inaugurazione dell`anno giudiziario 2017

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Transcript inaugurazione dell`anno giudiziario 2017

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER L’EMILIA-ROMAGNA
INAUGURAZIONE
DELL’ANNO GIUDIZIARIO
2017
Procuratore Regionale
Carlo Alberto Manfredi SeIvaggi
BOLOGNA, 17 FEBBRAIO 2017
PROCURA REGIONALE PER L’EMILIA-ROMAGNA
INAUGURAZIONE
DELL’ANNO GIUDIZIARIO
2017
Relazione
del Procuratore Regionale
Carlo Alberto MANFREDI SELVAGGI
BOLOGNA, 17 FEBBRAIO 2017
Memoria disponibile sul sito web della Corte dei conti all’indirizzo www.corteconti.it
INDICE
1.
Le innovazioni legislative intervenute di recente nelle materie di interesse della Corte
pag. 1
dei conti
2.
3.
1.1.
La novità del Codice di Giustizia Contabile
pag. 1
1.2.
Il Testo Unico in materia di società partecipate
pag. 8
Le novità giurisprudenziali in tema di giurisdizione contabile
pag. 11
2.1
La giurisprudenza della Corte costituzionale
pag. 11
2.2
La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
pag. 12
2.3
La giurisprudenza delle Sezioni Riunite della Corte dei conti
pag. 17
L’attività della Procura
pag. 20
3.1.
Breve riepilogo statistico
pag. 20
3.2.
Principali tipologie di danno dedotte in giudizio
pag. 21
3.2.1.
Danni derivanti dalla commissione di reati, da disservizio e
all’immagine della Pubblica Amministrazione
3.2.2.
pag. 21
Danni da illecito conferimento di incarichi di consulenza e di
collaborazione
pag. 29
3.2.3.
Danni nel settore dei lavori, delle forniture e dei servizi pubblici
pag. 36
3.2.4.
Danni da illecito utilizzo di contributi e finanziamenti pubblici,
anche provenienti dall’Unione Europea
pag. 38
3.2.5.
Danni nel settore della sanità pubblica
pag. 43
3.2.6.
Danni relativi ai c.d. “costi della politica”
pag. 47
3.2.7.
Danni indiretti, debiti fuori bilancio ed “equa riparazione”
pag. 49
3.2.8.
Danni conseguenti a comportamenti omissivi gravemente negligenti
dei pubblici dipendenti
pag. 52
3.2.9.
Danni in materia di personale
pag. 54
3.2.10.
Altre fattispecie di danno non sussumibili nelle precedenti
classificazioni
3.2.11.
3.3.
Misure
cautelari
pag. 61
ed
iniziative
a
tutela
del
credito
dell’Amministrazione
pag. 63
3.2.12.
Il follow-up del primo grado: appelli e sentenze d’appello
pag. 66
3.2.13.
La c.d. “riparazione spontanea”
pag. 71
Giudizi di conto e per resa di conto
pag. 71
1.- LE INNOVAZIONI LEGISLATIVE INTERVENUTE DI
RECENTE NELLE MATERIE DI INTERESSE DELLA
CORTE DEI CONTI
Nel 2016, come nel passato, il legislatore è intervenuto a più riprese in materie
di interesse della Corte dei conti.
Sono diverse le novità che riguardano specificamente l’attività
giurisdizionale. Esse si caratterizzano, soprattutto, per l’importantissima novità
dell’emanazione del Codice di Giustizia Contabile nonché del Testo Unico in materia
di società partecipate, oltreché per la – ormai consueta – previsione di ipotesi tipiche
di responsabilità amministrativa a fronte della trasgressione di specifiche
disposizioni.
1.1
LA NOVITA’ DEL CODICE DI GIUSTIZIA CONTABILE
La più rilevante novità normativa del 2016 nella disciplina delle attribuzioni
giurisdizionali della Corte dei conti è rappresentata, senza tema di smentite, dal
Codice della giustizia contabile, entrato in vigore il 7 ottobre 2016. 1
Il Codice è stato adottato in attuazione della delega contenuta nell’articolo
20 della legge n. 124 del 2015 (c.d. “legge Madia”), che ha dettato norme in materia
di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche e sulla quale ci si soffermerà
anche per un altro importante intervento normativo che ha riguardato da vicino le
funzioni del Giudice contabile con riferimento alle società partecipate da
amministrazioni pubbliche.
Il decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, con il quale è stata data
attuazione alla delega, contiene le norme di approvazione del Codice e tre allegati:
il primo allegato reca, per l’appunto, il Codice di giustizia contabile; il secondo
allegato le norme di attuazione; il terzo le norme transitorie e le necessarie
abrogazioni.
1.1.1 Un Codice lungamente atteso.
La disciplina delle attribuzioni della Corte dei conti, nella sua duplice veste
di organo di controllo e organo giurisdizionale, è sempre stata caratterizzata da
frammentazione e disorganicità.
Al nucleo originario, risalente a complessi normativi pre-costituzionali (la
legge n. 800 del 1862; la legge di contabilità generale dello Stato del 1923 e il suo
regolamento di attuazione del 1924; il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti del
1934), si sono aggiunti, nel corso degli anni, molteplici e parcellizzati apporti
Il regime di diritto intertemporale è dettato dall’art. 2 dell’allegato 3 al decreto legislativo n. 174 cui si
rinvia per gli aspetti di maggior dettaglio. E’ prevista, tra l’altro, l’immediata applicazione ai giudizi e alle
istruttorie in corso alla data di entrata in vigore del codice, fatti salvi gli atti già compiuti che restano
disciplinati dal regime previgente.
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riformatori, che hanno compromesso l’unità e la coesione del tutto.
La giurisdizione contabile risentiva di questa situazione.
Il centro della sua disciplina continuava a essere rappresentato dal
regolamento di procedura di cui al regio decreto n. 1038 del 1933, con disposizioni
ispirate all’allora vigente codice di procedura civile del 1865.
Soltanto l’intelligenza operativa della giurisprudenza e la laboriosità
esegetica degli interpreti hanno reso possibile il difficile adeguamento di tale
disciplina al mutato contesto processuale, grazie anche alla previsione, contenuta
nell’articolo 26 del medesimo regolamento di procedura, del c.d. “rinvio dinamico”
alle norme del codice di procedura civile “in quanto compatibili”.
Tale rinvio è stato, infatti, inteso nei termini di un rinvio mobile, consentendo
di superare discipline non più attuali e di riempire i vuoti normativi attraverso
l’applicazione dei principi e delle norme processuali vigenti.
Esemplare, sotto questo profilo, è stata l’opera, compiuta dalla Corte
costituzionale, dalla Corte di Cassazione quale giudice regolatore della giurisdizione
e dalla stessa magistratura contabile, di adeguamento del processo contabile ai
principi del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 della Costituzione.
A tali principi, del resto, il nuovo Codice espressamente si richiama (i principi
della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo) con una norma
contenuta – non a caso – tra i “Principi generali”, in cui è enunciato anche
l’importante principio della reciproca collaborazione tra il giudice contabile e le
parti al fine della realizzazione della ragionevole durata del processo (art. 4).
Alla ragionevole durata è strumentale anche il dovere del giudice, del
pubblico ministero e delle parti di redigere gli atti in maniera chiara e sintetica (art.
5) così come l’affermazione del principio della concentrazione delle tutele erariali
davanti al Giudice contabile (art. 3), strumentale alla realizzazione dell’effettività
della sua giurisdizione (art. 5).
1.1.2 Una base di partenza.
Un primo merito del Codice è dunque quello di restituire alla disciplina dei
giudizi davanti alla Corte dei conti l’organicità perduta nel tempo.
Pur se non ci si può esimere dal criticare alcune sue “incongruenze”, anche in
fase applicativa, su cui sembra opportuno che il Legislatore possa tornare in sede
“correttiva”, non può essere disconosciuto che il Codice costituisce comunque una
base di partenza effettiva e vigente per tutte le riflessioni e le osservazioni che
l’evoluzione dinamica e la creatività del pensiero giuridico riusciranno a concepire.
Si ha quindi oggi un basamento sul quale la nostra giurisprudenza saprà
costruire i suoi solidi edifici concettuali, che, grazie alla presenza di un Codice, si
profileranno non più quali astrazioni da un coacervo di disposizioni, incerto nei suoi
stessi confini attuativi, quanto piuttosto come attuazione concreta di un sistema
processuale moderno, materiato dei principi attinenti al valore costituzionale del
giusto processo (art. 111 Cost.) e specificamente dedicato al Giudice contabile.
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Attraverso la sistematicità, poc’anzi delineata, si profila un secondo valore
prodotto dal Codice e che rimanda all’età delle “grandi codificazioni”: assicurare la
certezza del diritto e del processo che si celebra davanti alla Corte dei conti.
Un valore, quello della certezza, che non è soltanto un parto spontaneo della
tradizionale “forma-codice” ma che è anche – se non soprattutto – la risposta a
un’esigenza particolarmente avvertita oggi, a tutti i livelli, nella delicata fase di
transizione che stiamo vivendo e che interessa gli ordinamenti contemporanei.
Il Codice, sotto questo profilo, non rappresenta un semplice strumento
tecnico di riorganizzazione del diritto, ma assume un valore simbolico forte e
basilare.
Esso contiene il messaggio del legislatore dei nostri giorni che la funzione
giurisdizionale della Corte dei conti rappresenta un elemento fondamentale per il
buon funzionamento del sistema amministrativo secondo la direttrice valoriale
consacrata dall’art. 103, secondo comma, della Costituzione, che attribuisce alla
giurisdizione della Corte dei conti le materie di contabilità pubblica e le altre
specificate dalla legge.
1.1.3 Tante le novità del Codice.
Ci si limiterà, per ovvie esigenze di sintesi, ad alcuni cenni riguardanti per lo
più i giudizi di primo grado nei quali interviene a vario titolo il pubblico ministero
contabile, le cui funzioni hanno trovato nel Codice un generale riconoscimento
nell’articolo 12, che, nel rispecchiare l’attuale assetto ordinamentale, restituisce una
duplice articolazione, territoriale e funzionale, dell’unitario ufficio di Procura: con
l’attribuzione del compito di esercitare le funzioni del pubblico ministero
rispettivamente alle Procure Regionali davanti alle Sezioni giurisdizionali regionali
e alla Procura Generale davanti alle Sezioni riunite e alle Sezioni centrali d’appello
in Roma e con la previsione che il Procuratore Generale coordini l’attività dei
Procuratori Regionali e questi ultimi quella dei magistrati assegnati alle rispettive
Procure.
1.1.3.1
La fase preprocessuale
Un primo profilo di novità, che si intende sottolineare, riguarda la disciplina
della fase preprocessuale dei giudizi di responsabilità (contenuta nel Titolo I della
Parte II del Codice, specificamente dedicato alla “Fase preprocessuale”).
Nel colmare un parziale vuoto normativo, che aveva riguardato le modalità
di esercizio dei poteri istruttori, attribuiti al pubblico ministero contabile prima
dall’art. 74 del Testo unico del 1934 (r.d. n. 1214/1934) e poi dalle riforme degli anni
’90 del secolo scorso (art. 16 del decreto-legge n. 152/1991, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 203/1991; articoli 2, comma 4, e 5, comma 6, del
decreto-legge n. 453/1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 19/1994), il
Codice, in attuazione di uno specifico criterio di delega, ha introdotto una puntuale
e dettagliata disciplina di tali poteri, prevedendo, in parallelo, una fitta rete di
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garanzie difensive.
Emblematica della scelta “garantista” è la disposizione contenuta
nell’articolo 55 secondo cui il pubblico ministero, oltre a compiere ogni attività utile
al fine di acquisire elementi necessari all’esercizio dell’azione erariale, svolge altresì
accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona individuata come presunto
autore del danno. Una norma che potrebbe, a una prima lettura, apparire superflua,
giacché l’esperienza mostra come mai il divenire dell’azione di responsabilità sia
stato, in concreto, legato alle cadenze di un ottuso segno persecutorio, ovvero
implicita nel ruolo di “parte imparziale” e di “garante di giustizia” tradizionalmente
riconosciuto al pubblico ministero, ma che, in realtà, consente di individuare la ratio
profonda soggiacente al complessivo intervento codificatore: ampliare il tema delle
garanzie nella disciplina della giurisdizione contabile, collocandola entro l’assetto
normativo del “giusto processo”, che, anche, nella tutela delle ragioni dell’erario, si
pone quale valore irrinunciabile (il riferimento è, ancora una volta, ai principi
enunciati in apertura del Codice e in particolare nell’articolo 4).
