza. La speranza è l’ancora ancorata nel
Cielo, nel futuro trascendente, di cui il futuro
temporale — considerato in forma lineare — è
solo una espressione. La speranza è ciò che dinamizza lo sguardo all’indietro della fede, che
conduce a trovare cose nuove nel passato —
nei tesori della memoria — perché si incontra
con lo stesso Dio che spera di vedere nel futuro. La speranza inoltre si estende fino ai limiti,
in tutta la larghezza e in tutto lo spessore del
presente quotidiano e immediato, e vede possibilità nuove nel prossimo e in ciò che si può
fare qui, oggi. La speranza è saper vedere, nel
volto dei poveri che incontro oggi, lo stesso
Signore che verrà un giorno a giudicarci secondo il protocollo di Matteo 25: «Tutto quel-
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lo che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40).
Così la fede progredisce esistenzialmente
credendo in questo “impulso” trascendente che
si muove — che è attivo e operante — verso il
futuro, ma anche verso il passato e in tutta
l’ampiezza del momento presente. Possiamo
intendere così la frase di Paolo ai Galati,
quando dice che ciò che vale è «la fede che si
rende operosa per mezzo della carità» (5, 6):
una carità che, quando fa memoria, si attiva
confessando, nella lode e nella gioia, che
l’amore le è stato già dato; una carità che
quando guarda in avanti e verso l’alto, confessa il suo desiderio di dilatare il cuore nella
pienezza del Bene più grande; queste due confessioni di una fede ricca di gratitudine e di
speranza, si traducono nell’azione presente: la
fede si confessa nella pratica, uscendo da sé
stessi, trascendendosi nell’adorazione e nel
servizio.
Discernimento del momento
Vediamo così come la fede, dinamizzata dalla speranza di scoprire Cristo nello spessore
del presente, è legata al discernimento.
È proprio del discernimento fare prima un
passo indietro, come chi retrocede un po’ per
vedere meglio il panorama. C’è sempre una
tentazione nel primo impulso, che porta a voler risolvere qualcosa immediatamente. In questo senso credo che ci sia un primo discernimento, grande e fondante, cioè quello che non
si lascia ingannare dalla forza del male, ma
che sa vedere la vittoria della Croce di Cristo
in ogni situazione umana. A questo punto mi
piacerebbe rileggere con voi un intero brano
di Evangelii gaudium, perché aiuta a discernere
quella insidiosa tentazione che chiamo pessimismo sterile:
«Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta,
che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con
la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il Signore a san
Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti
si manifesta pienamente nella debolezza» (2
Cor 12, 9). Il trionfo cristiano è sempre una
croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza
combattiva contro gli assalti del male. Il cattivo spirito della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il grano
dalla zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica. [...] In ogni caso, in quelle
circostanze siamo chiamati ad essere personeanfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è
proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si
è consegnato a noi come fonte di acqua viva.
Non lasciamoci rubare la speranza!» (85-86).
Queste formulazioni «non lasciamoci rubare...», mi vengono dalle regole di discernimento di sant’Ignazio, che è solito rappresentare il
demonio come un ladro. Si comporta come un
capitano — dice Ignazio — che per vincere e
rubare ciò che desidera ci combatte nella nostra parte più debole (cfr. Esercizi Spirituali,
327). E nel nostro caso, nell’attualità, credo
che cerchi di rubarci la gioia — che è come rubarci il presente5 — e la speranza — l’uscire, il
camminare —, che sono le grazie che più chiedo e faccio chiedere per la Chiesa in questo
tempo.
È importante a questo punto fare un passo
avanti e dire che la fede progredisce quando,
nel momento presente, discerniamo come concretizzare l’amore nel bene possibile, commisurato al bene dell’altro. Il primo bene dell’altro è poter crescere nella fede. La supplica comunitaria dei discepoli «Accresci in noi la fede!» (Lc 17, 6) sottende la consapevolezza che
la fede è un bene comunitario. Bisogna considerare, inoltre, che cercare il bene dell’altro ci
fa rischiare. Come dice Evangelii gaudium:
«Un cuore missionario è consapevole [...]
che egli stesso deve crescere nella comprensione del Vangelo e nel discernimento dei sentieri
dello Spirito, e allora non rinuncia al bene
possibile, benché corra il rischio di sporcarsi
con il fango della strada» (45).
In questo discernimento è implicito l’atto di
fede in Cristo presente nel più povero, nel più
piccolo, nella pecora perduta, nell’amico insistente. Cristo presente in chi ci viene incontro
— facendosi vedere, come Zaccheo o la peccatrice che entra con il suo vaso di profumo, o
quasi senza farsi notare, come l’emorroissa —;
o Cristo presente in chi noi stessi accostiamo,
sentendo compassione quando lo vediamo da
lontano, disteso sul bordo della strada. Credere che lì c’è Cristo, discernere il modo migliore per fare un piccolo passo verso di Lui, per
Sadao Watanabe, «Gesù salva
Pietro dalle acque»
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ancora su questo “passare al vaglio”. Possiamo
rileggere così le parole del Signore:
il bene di quella persona, è progresso nella fede. Come pure lodare è progresso nella fede, e
desiderare di più è progresso nella fede.
Può farci bene soffermarci ora un po’ su
questo progresso nella fede che avviene grazie
al discernimento del momento. Il progresso
della fede nella memoria e nella speranza è
più sviluppato. Invece, questo punto fermo
del discernimento, forse non tanto. Può persino sembrare che dove c’è fede non dovrebbe
esserci bisogno di discernimento: si crede e basta. Ma questo è pericoloso, soprattutto se si
sostituiscono i rinnovati atti di fede in una
Persona — in Cristo nostro Signore —, che
hanno tutto il dinamismo che abbiamo appena
visto, con atti di fede meramente intellettuali,
il cui dinamismo si esaurisce nel fare riflessioni
ed elaborare formulazioni astratte. La formulazione concettuale è un momento necessario
del pensiero, come scegliere un mezzo di trasporto è necessario per giungere a una meta.
Ma la fede non si esaurisce in una formulazione astratta né la carità in un bene particolare,
ma il proprio della fede e della carità è crescere e progredire aprendosi a una maggiore fiducia e a un bene comune più grande. Il proprio
della fede è essere “operante”, attiva, e così
per la carità. E la pietra di paragone è il discernimento. Infatti la fede può fossilizzarsi,
nel conservare l’amore ricevuto, trasformandolo in un oggetto da chiudere in un museo; e la
fede può anche volatilizzarsi, nella proiezione
dell’amore desiderato, trasformandolo in un
oggetto virtuale che esiste solo nell’isola delle
utopie. Il discernimento dell’amore reale, concreto e possibile nel momento presente, in favore del prossimo più drammaticamente bisognoso, fa sì che la fede diventi attiva, creativa
ed efficace.
L’icona di Simon Pietro
“passato al vaglio”
Per concretizzare questa riflessione riguardo
a una fede che cresce con il discernimento del
momento, contempliamo l’icona di Simon Pietro “passato al vaglio” (cfr. Lc 22, 31), che il
Signore ha preparato in maniera paradigmatica, perché con la sua fede provata confermasse
tutti noi che “amiamo Cristo senza averlo visto” (cfr. 1 Pt 1, 8).
Entriamo in pieno nel paradosso per cui colui che deve confermarci nella fede è lo stesso
al quale spesso il Signore rimprovera la sua
“poca fede”. Il Signore di solito indica come
esempi di grande fede altre persone. Con notevole enfasi loda molte volte la fede di persone semplici e di altre che non appartengono al
popolo d’Israele — pensiamo al centurione
(cfr. Lc 7, 9) e alla donna siro-fenicia (cfr. 15,
28) —, mentre ai discepoli — e a Simon Pietro
in particolare — rimprovera spesso la loro «poca fede» (Mt 14, 31).
Tenendo presente che le riflessioni del Signore riguardo alla grande fede e alla poca fede hanno un intento pedagogico e sono uno
stimolo ad incrementare il desiderio di crescere
nella fede, ci concentriamo su un passaggio
“Simone, Simone, [...] io ho pregato il Padre per te, perché la tua fede non rimanga
eclissata (dal mio volto sfigurato, in te che lo
hai visto trasfigurato); e tu, una volta che sarai
uscito da questa esperienza di desolazione di
cui il demonio ha approfittato per passarti al
vaglio, conferma (con questa tua fede provata)
la fede dei tuoi fratelli”.
