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Camera Penale di Firenze
Il Presidente
L’inutilità delle regole
Un cittadino indiano viene tratto in arresto per avere aggredito una giovane donna
che sta rientrando a casa a tarda notte, per le strade di Firenze. La vittima viene
assalita alle spalle, da un uomo che la sta seguendo e che le cinge al collo il laccio
della felpa. La giovane si difende sferrando colpi all’aggressore, se ne libera,
chiama aiuto, viene soccorsa: infine, l’assalitore viene tratto in arresto.
Il PM chiede la custodia in carcere, contestando – oltre alle lesioni aggravate –
anche la tentata violenza sessuale, perché l’uomo avrebbe spontaneamente
dichiarato, nel corso dell’arresto, che proprio quella era la sua intenzione.
Il Giudice interroga personalmente l’arrestato, che nega di avere confessato
l’intenzione di stupro, e constata direttamente – come scriverà nell’ordinanza – che
l’uomo non parla affatto l’italiano, diversamente da quanto riferisce nel verbale di
spontanee dichiarazioni: annota, altresì, che la ‘confessione dell’intenzione’ è stata
resa in una condizione di evidente costrizione (e senza interprete, senza avvocato).
L’arresto viene convalidato, e una misura concessa, perché il gesto è violento, e
l’uomo si è dimostrato pericoloso: ma non per la tentata violenza sessuale, perché
in quella ‘confessione’ c’è qualcosa che non torna.
L’indagato viene rimandato al luogo di sua abituale dimora, un comune agricolo
del Lazio, con il divieto di allontanarsene: in quel luogo egli vive da molti anni,
lavorando come bracciante agricolo, incensurato, con regolare permesso di
soggiorno. Non risulta che la misura sia stata violata.
La ‘scarcerazione’ suscita immediata indignazione: come è possibile che uno
stupratore sia lasciato libero? vuoi vedere che adesso è lui la vittima? dov’è la
‘certezza della pena’? occorre la ‘certezza della misura cautelare’! le regole non
funzionano!
E ancora: come può un giudice ‘scarcerare’ persone così? che egli sia trasferito ad
altri incarichi! come può una donna – il difensore d’ufficio dell’arrestato –
difendere un mostro simile?
Questi i fatti.
Il merito della vicenda sarà deciso dai Giudici, e non intendiamo assumere alcuna
posizione al riguardo. Il PM, insoddisfatto, proporrà impugnazione contro la prima
decisione assunta.
V IA LORENZO IL M AGNIFICO 78 – 50129 F IRENZE – TEL. 055.5001250 FAX 055.5001723
[email protected]
www.camerapenalefirenze.it
Camera Penale di Firenze
Il Presidente
Questa è la fisiologia del sistema.
Patologico è tutto quanto si è scatenato attorno.
Patologica l’immediata presa di posizione della stampa: che ha perso un’ottima
occasione per spiegare ai propri lettori quali sono le regole che in qualsiasi paese
civile disciplinano l’arresto degli indiziati di reato, perché sia previsto (dalla
Costituzione!) l’immediato intervento di un Giudice, quale è la differenza che
passa tra i presupposti di un arresto in flagranza e quelli di una misura cautelare.
E invece no: inaccettabile che il Giudice, svolgendo la funzione di garanzia che gli
è propria, assuma una decisione parzialmente diversa da quella che gli viene
richiesta; inaccettabile che chi va in carcere – perché arrestato dalla polizia – poi in
carcere non resti.
Il Giudice che ‘scarcera’, sbaglia: per definizione.
Così come la sentenza ‘giusta’ è – sempre per definizione – solo la sentenza di
condanna.
Si abbia il coraggio di dire: dei Giudici, degli avvocati, degli interpreti, delle
regole, non c’è bisogno, inutili orpelli, si perde tempo.
Chi racconta un processo dovrebbe avere conoscenza seria delle norme che lo
governano: raccontare i fatti della Giustizia è un affare delicato, perché richiede lo
sforzo di informare il lettore su quali siano le garanzie ed i principi sui quali il
processo penale poggia, e su quale sia il loro senso.
Senza indulgere alle derive forcaiole, nemmeno quando queste assicurino maggiori
vendite: senza cedere all’ironia a buon mercato del carnefice che diventa vittima, o
del giudice complottista.
Gridare allo scandalo del buonismo verso l’immigrato-sporco-brutto-cattivo è fin
troppo facile, parlare alla pancia della “gente” non richiede particolare
professionalità.
Spiegare e misurarsi con la regola invece sì: la regola impone impegno, richiede lo
sforzo di ricordare che uno Stato di diritto è una comunità che ha stretto un patto di
civiltà, non una tribù che si regge sulle lapidazioni pubbliche.
Se le norme processuali guardano con sospetto le spontanee dichiarazioni
dell’arrestato rese in assenza del difensore, vietandone l’utilizzazione nella gran
parte dei casi, c’è un motivo assai preciso, che occorrerebbe spiegare; se le norme
(europee, recentemente recepite) impongono l’assistenza continua di un interprete
nel corso del processo, e fin dall’arresto, c’è un motivo altrettanto preciso.
Se l’arresto non significa misura cautelare, e tra le due cose corre una grande
differenza, occorrerebbe spiegare anche questo: occorrerebbe dire perché è
semplicemente una sciocchezza invocare la ‘certezza delle misure cautelari’, come
sanno anche gli studenti del primo anno dell’Università.