Con questa chiave di lettura si spiegano le norme, che, con specifico riguardo
alla fase preprocessuale, hanno esteso le garanzie di difesa del presunto responsabile.
Vengono così in rilievo: la necessità che tutti gli atti istruttori del pubblico
ministero siano motivati, con la sanzione della nullità nei casi di omessa o apparente
motivazione (art. 65); la disciplina delle audizioni personali (art. 60), che prevede la
possibilità (in realtà garantita anche in precedenza) per il soggetto da sentire di farsi
assistere da un difensore di fiducia e di non rispondere a domande su fatti dai quali
potrebbe emergere una sua personale responsabilità (in applicazione del principio
generale “nemo tenetur se detegere”); la disciplina innovativa del sequestro
documentale (art. 62), con la previsione che all’esecuzione della misura possa
assistere il responsabile dell’area legale dei soggetti presso i quali si compie il
sequestro, se prontamente reperibile (comma 2, secondo periodo), nonché di una
fase eventuale di reclamo alla competente Sezione giurisdizionale avverso il
provvedimento del pubblico ministero che ha disposto la misura (commi 7 e 8); il
divieto per il pubblico ministero di svolgere attività istruttoria successivamente alla
notificazione dell’invito a dedurre, salvo quella resa necessaria dalle
controdeduzioni del soggetto invitato (art. 67, comma 7).
In questo Titolo I, una norma importantissima è dettata in tema di
prescrizione, che, in realtà, è istituto più vicino al diritto sostanziale.
Tuttavia, anche in questo caso in attuazione di uno specifico criterio di
delega, l’articolo 66 del Codice disciplina gli atti interruttivi del termine
prescrizionale, prevedendo una sola interruzione attraverso l’emissione dell’invito a
dedurre o di formale atto di costituzione in mora ai sensi degli articoli 1219 e 2943
del codice civile.
A seguito dell’interruzione, al tempo residuo per raggiungere l’ordinario
termine quinquennale si aggiunge un periodo massimo di due anni con la
conseguenza che il termine complessivo di prescrizione non può superare i sette anni.
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Il decorso della prescrizione è comunque sospeso per tutta la durata del processo.
Ai sensi dell’art. 2, comma 2, delle norme transitorie (Allegato 3 del Codice),
le disposizioni in materia di prescrizione si applicano ai fatti e alle omissioni
successivi alla data del 7 ottobre 2016, ossia alla data di entrata in vigore del codice.
1.1.3.2 Il giudizio di responsabilità.
Con riguardo alla disciplina del giudizio di responsabilità, la numerosità degli
aspetti innovativi è tale da non consentire un esame esaustivo in questa sede.
Ci si limiterà, perciò, a indicare, tra le tante, l’ulteriore riprova della
particolare attenzione del legislatore delegato al tema delle “garanzie”.
Sull’intricato e controverso tema del rapporto tra invito a dedurre e citazione in
giudizio e delle alternative emendatio (consentita)/mutatio libelli (vietata), l’art. 87
del Codice contiene una norma che contempla apertis verbis la sanzione della nullità
della citazione nel caso di mancata corrispondenza tra i fatti indicati dalla citazione
stessa e «gli elementi essenziali del fatto esplicitati nell'invito a dedurre, tenuto conto
degli ulteriori elementi di conoscenza acquisiti a seguito delle controdeduzioni».
Nel percorso interpretativo già tracciato dalla giurisprudenza, che aveva
sottolineato come la citazione non potesse condurre a un’ipotesi di danno totalmente
differente da quella prospettata nell’invito, con un intollerabile effetto “sorpresa”
in danno del convenuto, la disposizione in esame individua un punto di equilibrio,
reso palese dall’evidenziazione della necessità che il giudice tenga conto degli
elementi di conoscenza acquisiti nella dialettica preprocessuale.
Se si rammenta il divieto, poco sopra richiamato, di svolgere indagini
successive alla notifica dell’invito, salvo quelle imposte dagli ulteriori elementi di
fatto emersi dalle controdeduzioni (art. 67, comma 7), in controluce emerge la
funzione istituzionale del pubblico ministero.
L’art. 87, in buona sostanza, fa in modo che la coerenza tra invito e citazione
sia rinsaldata da un’effettiva valutazione di tutte le risultanze della dialettica
preprocessuale, che, lungi dall’essere un mero passaggio formale, sempre più rende
necessario un solido giudizio prognostico sulla sufficienza degli elementi raccolti «a
sostenere in giudizio la contestazione di responsabilità» (arg. a contrario dall’art. 69
che, per il caso dell’insufficienza, impone l’archiviazione dell’istruttoria).
Un’attenzione particolare il Codice ha poi dedicato alla disciplina dei “riti
speciali”, tra i quali si segnala la rilevante novità del “rito abbreviato” (art. 130),
modellato sul rito processualpenalistico dell’applicazione della pena su richiesta
delle parti, in quanto prevede, pur con qualche aporia che potrà essere superata in
sede di correttivo, la possibilità per il convenuto di proporre al collegio, previo
concorde parere del pubblico ministero, la definizione immediata del giudizio con il
pagamento di una somma non superiore al 50 o al 70 per cento della pretesa
risarcitoria rispettivamente in primo o in secondo grado.
Inoltre, sempre tra i “riti speciali”, la soglia di ammissibilità del “rito
monitorio”, già previsto dalla disciplina previgente, è stata elevata ad addebiti di
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importo non superiore a diecimila euro (rispetto ai cinquemila euro della vecchia
disciplina).
A conferma della natura patrimoniale della responsabilità amministrativa,
come sottolineato anche nella nota sentenza Rigolio c. Italia del 13 maggio 2014
(ricorso n. 20148/09), con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, respingendo
l’asserita assimilazione con il caso “Grande Stevens”, ha precisato che il giudizio
davanti alla Corte dei conti serve unicamente a riparare un pregiudizio economico e
ha pertanto natura risarcitoria e non punitiva, trova ora collocazione tra i “riti
speciali” la disciplina dei procedimenti di applicazione delle sanzioni pecuniarie nei
soli casi specificamente previsti dalla legge.
Questi sono configurati secondo una struttura bifasica – una prima fase, che
può svolgersi anche inaudita altera parte, su impulso del pubblico ministero (artt.
133-134), una seconda c.d. “di opposizione”, in cui l’interessato può far valere le sue
doglianze davanti alla sezione giurisdizionale competente (art. 135) – tipica dei
procedimenti sommari di cognizione a prevalente funzione esecutiva, come accade,
nel processo civile, per il procedimento d’ingiunzione in cui ad una fase senza
necessità di contraddittorio fa seguito una fase (eventuale) di opposizione.
1.1.3.3 Il giudizio sui conti
La medesima struttura “a due tempi” è ripresa, nel Codice di giustizia
contabile, anche per i giudizi per la resa di conto (artt. 141-144) nei quali pure
predomina l’esigenza di una pronta e tempestiva esecuzione dell’adempimento di
rendicontazione.
Attraverso quest’ultima tipologia di giudizi, come è noto, il pubblico
ministero, di iniziativa ovvero, ora, anche su segnalazione dei competenti uffici o
degli organi di controllo interno dell’amministrazione interessata (art. 141, comma
1), può chiedere al giudice monocratico che sia assegnato un termine al contabile
inadempiente per il deposito del conto.
Nel caso di inutile decorso del termine, il giudice dispone, con decreto
immediatamente esecutivo, la compilazione d’ufficio del conto, a spese dell’agente
contabile, e lo condanna a una pena pecuniaria (art. 141, comma 6).
Se, nel corso del giudizio per la resa del conto, risulta che l’agente contabile
ha già presentato il conto alla propria amministrazione, che non lo ha
tempestivamente trasmesso alla Corte dei conti, il conto è acquisito d’ufficio dal
giudice monocratico, che commina la sanzione al responsabile del procedimento, di
cui si dirà subito appresso (art. 141, comma 7).
Con riguardo infatti ai giudizi diretti all’esame del conto, il Codice istituisce
l’Anagrafe degli agenti contabili, ossia dei soggetti tenuti alla resa di conto giudiziale,
rendendola accessibile anche al pubblico ministero contabile, che potrà accertare
direttamente, attraverso questo prezioso canale informativo, il tempestivo
adempimento da parte di ogni contabile dell’obbligo fondamentale di resa del conto
annuale della sua gestione (art. 138) ed eventualmente attivare, in caso di
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inadempienza, il già descritto giudizio per la resa di conto.
Come detto, è ora espressamente prevista dal Codice l’individuazione, da
parte di ciascuna amministrazione, di un responsabile del procedimento di verifica
e controllo amministrativo del conto, incaricato anche, previa parificazione, della
sua trasmissione alla sezione giurisdizionale territorialmente competente nel
termine di trenta giorni dall’approvazione (art. 139).
Il deposito del conto presso la segreteria della Sezione giurisdizionale
costituisce l’agente in giudizio e apre una prima fase di esame giudiziale, a carattere
istruttorio-sindacatorio, in quanto caratterizzata dalla mancanza di un effettivo
contraddittorio con l’agente contabile da parte del magistrato designato come
relatore, che continua a porsi come unico e solitario dominus di tale fase accertativa
della regolarità del conto (artt. 140 e 145).
Nel caso di dubbi su detta regolarità si ha una successiva fase a
contraddittorio pieno, attuato attraverso la fissazione di un’udienza per la
discussione sul conto (art. 147). E’ prevista la facoltà per l’agente contabile di essere
presente all’udienza e di essere anche ascoltato direttamente dal collegio per fornire
chiarimenti, con il solo limite di non poter svolgere difese orali senza il patrocinio di
un legale. L’amministrazione interessata può partecipare all’udienza per il tramite
di un funzionario appositamente delegato (art. 148).
1.1.4 Una considerazione finale sul Codice.
Sull’impianto complessivo del Codice di giustizia contabile sembra opportuna
una considerazione finale, che, tuttavia, come si diceva all’inizio, non può essere
considerata conclusiva, ma soltanto uno spunto per ulteriori e più meditate
riflessioni.
Parafrasando una celeberrima poesia di Montale, non è questo il momento
per chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo ancora informe di un Codice
appena nato e dunque privo di un adeguato periodo di “metabolizzazione” e di
applicazione pratica.
Con questa doverosa precisazione epistemologica e con lo sguardo rivolto alla
disciplina dei giudizi di responsabilità amministrativa, la considerazione è che il
Codice sembra non risolvere, in limine actionis, la scelta tra un modello processuale
civilistico, pienamente improntato al principio dispositivo e dunque rimesso alla
libertà delle parti, anche con riguardo alle prove da ricercare nella fase che precede
l’esercizio della pretesa erariale con il deposito dell’atto di citazione, e un modello
processuale di stampo più prettamente penalistico, in cui la preoccupazione di
assicurare adeguate garanzie difensive appare predominante con la previsione di
nullità e di una dettagliata disciplina dell’esercizio dei poteri istruttori del pubblico
ministero contabile in un assetto normativo sempre più aperto, già nella fase
preprocessuale, all’intervento del presunto responsabile e della sua difesa.
Se, tuttavia, per riprendere le parole della giurisprudenza di Strasburgo, la
responsabilità amministrativa è istituto più vicino alla responsabilità patrimoniale
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che non a quella punitiva, sembra che una più decisa direzione possa essere
intrapresa, almeno a livello interpretativo, nel senso di marcia indicato dal codice
di procedura civile, cui il Codice di giustizia contabile, pur non riproducendo la
clausola di “rinvio dinamico”, contenuta nell’art. 26 del previgente regolamento di
procedura e di cui ho fatto cenno all’inizio, resta tributario, giacché, per quanto da
esso non disciplinato, trovano applicazione, a termini dell’art. 7, le disposizioni del
codice di procedura civile se e in quanto espressive di principi generali.
1.2 IL TESTO UNICO IN MATERIA DI SOCIETA’ PARTECIPATE
Come sopra anticipato, c’è un’ulteriore importante novità legislativa del 2016
recata dall’attuazione di un’altra delle deleghe legislative contenute nella legge n.
124 del 2015, in quanto di potenziale notevole impatto sulla responsabilità
amministrativa.