Così, vediamo che la fede di Simon Pietro
ha un carattere speciale: è una fede provata, e
con essa egli ha la missione di confermare e
consolidare la fede dei suoi fratelli, la nostra
fede. La fede di Simon Pietro è minore di
quella di tanti piccoli del popolo fedele di
Dio. Ci sono persino dei pagani, come il centurione, che hanno una fede più grande nel
momento di implorare la guarigione di un malato della loro famiglia. La fede di Simone è
più lenta di quella di Maria Maddalena e di
Giovanni. Giovanni crede al solo vedere il segno del sudario e riconosce il Signore sulla riva del lago al solo ascoltare le sue parole. La
fede di Simon Pietro ha momenti di grandezza, come quando confessa che Gesù è il Messia, ma a questi momenti ne seguono quasi
immediatamente altri di grande errore, di
estrema fragilità e totale sconcerto, come
quando vuole allontanare il Signore dalla croce, o quando affonda senza rimedio nel lago o
quando vuole difendere il Signore con la spada. Per non parlare del momento vergognoso
dei tre rinnegamenti davanti ai servi.
centrale nella vita di Simon Pietro, quello in
cui Gesù gli dice che “ha pregato” per la sua
fede. È il momento che precede la passione;
gli apostoli hanno appena discusso su chi tra
loro sia il traditore e chi sia il più grande, e
Gesù dice a Simone:
«Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati
per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato
per te, perché la tua fede non venga meno. E
tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 31-32).
Precisiamo i termini, poiché le richieste del
Signore al Padre sono cose di cui far tesoro
nel cuore. Consideriamo che il Signore “prega”6 per Simone ma pensando a noi. “Venir
meno” traduce ekleipo — da cui “eclissarsi” —
ed è molto plastica l’immagine di una fede
eclissata dallo scandalo della passione. È
quell’esperienza che chiamiamo desolazione:
qualcosa copre la luce.
Tornare indietro (epistrepsas) esprime qui il
senso di “convertirsi”, di ritornare alla consolazione precedente dopo un’esperienza di desolazione e di essere passati al vaglio da parte
demonio.
“Confermare” (sterizon) si dice nel senso di
“consolidare” (histemi) la fede affinché d’ora in
avanti sia “determinata” (cfr. Lc 9, 51). Una fede che nessun vento di dottrina possa smuovere (cfr. Ef 4, 14). Più avanti ci soffermeremo
Possiamo distinguere tre tipi di pensieri, carichi di affetti7, che interagiscono nelle prove
di fede di Simon Pietro: alcuni sono i pensieri
che gli vengono dal suo stesso modo di essere;
altri pensieri li provoca direttamente il demonio (dallo spirito malvagio); e un terzo tipo di
pensieri sono quelli che vengono direttamente
dal Signore o dal Padre (dallo spirito buono).
a) I due nomi e il desiderio
di camminare verso Gesù
sulle acque
Vediamo, in primo luogo, come si relaziona
il Signore con l’aspetto più umano della fede
di Simon Pietro. Parlo di quella sana autostima con cui uno crede in sé stesso e nell’altro,
nella capacità di essere degno di fiducia, sincero e fedele, su cui si basa ogni amicizia umana. Ci sono due episodi nella vita di Simon
Pietro nei quali si può vedere una crescita nella fede che si potrebbe chiamare sincera. Sincera nel senso di senza complicazioni, nella
quale un’amicizia cresce approfondendo chi è
ciascuno senza che vi siano ombre. Uno è
l’episodio dei due nomi; l’altro, quando Simon
Pietro chiede al Signore di comandargli di andare verso di Lui camminando sulle acque.
Simone appare sulla scena quando suo fratello Andrea lo va a cercare e gli dice: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1, 41); e lui segue
suo fratello che lo porta da Gesù. E lì avviene
immediatamente il cambio di nome. Si tratta
di una scelta che fa il Signore in vista di una
missione, quella di essere Pietra, fondamento
solido di fede su cui edificherà la sua Chiesa.
Notiamo che, più che cambiargli il nome di
Simone, di fatto, ciò che il Signore fa è aggiungere quello di Pietro.
Questo fatto è già in sé motivo di tensione e
di crescita. Pietro si muoverà sempre intorno
al perno che è il Signore, girando e sentendo
il peso e il movimento dei suoi due nomi:
quello di Simone — il pescatore, il peccatore,
l’amico... — e quello di Pietro — la Roccia su
cui si costruisce, colui che ha le chiavi, che dice l’ultima parola, che cura e pasce le pecore
—. Mi fa bene pensare che Simone è il nome
con cui Gesù lo chiama quando parlano e si
dicono le cose come amici, e Pietro è il nome
con cui il Signore lo presenta, lo giustifica, lo
difende e lo pone in risalto in maniera unica
come suo uomo di totale fiducia, davanti agli
altri. Anche se è lui che gli dà il nome di “Pietra”, Gesù lo chiama Simone.
La fede di Simon Pietro progredisce e cresce
nella tensione tra questi due nomi, il cui punto fisso — il perno — è centrato in Gesù.
Avere due nomi lo decentra. Non può centrarsi in nessuno di essi. Se volesse che Simone fosse il suo punto fisso, dovrebbe sempre
dire: «Signore, allontanati da me, perché sono
un peccatore» (Lc 5, 8). Se pretendesse di centrarsi esclusivamente sull’essere Pietro e dimenticasse o coprisse tutto ciò che è di Simone, diventerebbe una pietra di scandalo, come
gli accadde quando “non si comportava rettamente secondo la verità del Vangelo”, come gli
Per i cristiani
perseguitati
«Vi faccio una domanda:
quanti di voi pregano per i
cristiani che sono
perseguitati?». Ecco la
questione che, con
schiettezza, Francesco ha
posto nel videomessaggio
per l’intenzione del mese di
marzo, diffuso sul sito
internet — www.apmej.org —
della rete mondiale di
preghiera del Papa
(Apostolato della
preghiera). «Vi incoraggio a
farlo con me» ha chiesto il
Pontefice, perché i cristiani
perseguitati «sperimentino il
sostegno di tutte le Chiese e
comunità nella preghiera e
attraverso l’aiuto materiale».
Il tema è di scottante
attualità. «Quante persone
— spiega il Papa — sono
perseguitate a motivo della
loro fede, costrette ad
abbandonare le loro case, i
loro luoghi di culto, le loro
terre, i loro affetti!». Il
Pontefice rimarca che queste
persone «vengono
perseguitate e uccise perché
cristiane, senza fare
distinzione, da parte dei
persecutori, tra le
confessioni a cui
appartengono» siano esse
dunque cattoliche, ortodosse
o protestanti. L’appello di
Francesco alla preghiera è
accompagnato da immagini
che raccontano storie di
persecuzione, mostrano
chiese distrutte. Ma invitano
anche alla speranza,
attraverso l’attenzione ai più
piccoli e il sostegno ai
poveri.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 marzo 2017
#copertina
Tradizione
e attualità
nella musica sacra
«Musica e Chiesa: culto e
cultura a 50 anni dalla
Musicam sacram», è il tema
del convegno organizzato
dal Pontificio Consiglio
della Cultura, i cui
partecipanti sono stati
ricevuti dal Papa nella Sala
Clementina sabato 4 marzo.
«Auspico — ha detto il
Pontefice nel suo discorso —
che l’esperienza di incontro
e di dialogo vissuta in
questi giorni, nella
riflessione comune sulla
musica sacra e
particolarmente sui suoi
aspetti culturali e artistici,
risulti fruttuosa per le
comunità ecclesiali. Mezzo
secolo dopo l’Istruzione
Musicam sacram, il convegno
ha voluto approfondire, in
un’ottica interdisciplinare ed
ecumenica, il rapporto
attuale tra la musica sacra e
la cultura contemporanea,
tra il repertorio musicale
adottato e usato dalla
comunità cristiana e le
tendenze musicali
prevalenti».
disse Paolo perché aveva
nascosto il fatto di essere andato a mangiare
con i pagani (cfr. Gal
2, 11-14). Mantenersi
Simone (pescatore e
peccatore) e Pietro
(Pietra e chiave per
gli altri) lo obbligherà
a decentrarsi costantemente per ruotare solo
intorno a Cristo, l’unico
centro.
L’icona di questo decentramento, la sua
messa in atto, è quando
chiede a Gesù di comandargli di andare verso di
Lui sulle acque. Lì Simon Pietro mostra il
suo carattere, il suo sogno, la sua attrazione
per l’imitazione di Gesù. Quando affonda,
perché smette di guardare il Signore e guarda
l’agitarsi delle onde, mostra le sue paure e i suoi
fantasmi. E quando lo
prega di salvarlo e il Signore gli tende la mano,
mostra di sapere bene chi è
Gesù per lui: il suo Salvatore.