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Il Presidente
Occorrerebbe misurarsi con il senso delle garanzie: che non significano affatto
assoluzioni indebite e lassismi incontrollati.
Al contrario, è il rispetto rigoroso delle regole che rende giuste le sanzioni, specie
le più severe, che legittima agli occhi dei cittadini l’impiego della forza ed il
ricorso allo ius terribile: una pena (o una misura cautelare) applicata con la
violazione delle regole è sempre ingiusta.
In altri lidi, la stampa si sarebbe occupata assai più delle ragioni del dubbio del
Giudice che non della pretesa ‘scarcerazione’.
Un Giudice che applica con scrupolo le regole – specie quando si tratta, come in
questo caso, di un magistrato la cui onestà intellettuale e severità è perfettamente
nota ai cronisti – esige rispetto: soprattutto quando adotta una decisione che egli sa
impopolare, dimostrando senso del dovere e disinteresse verso il facile consenso.
Se il suo giudizio è errato, lo valuteranno altri Giudici: la critica processuale è
ammessa e disciplinata, il PM vi ha fatto ricorso.
Lo Stato non è assente quando un Giudice decide della libertà delle persone con
piena autonomia: è, anzi, massimamente presente.
Non sono le regole che “non funzionano” quando il Giudice accoglie le
osservazioni di un difensore che eccepisce la violazione delle regole di garanzia
che rendono giusta la privazione della libertà, e in presenza di un dubbio rilevante
agisce con la prudenza che la Costituzione gli impone di esercitare: al contrario, è
in questi casi che le regole dimostrano appieno la propria funzione.
Il cronista dovrebbe poi resistere fieramente alla vulgata indecente dell’avvocato
“donna che tradisce le donne” se fa il suo mestiere con scrupolo e dedizione: qui
davvero ci saremmo attesi l’esercizio rigoroso del ruolo di orientamento delle
coscienze cui la stampa dovrebbe assolvere.
Porre all’indice l’avvocato, come complice del reo, è l’anticamera culturale
dell’autoritarismo, in cui delle regole non c’è bisogno – tempo perso – e tanto
meno c’è bisogno di qualcuno che ne invochi l’inutile rispetto.
Alla Collega che ha svolto la sua funzione di difensore d’ufficio con il massimo
scrupolo dovremmo tutti grande riconoscenza, perché così operando ella si è fatta
custode preziosa del giusto processo, che è valore collettivo e precondizione del
rendere Giustizia, qualsiasi sia poi – favorevole o sfavorevole – la decisione del
Giudice.
A Lei va, forte e netta, la solidarietà della Camera Penale di Firenze.
Certo, la pretesa del senso delle regole sarebbe più semplice se le istituzioni
politiche per prime ne fossero robustamente dotate.
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Il Presidente
Desolante è il quadro delle pubbliche dichiarazioni di questi giorni.
La legalità come valore inderogabile: come se il Gip fiorentino avesse detto che è
lecito aggredire nottetempo le giovani donne per le strade fiorentine, come se
esistesse una norma che impone di applicare agli arrestati la misura cautelare in
carcere “a prescindere”.
E i Giudici cosa ci stanno a fare?
La ‘certezza della pena’: cosa c’entri è davvero difficile capirlo.
Forse si è scambiata la convalida dell’arresto con la celebrazione in pubblico
dibattimento di un giudizio di primo grado?
O forse – ancora una volta – il retropensiero è che per questi casi (quali?) un
processo è tempo perso?
Possibile che questi pensieri possano affiorare dalle dichiarazioni di chi ha
responsabilità di rappresentanza dei cittadini o di governo locale?
Eppure l’Europa ha provato a spiegarlo, emanando direttive assai precise.
La Direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016
impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire che, fino a
quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata,
“le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche non presentino la
persona come colpevole”, stabilendo altresì meccanismi di sanzione per il caso che
questo principio sia violato.
Dunque, né un Sindaco, né un Consigliere Regionale, né una qualsiasi altra
autorità pubblica, fuori delle necessità processuali, potrebbe fare pubbliche
dichiarazioni in cui si presume la colpevolezza dell’indagato.
Eppure, si sprecano i pubblici moti di indignazione per la violazione della
‘certezza della pena’, della ‘effettività della misura cautelare’, etc..
D’altra parte, checché ne pensi l’unico Giudice che fino ad oggi ha valutato il caso,
e sebbene un processo non si sia neppure iniziato a celebrare, l’indiano-immigrato
è certamente colpevole: no?
Non sapremmo dire se sia o meno fondato il sospetto che si intenda così deviare
l’attenzione dalle responsabilità amministrative di chi dovrebbe prevenire la
commissione dei reati, fornendo ai cittadini pre-condizioni di sicurezza quali
un’adeguata illuminazione delle strade, un adeguato sistema di trasporto pubblico,
un adeguato presidio del territorio da parte delle forze di polizia, etc..
Ci auguriamo solo – per i diretti interessati – che il vaglio di quel sospetto sia
compiuto con lo stesso rigore che il Gip fiorentino ha applicato nella valutazione
degli indizi a carico dell’arrestato indiano.
Il Direttivo
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