Il riferimento è al testo unico di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n.
175, in materia di società a partecipazione pubblica e, in particolare, al suo articolo
12, che, nell’ambito di una più vasta operazione di riordino, ha declinato il
paradigma della responsabilità degli amministratori e dei dipendenti di tali società
e di quelle c.d. in house, recependo sostanzialmente le conclusioni recenti della Corte
di Cassazione in ordine al riparto tra la giurisdizione ordinaria e quella contabile in
questo delicato settore in cui vengono sovente in evidenza rilevanti interessi
pubblici.
La norma, infatti, ha preferito non includere integralmente le responsabilità
dei soggetti, a vario titolo e ruolo preposti al corretto funzionamento delle società
partecipate, nell’ambito di cognizione del giudice contabile, lasciandoli assoggettati
«alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di
capitali», di competenza del giudice ordinario e di iniziativa della stessa società
danneggiata.
Tuttavia, aggiunge la norma, che la Corte dei conti ha giurisdizione, nei limiti
della quota di partecipazione pubblica, «sulle controversie in materia di danno
erariale», di cui fornisce, al successivo secondo comma, un’esplicita definizione.
Secondo il decreto attuativo, infatti, il danno erariale, in grado di suscitare la
giurisdizione del Giudice contabile, è quello, patrimoniale o non patrimoniale,
subito dagli enti partecipanti, ivi compreso quello determinato dalla condotta dei
rappresentanti degli enti pubblici partecipanti, o comunque dei soggetti muniti del
potere decisorio per conto dei soci pubblici, che abbiano trascurato, con dolo o colpa
grave, di esercitare adeguatamente le proprie prerogative di soci, pregiudicando il
valore della partecipazione.
Dunque, la norma sancisce l’imputabilità del danno erariale non solo ai
rappresentanti delle amministrazioni partecipanti ma anche a quei soggetti che, pur
non rivestendo formalmente tale ruolo, sono titolari del potere di decidere per loro;
tutte queste figure sono responsabili, nei limiti della quota di partecipazione
pubblica, quando abbiano determinato, con la loro condotta commissiva o omissiva
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una perdita della ricchezza posseduta dall’amministrazione attraverso la
partecipazione societaria.
L’unica eccezione a favore della pienezza della giurisdizione della Corte dei
conti è prevista, conformemente ai più recenti orientamenti espressi dalla Corte di
cassazione, per il danno causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società
in house.
La disciplina, contenuta nell’articolo 12, pur potendo consentire
interpretazioni estensive in ordine alla latitudine del danno subito dall’ente
pubblico socio, lascia diversi dubbi esegetici.
Essa può apparire inoltre come un’occasione perduta, non avendo il
legislatore delegato saputo cogliere il suggerimento, autorevolmente espresso dalla
Corte dei conti in sede di audizione davanti alle competenti Commissioni di Camera
e Senato.
Sarebbe stato auspicabile, sottolineava in quella sede la Corte, disporre un
opportuno «accorpamento della giurisdizione in tema di responsabilità patrimoniale di
amministratori e dipendenti di organismi partecipati nell’unico plesso della Corte dei
conti – almeno per le società non quotate e per le quotate a maggioranza di capitale
pubblico – adottando una soluzione chiara ed univoca di riparto della giurisdizione». In
questo modo, non soltanto sarebbe stato più puntualmente rispettato il criterio di
delega posto dalla lettera c) dell’art. 18 della legge n. 124/2015, che richiedeva una
«precisa definizione del regime delle responsabilità degli amministratori delle
amministrazioni partecipanti nonché dei dipendenti e degli organi di gestione e di
controllo delle società partecipate», ma si sarebbe più propriamente – e in linea con la
previsione del richiamato art. 3 del coevo Codice della giustizia contabile –
«garantita la concentrazione delle tutele, con il presidio di una garanzia oggettiva più
efficace, rappresentata dall’obbligatorietà ed officiosità dell’azione contabile, a fronte
dell’eventualità dell’azione civile rimessa e lasciata all’autonoma e solo potenziale
iniziativa dello stesso soggetto danneggiato, nei confronti degli amministratori
responsabili di atti di mala gestio dell’ente partecipato».
1.2.1 La sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2016 e le sue
possibili conseguenze sui decreti attuativi della c.d. “riforma Madia”.
Occorre aggiungere che sul testo unico sopra menzionato incombe il rischio
di una ipotesi di illegittimità costituzionale, sulla scorta dei principi affermati dalla
Corte costituzionale nella recente sentenza n. 251 del 25 novembre 2016, in
riferimento all’esercizio delle deleghe legislative in materia di dirigenza pubblica,
dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, delle
partecipazioni societarie e dei servizi pubblici locali di interesse economico generale
recate dalla legge n. 124 del 2015.
La Corte, infatti, con questa sentenza, ha ritenuto fondate alcune delle
questioni poste dalla Regione ricorrente in via principale in riferimento al principio
di leale collaborazione, reputando le disposizioni impugnate lesive dell’autonomia
9
delle Regioni, il cui apporto è stato circoscritto dalla legge n. 124 all’espressione di
un semplice “parere” in sede di Conferenza unificata, senza prevedere il
raggiungimento della necessaria “intesa” ai fini dell’esercizio delle ridette deleghe
legislative.
E’ vero che la portata della pronuncia di illegittimità è stata dalla Corte
stessa espressamente limitata alle sole «disposizioni di delegazione» della legge n. 124
e non anche alle relative disposizioni attuative, che dovranno essere oggetto di
specifica impugnazione per poterne apprezzare l’effettiva portata lesiva delle
competenze regionali, «anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà
di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione» 2.
Nondimeno, potrebbe essere opportuno valutare, in sede di Conferenza
unificata, anche sulla scorta del parere n. 83/2017 reso dal Consiglio di Stato,
un’adeguata formula di raccordo fra Stato, Regioni e enti locali, al fine di evitare
possibili successivi interventi cassatori del Giudice delle leggi, che, in mancanza,
potrebbero colpire l’intero decreto legislativo n. 175 per l’intreccio di competenze
statali e regionali, che, a giudizio della Corte, caratterizza (anche) il tema del
riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni
pubbliche.3
Preme sottolineare che analoga preoccupazione non tocca il Codice della
giustizia contabile.
Esso riguarda materie di sicura ed esclusiva competenza statale, non
ricorrendo al riguardo quell’ipotesi di una concorrenza di competenze, che ha
determinato la Corte a giungere, nella sentenza appena citata, alla pronuncia di
illegittimità per violazione del principio di leale collaborazione con il sistema delle
autonomie.
Una riprova di ciò si rinviene nel differente iter procedurale delineato dal
legislatore delegante per l’attuazione dell’una e delle altre deleghe.
Infatti, mentre l’adozione del Codice della giustizia contabile ha ricalcato il
procedimento già seguito per l’adozione del Codice del processo amministrativo (art.
44 della legge n. 69/2009), senza prevedere alcun coinvolgimento di Regioni e enti
locali,4 diverso è stato il percorso prefigurato per l’esercizio delle deleghe di
semplificazione, per le quali l’articolo 16 della legge n. 124 ha previsto, tra l’altro,
Così infatti il punto 9. del Considerato in diritto della sentenza citata.
Indicazioni in questo senso sembrano provenire dal punto 7. del Considerato in diritto in cui la Corte affronta
la questione promossa nei confronti della delega in materia di società a partecipazione pubblica giudicandola
fondata in riferimento alla violazione del principio di leale collaborazione sulla base di argomentazioni
analoghe a quelle già svolte con riguardo alle altre questioni.
4 L’art. 20 della legge n. 124/2015 ha previsto l’elaborazione del testo da parte di una Commissione istituita
ad hoc presso il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri,
presieduta dal Capo del medesimo Dipartimento e composta da magistrati della Corte dei conti, esperti
esterni e rappresentanti del libero Foro e dell’Avvocatura generale dello Stato. Sullo schema così predisposto
sono stati acquisiti i pareri delle Sezioni riunite della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 1 del regio decretolegge 9 febbraio 1939, n. 273, convertito dalla legge 2 giugno 1939, n. 739, e, successivamente, delle
competenti Commissioni parlamentari.
2
3
10
l’acquisizione del parere della Conferenza unificata (poi oggetto delle censure di cui
alla ridetta sentenza n. 251, che, come si è visto, lo ha ritenuto insufficiente a
garantire gli interessi degli enti autonomi).
2.- LE NOVITA’ GIURISPRUDENZIALI IN TEMA DI
GIURISDIZIONE CONTABILE
Si procede, di seguito, ad una breve disamina dei più significativi arresti, in
tema di giurisdizione contabile, compiuti nel 2016 da parte della Corte
costituzionale, delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e delle Sezioni Riunite
della Corte dei conti.
2.1
La giurisprudenza della Corte costituzionale.
La Corte costituzionale si è occupata, nel 2016, delle attribuzioni
giurisdizionali della Corte dei conti nell’ordinanza n. 166 del 7 luglio 2016, con cui,
in camera di consiglio e senza contraddittorio, ha dichiarato ammissibile il ricorso
per conflitto di attribuzione proposto dal Consiglio superiore della magistratura nei
confronti di una nota del Presidente della Sezione giurisdizionale per la Regione
Lazio e di una successiva sentenza n. 70 del 2016 della medesima Sezione.
La Corte dei conti aveva, con gli atti impugnati, dichiarato gli agenti
contabili, operanti presso il CSM, assoggettati alla sua giurisdizione e al conseguente
giudizio di conto, ma il CSM ha ravvisato, in tali decisioni, una lesione della propria
sfera di autonomia costituzionale, ritenendosi, quale organo di rilievo
costituzionale, sottratto agli obblighi di rendicontazione al giudice contabile.
Si tratta, come detto, di una valutazione preliminare e interlocutoria che non
pregiudica ogni successiva decisione della Corte costituzionale al riguardo.
Per quanto non direttamente concernenti l’ambito giurisdizionale, è
opportuno segnalare, altresì, le sentenze n. 104 e n. 260, che hanno respinto,
dichiarandoli in parte inammissibili e in parte infondati, due ricorsi per conflitto di
attribuzione tra enti, proposti dalla Regione Veneto, nei confronti di deliberazioni
della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, che hanno dichiarato
l’irregolarità dei rendiconti presentati dai gruppi consiliari regionali per gli esercizi
finanziari 2013 e 2014.
In queste sentenze, la Corte ha delimitato, sotto il profilo oggettivo, l’ambito
di cognizione rimesso al Giudice del controllo, osservando come le censurate
richieste di chiarimenti e di integrazione documentale e il lamentato controllo
analitico della documentazione prodotta dai gruppi a supporto dei rendiconti
costituissero nient’altro che lo strumento indicato dal legislatore, oltre che
logicamente necessario, per valutare l’inerenza delle spese ai fini istituzionali.
Dunque, la doverosa attività di verifica dell’attinenza e della coerenza delle
11
spese con le funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari non comporta alcun
sindacato di merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei
gruppi stessi.
In questi casi, infatti, è operato dalla Corte dei conti un controllo confacente
ai comuni e generali principi contabili in quanto «finalizzato ad accertare la
conformità delle spese rendicontate ai criteri di veridicità e correttezza».5
Si tratta di decisioni importanti, suscettibili di ricadute, per i principi
affermati, anche con riferimento al tema dei danni erariali derivanti dalla illecita
gestione dei fondi pubblici assegnati ai gruppi consiliari nell’ambito delle assemblee
regionali.
Nel corso del 2016, sono stati discussi davanti alla Sezione giurisdizionale
regionale per l’Emilia Romagna molti dei giudizi avviati nel 2015 dalla Procura
Regionale su analoghe vicende gestionali che hanno riguardato i gruppi presenti
nell’Assemblea regionale nella scorsa legislatura e dei quali si è in attesa delle
relative decisioni di merito.
2.2 La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
L’ampiezza della latitudine della giurisdizione contabile, in grado di
ricomprendere ogni ipotesi di gestione di risorse pubbliche, ha trovato, nel 2016,
ulteriore conferma nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione.
Sotto questo privilegiato angolo di visuale meritano di essere segnalate
alcune importanti pronunce.