E il Signore gli rafforza la fede,
concedendogli quello che desidera, dandogli una mano e chiudendo la questione con quella frase affettuosa e rassicurante:
«Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»
(Mt 14, 31).
Simon Pietro in tutte le situazioni “limite”
in cui potrà mettersi, guidato dalla sua fede in
Gesù discernerà sempre qual è la mano che lo
salva. Con quella certezza che, anche quando
non capisce bene quello che Gesù dice o fa,
gli farà dire: «Signore, da chi andremo? Tu
hai parole di vita eterna» (Gv 6, 68). Umanamente, questa consapevolezza di avere “poca
fede”, insieme con l’umiltà di lasciarsi aiutare
da chi sa e può farlo, è il punto di sana autostima in cui si radica il seme di quella fede
“per confermare gli altri”, per “edificare sopra
di essa”, che è quella che Gesù vuole da Simon Pietro e da noi che partecipiamo del ministero. Direi che è una fede condivisibile, forse perché non è tanto ammirevole. La fede di
uno che avesse imparato a camminare senza
tribolazioni sulle acque sarebbe affascinante,
ma ci allontanerebbe. Invece, questa fede da
buon amico, consapevole della sua pochezza e
che confida pienamente in Gesù, ci suscita
simpatia e — questa è la sua grazia — ci conferma!
b) La preghiera di Gesù
e il vaglio del demonio
Nel passo centrale di Luca che abbiamo
preso come guida, possiamo vedere ciò che
produce il vaglio del demonio nella personalità di Simon Pietro e come Gesù prega affinché la debolezza, e perfino il peccato, si trasformino in grazia e grazia comunitaria.
Ci concentriamo sulla parola “vaglio” (siniazo: setacciare il grano), che evoca il movimento
di spiriti, grazie al quale, alla fine, si discerne
ciò che viene dallo spirito buono da ciò che
viene da quello cattivo. In questo caso colui
che vaglia — colui che rivendica il potere di
vagliare — è lo spirito maligno. E il Signore
14
Eugène Burnand, «Pietro
e Giovanni corrono al sepolcro
la mattina della risurrezione» (1898)
non lo impedisce, ma, approfittando della prova, rivolge la sua preghiera al Padre perché
rafforzi il cuore di Simon Pietro. Gesù prega
affinché Simon Pietro “non cada nella tentazione”. Il Signore ha fatto tutto il possibile
per custodire i suoi nella sua Passione. Tuttavia non può evitare che ognuno sia tentato dal
demonio, che si introduce nella parte più debole. In questo tipo di prove, che Dio non
manda direttamente ma non impedisce, Paolo
ci dice che il Signore ha cura che non siamo
tentati al di sopra delle nostre forze (cfr. 1 Cor
10, 13).
Il fatto che il Signore dica espressamente
che prega per Simone è estremamente importante, perché la tentazione più insidiosa del
demonio è che, insieme a una certa prova particolare, ci fa sentire che Gesù ci ha abbandonato, che in qualche modo ci ha lasciato soli e
non ci ha aiutato come avrebbe dovuto. Il Signore stesso ha sperimentato e vinto questa
tentazione, prima nell’orto e poi sulla croce,
affidandosi nelle mani del Padre quando si
sentì abbandonato. È in questo punto della fede che abbiamo bisogno di essere in modo
speciale e con cura rafforzati e confermati. Nel
fatto che il Signore prevenga ciò che succederà
a Simon Pietro e gli assicuri di avere già pregato perché la sua fede non venga meno, troviamo la forza di cui abbiamo bisogno.
Questa “eclisse” della fede davanti allo scandalo della passione è una delle cose per cui il
Signore prega in modo particolare. Il Signore
ci chiede di pregare sempre, con insistenza; ci
associa alla sua preghiera, ci fa domandare di
“non cadere in tentazione e di essere liberati
dal male”, perché la nostra carne è debole; ci
rivela anche che ci sono demoni che non si
vincono se non con la preghiera e la penitenza
e, in certe cose, ci rivela che Egli prega in modo speciale. Questa è una di quelle. Come si è
riservato l’umile compito di lavare i piedi ai
suoi, come una volta risorto si è occupato personalmente di consolare i suoi amici, allo stesso modo questa preghiera con la quale, rafforzando la fede di Simon Pietro, rafforza quella
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di tutti gli altri, è una cosa di cui il Signore si
fa carico personalmente. E bisogna tenerne
conto: è a questa preghiera, che il Signore ha
fatto una volta e continua a fare — «sta alla
destra di Dio e intercede per noi» (Rm 8, 34)
— che dobbiamo ricorrere per rafforzare la nostra fede.
Se la lezione data a Simon Pietro di lasciarsi
lavare i piedi ha confermato l’atteggiamento di
servizio del Signore e lo ha fissato nella memoria della Chiesa come un fatto fondamentale, questa lezione, data nello stesso contesto,
deve porsi anch’essa come icona della fede
condizionata misericordia del Padre per i più
piccoli e peccatori, e la compassione e il perdono infinito che Gesù esercita fino al punto
di dare la vita per i peccatori, non è solo perché Dio è buono, ma è anche frutto del discernimento ultimo di Dio sul male per sradicarlo
dalla sua relazione con la fragilità della carne.
In ultima istanza, il male non è legato con la
fragilità e il limite della carne. Per questo il
Verbo si fa carne senza alcun timore e dà testimonianza che può vivere perfettamente in seno alla Santa Famiglia e crescere custodito da
due umili creature quali san Giuseppe e la
Vergine Maria sua madre.
tentata e vagliata per la quale il Signore prega.
Come sacerdoti che prendiamo parte al ministero petrino, in ciò che sta a noi, partecipiamo della stessa missione: non solo dobbiamo
lavare i piedi ai nostri fratelli, come facciamo
il Giovedì Santo, ma dobbiamo confermarli
nella loro fede, testimoniando come il Signore
ha pregato per la nostra.
Se nelle prove che hanno origine nella nostra carne il Signore ci incoraggia e ci rafforza,
operando molte volte miracoli di guarigione,
in queste tentazioni che vengono direttamente
dal demonio, il Signore adopera una strategia
più complessa. Vediamo che ci sono alcuni demoni che espelle direttamente e senza riguardi; altri li neutralizza, mettendoli a tacere; altri
li fa parlare, chiede il loro nome, come quello
che era “Legione”; ad altri risponde ampiamente con la Scrittura, sopportando un lungo
procedimento, come nel caso delle tentazioni
nel deserto. Questo demonio, che tenta il suo
amico all’inizio della sua passione, lo sconfigge pregando, non perché lo lasci in pace, ma
perché il suo vaglio diventi motivo di forza a
beneficio degli altri.
Abbiamo qui alcuni grandi insegnamenti
sulla crescita nella fede. Uno riguarda lo scandalo della sofferenza dell’Innocente e degli innocenti. Questo ci tocca più di quanto crediamo, tocca persino quelli che lo provocano e
quelli che fingono di non vederlo. Fa bene
ascoltare dalla bocca del Signore, nel momento preciso in cui sta per prendere su di sé questo scandalo nella passione, che Egli prega
perché non venga meno la fede di colui che
lascia in vece propria, e perché sia lui a confermare noialtri. L’eclisse della fede provocata
dalla passione non è qualcosa che ognuno
possa risolvere e superare individualmente.
Un’altra lezione importante è che quando il
Signore ci mette alla prova, non lo fa mai basandosi sulla nostra parte più debole. Questo
è tipico del demonio, che sfrutta le nostre debolezze, che cerca la nostra parte più debole e
che si accanisce ferocemente contro i più deboli di questo mondo. Perciò l’infinita e in-
Il male ha la sua origine in un atto di orgoglio spirituale e nasce dalla superbia di una
creatura perfetta, Lucifero. Poi si contagia ad
Adamo ed Eva, ma trovando appoggio nel loro “desiderio di essere come dei”, non nella loro fragilità. Nel caso di Simon Pietro, il Signore non teme la sua fragilità di uomo peccatore né la sua paura di camminare sulle acque
in mezzo a una tempesta. Teme, piuttosto, la
discussione su chi sia il più grande.