Innanzitutto, con la recente ordinanza n. 24737 del 5.12.2016, le Sezioni
Unite hanno accolto l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione proposta
dalla Procura Regionale presso la Sezione giurisdizionale per il Piemonte. La
fattispecie riguardava la configurabilità di un danno erariale sofferto da una società
interamente partecipata dalla Regione Piemonte, svolgente le funzioni di centrale di
committenza ma avente veste formale privatistica di società per azioni.
Le Sezioni Unite, nell’affermare la sussistenza della giurisdizione contabile,
hanno argomentato dall’origine legale della società (avvenuta in attuazione di legge
regionale con atto della giunta regionale e non sulla base di un atto negoziale iure
privatorum), dalle finalità per le quali la medesima è stata costituita, aventi
indubbio rilievo pubblicistico essendo relative alla gestione delle procedure di
evidenza pubblica di pertinenza della Regione e di altri enti pubblici o degli
organismi di diritto pubblico presenti sul territorio regionale (centrale di
committenza), nonché dalle caratteristiche strutturali come evincibili dall’atto
costitutivo e dallo statuto.
Il principio di diritto, affermato dall’ordinanza n. 24737, è dunque molto
importante, anche per l’intrinseca novità della fattispecie affrontata.
5
Così il punto 5. del Considerato in diritto della sentenza n. 260/2016.
12
La sussistenza della giurisdizione contabile non è stata infatti affermata sul
presupposto che la società in questione avesse i requisiti della società in house, in
quanto non costituita per l’esercizio di servizi pubblici, quanto piuttosto ritenendo
l’esistenza di un soggetto solo formalmente societario, che, «sia per le modalità della
sua origine e della sua costituzione avvenute per legge, sia per le caratteristiche della sua
struttura organizzatoria ed operativa, emergente dalla legge regionale che ne dispose la
costituzione e dal modo in cui le sue prescrizioni risultano trasfuse nel suo statuto,
presenta particolarità strutturali ed operative tali da giustificare la considerazione della
sua soggettività […] come quella di un ente pubblico regionale».6
Con la decisiva conseguenza, per i fini che qui interessano, che si è al cospetto
di soggetto, che, tramite i suoi amministratori e dipendenti, in ragione della sua
struttura e delle modalità del suo agire, deve operare con le regole proprie dell’ente
pubblico sicché ogni condotta, suscettibile di arrecare un danno al patrimonio
societario, rileva sul piano della responsabilità amministrativa perché viene a
incidere sull’integrità di un patrimonio sostanzialmente pubblico.
Un altro significativo passo nell’indicata direzione ampliativa è stato
compiuto dalle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 17748 dell’8.9.2016, che ha
qualificato l’Istituto di Previdenza e Assistenza per i dipendenti del Comune di Roma
(I.P.A.) come un’amministrazione autonoma collegata a Roma Capitale, in quanto
istituzione, sorta per provvedimento autoritativo dell’allora Governatore di Roma,
deputata alla tutela di un interesse dichiaratamente pubblicistico, quello di
assicurare un maggior benessere dei dipendenti e soggetti assimilati in funzione del
miglior funzionamento dell’amministrazione capitolina.
Su tale presupposto, le Sezioni Unite hanno affermato che il patrimonio
dell’I.P.A., ancorché dotata di una propria peculiare soggettività, deve essere
gestito, indipendentemente dalla provenienza delle sue singole componenti, con
criteri rispondenti alla migliore realizzazione dell’interesse pubblico, senza poter
essere utilizzato per altre ragioni.
Ne consegue che le persone fisiche, che rivestano cariche nei suoi organi di
gestione o che siano membri del suo organo interno di controllo, sono tenute,
rispettivamente, onde non incorrere in responsabilità per danno erariale, ad
amministrare quel patrimonio uniformandosi ai doveri che ha un agente contabile e
ad esercitare la vigilanza anche controllando che quei doveri vengano rispettati e
che sussiste nei confronti delle condotte causative di danno sia delle une che delle
altre la giurisdizione del giudice contabile.
La giurisdizione contabile ha trovato poi nel giudice regolatore della
giurisdizione anche un ampliamento nella logica della predominanza funzionale
rispetto agli ambiti di concorrenti giurisdizioni.
Si fa riferimento, in particolare, alla prevalenza della giurisdizione della Corte
6
Così a pag. 30 dell’ordinanza citata.
13
dei conti su quella del giudice fallimentare affermata dall’importante sentenza n.
23302 del 16.11.2016, con cui le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno
precisato che la cognizione della domanda, con la quale il curatore di una società
concessionaria del servizio di riscossione delle imposte, poi fallita, chiede
l’accertamento della spettanza alla massa fallimentare delle somme riscosse e
depositate presso la Cassa Depositi e Prestiti, spetta alla giurisdizione della Corte
dei conti, che si configura, in base alle norme degli artt. 13 e 44 del r.d. n. 1214 del
1934 ed alle successive di cui al d.P.R. n. 603 del 1973 ed al d.P.R. n. 858 del 1963,
come l’autorità giurisdizionale funzionalmente deputata alla verifica dei rapporti di
dare ed avere tra esattore delle imposte ed ente impositore e del risultato contabile
finale di detti rapporti, superando la competenza del giudice fallimentare.
L’ambito oggettivo della giurisdizione contabile con riguardo alla gestione di
finanziamenti pubblici, ottenuti da una società privata per la realizzazione di un
importante programma di bonifica, è stato confermato dalla sentenza 13 giugno
2016, n. 12086, che ha ritenuto sussistente la giurisdizione contabile nei confronti di
una società privata e dei suoi dirigenti, già condannati dalla Corte dei conti, con
sentenza confermata in appello, per la negligente utilizzazione del denaro pubblico
in quanto tradottasi nella realizzazione non a regola d’arte della bonifica.
Nel richiamare propri consolidati precedenti, la Corte di Cassazione ha
osservato che sussiste il rapporto di servizio, idoneo a radicare la giurisdizione
contabile, ogniqualvolta un ente privato esterno all’amministrazione pubblica venga
incaricato di svolgere, nell’interesse di quest’ultima e con risorse pubbliche,
un’attività o un servizio pubblico per suo conto.
In questo quadro di riferimento, non assume rilievo, ai fini della giurisdizione,
che il finanziamento, di origine eurounitaria, sia stato formalmente erogato, come
nel caso di specie, in favore della Regione, che lo ha poi girato, quale corrispettivo,
alla società convenuta, stante il rilievo decisivo che esso è stato poi utilizzato per
l’attività di bonifica dell’area demaniale concessa alla società.
Né è apparso esimente al Giudice regolatore della giurisdizione il filtro
formale di un contratto di appalto tra la società e la Regione in quanto il rapporto
contrattuale si inseriva comunque in un progetto di riqualificazione complessiva di
una zona, inquinata da cromo per effetto dell’attività produttiva svolta dalla
società stessa, rientrante sicuramente nella funzione pubblica dell’ente territoriale.
Il tema del riparto della giurisdizione in materia di responsabilità di
amministratori e dipendenti di società partecipate da enti pubblici, oggetto di varie
pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione negli ultimi anni e che, come
sopra evidenziato, sono state recepite, nella loro linea evolutiva, anche dal recente
testo unico in materia (art. 12 cit.), è proseguito anche nel corso del 2016, senza
divaricazioni dal sentiero interpretativo già tracciato.
In questo solco, infatti, si pone la sentenza n. 21692 del 27.10.2016 con cui le
Sezioni Unite della Cassazione hanno negato, con riguardo a una società interamente
14
partecipata da Comuni ma non avente i requisiti di una società in house, la
configurabilità di una responsabilità amministrativa dell’amministratore delegato,
non essendo configurabile alcun rapporto di servizio tra l’amministratore della
società partecipata e gli enti pubblici azionisti.
Questo perché, secondo la Suprema Corte, il pregiudizio patrimoniale,
derivante dalla sua eventuale mala gestio, si riferisce soltanto al patrimonio della
società, che è soggetta a regole privatistiche e dotata di autonoma e distinta
personalità giuridica rispetto alle amministrazioni comunali, socie della stessa.
In questa sentenza, le Sezioni Unite hanno tuttavia ritenuto ipotizzabile la
responsabilità amministrativa dei Sindaci dei Comuni soci, che non abbiano
esercitato i poteri ed i diritti sociali spettanti al socio pubblico al fine di indirizzare
correttamente l’azione degli organi sociali o di reagire opportunamente ai loro
illeciti, in relazione ai quali non vale la distinzione tra danno diretto ed indiretto per
l’ente locale, occorrendo fare riferimento al danno concretamente imputabile agli
enti di cui sono rappresentanti.
Merita di essere sottolineato il seguente passaggio motivazionale:
«Nell’attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della Corte
contabile è rappresentato dall’evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica
amministrazione e non più dal quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si
colloca la condotta produttiva del danno», con la decisiva conseguenza che si esercita
attività pubblica – e si è quindi assoggettati alla giurisdizione contabile per i danni
direttamente cagionati all’ente pubblico in conseguenza delle azioni o omissioni
poste in essere in tale contesto di riferimento – «non solo quando si svolgono pubbliche
funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento,
si perseguono le finalità istituzionali proprie dell’amministrazione pubblica mediante
un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato».7
Nella medesima linea interpretativa si colloca l’ordinanza n. 7293 del
13.4.2016, che ha negato la sussistenza della giurisdizione contabile nei confronti di
una società per azioni di cui non ha ravvisato i requisiti della società in house
(essendo partecipata anche da soggetti privati, ed essendo comunque
statutariamente prevista l’alienabilità delle partecipazioni sociali a soggetti privati,
nonché in ragione della chiara natura imprenditoriale-commerciale del suo oggetto
sociale), né la contestazione di comportamenti direttamente riferibili al patrimonio
dell’ente pubblico socio.
A conclusioni non dissonanti da quanto appena sopra rilevato si pone anche
l’ordinanza n. 14040 dell’8.7.2016 che ha sì riconosciuto la sussistenza della
giurisdizione contabile nei confronti di dirigenti e amministratori di una società
partecipata dal Comune di Roma ma sul presupposto della qualificazione della
società stessa come società in house.
7
Così a pag. 4 della sent. n. 21692 cit..
15
Di questa ordinanza merita comunque di essere segnalato il passaggio
argomentativo con cui la Suprema Corte precisa che del danno cagionato al
patrimonio di una società in house possono essere chiamati a rispondere davanti alla
Corte dei conti non soltanto coloro che, quali organi sociali apicali, hanno potestà
decisoria finale, ma anche tutti quelli che, a vario titolo, hanno concorso a
determinare il danno, anche se esterni alla struttura societaria, purché sia predicabile
nei loro confronti l’inserimento, seppure in via temporanea, all’apparato
organizzativo pubblico, di cui la società in house è espressione.8
Con l’ordinanza n. 14792 del 19.7.2016, le Sezioni Unite hanno riconosciuto
la legittimazione del Procuratore regionale all’esercizio dell’azione revocatoria
davanti agli organi della giurisdizione contabile, pur non escludendo la spettanza
all’amministrazione danneggiata, come a qualsiasi creditore, dell’azione revocatoria
davanti al giudice ordinario.
Il che pone sicuramente un problema di coordinamento dell’eventuale
concorso delle giurisdizioni – quella del giudice contabile e quella del giudice
ordinario – che possono essere attivate sulla base di una medesima situazione
creditoria legittimante.
Tuttavia, le Sezioni Unite hanno preferito affidare lo scioglimento di tali nodi
interpretativi ai giudici di volta in volta adìti, nell’ambito della valutazione delle
condizioni di ammissibilità e fondatezza dell’azione revocatoria esercitata davanti
a essi.
Si tratta, infatti, secondo l’avviso espresso dalla Suprema Corte, di questioni
rilevanti all’interno dell’esercizio di ciascuna giurisdizione, che non attengono cioè
ai loro rispettivi confini esterni.
Da ultimo, merita di essere segnalata l’ordinanza n. 19072 del 28.9.2016, che,
con riguardo a un tema di attualità, anche nei giudizi di responsabilità, ha
riconosciuto la possibilità per l’amministrazione interessata di adire direttamente il
giudice ordinario per ottenere il versamento dei compensi percepiti dal suo
dipendente in assenza di previa autorizzazione allo svolgimento di incarichi
retribuiti presso terzi, in relazione a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della
legge “anticorruzione” n. 190 del 2012 e per i quali non siano dedotte conseguenze
dannose per l’amministrazione di appartenenza.
Come è noto, la fattispecie è ora compiutamente disciplinata dall’art. 53,
comma 7 bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001, inserito appunto dalla
richiamata legge n. 190, il quale prevede che: «L’omissione del versamento del
compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di
Il principio di diritto, che si trova affermato a pag. 8 della citata ord. n. 14040, ha così condotto la Corte di
Cassazione ad affermare la sussistenza della giurisdizione contabile anche nei confronti del legale
rappresentante di un consorzio legato contrattualmente alla società in house per la prestazione di servizi
inerenti alla selezione, formazione e inserimento del suo personale, ravvisando, nel caso di specie, la
partecipazione determinante del soggetto in questione alla produzione del danno alla società in house.
8
16
responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti», non residuando
dubbi sulla sussistenza della giurisdizione contabile anche per tali vicende, definite,
dalle Sezioni unite nell’ordinanza appena segnalata, a vocazione latamente
sanzionatoria, introdotte cioè allo scopo di rafforzare la fedeltà del dipendente
pubblico e quindi prescindendo dai presupposti della responsabilità per danno
(evento; nesso di causalità; elemento psicologico).
2.3
La giurisprudenza delle Sezioni Riunite della Corte dei conti
Per quanto attiene alla giurisprudenza delle Sezioni Riunite della Corte dei
conti, si farà riferimento soltanto alle decisioni rese in composizione ordinaria, che
più dirette ricadute hanno sull’operatività delle Procure Regionali.
Meno diretto, invero, è il legame che è dato rinvenire con le funzioni
dell’ufficio di Procura Regionale con riguardo alle decisioni assunte dalle Sezioni
Riunite nella “speciale composizione”, stabilita, oltre che nel Presidente, in tre
magistrati del controllo e tre della giurisdizione (art. 11, comma 7, del Codice), che
decidono, in unico grado, sui giudizi a istanza di parte nelle materie di contabilità
pubblica, indicate dalle lettere a), b), c), d), e) e f), del comma 6 dell’art. 11 del
Codice.
Le Sezioni Riunite in composizione ordinaria decidono, ai sensi del comma 3
del ridetto art. 11 (che, per vero, è norma meramente riproduttiva dell’assetto
funzionale previgente), sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima
deferiti dalle Sezioni giurisdizionali d’appello, dal Presidente della Corte dei conti o
dal Procuratore generale.
Nel 2016, esse hanno trattato quattro questioni di massima, tutte relative al
quadro normativo antecedente all’entrata in vigore del Codice di giustizia contabile.
Di queste, una ha riguardato la materia pensionistica (la sentenza n. 3/2016/QM del
25.2.2016), mentre le altre sono state adottate in materia di giudizi di responsabilità
e di conto. Due ordinanze hanno poi deciso regolamenti di competenza.
Nel seguire una linea cronologica di esposizione, abbinata a una
considerazione tipologica dei provvedimenti e omettendo, altresì, ogni riferimento
alla decisione relativa al giudizio pensionistico, viene in rilievo la sentenza
n.8/2016/QM del 21.4.2016 con cui le Sezioni Riunite hanno affermato che il giudice
d’appello, il quale accolga l’impugnazione proposta dal pubblico ministero avverso la
sentenza di primo grado che abbia dichiarato prescritta l’azione di responsabilità
amministrativa, deve rimettere gli atti al primo giudizio per la prosecuzione del
giudizio sul merito.
A tale affermazione le Sezioni Riunite sono giunte attraverso
un’interpretazione evolutiva del disposto dell’art. 105, comma 1, del regolamento
di procedura (r.d. n. 1038 del 1933 cit.), il quale, introducendo una disciplina
speciale dell’effetto devolutivo dell’appello contabile rispetto a quello dell’appello
civile, prevedeva la rimessione degli atti al giudice di primo grado nel caso di
risoluzione di “questioni di carattere pregiudiziale”, tra le quali poteva non essere
17
inclusa, sulla base di un’interpretazione meramente letterale della disposizione, la
statuizione sulla prescrizione, che configura una “questione preliminare” (di
merito).
Un principio di diritto analogo a quello affermato dalle Sezioni Riunite si
rinviene ora nell’art. 199, comma 2, del Codice, secondo cui «quando, senza conoscere
del merito del giudizio, il giudice di primo grado ha definito il processo decidendo
soltanto altre questioni pregiudiziali o preliminari, su queste esclusivamente si
pronuncia il giudice di appello. In caso di accoglimento del gravame proposto, rimette
gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio sul merito e la pronuncia anche
sulle spese del grado d’appello», con onere delle parti di riassumere il processo nel
termine perentorio di novanta giorni dalla notificazione ovvero dalla comunicazione
della sentenza d’appello.
Nelle due sentenze in materia di conti giudiziali, le Sezioni Riunite hanno
affermato i principi di diritto qui di seguito esposti:
a)
Non è necessaria la comunicazione al Procuratore regionale
dell’avvenuto deposito del conto giudiziale ai fini del decorso del quinquennio previsto
dalla legge per l’estinzione del giudizio di conto (sentenza n. 19/2016/QM del
15.9.2016).
Anche in questo caso, il principio di diritto trova conferma nelle disposizioni
del Codice, che, da un lato, ribadiscono l’effetto estintivo del giudizio di conto
decorsi cinque anni dal deposito del conto presso la segreteria della Sezione (art. 150,
che, all’ultimo comma, precisa che detta estinzione «non estingue l’azione di
responsabilità») e, dall’altro lato, non prevedono la formale comunicazione al
Procuratore regionale dell’avvenuto deposito del conto, ritenuto dalle Sezioni
Riunite «un adempimento processuale irrituale e di dubbia utilità».
A tale ultimo riguardo, il profilo innovativo recato dal Codice è
rappresentato, come già evidenziato, dal sistema informativo relativo all’anagrafe
degli agenti contabili, tramite il cui accesso (per il vero, non ancora tecnicamente
utilizzabile) la Procura Regionale acquisisce comunque e direttamente la notizia
dell’avvenuto deposito del conto (art. 140, comma 1, secondo periodo).
Si tratta di una previsione che permette al pubblico ministero di svolgere i
suoi accertamenti su eventuali fattispecie di responsabilità connesse alla gestione
rappresentata dal conto allo scopo di elevare le opportune contestazioni a carico del
contabile e di impedire l’estinzione del giudizio di conto.9
b)
in materia di imposta di soggiorno, le Sezioni Riunite hanno
ritenuto che i soggetti, operanti presso le strutture ricettive, incaricati della
riscossione e del successivo versamento nelle casse comunali delle somme, assumono
L’effetto estintivo sul giudizio di conto infatti si produce, ai sensi dell’art. 150, soltanto se nei cinque anni
dal deposito del conto non è stata depositata la relazione del magistrato designato a riferire sul conto ovvero
non sono state elevate contestazioni, eventualmente anche da parte dell’amministrazione interessata o degli
organi di controllo (ma la norma è meramente riproduttiva di quanto già previsto dall’art. 27 del r.d. n. 1038
del 1933).
9
18
la funzione di agenti contabili e sono quindi tenuti alla resa del conto giudiziale della
gestione svolta (sentenza n. 22/2016/QM del 22.9.2016).
Pur nella complessità del quadro normativo di settore, connotato da un
particolare intreccio tra fonti primarie e secondarie, statali e comunali, le Sezioni
Riunite hanno chiarito che la qualifica di agente contabile non può spettare al
funzionario e/o dirigente del Comune individuato quale responsabile delle gestioni
in questione, il quale non ha “maneggio di denaro”.
Piuttosto, poiché i regolamenti comunali affidano al gestore della struttura
alberghiera, ancorché estraneo al rapporto tributario, una serie di compiti e attività
funzionali alla realizzazione della potestà impositiva dell’ente locale (tra i quali la
riscossione dell’imposta e il suo riversamento nelle casse comunali; obblighi di
informazione alla clientela e di report periodici al Comune, ecc.), è tra questo
soggetto e il Comune che si instaura un rapporto di servizio avente indiscutibile
contenuto “contabile”.
Può non essere un fuor d’opera evidenziare come proprio questa Procura
Regionale aveva prospettato, nelle conclusioni rassegnate lo scorso anno in
numerosi giudizi di conto, la possibilità di una soluzione che facesse emergere il ruolo
degli albergatori quali i soggetti materialmente incaricati della riscossione delle
somme di pertinenza dell’ente locale e dunque effettivi (e unici) agenti contabili,
anche per evitare i rischi sottesi a una giurisdizione di conto à la carte, dipendente
cioè dalle variabili individuazioni dell’ente locale senza alcuna motivazione
sostanziale in termini di poteri di effettiva disponibilità (c.d. “maneggio”) delle
somme derivanti dalle attività di esazione dell’imposta.
Le Sezioni Riunite, con la sentenza in commento, hanno condiviso, con la
forza propria del vincolo nomofilattico, la suddetta qualificazione, giungendo,
attraverso un articolato e approfondito percorso argomentativo, all’enunciazione
del principio di diritto sopra riportato circa la qualifica di agenti contabili da
imputare agli incaricati delle strutture alberghiere delle attività di riscossione e di
versamento nelle casse comunali dell’imposta di soggiorno.
In sede di regolamento di competenza, l’ordinanza n. 1 del 4.4.2016 ha
ribadito un principio già espresso dalla giurisprudenza delle Sezioni Riunite: il
regolamento è utilizzabile per impugnare provvedimenti di sospensione del processo;
non configura un’ipotesi di sospensione necessaria del processo la contemporanea
pendenza di un procedimento penale sugli stessi fatti oggetto di contestazione da parte
della Procura contabile.
In tema, si deve sottolineare che il riferito approdo giurisprudenziale, che ha
esteso il rimedio previsto dall’art. 42 c.p.c. al processo contabile 10, ha trovato nel
Codice una base normativa nella disposizione contenuta nell’art. 119 specificamente
Con la precisazione che il giudice destinatario dell’istanza di regolamento era individuato, per via
ermeneutica, non nella Corte di Cassazione, come da previsione testuale dell’art. 42 c.p.c., ma all’interno dello
stesso sistema giurisdizionale contabile e dunque nelle Sezioni Riunite, ritenuta l’articolazione assimilabile,
sul piano funzionale, alle Sezioni unite della Corte di cassazione (così l’ord. n. 1/2012 delle SS.RR.).
10
19
dedicato alla disciplina del regolamento di competenza in caso di sospensione del
processo. Di tale disciplina, mette conto evidenziare la previsione, contenuta nel
comma 3, secondo cui, in attesa della decisione delle Sezioni Riunite sull’istanza di
regolamento, «Il giudice del processo sospeso può autorizzare il compimento di atti che
ritiene urgenti ed adottare misure cautelari», norma analoga a quella prevista dall’art.
107, comma 3.
L’ordinanza n. 2 del 29.11.2016, pur riguardando un provvedimento di
sospensione del processo, ha invece concluso in rito, dichiarando inammissibili i
ricorsi proposti dalle parti private per carenza di interesse, avendo accertato che
entrambe avevano richiesto, ancorché in via subordinata, la sospensione del
giudizio di primo grado.
3.- L’ATTIVITA’ DELLA PROCURA
3.1.- BREVE RIEPILOGO STATISTICO
Al 31 dicembre 2015 risultavano pendenti 2.347 fascicoli istruttori; nel corso
dell’anno:
- sono stati aperti 2.382 nuovi fascicoli;
- sono state effettuate 607 richieste istruttorie;
- sono state disposte 1.549 archiviazioni;
- sono stati formulati 94 inviti a dedurre per un totale di 254 presunti responsabili;
- sono stati richiesti ed ottenuti 4 sequestri conservativi, anche ante causam, per
complessivi euro 22.692.804,28;
- sono stati introdotti 73 giudizi di responsabilità per un importo complessivo del
danno erariale di euro € 40.929.063,86;
- sono stati proposti 14 appelli;
- sono stati esaminati 6.383 conti giudiziali;
- vi sono state condanne in primo grado per complessivi euro 6.385.045,22;
- è stata recuperata, a seguito di sentenze di condanna e di ordinanze di pagamento
in procedimenti monitori, la somma di euro 820.835,03;
- è stata recuperata, a seguito di attività istruttoria, di inviti a dedurre e di citazioni
(c.d. “spontanea riparazione”), la somma di euro 257.769,62.