È in questo contesto che dice a Simon Pietro che il demonio ha chiesto il permesso di
vagliarlo. E possiamo pensare che il vaglio è
iniziato lì, nella discussione su chi fosse colui
che lo avrebbe tradito, sfociata poi nella discussione su chi fosse il più grande. Tutto il
passo di Luca che segue immediatamente l’istituzione dell’Eucaristia è un vaglio: discussioni,
predizione del rinnegamento, offerta della spada (cfr. 22, 23-38). La fede di Simon Pietro è
vagliata nella tensione tra il desiderio di essere
leale, di difendere Gesù e quello di essere il
più grande e il rinnegamento, la vigliaccheria
e il sentirsi il peggiore di tutti. Il Signore prega affinché Satana non oscuri la fede di Simone in questo momento, in cui guarda a sé stesso per farsi grande, per disprezzarsi o rimanere sconcertato e perplesso.
Se vi è una formulazione elaborata da Pietro circa queste cose, è quella di una “fede
provata”, come ci mostra la sua Prima Lettera,
in cui Pietro avverte che non c’è da meravigliarsi delle prove, come se fossero qualcosa di
strano (cfr. 4, 12), ma si deve resistere al demonio «saldi nella fede» (5, 9). Pietro definisce sé
stesso «testimone delle sofferenze di Cristo»
(5, 1) e scrive le sue lettere al fine di «ridestare
[...] il giusto modo di pensare» (2 Pt 3, 1) (eilikrine dianoian: giudizio illuminato da un raggio di sole), che sarebbe la grazia contraria
all’“eclisse” della fede.
Il progresso della fede, quindi, avviene grazie a questo vaglio, a questo passare attraverso
tentazioni e prove. Tutta la vita di Simon Pietro può essere vista come un progresso nella
fede grazie all’accompagnamento del Signore,
L’«Hogar de Cristo Nazareth»
a Gualeguaychú (Argentina)
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che gli insegna a discernere, nel proprio cuore,
ciò che viene dal Padre e ciò viene dal demonio.
c) Il Signore che mette alla prova
facendo crescere la fede
dal bene al meglio
e la tentazione sempre presente
Mercoledì
delle Ceneri
all’Aventino
«Quaresima è il tempo per
dire no. No all’asfissia dello
spirito per l’inquinamento
causato dall’indifferenza;
per ogni tentativo di
banalizzare la vita». Lo ha
sottolineato Papa Francesco
all’omelia della messa
presieduta nel pomeriggio
del 1° marzo, mercoledì
delle Ceneri, nella basilica
romana di Santa Sabina
all’Aventino.
Durante la celebrazione,
con il capo scoperto e chino
davanti all’anziano cardinale
titolare Tomko, il Papa ha
poi per primo ricevuto
l’imposizione delle ceneri,
quindi ha ripetuto l’antico
rito penitenziale sui
cardinali presenti, su alcuni
frati, monaci e fedeli laici.
Nella tradizionale forma
della statio quaresimale, il
Pontefice aveva iniziato la
celebrazione nella vicina
basilica di Sant’Anselmo, da
dove ha avviato la
processione al canto delle
litanie dei santi.
Infine, l’incontro presso il lago di Tiberiade.
Un ulteriore passo in cui il Signore mette alla
prova Simon Pietro facendolo crescere dal bene al meglio. L’amore di amicizia personale si
consolida come ciò che “alimenta” il gregge e
lo rafforza nella fede (cfr. Gv 21, 15-19).
Letta in questo contesto delle prove di fede
di Simon Pietro che servono a rafforzare la
nostra, possiamo vedere qui come si tratta di
una prova molto speciale del Signore. In genere si dice che il Signore lo ha interrogato tre
volte perché Simon Pietro lo aveva rinnegato
tre volte. Può essere che questa debolezza fosse presente nell’animo di Simon Pietro (o in
quello di chi legge la sua storia) e che il dialogo sia servito a curarla. Ma possiamo anche
pensare che il Signore guarì quel rinnegamento con lo sguardo che fece piangere amaramente Simon Pietro (cfr. Lc 22, 62). In questo
interrogatorio possiamo vedere un modo di
procedere del Signore, cioè partire da una cosa
buona — che tutti riconoscevano e di cui Simon Pietro poteva essere contento —: «Mi ami
più di costoro?» (v. 15); confermarlo semplificandolo in un semplice «mi ami?» (v. 16), che
toglie ogni desiderio di grandezza e rivalità
dall’anima di Simone; per finire in quel «mi
vuoi bene come amico?» (v. 17), che è ciò che
più desiderava Simon Pietro ed evidentemente
è ciò che più sta a cuore a Gesù. Se veramente
è amore di amicizia, non c’entra per niente alcun tipo di rimprovero o correzione in questo
amore: l’amicizia è amicizia ed è il valore più
alto che corregge e migliora tutto il resto, senza bisogno di parlare del motivo.
Forse la più grande tentazione del demonio
era questa: insinuare in Simon Pietro l’idea di
non ritenersi degno di essere amico di Gesù
perché lo aveva tradito. Ma il Signore è fedele. Sempre. E rinnova di volta in volta la sua
fedeltà. «Se siamo infedeli, lui rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso» (2 Tm 2,
13), come dice Paolo al suo figlio nella fede
Timoteo. L’amicizia possiede questa grazia:
che un amico che è più fedele può, con la sua
fedeltà, rendere fedele l’altro che non lo è tanto. E se si tratta di Gesù, Lui più di chiunque
altro ha il potere di rendere fedeli i suoi amici.
È in questa fede — la fede in un Gesù amico
fedele — che Simon Pietro viene confermato e
inviato a confermarci tutti quanti. In questo
preciso senso si può leggere la triplice missione di pascere le pecore e gli agnelli. Considerando tutto ciò che la cura pastorale comporta, quello di rafforzare gli altri nella fede in
Gesù, che ci ama come amici, è un elemento
essenziale. A questo amore si riferisce Pietro
nella sua Prima Lettera: è una fede in Gesù
Cristo che — dice — «amate, pur senza averlo
visto, e ora, senza vederlo, credete in lui», e
questa fede ci fa esultare «di gioia indicibile e
gloriosa», sicuri di raggiungere «la meta della
(nostra) fede: la salvezza delle anime» (cfr. 1
Pt 1, 7-9).
Tuttavia, sorge una nuova tentazione. Questa volta contro il suo migliore amico. La tentazione di voler indagare sul rapporto di Gesù
con Giovanni, il discepolo amato. Il Signore
lo corregge severamente su questo punto: «A
te che importa? Tu seguimi» (Gv 21, 22).
***
Vediamo come la tentazione è sempre presente nella vita di Simon Pietro. Egli ci mostra
in prima persona come progredisce la fede
confessando e lasciandosi mettere alla prova. E
mostrando altresì che anche il peccato stesso
entra nel progresso della fede. Pietro ha commesso il peggiore dei peccati — rinnegare il Signore — e tuttavia lo hanno fatto Papa. È importante per un sacerdote saper inserire le proprie tentazioni e i propri peccati nell’ambito di
questa preghiera di Gesù perché non venga
meno la nostra fede, ma maturi e serva a rafforzare a sua volta la fede di coloro che ci sono stati affidati.
Mi piace ripetere che un sacerdote o un vescovo che non si sente peccatore, che non si
confessa, si chiude in sé, non progredisce nella
fede. Ma bisogna stare attenti a che la confessione e il discernimento delle proprie tentazioni includano e tengano conto di questa intenzione pastorale che il Signore vuole dare loro.
Raccontava un giovane uomo che si stava
recuperando nell’Hogar de Cristo di padre Pepe a Buenos Aires, che la mente gli giocava
contro e gli diceva che non doveva stare lì, e
che lui lottava contro quel sentimento. E diceva che padre Pepe lo aveva aiutato molto. Che
un giorno gli aveva detto che non ce la faceva
più, che sentiva molto la mancanza della sua
famiglia, di sua moglie e dei due figli, e che se
ne voleva andare. «E il prete mi disse: “E pri-
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ma, quando andavi in giro a drogarti e a vendere droga, ti mancavano i tuoi? Pensavi a loro?”. Io feci segno di no con la testa, in silenzio — disse l’uomo — e il prete, senza dirmi
nient’altro, mi diede una pacca sulla spalla e
mi disse: “Vai, basta così”. Come per dirmi:
renditi conto di quello che ti succede e di
quello che dici. “Ringrazia il cielo che adesso
senti la mancanza”.
Quell’uomo diceva che il prete era un grande. Che gli diceva le cose in faccia. E questo
lo aiutava a combattere, perché era lui che doveva metterci la sua volontà.