In proposito va evidenziato che, rispetto all’anno precedente, è più che
quadruplicato l’importo dei sequestri conservativi e sono notevolmente aumentati gli
inviti a fornire deduzioni ed i presunti responsabili invitati, gli appelli proposti da
questa Procura nonché è cresciuta del 25% la somma recuperata a seguito di sentenze
di condanna.
20
3.2.- PRINCIPALI TIPOLOGIE DI DANNO DEDOTTE IN GIUDIZIO
3.2.1.- Danni derivanti dalla commissione di reati, da disservizio e
all’immagine della Pubblica Amministrazione
In tale ambito, sovente, l’azione di questa Procura nella contestazione del
danno erariale prende le mosse dalla trasmissione della notizia di reato da parte delle
Procure della Repubblica del Distretto e da altri Uffici Giudiziari: trattasi per lo più
dei reati di cui al capo I del titolo I del libro II del codice penale (concussione,
peculato, falso e abuso di ufficio) commessi da pubblici dipendenti.
Una prima fattispecie attiene all’atto di citazione con cui si è proceduto a
contestare tre diverse tipologie di condotte illecite di appropriazione di denaro
pubblico, attraverso le quali una dipendente di un’azienda di servizi alla persona
(ASP) di Bologna, avrebbe, con diverse modalità, indebitamente incamerato somme
di spettanza dell'ASP. In primis, nel corso dell'anno 2012, la dipendente avrebbe
indebitamente ricevuto ed incassato, all’infuori delle sue mansioni, somme a titolo
di rette e di depositi cauzionali, versati da alcuni ospiti della struttura pubblica
assistenziale, trattenendole per sé; inoltre a fronte di un'anticipazione di denaro
ottenuta dalla cassa economale dell'ASP, previamente autorizzata dal proprio
dirigente per l'effettuazione di alcuni acquisti, non avrebbe, successivamente,
fornito la documentazione giustificativa di spesa. Con riguardo alla seconda
tipologia di condotte illecite, nell'ambito delle mansioni demandate alla dipendente,
tra le quali l'organizzazione delle vacanze estive, la medesima avrebbe raccolto, in
contanti, per gli anni 2011 e 2012, le quote, in acconto, ricevute dagli ospiti
interessati, per il servizio alberghiero, ma, anziché versarle alla società erogatrice
del servizio, le avrebbe trattenute per sé. Da ultimo, nel corso degli anni 2011 e 2012
avrebbe, più volte, ottenuto dalla cassa economale dell'ASP regolari anticipazioni
di contante per l'acquisto, presso l'azienda fornitrice, di materiale medicale e
ospedaliero, senza aver poi, di fatto, pagato le relative fatture alla ditta o avendole
pagate solo in parte, trattenendo il restante denaro presso di sé. Atteso il
sopraggiungere di una sentenza di applicazione di pena c.d. patteggiata, la Procura,
ad integrazione di un primo atto di citazione, conclusosi con una sentenza di
condanna pari ad €18.954,83, ha contestato un danno all’immagine
dell’amministrazione prospettando il criterio del c.d. duplum di cui alla legge n.
190/2012, pari al doppio delle utilità illecitamente conseguite dalla ex dipendente,
ossia pari al doppio di €18.954,83=€37.909,36.
Viene poi in rilievo la contestazione di un danno da disservizio in una
fattispecie relativa ad un docente di un istituto tecnico commerciale condannato in
sede penale alla pena di anni tre e mesi due di reclusione per il reato continuato di cui
all’art. 609-quater codice penale (atti sessuali con minorenne) commesso in danno di
una propria allieva minore infrasedicenne, nonché per un medesimo tentativo nei
confronti di un’altra allieva infrasedicenne, con pena accessoria dell’interdizione in
21
perpetuo da qualsiasi ufficio attinente alla tutela ed alla curatela, da qualunque
incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in
istituzioni frequentate prevalentemente da minori.
Questa Procura ha affermato, nell’atto di citazione, che il diritto del
dipendente a trattenere quanto percepito a titolo di “assegno alimentare” durante
il periodo di sospensione cautelare non elimina l’obbligo di risarcire le conseguenze
negative nella sfera giuridico-patrimoniale dell’amministrazione di appartenenza,
determinate dall’agire delittuoso e dunque illecito del dipendente.
L’ammontare, di cui si chiede il ristoro davanti al giudice della responsabilità
amministrativa, è un’entità patrimoniale: più precisamente, l’azione di
responsabilità, esercitata con l’atto di citazione in esame, intende ottenere il
risarcimento del danno patrimoniale subìto dall’organizzazione pubblica per effetto
dei comportamenti illeciti intenzionalmente tenuti dal convenuto a danno anche dei
rilevanti interessi pubblici connessi all’organizzazione del servizio scolastico.
Si tratta, infatti, di condotte rilevanti non soltanto sul piano del diritto
penale, dove hanno ricevuto le sanzioni a esso proprie, ma anche su quelli connessi
del rapporto di lavoro e della responsabilità amministrativa.
Nella prospettazione dell’atto di citazione dunque non vi è alcun
automatismo, né tanto meno alcun intento “sanzionatorio” (e non potrebbe essere
diversamente: in luogo di molti, si veda la già citata sentenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo, 13 maggio 2014, ricorso n. 20148/09, Rigolio c. Italia, che ha
autorevolmente affermato che il processo dinanzi alla Corte dei Conti serve
unicamente a riparare un pregiudizio economico e ha pertanto natura risarcitoria e
non punitiva): deve essere ribadito, piuttosto, che l’obiettivo dell’azione di
responsabilità amministrativa, in conformità ai principi di pienezza e di effettività
della giurisdizione contabile, è quello di reintegrare il patrimonio
dell’amministrazione scolastica, che è stato negativamente inciso dalle condotte
antigiuridiche del convenuto, determinando, sotto il profilo organizzativo, la
necessità di un rimpiazzo e l’assunzione di costi ulteriori.
Risulta, infatti, documentalmente provato che il convenuto ha
consapevolmente deviato, per un arco di tempo molto esteso, dalle corrette modalità
di esercizio delle funzioni di docente – per le quali era retribuito con risorse
provenienti dalla collettività – per perseguire le sue personali e turpi finalità.
Sussiste, quindi, nel caso di specie, il danno da disservizio, il quale presuppone
un pubblico servizio al quale correlarsi e consiste nell’effetto dannoso causato
all’organizzazione e allo svolgimento dell’attività amministrativa dal
comportamento illecito di un dipendente, che abbia impedito il conseguimento della
attesa legalità dell’azione pubblica e abbia causato inefficacia o inefficienza di tale
azione.
In altri termini, sussiste il danno da disservizio allorché l’azione
amministrativa non raggiunge, sotto il profilo qualitativo, quelle utilità
ordinariamente ritraibili dall’impiego di determinate risorse pubbliche, così da
22
determinare uno spreco delle stesse.
Si tratta di un pregiudizio effettivo, concreto ed attuale, che coincide,
secondo gli insegnamenti giurisprudenziali, con il maggiore costo del servizio, nella
misura in cui questo si riveli inutile per l’utenza.
Nella specie, in aggiunta alla stima di minore valore delle prestazioni rese di
fatto dal dipendente pubblico con contenuti palesemente difformi dagli obblighi di
servizio, occorre tener conto anche dei costi sopportati dalla pubblica
amministrazione in conseguenza del mancato conseguimento della legalità,
dell’efficienza, dell’efficacia, dell’economicità e della produttività dell’azione
amministrativa.
In un’altra fattispecie, viene in rilievo un danno da reato contro la pubblica
amministrazione. La peculiarità, che si intende sottolineare, riguarda il fatto che
convenuto è un (ex) dipendente di Equitalia Centro S.p.A., che ha commesso i fatti
dannosi nella qualità di “ufficiale della riscossione”.
Sotto tale profilo, viene diffusamente motivato, nell’atto di citazione, in ordine
alla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti.
Infatti, già secondo la sentenza n. 235 del 16.2.2004 della Sezione
giurisdizionale per la Regione Emilia Romagna della Corte dei conti, l’affermazione
della giurisdizione contabile discende «dalla pacifica qualifica di pubblico ufficiale
che riveste, nel momento dell’esercizio delle sue funzioni, l’ufficiale di riscossione; detta
qualifica di pubblico ufficiale, secondo l'attuale formulazione dell'art. 357 c.p., va
riconosciuta a tutti i soggetti che, pubblici dipendenti o privati, possono e debbono,
nell'ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volontà
della p.a. ovvero esercitare poteri autoritativi o certificativi (cfr. Cass. pen., sez. VI, 7
luglio 1997, n. 7972, “ex multis”).
Il convenuto, anche se dipendente privato, esercitava, per quanto attiene le
contestazioni rivoltegli, non ruoli mansionali di rilevanza meramente privatistica, ma i
poteri in cui si concreta il “munus” del pubblico ufficiale ai sensi dell'art. 357 c.p.,
ovvero sia la predetta potestà autoritativa che quella certificativa, potestà derivante dalla
convenzione di concessione ed esercitata tramite un meccanismo di immedesimazione
organica, dato che la persona giuridica agisce per mezzo delle persone fisiche inserite nel
proprio organigramma» (in senso conforme v. anche, più di recente, Corte conti, sez.
giur. Lombardia, 17.1.2014, n. 8; Corte conti, sez. giur. Sardegna, 7.1.2011, n. 2).
Inoltre, a fronte della deduzione circa il valore della sentenza c.d. di pena
patteggiata nel giudizio di responsabilità amministrativa, la Procura ha replicato
richiamando un significativo e recente precedente del giudice territoriale dell’Emilia
Romagna, rappresentato dalla sentenza n. 1 del 7.1.2015, in cui è stato affermato
che «La giurisprudenza contabile ritiene sufficiente, per la contestazione del danno
d’immagine, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai
sensi dell’art. 444 c.p.p., purché divenuta irrevocabile (ex plurimis Corte dei conti,
Sezione giurisdizionale per la Regione Veneto, n. 756/2009; Corte dei conti, sez. Giur.
Piemonte, n. 86/2013). Dando rilievo alla previsione dell’art. 445, comma 1 bis c.p.p.,
23
essa equipara la sentenza di “patteggiamento” ad una pronuncia di condanna,
reputando conseguentemente che la locuzione utilizzata dall’art. 17, comma 30 ter d.l. n.
78/2009 “sentenza irrevocabile di condanna”, non possa che ricomprendere anche la
pronuncia emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.. La giurisprudenza contabile attribuisce
alla sentenza emessa ai sensi degli art. 444 ss. c.p.p. gli effetti di una tacita ammissione
di colpevolezza, ed è sostanzialmente equiparata ad una sentenza di condanna, come
previsto dall’art. 445, comma 1 bis c.p.p., avendo il giudice penale accertato la
commissione di un fatto/reato a carico dell’imputato sulla cui qualificazione hanno
concordato il pubblico ministero e le parti (cfr. Sez. I centr. 3/2004 e 3/2011, Sezione
giurisdizionale Regione Lombardia 7/2009 e Sezione giurisdizionale Friuli Venezia
Giulia 14 febbraio 2013 n. 9).
Sussiste la condizione, quindi, sia per l’esercizio dell’azione sia per una
pronuncia di condanna per danno all’ immagine (cfr. Sez. III Centr. 4 novembre 2013
n. 716 e Sez. I Centr. 14 dicembre 2012 n. 809) (in termini non dissimili v. anche
Corte conti, sez. giur. Emilia Romagna, 24.6.2015, n. 79).
Del resto, la medesima Sezione giurisdizionale, nella più risalente sentenza
30.1.2014, n. 11, aveva già statuito nel condivisibile senso che: «la sentenza di
applicazione pena, pur non avendo efficacia di giudicato nel processo contabile, ben può
costituire, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte dei Conti,
un’autorevole fonte da cui poter autonomamente valutare le risultanze acquisite nel
processo penale conclusosi con il “patteggiamento”.
In base ad un indirizzo ormai consolidato in giurisprudenza contabile (vedi
sentenza n.25/A della I sezione centrale del 27 gennaio 2000), “l'assenza di un
accertamento positivo della responsabilità dell'imputato condannato dal giudice penale
con sentenza emessa ai sensi dell'articolo 444 del c.p.p., non impedisce al giudice
contabile, proprio in virtù del principio di separatezza dei giudizi penale ed
amministrativo, di poter trarre utili elementi di valutazione dal fascicolo processuale
penale ai fini dell'autonoma pronuncia da rendere in tema di responsabilità per danno
erariale”.
Il libero convincimento del giudice contabile può essere formato da elementi tratti
dal fascicolo processuale penale ed autonomamente valutati specie in casi come quello in
esame dove la medesima condotta ha integrato sia l'illecito penale che quello
amministrativo».
In un ulteriore giudizio, la Procura ha contestato la responsabilità contabile
nei confronti di soggetti, che avevano assunto la qualifica di agenti contabili di
diritto e di fatto.
E’ accaduto infatti che la persona fisica, dominus di una società
concessionaria della riscossione per conto di molti comuni della regione, si fosse
appropriata, con una condotta che ha integrato anche gli estremi del reato di
peculato, delle somme che i contribuenti avevano versato a titolo di imposta comunale
di pubblicità e pubbliche affissioni su due conti correnti intestati alla società,
arrecando alle amministrazioni comunali un danno di notevole entità (oltre 430 mila
24
euro).
Si trattava infatti di conti correnti bancari celati alla contabilità ufficiale
della società, le cui movimentazioni neppure venivano rendicontate ai comuni
impositori attraverso una manipolazione del software gestionale, in uso alla
concessionaria, che impediva che il sistema generasse avvisi di pagamento o
accertamento, inserendo quale data per la rendicontazione agli enti locali l’anno
“2051” ovvero una data anteriore al pagamento.
E’ incontestato che la società avesse assunto, per il periodo di interesse e per
i cento comuni di cui all’atto di citazione, il servizio di riscossione tributi ed in
particolare dell’imposta comunale di pubblicità. Essa, quindi, ha rivestito e riveste
tutt’ora la qualifica di agente contabile di diritto ovvero di soggetto che ha
maneggio di denaro pubblico in quanto incaricato di riscuotere entrate di qualsiasi
genere (nello specifico entrate tributarie) ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. a), del
R.D. n. 827/1924.
E’ principio pacifico, infatti, che chiunque riceva l’incarico di riscuotere
entrate di una pubblica amministrazione pone in essere una gestione contabile
pubblica ed è pertanto soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti (cfr. art. 74
R.D. n. 2440/1923).
Pertanto, di là dal nomen iuris utilizzato dalle parti, il servizio pubblico della
riscossione comporta il trasferimento al concessionario di attività proprie dell’ente
pubblico territoriale, compreso l’esercizio di poteri autoritativi, cui consegue
l’obbligo da parte del concessionario di una serie di adempimenti.
La società concessionaria è stata quindi chiamata a rispondere della gestione
del denaro pubblico riscosso dinnanzi al giudice “naturale” della Corte dei conti, ai
sensi degli articoli 44 R.D. n. 1224/1934, 194 R.D. n. 827/1924, 74 R.D. n.
2440/1923.
Come noto, la responsabilità contabile, pur essendo conformata sul medesimo
modello della responsabilità amministrativa, risulta caratterizzata da specifiche
obbligazioni delle quali l’agente contabile è tenuto a rispondere se non dimostra –
secondo i noti principi della responsabilità contrattuale ex art. 2118 c.c. – l’esistenza
di circostanze che comprovano la propria assenza di colpa nella mancata
rendicontazione e nell’omessa restituzione dei beni di cui ha avuto il maneggio e la
custodia.
Ciò comporta, secondo costante giurisprudenza, che l’agente contabile è
tenuto a rispondere in ogni caso delle somme riscosse e non riversate, con assunzione
di responsabilità diretta e personale, salvo i casi di forza maggiore. Di qui la
contestazione di responsabilità nei confronti della società in argomento, cui è
direttamente e formalmente intestata la gestione contabile quale concessionaria
della riscossione.
La riferibilità soggettiva della responsabilità contabile in capo alla società
concessionaria si configura sia alla stregua del noto principio di civilistico, che
valorizza la sussistenza di un rapporto di immedesimazione organica tra la persona
25
giuridica e l’amministratore, per cui le condotte e gli atti giuridici compiuti da
quest’ultimo sono imputabili alla società, che ne risponde personalmente nei
confronti dei terzi, sia in virtù dell’art. 188 R.D. n. 827 cit., secondo cui l’agente
contabile di diritto risponde dell’operato dei propri dipendenti, che rivestono la
qualifica di “fiduciari”.
Ne consegue quindi che gli illeciti atti di gestione contabile, posti in essere dal
suo presidente del consiglio di amministrazione non possono che essere riferiti alla
società stessa, che ne risponde contabilmente ai sensi dell’art. 194 del ridetto R.D.
n. 827, e ciò a prescindere dalla circostanza, non decisiva nell’ambito del giudizio di
responsabilità amministrativo-contabile, che in sede penale sia stato contestato il
reato di peculato nei confronti del solo amministratore.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha chiarito
infatti che, avendo la gestione e la riscossione di imposte comunali natura di servizio
pubblico, e poiché l’obbligazione, a carico della società concessionaria, di versare
all’ente locale le somme a tale titolo incassate ha natura pubblicistica, il rapporto
tra società ed ente si configura come rapporto di servizio, in quanto il soggetto
esterno si inserisce nell’iter procedimentale dell’ente pubblico, come compartecipe
dell’attività pubblicistica di quest’ultimo, non rilevando, in contrario, né la natura
privatistica del soggetto affidatario né il titolo con il quale si è costituito ed attuato
il rapporto (cfr. Cass., sez. un., nn. 15599/2009; 22652/2008; 24002/2007;
22513/2006; 1377/2006).
Del danno accertato è tenuto a rispondere, a titolo di responsabilità contabile
solidale, anche il predetto presidente del consiglio di amministrazione, autore delle
condotte appropriative.
La responsabilità contabile presuppone, infatti, la figura dell’agente
contabile, che, nel caso di specie, ricomprende sia il soggetto che è incaricato, a
qualsiasi titolo, della riscossione delle varie entrate e del versamento delle somme
nelle casse dell’ente impositore, sia chi, senza averne legale autorizzazione, si
ingerisce di fatto negli incarichi dell’agente di diritto, ponendo in essere atti di
diretta disposizione del denaro di pertinenza della pubblica amministrazione.
Tale responsabilità è stata estesa anche alla sorella unilaterale del ridetto
presidente, avendo la stessa avuto diretta gestione e maneggio dei tributi che i
contribuenti pagavano alla concessionaria della riscossione. Pur essendo mera
collaboratrice della società, la predetta aveva avuto dal fratello delega a operare sui
conti correnti sui quali confluivano i pagamenti dei contribuenti ricevendo direttive
per effettuare prelievi in contanti o bonifici a favore dello stesso o di altri soggetti
che lui le indicava.
In ragione di tale attività di maneggio di somme pubbliche, la stessa è stessa
chiamata a rispondere, quale agente contabile di fatto, in solido con la società e con
il fratello.
Un’altra fattispecie rilevante ha avuto ad oggetto la contestazione di alcuni
comportamenti fraudolenti posti in essere da un sottoufficiale dell’Arma dei
26
Carabinieri, concretatisi nella richiesta e conseguimento di una pluralità di certificati
medici finalizzati a giustificare le numerose assenze dal servizio, a fronte di
contestuali comportamenti che hanno palesato, alternativamente, la fittizietà dello
stato di malattia o la violazione di canoni di probità, lealtà ed obbedienza all’Arma,
assumendo atteggiamenti in assoluto contrasto con l’obiettivo di pronto recupero
dello stato di salute (vari tracciamenti GPS del cellulare di servizio del luogotenente
avevano evidenziato diversi spostamenti territoriali medi, lunghi o brevi ma
piuttosto frequenti, in auto o in treno, rispetto alla sede di lavoro e per la loro natura
incompatibili con le patologie diagnosticate al carabiniere). Anche un medico di
base che ha effettuato prognosi di malattia del tutto sproporzionate rispetto a
quanto accertato in altre sedi (v. verbali di pronto soccorso dello stesso periodo,
addirittura rilasciati durante fasi acute della patologia cronica lamentata e
certificati di un precedente medico di base) è stato destinatario di contestazione di
responsabilità in concorso con il citato sottoufficiale. Il danno patrimoniale
contestato, pari agli emolumenti stipendiali percepiti durante i predetti periodi di
malattia, è stato pari a complessivi €66.832,93.
Altra citazione ha ad oggetto una pluralità di episodi di assenteismo
ingiustificato dal luogo di lavoro, documentati con il pedinamento, gli scatti
fotografici e la ripresa video del responsabile da parte della polizia municipale del
comune danneggiato, all’occasione impiegata con funzioni di polizia giudiziaria. Si
contesta un danno da disservizio e un danno all’immagine dell’amministrazione
comunale per complessivi €12.458,46.
Un altro procedimento attiene alla indebita sottrazione e vendita di beni
dell’ente pubblico di appartenenza (in ambito penale peculato e falso) contro un
dipendente del comune di Rimini, assegnato al Settore Politiche giovanili e Servizi
educativi di questo Ente, per € 59.333,79. In particolare, l’indagine condotta dal
competente Nucleo della G.d.F. di Rimini su delega del P.M. penale, evidenziava
plurime condotte perpetrate dal predetto dipendente, in danno
dell’Amministrazione di appartenenza, tenute quale responsabile degli arredi
scolastici presso il citato Settore comunale, di seguito riassunte:
a) impossessamento di beni di proprietà del Comune relativi ai servizi
scolastici dei quali aveva, per ragioni di servizio, la disponibilità (beni di consumo
vari, elettrodomestici, materiali medicali, pentolame, stoviglie, posate, materiale
elettrico, materiale di cancelleria, prodotti per la pulizia degli ambienti, polpa di
pomodoro, carta igienica e fazzoletti di carta, generi alimentari, prodotti e
strumenti per la pulizia degli ambienti, arredi vari, ecc.), e successiva vendita come
propri presso vari esercizi commerciali della zona;
b) utilizzo per fini privati dell'autovettura Panda Van di proprietà del
comune di Rimini della quale aveva, per ragioni di servizio, la disponibilità;
c) redazione e sottoscrizione dei fogli di viaggio inerenti l'utilizzo della sopra
citata autovettura, attestando falsamente che l’auto fosse utilizzata per raggiungere
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destinazioni diverse da quelle reali e facendo altresì risultare percorrenze
chilometriche diverse da quelle reali, e perciò utilizzandola per fini personali ed
egoistici avulsi da quelli d’ufficio, ed anche per commettere gli illeciti di cui alla
precedente lettera a);
d) alterazione dei moduli-fogli di viaggio (c.d. libretto chilometrico dell'auto)
e del cartellino magnetico (badge), attestando falsamente la propria presenza in
servizio.
Un’altra fattispecie attiene alla mancata acquisizione di entrate (perseguita
anche penalmente per falso ideologico) da parte di un Ispettore del lavoro della
Direzione Territoriale del Lavoro di Rimini, per complessivi € 250.829,19, di cui €
228.026,54 per danno patrimoniale ed € 22.802,65 per danno da disservizio.
In particolare, dagli atti di indagine penale e dalla segnalazione inoltrata dal
competente Nucleo dei Carabinieri oltre che della stessa Amministrazione
danneggiata, emergeva che il predetto funzionario, in esito a controlli effettuati dai
superiori nell'ambito delle rispettive funzioni di coordinamento dell'attività
ispettiva, si rendeva responsabile di condotte omissive in relazione a ben 197
pratiche ispettive a lui assegnate, rispetto alle quali lo stesso più volte affermava
che fossero state correttamente evase. Ciò determinava la decadenza della potestà
punitiva in capo al Ministero rispetto agli illeciti amministrativi riscontrati, con
conseguente danno per l'Amministrazione, nel complessivo importo sopra indicato.
Riguardo alla descritta tipologia di danno, si ritiene di segnalare anche alcune
sentenze emesse in proposito dalla Sezione Giurisdizionale nel 2016.
In particolare, la sentenza n. 44 del 25.03.2016 condanna al pagamento, in
favore dell’ASP “Città di Bologna”, di € 18.954,83, a titolo di danno diretto in
relazione a condotte illecite di appropriazione di denaro pubblico da parte di una
dipendente.