Racconto questo per far vedere che quello
che aiuta nella crescita della fede è tenere insieme il proprio peccato, il desiderio del bene
degli altri, l’aiuto che riceviamo e quello che
dobbiamo dare noi. Non serve dividere: non
vale sentirci perfetti quando svolgiamo il ministero e, quando pecchiamo, giustificarci per il
fatto che siamo come tutti gli altri. Bisogna
unire le cose: se rafforziamo la fede degli altri,
lo facciamo come peccatori. E quando pecchiamo, ci confessiamo per quel che siamo, sacerdoti, sottolineando che abbiamo una responsabilità verso le persone, non siamo come
tutti. Queste due cose si uniscono bene se
mettiamo davanti la gente, le nostre pecore, i
più poveri specialmente. È quello che fa Gesù
quando chiede a Simon Pietro se lo ama, ma
non gli dice nulla né del dolore né della gioia
che questo amore gli provoca, lo fa guardare
ai suoi fratelli in questo modo: pasci le mie
pecore, conferma la fede dei tuoi fratelli. Quasi a dirgli, come a quel giovane uomo dell’Hogar de Cristo: “Ringrazia se adesso senti la
mancanza”.
“Ringrazia se senti di avere poca fede”, vuol
dire che stai amando i tuoi fratelli. “Ringrazia
se ti senti peccatore e indegno del ministero”,
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vuol dire che ti accorgi che se fai qualcosa è
perché Gesù prega per te, e senza di Lui non
puoi fare nulla (cfr. Gv 15, 5).
Dicevano i nostri anziani che la fede cresce
facendo atti di fede. Simon Pietro è l’icona
dell’uomo a cui il Signore Gesù fa fare in ogni
momento atti di fede. Quando Simon Pietro
capisce questa “dinamica” del Signore, questa
sua pedagogia, non perde occasione per discernere, in ogni momento, quale atto di fede
può fare nel suo Signore. E in questo non si
sbaglia. Quando Gesù agisce come suo padrone, dandogli il nome di Pietro, Simone lo lascia fare. Il suo “così sia” è silenzioso, come
quello di san Giuseppe, e si dimostrerà reale
nel corso della sua vita. Quando il Signore lo
esalta e lo umilia, Simon Pietro non guarda a
sé stesso, ma sta attento a imparare la lezione
di ciò che viene dal Padre è ciò che viene dal
diavolo. Quando il Signore lo rimprovera perché si è fatto grande, si lascia correggere.
Quando il Signore gli fa vedere in modo spiritoso che non deve fingere davanti agli esattori
delle tasse, va a pescare il pesce con la moneta. Quando il Signore lo umilia e gli preannuncia che lo rinnegherà, è sincero nel dire ciò
che sente, come lo sarà nel piangere amaramente e nel lasciarsi perdonare. Tanti momenti
così diversi nella sua vita eppure un’unica lezione: quella del Signore che conferma la sua
fede perché lui confermi quella del suo popolo. Chiediamo anche noi a Pietro di confermarci nella fede, perché noi possiamo confermare quella dei nostri fratelli.
1 Cfr. Discorso ai Rappresentanti Pontifici, 21
giugno 2013.
2 Cfr. nn. 160, 161, 164, 190.
3 Cfr. J. M. BERGO GLIO, Messaggio nella Messa
per l’Educazione, Pasqua 2008.
4 Un fuego que enciende otros fuegos, Santiago de
Chile, 2004, 69-70; cfr. Doc. de Aparecida 191.
5 Si veda anche ES 333: «Quinta regola. Dobbiamo fare molta attenzione al corso dei nostri
pensieri. Se nei pensieri tutto è buono il principio, il mezzo e la fine e se tutto è orientato
verso il bene, questo è un segno dell’angelo
buono. Può darsi invece che nel corso dei
pensieri si presenti qualche cosa cattiva o distrattiva o meno buona di quella che l’anima
prima si era proposta di fare, oppure qualche
cosa che indebolisce l’anima, la rende inquieta,
la mette in agitazione e le toglie la pace, la
tranquillità e la calma che aveva prima: questo
allora è un chiaro segno che quei pensieri provengono dallo spirito cattivo, nemico del nostro bene e della nostra salvezza eterna».
6 Cfr. Omelia a Santa Marta, 3 giugno 2014.
Ricordiamo che il Signore prega perché siamo
uno, perché il Padre ci custodisca dal demonio
e dal mondo, perché ci perdoni quando “non
sappiamo quello che facciamo”.
7 Si tratta di pensieri che il Signore discerne
nei suoi discepoli quando, risorto, dice loro:
«Perché siate turbati, e perché sorgono dubbi
nel vostro cuore?» (Lc 24, 38).
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#catalogo
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di ROBERTO
RIGHETTO
Il manifesto dell’edizione 2012
del Lagos black heritage festival
in cui Wole Soyinka maturò
l’idea del libro
C
Un volume
dedicato
al racconto in versi
delle migrazioni
ome ha insegnato Virgilio, la poesia occidentale è nata nel segno dell’esilio. Ma, per usare le
parole dello scrittore nigeriano Wole Soyinka,
“che si tratti di antiche dinastie cinesi, di regni
africani o di monarchie europee, la storia
dell’esilio e quella dell’asilo sono sempre state
intrecciate”. È singolare che, mentre tutto il
mondo si appresta a celebrare, il 21 marzo, la
giornata mondiale della poesia, esca in libreria
un volume dedicato al racconto in versi delle
migrazioni. Un libro che nasce da un’idea
dello stesso Soyinka, che nel 2012 durante il
Lagos Black Heritage Festival, iniziativa culturale biennale dedicata ai rapporti fra Italia e
Africa, invitò un gruppo di poeti, sedici nigeriani e sedici italiani, a realizzare componimenti ad hoc.
Sedici infatti è il numero dell’ordine cosmico secondo la visione religiosa yoruba, il popolo da cui discende lo scrittore, primo africano a meritarsi il Nobel della letteratura nel
1986. Quei versi furono declamati in una “notte di poesia” nel Freedom Park di Lagos e
vennero poi pubblicati in un’antologia collettiva che appare appunto ora anche in Italia, con
il titolo Migrations/Migrazioni, per le edizioni
66th&2nd. Un libro che dà voce a quelle migliaia di persone — “nostri fratelli e sorelle senza nome e senza volto”, come li chiamò Papa
Francesco a Lampedusa — vittime della “globalizzazione dell’indifferenza”.
Sono “gruppi di individui ripudiati, spodestati e lasciati a vagabondare sulla superficie
terrestre” spiega nell’introduzione l’autore africano, che nella sua vita ha subito spesso la
persecuzione e l’esilio, riparando prima in Inghilterra poi negli Stati Uniti, dove ha vissuto
fino a poche settimane fa, decidendo poi di
andarsene perché in disaccordo con le politiche sull’accoglienza decise dal presidente
Trump. Aggiunge Soyinka: «La magnitudine
del fenomeno delle migrazioni è un mero riflesso della regressione compiuta dal mondo in
nome del “progresso”, dopo che ha foggiato
strumenti di guerra e distruzione che adesso ci
costringono a calcolare maree umane di
profughi, nell’ordine di centinaia di migliaia,
di milioni. Che allora non si sottragga alla responsabilità di procurare alle proprie vittime
bisogni elementari quali il rifugio e la protezione!».
Ma diamo la parola ai poeti. Ecco come descrive i profughi Milo De Angelis: «Escono
dalla stanza nello spavento delle strade / con
un volto invisibile e uno straziato, / nessuna
impronta li segnala / ci aspettano lì, con un
piede nel vuoto». Oppure, con immagini ancora più drammatiche, Jolanda Insana: «S’incarrettano per mare in gusci di noce / scivolano scivolano in acqua / e affogano / per voi
sono morti che si aggiungono ad altri morti».
Ancora, Valerio Magrelli: «Riposa tutta quanta la Penisola / avvolta da una trepida collana
/ di affogati». O per dar la voce a uno dei
poeti nigeriani, Tolu Ogunlesi: «Coi piedi immersi nel Mediterraneo, come dentro un sogno
/ si sono svegliati, per abbracciare Lampedusa,
/ lampada baluginante di libertà, avvelenata /
dal petrolio di due continenti».
Poesia dell’esilio
Sono immagini più strazianti che commoventi quelle che emergono da queste poesie, il
segno che la parola può farsi accorato appello,
denuncia e condanna. Quasi voce profetica.
Come ricorda Erri De Luca: «Da qualunque
distanza arriveremo a milioni di passi, / chi va
a piedi non può essere fermato. / Voi siete il
collo, la cima pettinata del pianeta, / noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso. / Spaliamo la
neve, battiamo i tappeti, raccogliamo il pomodoro e l’insulto, / noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo. / Di noi non vi potete sbarazzare. Uno venuto prima, a nome
nostro ha detto: “Va bene, muoio, ma in tre
giorni resuscito e ritorno”».
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#cultura
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P
oiché riguarda il mondo moderno e l’accoglienza riservata alla santità nella nostra società, conservo sul mio comodino El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Miguel de
Cervantes. Attraverso questo primo grande romanzo della letteratura universale, capolavoro
di crudeltà sotto la farsa, Cervantes ha delineato il personaggio di un santo, pervaso da
un alto ideale di amore, che il mondo disprezza, e noi con lui perché ne ridiamo.
Don Chisciotte costruisce il suo rapporto
con il mondo a partire dai libri di cavalleria
che ha letto, e a partire dai Vangeli che li
strutturano. Ebbene, ogni volta che agisce secondo i loro comandamenti, il mondo lo pone
di fronte a una magistrale smentita. Tale
smentita non è la prova che il mondo si sbaglia o che l’ingegnoso hidalgo è pazzo. È il segno di un disaccordo che, alle soglie del XVII
secolo, continua a inasprirsi fino al divorzio. È
questo conflitto, tra essere e avere, tra amare e
possedere, che incarnano le gesta del Cavalier
dalla Triste Figura, accompagnato da Sancho
Panza, suo fedele scudiero.
L’errare di questo cavaliere dipende dal fatto che non trova mai quel Male che vuole fare
a pezzi, perché in questo nuovo mondo che il
XVI secolo ha aperto, il male è ormai ovunque.
L’oro e la febbre dell’oro hanno contaminato
tutti gli animi e tutti gli strati della società.
Non ci sono più individui completamente
buoni. Don Chisciotte è ormai incapace di rimediare a quel Male. La malvagità anima i più
umili che lui sogna di difendere e che non
pensano ad altro che a derubarlo, e soprattutto anima il duca e la duchessa, che organizzano tutta una messa in scena per confonderlo,
al fine di ridere della sua umiliazione. Ed è
proprio là dove ridiamo di più, complici dei
perfidi, che Don Chisciotte è sublime, in quella figura di santo impotente che tuttavia si accanisce perché ci sia giustizia su questa terra.
Don Chisciotte contiene inoltre ciò che più
mi attrae nelle opere che preferisco — L’Iliade
Rileggere
il Don Chisciotte
di CHRISTIANE RANCÉ
e L’Odissea, La Divina Commedia, Moby Dick o
Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie
—, ossia un viaggio potente, tra la realtà e l’illusione, al di là delle apparenze. È un viaggio
iniziatico, che ogni essere umano è portato a
intraprendere nella propria vita, dai suoi sogni
di giovinezza alla sua realizzazione personale.
È un pellegrinaggio interiore, l’odissea di un
uomo partito per fare il bene, per rendere giustizia e per consolare gli infelici, un uomo che
fa il giuramento di essere nobile, povero e
buono, come gli ha insegnato il modello della
cavalleria cristiana, ma che si scontra con la
dura realtà. La forza di Don Chisciotte, al di
là del riso e del ridicolo, è la sua resistenza ai
colpi e al reale, la sua cieca ostinazione. Solo
al termine del suo viaggio rinuncia al suo
ideale, e quella rinuncia conferisce al personaggio tutta la sua umanità. Don Chisciotte è
un indimenticabile cavaliere della disfatta.
C’è inoltre il dialogo tra i due eroi della storia, tra don Chisciotte e Sancho Panza, il suo
scudiero. Al tempo stesso opposti, antagonisti,
eppure complici. È il dialogo tra la grazia e la
pesantezza, tra l’antico e il moderno, e la lotta
tra il potere della mente e la violenza del reale. È l’irruzione nel romanzo della coscienza
personale, del me ipsum, del mondo interiore
che il Rinascimento ha rivelato.
Del Don Chisciotte si è detto che era un libro
contro i romanzi di cavalleria, che avevano
avuto un successo febbrile in Spagna. Quel
che ha mostrato Cervantes è anzitutto il crollo
dell’ordine antico e poi il passaggio a un altro
tempo in cui ognuno si mette a sognare fiumi
d’oro e ricchezze personali, sotto un cielo che
le scoperte di Copernico, Keplero e Galileo
hanno svuotato di Dio. E quel tempo è l’era
moderna. È l’era in cui ormai appare ridicolo,
patetico e asociale quel signorotto che vuole
ancora credere alla virtù della povertà e
all’ideale dell’amore, e stupido e zoticone quel
contadino che lo segue. Ecco perché questo libro è un capolavoro di crudeltà sotto la farsa,
sotto la risata e la comicità, ed ecco perché è
anche così doloroso; nella figura di don Chisciotte è del santo, dell’eroe e dell’anziano che
ci si fa gioco.
Ed è questa la forza dell’opera: in quel che
evidenzia del nostro disincanto, della nostra
prontezza al sarcasmo, della nostra sterile attrazione per l’oro e la giovinezza.
Pablo Picasso
«Don Chisciotte» (1955)
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#dialoghi
20
di ANNA
FOA
I
l Consiglio superiore degli ulema in Marocco
ha liberalizzato la conversione dall’islam a
un’altra religione, abolendo la norma sull’apostasia che quasi ovunque, dove è in vigore la
legge islamica, comporta la pena di morte per
l’abbandono della religione musulmana. È un
passo avanti enorme, e bisogna augurarsi che
si estenda agli imam degli altri paesi islamici,
eliminando quello che, insieme alle norme discriminatorie sulle donne, rappresenta l’ostacolo più grave alla modernizzazione dell’islam e
all’integrazione dei musulmani in Europa.
Se si guarda alle tre religioni monoteistiche,
l’islam è rimasto oggi l’unica in cui il passaggio a un’altra religione sia sanzionato penalmente. Il cristianesimo, da parte sua, ha per
secoli considerato ciò che veniva definito
“apostasia” come un reato gravissimo, degno
della consegna al braccio secolare, cioè al patibolo. Basti il destino dei conversos, bruciati sul
rogo a migliaia nei secoli tra Cinque e Seicento come apostati per essere cripto giudaizzanti, cioè tornati nascostamente all’ebraismo, o
essere ritenuti tali.
L’ebraismo, anche per mancanza di potere
civile, non ha mai potuto farlo, ma non è così
sicuro che se avesse potuto non si sarebbe
adeguato anch’esso a una pratica fondata sostanzialmente sull’identificazione fra identità e
religione e su quella tra conversione e tradimento.
Eppure, la letteratura sulla conversione religiosa è, nei secoli, straordinariamente ricca. I
convertiti, da qualunque religione vengano,
passano da un mondo all’altro perché insoddisfatti delle risposte che già hanno, sono curiosi
dell’alterità, pronti a portare nel nuovo mondo
gli spunti di spiritualità e di innovazione che li
hanno spinti a lasciare il vecchio mondo. Le
Rispetto
per chi si converte
poche tracce autobiografiche del passaggio
all’ebraismo di cristiani nel medioevo sono tutte straordinariamente affascinanti, come affascinanti sono quelle dei convertiti al cristianesimo dall’ebraismo. Parlo naturalmente di
quelli sinceri, non delle conversioni forzate o
di quelle determinate da motivazioni sociali.
Per perseguire la conversione è necessario
considerarla dentro di sé come un tradimento,
il massimo dei tradimenti. Come stupirci, in
questo contesto, che si potessero bruciare sul
rogo gli ebrei mal convertiti o continuare fino
a oggi a condannare a morte i musulmani divenuti cristiani? Ora che il cristianesimo ha da
molto tempo e con convinzione deposto la
spada e che l’islam — questa è almeno la speranza — sta a piccoli passi avviandosi nella
stessa direzione, non dovremmo forse rifiutare
anche la mentalità che stava alla base di quelle
pratiche intolleranti, rispettare le ragioni dei
convertiti, tutti i convertiti, smettere di considerare il passaggio a un’altra religione come
un abominio da disprezzare?
La storia ci offre esempi innumerevoli di
trasformazione non solo delle pratiche ma anche delle mentalità religiose e sociali. Spesso,
esse hanno avuto bisogno di essere guidate dagli uomini della fede o da quelli del pensiero.
Vorrei che, mentre chiediamo ai musulmani di
non perseguitare i cristiani, le Chiese e i rabbini si mettessero alla guida di tutti i processi di
legittimazione delle coscienze. E che si cessasse, da tutte le parti, di considerare la conversione come un tradimento e si rispettassero,
dando per primi l’esempio, le ragioni di chi,
spesso faticosamente e dolorosamente, ha compiuto o compie il passaggio da una religione
all’altra.
In Marocco il Consiglio superiore
degli ulema ha liberalizzato
la conversione dall’islam
a un’altra religione
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 marzo 2017
#santamarta
Maggis Art, «Bussola astratta»
In basso: Macha Chmakoff
«Gesù nel deserto»
Le omelie
del Pontefice
21
GIOVEDÌ 2
La bussola del credente
VENERDÌ 3
Il vero digiuno
La «bussola del cristiano è seguire Cristo crocifisso»: non un falso dio «disincarnato e
astratto», ma Dio che si è fatto carne e che
porta su di sé «le piaghe dei nostri fratelli». È
un forte richiamo alla conversione e alla concretezza della realtà il suggerimento di Papa
Francesco per la Quaresima, proposto nella
meditazione della messa mattutina celebrata a
Santa Marta. «Oggi — ha spiegato — la liturgia della parola ci fa riflettere su tre realtà da
avere davanti per questa conversione: la realtà
dell’uomo — la realtà della vita — la realtà di
Dio e la realtà del cammino».
La prima è «la realtà dell’uomo: tu sei davanti a una scelta» ha affermato Francesco facendo riferimento al passo del Deuteronomio
30, 15-20: «Io pongo oggi davanti a te la vita e
il bene, la morte e il male». Ogni uomo è davanti a questa realtà e «questo — ha spiegato
— noi lo percepiamo nella vita: sempre possiamo prendere o il bene o il male, c’è la realtà
umana della libertà. Dio ci ha fatti liberi, la
scelta è nostra». Ma il Signore «non ci lascia
soli, ci insegna, ci ammonisce: compiere i comandamenti è la strada del bene; andare
dall’altra parte, la strada degli idoli, dei falsi
dèi che fanno sbagliare la vita». Poi, ha proseguito il Papa, «c’è la seconda realtà forte: la
realtà di Dio». Che si è fatto Cristo e questa
realtà «per i discepoli era difficile» da capire.
A questo proposito Francesco ha riproposto il
passo evangelico di Luca 9, 22-25 in cui «Dio
ha preso tutta la realtà umana, meno il peccato: non c’è Dio senza Cristo, un Dio senza
Cristo, “disincarnato”, è un Dio non reale».
Infatti, ha spiegato, «la realtà di Dio è Dio
fatto Cristo per noi, per salvarci, e quando ci
allontaniamo da questo, da questa realtà e ci
allontaniamo dalla croce di Cristo, dalla verità
delle piaghe del Signore, ci allontaniamo anche dall’amore, dalla carità di Dio».
Dunque, ha rilanciato il Pontefice, «questa
è la realtà di Dio: Dio fatto Cristo, Dio fatto
carne e questo è il fondamento delle opere di
misericordia», perché «le piaghe dei nostri fratelli sono le piaghe di Cristo». E, ha avvertito,
«non possiamo vivere la Quaresima senza questa seconda realtà: noi dobbiamo convertirci
non a un Dio astratto».
Ecco, allora, «la terza realtà»: quella del
cammino. La domanda è «come andiamo?». Il
Papa ha riproposto le parole di Gesù: «Se
qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se
stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi
segua». Perché «la realtà del cammino è quella
di Cristo: come Lui, prendere le croci di ogni
giorno». Questo significa «non fare quello che
io voglio, ma quello che vuole Gesù». E Lui
dice «che su questa strada noi perdiamo la vita per guadagnarla dopo; è un continuo perdere la vita, perdere di fare quello che io voglio, perdere le comodità, essere
sempre sulla strada di Gesù che
era al servizio degli altri, all’adorazione di Dio: quella è la strada
giusta».
Ma come si fa a pagare una cena duecento
euro e poi far finta di non vedere un uomo affamato all’uscita dal ristorante? E come si fa a
parlare di digiuno e penitenza e poi non pagare i contributi alle collaboratrici domestiche o
il giusto stipendio ai propri dipendenti ricorrendo al salario in nero? Proprio dal rischio di
cadere nella tentazione di «prendere la tangente della vanità», del voler apparire buoni facendo «una bella offerta alla Chiesa» mentre
si «sfruttano» le persone, Papa Francesco ha
messo in guardia nella messa celebrata a Santa
Marta. Una riflessione sul significato del «vero
digiuno» scaturita dall’attualità del profeta
Isaia: «La parola del Signore — ha subito fatto
presente il Pontefice — oggi parla del digiuno
cioè della penitenza». Nel salmo 50, infatti,
«abbiamo pregato: “Tu gradisci, Signore, il
cuore penitente”». E «il cuore che si sente
peccatore davanti a Dio si presenta così e davanti agli altri lo stesso».
La prima lettura, ha spiegato il Papa, «è
proprio un dibattito fra Dio e quelli che si lamentano che Dio non ascolta le loro preghiere, le loro penitenze, i loro digiuni». Il Signore dice: «Il vostro è un digiuno artificiale, non
di verità, è un digiuno per compiere una formalità». Perché, ha affermato Francesco, «loro
digiunavano solo per ottemperare a certe leggi». E nel passo di Isaia «si lamentano perché
il loro digiuno non era efficace». Ma, risponde
il Signore, voi «da una parte digiunate, fate
penitenza, e dall’altra fate ingiustizie». In fin
dei conti, ha spiegato, «questi credevano che
digiunare era un po’ truccarsi il cuore». Ed «è
la lamentela che fanno a Gesù i discepoli di
Giovanni — che erano buoni — e i farisei».
Sempre nel brano di Isaia, «il Signore spiega qual era il vero digiuno». E in proposito
Francesco ha confidato una storia sentita raccontare da padre Arrupe «quando era missionario in Giappone, dopo la bomba atomica,
ha fatto un giro per alcuni Paesi del mondo
per chiedere preghiere per la missione e aiuto». Il giovane missionario gesuita, poi divenuto preposito generale della Compagnia
«raccontò che un giorno, dopo una conferenza, gli si avvicina una persona molto importante di quella società di quel Paese e gli dice:
“Sono rimasto commosso di quello che lei ha
detto. Vorrei aiutarla. Venga al mio ufficio domani, perché vorrei fare un’offerta. L’aspetto”». E così «il giorno dopo» il gesuita «andò
da lui»; ma quell’uomo «lo aspettava con un
fotografo e con un giornalista. Ha fatto un
piccolo discorso, ha aperto il cassetto, ha preso una busta: “Questa è l’offerta”. Hanno parlato un po’ e se ne è andato. Ha fatto un’altra
conferenza. Poi dà la busta al segretario che lo
aiutava e viene il segretario e gli dice: “Ma,
padre, questa busta chi gliel’ha data?” - “Quel
signore per ringraziarmi” – “Ma ci sono dieci
dollari dentro!”». E «questo — ha
fatto notare il Papa — è lo stesso
che noi facciamo quando non
paghiamo il giusto alla nostra
gente».
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 marzo 2017
#meditazione
22
di ENZO
BIANCHI
Signore, dammi
quest’acqua
D
19 marzo
terza domenica
di Quaresima
Giovanni 4, 5-42
a Gerusalemme Gesù deve ritornare in Galilea,
e potrebbe farlo risalendo la valle del Giordano. La strada era più piana, più sicura e permetteva di non dover attraversare la Samaria,
terra i cui abitanti da secoli erano talmente nemici dei giudei (che li ritenevano impuri ed
eretici), da molestarli quando questi la attraversavano (cfr. Luca 9, 52-53). Invece — dice il
testo — Gesù «doveva» (édei) passare per la
Samaria, dovere che esprime una necessità divina: in obbedienza a Dio, proprio perché egli
è stato inviato non solo ai giudei, Gesù attraversa quella terra per compiere la sua missione. Per questo riceverà l’insulto di chi non lo
capisce: «Sei un samaritano e un indemoniato!» (Giovanni 8, 48). Eppure Gesù accetta di
incontrare questi che sono considerati nemici
ed empi; anzi, va a cercare questo popolo disprezzato e si fa samaritano tra i samaritani,
sostando presso un pozzo, come il samaritano
della parabola ha sostato presso chi era stato
percosso dai briganti (cfr. Luca 10, 33-35).
Nell’ora più calda del giorno egli giunge in
Samaria, «affaticato per il viaggio», e va a sedersi vicino al pozzo di Sicar, il pozzo di Giacobbe (cfr. Genesi 33, 18-20). È stanco e assetato ma non ha alcun mezzo per attingere acqua. Sopraggiunge allora anche una donna la
quale, forse a causa del suo comportamento
immorale pubblicamente riconosciuto, è costretta a uscire per strada a quell’ora, per non
imbattersi in quanti la disprezzano. Gesù le
chiede: «Dammi da bere». Al sentire quelle
parole nella lingua dei giudei, ella si meraviglia: qualcuno che è nella sua stessa condizione di assetato le chiede da bere e ospitalità,
ma è un nemico, uno che dovrebbe sentirsi superiore a lei. Una donna samaritana poteva
aspettarsi da un uomo giudeo solo disprezzo;
egli invece si fa mendicante presso di lei. Ecco
la vera autorità di Gesù: la sua capacità — come indica il latino auctoritas (da augere) — di
“aumentare” l’altro, di farlo crescere.
Stupita, la donna chiede a Gesù: «Come
mai tu, giudeo, chiedi da bere a me, una donna samaritana?». È questo ciò che la colpisce e
accende una dinamica relazionale, in un faccia
a faccia cordiale, senza più barriere. Tra Gesù
e la donna, infatti, è caduto un muro di separazione (cfr. Efesini 2, 14), anzi due: un muro
dovuto all’inimicizia tra samaritani e giudei e
un muro culturale e religioso di ingiusta disparità, che impediva a un uomo, in particolare a
un rabbi, di conversare con una donna. Ma se
una persona non può andare a Dio, è Dio che
la va a cercare, perché nessuno può essere
escluso dal suo amore: questo narra Gesù con
il suo comportamento.
Egli comincia a intrigare la donna: «Se tu
conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti
dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a
lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva!». La
donna ha sete, Gesù ha sete ma, in realtà, chi
dà da bere all’altro? C’è una sete di acqua di
Gesù e della donna, resa più impellente dal
caldo, ma c’è pure un’altra sete che lentamente
emerge… Gesù sa che c’è una sete più profonda e sa che il pozzo simboleggia la Torah,
quella parte delle Scritture che proprio i samaritani ritenevano l’unica contenente la parola
di Dio e alla quale dovevano attingere per vivere da credenti. Gesù sa anche che questa
donna, figura della Samaria adultera (cfr. Osea
2, 7), ha cercato di placare la sua sete attraverso vie sbagliate: ha avuto diversi uomini, ha
bevuto ogni sorta di acqua, vittima e artefice
di amori sbagliati.
E così le svela la sua condizione, ma senza
condannarla, bensì invitandola ad aderire alla
realtà e, di conseguenza, a fare ritorno al Dio
vivente. La samaritana, incuriosita, vuole saperne di più: «Chi sei tu che doni quest’acqua
viva? Sei forse più grande del nostro padre
Giacobbe? Hai davvero un’acqua che disseta
per sempre? Da dove prendi quest’acqua viva?». Il patriarca non solo aveva scavato quel
pozzo profondo, ma secondo la tradizione
giudaica aveva la forza di far risalire l’acqua
dal pozzo con la sua sola presenza. Gesù è
forse più grande di Giacobbe, potrà forse dare
acqua che risale dal pozzo, acqua viva?
La donna accetta di mettersi in gioco e riceve in cambio una promessa straordinaria: l’acqua di questo pozzo non disseta per sempre,
la Legge di Mosè non disseta definitivamente,
Odilon Redon, «Cristo
e la Samaritana» (1895)
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 9 marzo 2017
#meditazione
ma Gesù dona un’acqua che diventa sorgente
d’acqua zampillante, fonte inesauribile per la
vita eterna, e le annuncia l’inaudito, l’umanamente impossibile: c’è un’acqua da lui donata
la quale, anziché essere attinta dal pozzo, diventa fonte zampillante. Bere l’acqua da lui
donata significa trovare in sé una sorgente interiore: quest’acqua è lo Spirito effuso da Gesù nei nostri cuori (cfr. Giovanni 7, 37-39; 19,
30.34), Spirito per la vita eterna, che nel cuore
del credente diventa “maestro interiore”.
La samaritana comincia a intuire qualcosa e
chiede: «Signore (kýrios), dammi quest’acqua!». Qui Gesù dà un’improvvisa svolta al
dialogo: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna
qui». Cosa c’entra il marito? In realtà Gesù
conosce bene la situazione della samaritana,
perché «conosceva quello che c’è in ogni uomo» (Giovanni 2, 25). Egli legge nella vicenda
amorosa disgraziata di questa donna la vicenda idolatrica dei samaritani con gli idoli stranieri. Vi legge simbolicamente la storia del regno del nord, Israele, chiamato dai profeti
«donna adultera e prostituta» per l’infedeltà
allo sposo unico, il Signore Dio, e l’adulterio
con gli idoli falsi (cfr. Osea 2, 4 - 3, 6).
La donna, rispondendo che ora non ha marito, che è alla ricerca di amanti, confessa di
non aver trovato lo sposo unico, sempre fedele
nell’amore, anche in caso di tradimento (cfr.
Osea 14, 5). Gesù sta davanti al popolo dei samaritani per dire loro che il Signore non li ha
mai abbandonati, che vuole attirarli a sé (cfr.
Osea 2, 16) e celebrare con loro nozze di alleanza eterna. Ecco perché la samaritana, al di
là dell’acqua, deve trovare chi è la fonte, dietro
al dono deve scoprire il donatore. Nella risposta data a Gesù, riconosce implicitamente i
suoi numerosi fallimenti, la sua sete frustrata
di comunione e di amore; è una donna nella
miseria, che conosce padroni ma non uno sposo, una donna sfruttata e abbandonata. Ma
scoprendo se stessa, scopre che Gesù è profeta
e subito gli chiede dove è possibile adorare,
dove è possibile incontrare Dio e iniziare una
vita di comunione con lui: a Gerusalemme, co-
23
me dicono i giudei, o sul monte Garizim, come sostengono i samaritani?
In risposta, Gesù le annuncia l’ora: «Credimi, donna, viene l’ora — ed è questa — in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e
verità», cioè nello Spirito santo e in Gesù Cristo stesso che è la verità (cfr. Giovanni 14, 6),
l’ultima e definitiva narrazione di Dio (cfr.
Giovanni 1, 18). Sì, il luogo dell’autentica liturgia cristiana non è più un luogo-santuario
(monte, tempio o cattedrale), ma è la dimora
del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, cioè
la nostra persona intera, corpo di Cristo (cfr. 2
Corinzi 13, 5) e «tempio dello Spirito» (1 Corinzi 6, 19). Di fronte a queste parole, la samaritana osa confessare la propria attesa: lei e la
sua gente attendono il messia profetico, il nuovo Mosè (cfr. Deuteronomio 18, 15-18), attendono colui che svelerà tutto. Ed è in questo momento che Gesù le dice: «Io sono [il nome di
Dio: cfr. Esodo 3, 14] che ti parlo». La donna
si è svelata nella sua miseria, Gesù si svela nella sua verità di messia, inviato da Dio.
Ma ormai l’incontro umanissimo con Gesù
ha trasformato questa donna in una creatura
nuova, rendendola testimone ed evangelizzatrice. Ecco perché, «lasciata la sua anfora» — gesto che dice più di tante parole! — corre in città a testimoniare quanto le è accaduto. Per la
samaritana testimoniare è innanzitutto ricordare gli eventi, raccontare la propria esperienza:
qualcosa di decisivo è avvenuto nella sua vita,
e ciò ha provocato in lei un mutamento, una
conversione. E così, dopo aver ricordato i fatti,
suggerisce un’interpretazione: «Che sia lui il
messia?». Non impone a quanti la ascoltano
una verità espressa in termini rigidi, suggerisce
più che concludere, e così accende il desiderio
dell’incontro. «La fede nasce dall’ascolto»
(Romani 10, 17), dirà l’Apostolo: dall’ascolto di
Gesù è nata la fede della samaritana,
dall’ascolto della samaritana è nata la fede della sua gente. E dalla fede procede la conoscenza, dalla conoscenza l’amore: questo è l’evento
cristiano, mirabilmente riassunto nell’incontro
di due persone assetate!
Emmanuel Nsama, «Donna
al pozzo» (Zambia, 1970)
#controcopertina
Da pochi giorni abbiamo iniziato la quaresima
che è il cammino del popolo di Dio
verso la Pasqua
un cammino di conversione, di lotta contro il male
con le armi della preghiera, del digiuno
e delle opere di carità
Auguro a tutti che il cammino quaresimale
sia ricco di frutti
e vi chiedo un ricordo nella preghiera
( 5 marzo)