La sentenza n. 35 del 2016 accerta le condotte illecite di un Ispettore metrico
camerale della C.C.I.A.A. di Piacenza, consistenti: (i) nell’avere consegnato a
laboratori privati di verifica, un elenco riservato di soggetti – esercenti l’attività
commerciale – che dovevano essere sottoposti a controlli “a sorpresa” sugli strumenti
di pesi e misure, violando i doveri d’ufficio di riserbo e segretezza; (ii) nell’avere
omesso volontariamente di compiere i dovuti riscontri in merito al possesso dei
requisiti per l'accreditamento in capo a due laboratori esterni da accreditare per le
predette verifiche (uno dei due era proprio quello cui aveva consegnato il predetto
elenco riservato), anzi attestandone il possesso dei requisiti di legge (poi risultati non
sussistenti), rilasciando parere tecnico favorevole alla prosecuzione dell’esercizio
dell'attività di verifica periodica sugli strumenti metrici; (iii) nell’avere violato il
sistema informatico delle Camere di commercio, acquisendo un elenco di dati
utilizzando indebitamente User id e password che gli erano state fornite per le attività
di servizio, ma che non poteva utilizzare nel periodo di sospensione disciplinare dal
28
servizio; (iv) determinato una gravissima e intenzionale disfunzione e una situazione
di disorganizzazione nel settore di competenza; (v) creato un contesto di illiceità
diffusa e incontrollata, favorendo la ipotizzata (in sede penale) attività concussiva, o
il relativo tentativo, e la commissione del delitto di utilizzazione di segreto di ufficio
di cui all’art. 326, comma III c.p., da parte del suddetto laboratorio,
compromettendo la fede pubblica.
Di conseguenza, la Sezione ha condannato il predetto al risarcimento del
rilevante danno patrimoniale subito dalla Camera di Commercio, nelle due voci del
danno emergente (spese sostenute per assicurare i servizi in precedenza svolti
dall’unico ispettore metrico camerale, mediante convenzioni con altre CCIAA o
incarichi esterni di dipendenti di altre Camere di Commercio) e del lucro cessante
(mancate o minori entrate afferenti al mancato introito delle tariffe relative alle
ispezioni metriche), pari a complessivi € 101.893,26 (rispetto a € 139.897,55
richiesti). Alla decisione si è giunti dopo che la Procura aveva impugnato avanti alle
SS.RR. della Corte conti - per regolamento di competenza ex art. 42 e 47 c.p.c. - la
precedente ordinanza della stessa Sezione di sospensione del giudizio (perché aveva
ritenenuto sussistenti «valide ragioni, e principalmente motivi di economia
processuale, che inducono a soprassedere all'odierna decisione, in attesa della definizione
dei suindicati giudizio penale e lavoristico per l’acquisizione delle relative sentenze»); e
che le predette SSRR avevano accolto il predetto ricorso, annullando per l’effetto
la predetta ordinanza.
3.2.2.- Danni da illecito conferimento di incarichi di consulenza e di
collaborazione
Nell’anno appena trascorso, questa Procura ha continuato a contrastare il
fenomeno ancora diffuso del conferimento di incarichi e servizi a favore di soggetti
esterni all’Amministrazione in assenza dei presupposti legittimanti e in violazione
della normativa in materia di gestione e utilizzo delle risorse in organico.
Tra le tante azioni esercitate da questa Procura Regionale, particolare
menzione merita quella in cui ha convenuto in giudizio i Presidenti pro-tempore,
alcuni Consiglieri ed i Direttori Generali dell’Assemblea Legislativa della Regione
Emilia-Romagna per il conferimento (con diverse proprie delibere a partire dal
13/05/2010, ex art. 63 dello Statuto) di diversi incarichi di lavoro subordinato a
tempo determinato comprendenti anche le funzioni di Capo di Gabinetto del
Presidente della medesima Assemblea, fino al 27/01/2015.
Il profilo che rende, ad avviso della Procura, tale vicenda fonte di danno
erariale attiene alla mancanza, in capo alla persona assunta prima quale Capo di
Gabinetto del Presidente dell'Assemblea Legislativa e poi nominato anche Direttore
del Servizio Informazione e Dirigente Tecnico di Garanzia in materia di
partecipazione, del titolo di studio necessario a rivestire il posto ricoperto e cioè il
diploma di laurea. In tutti i casi esaminati, infatti, al predetto Capo di Gabinetto è
stato attribuito un incarico a tempo determinato di carattere subordinato, nella
29
qualifica unica dirigenziale, ed è stato chiamato a ricoprire – in assenza del
necessario diploma di laurea – un incarico dirigenziale di vertice, quale capo della
struttura speciale del Gabinetto del Presidente dell’Assemblea Legislativa
regionale, cui si sono aggiunti gli ulteriori incarichi di Direttore del Servizio
Informazione e di Dirigente Tecnico di Garanzia in materia di partecipazione.
È stato perciò violato il principio: i) secondo cui l’attività di supporto
all’organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta dagli uffici di diretta
collaborazione degli organi politici (che giustifica l’individuazione fiduciaria dei
collaboratori da parte dell’organo politico e perciò la deroga alla regola del pubblico
concorso), non può estendersi fino allo svolgimento dell’attività gestionale di
competenza esclusiva della dirigenza stessa, pena la compromissione del principio
costituzionale di separazione tra le due funzioni; ii) che prevede il diploma di laurea
quale requisito di accesso all’incarico dirigenziale, requisito immanente nel sistema,
rinveniente dalla fonte normativa statale e confermato da quella regionale; iii) del
pubblico concorso quale obbligata modalità di reclutamento del personale delle
pubbliche amministrazioni (principio derogabile solo in pochi e motivati casi, tra cui
quello di assegnazione di incarichi di diretta collaborazione politica), sia pure a
tempo determinato. Nel caso di specie (con particolare riferimento ai due successivi
incarichi), al contrario, si è consentito a soggetto assunto fiduciariamente (e perciò
senza concorso) di svolgere funzioni gestionali, minando in radice l’obiettivo
perseguito dal precetto costituzionale, che è di garantire “un certo grado di
distinzione fra l’azione del governo, «normalmente legata agli interessi di una parte
politica», e quella dell’amministrazione, «vincolata invece ad agire senza distinzioni di
parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate
nell’ordinamento»… (sentenza n. 453 del 1990)” (Corte cost., sentenza 13 novembre
2009 n. 293); iv) della necessaria previa selezione pubblica, che per giurisprudenza
pacifica deve sempre precedere l’affidamento di incarichi dirigenziali (anche a
soggetti esterni).
Di conseguenza, è stato ipotizzato un danno ingiusto alla Regione Emilia
Romagna, pari a tutti gli oneri complessivamente sostenuti dalla Regione per il
pagamento degli emolumenti contrattuali per il periodo in cui il rapporto di lavoro
è stato efficace, e dunque per € 454.205,60 (compenso netto € 244.840,26), sulla base
dell’orientamento consolidato espresso dalla giurisprudenza contabile in merito alla
sussistenza di danno erariale nell’ipotesi di assunzione ad un impiego pubblico di
una persona che non sia in possesso del titolo di studio richiesto per le mansioni cui
venga adibita.
Tra i vari altri procedimenti, sono meritevoli di segnalazione quelli
riguardanti l’affidamento, da parte di Amministrazioni, anche locali, di incarichi,
variamente qualificati – con ricorso anche alle figure dei contratti di collaborazione
coordinata e continuativa e a progetto – a soggetti esterni.
In proposito, la Procura ha, innanzitutto, ricostruito il quadro normativo
ratione temporis vigente, quale desumibile in primis dall’art. 7, comma 6, del d. lgs.
30
n. 165/2001, nel testo risultante dalle modificazioni apportate dapprima dall’art. 32
del d. l. n. 223/2006, conv. con l. n. 248/2006, e poi dall’art. 46, comma 1, del d. l. n.
112/2008, conv. con l. n. 133/2008.
I diversi interventi di modifica del testo originario della norma hanno
tradotto in diritto positivo l’orientamento interpretativo della Corte dei conti. Si
veda, per tutte, Corte conti, Sez. Riun., del. n. 6/2005, che ha riepilogato come segue
i “criteri per valutare la legittimità degli incarichi (…) esterni: rispondenza dell’incarico
agli obiettivi dell’amministrazione; inesistenza, all’interno della propria organizzazione,
della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo
di una reale ricognizione; indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo
svolgimento dell’incarico; indicazione della durata dell’incarico; proporzione fra il
compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione”.
Con specifico riguardo al requisito della “particolare e comprovata
specializzazione”, il Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del
Consiglio dei Ministri ha rilevato come la lettera della legge, “ponendo l’accento
sull’elevata competenza e coordinata con il presupposto dell’assenza di competenze
analoghe in termini qualitativi all’interno dell’amministrazione fa ritenere impossibile
il ricorso a qualsiasi rapporto di collaborazione esterna per attività non altamente
qualificate, con la conseguente illegittimità di qualsiasi tipologia di contratto stipulato
in violazione di tali presupposti, rafforzando, pertanto, quanto già indicato alla lettera
c) del comma 6 dell’articolo 7, citato”. In difetto dei presupposti in parola, “si dovrà
ricorrere, principalmente, alle risorse interne alle amministrazioni o ad altri istituti,
quali le assegnazioni temporanee di personale da altre amministrazioni, o valutare, con
l’opportuna prudenza, l’eventualità di ricorrere a strumenti diversi, quali gli appalti di
servizi” (DFP, circ. n. 2/2008).
Nella giurisprudenza di responsabilità, è stato affermato, a tal riguardo, che
“il ricorso a prestazioni intellettuali da parte di soggetti estranei all'amministrazione,
secondo quanto stabilito dall'art. 7 comma 6 d.lg. n. 165/2001, può essere ritenuto
legittimo se si debbano risolvere problemi specifici di competenza dell'ente, aventi
carattere contingente e speciale, a fronte di accertata carenza strutturale di personale, che
oggettivamente non consente in modo adeguato l'esercizio di determinate funzioni
pubbliche” (Corte conti. Sez. giur. Lazio, n. 703/2013).
Si è, altresì, precisato che, “avendo il ricorso da parte delle p.a. ad incarichi
professionali esterni natura eccezionale, esso può avvenire solamente alle condizioni
previste dalla legge (in particolare, l’art. 7 d.lg. n. 165/2001), che esprimono principi
di stretta interpretazione” (Corte conti, Sez. I, n. 557/2011).
Questa Procura ha affermato che dalla violazione di questo principio, e, cioè,
dall’affidamento di incarichi esterni in difetto dei presupposti di legge sopra
richiamati, discendono il danno erariale – da ravvisarsi nei compensi pagati al
destinatario dell’incarico – e la conseguente responsabilità degli amministratori e
dei dipendenti che hanno disposto o, comunque, agevolato l’affidamento e
l’esecuzione dell’incarico. Così, ad esempio, tale responsabilità ricorre quando
31
l’oggetto della prestazione rientri tra le funzioni ordinarie dell’Ente, “e non si [sia]
trattato quindi della soluzione di problematiche complesse e specifiche, ma di questioni
comportanti l’esercizio delle funzioni amministrative di carattere organizzatorio”; essa
sussiste, altresì, quando “non [sia] stata operata alcuna delimitazione di una
particolare e specifica questione da risolvere, per la quale fosse apparso necessario
acquisire l’apporto di un soggetto esperto, ma [sia] piuttosto stata trasferita una (…)
parte della attività ordinaria dell’ente” (Corte conti, Sez. giur. Friuli – Venezia Giulia,
n. 167/2011).
La Procura ha rilevato che nel medesimo senso si è orientata la Corte
Suprema di Cassazione, allorché si è pronunciata sul tema ai fini del riparto di
giurisdizione: “In tema di giurisdizione contabile, poiché l'amministrazione, in via
generale, deve provvedere ai suoi compiti con mezzi, organizzazione e personale propri,
la Corte dei conti può valutare se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano
adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, essendo
illegittimo il ricorso ad incarichi esterni riferibili ad attività rispetto alle quali manca il
presupposto del contenuto dell'alta professionalità o della riconducibilità ad un evento
straordinario al quale non si possa far fronte con la struttura burocratica interna, così
come richiesto dalla legge” (Cass. civ., Sez. Un., n. 10069/2011; a proposito della
responsabilità amministrativa conseguente al conferimento di incarichi esterni
illegittimi, cfr. anche, ex multis, Corte conti, Sez. III, n. 339/2012; Sez. giur. Reg.
Siciliana, n. 2489/2013).
Di assoluto rilievo, ha evidenziato questa Procura, è anche il comma 6-bis
dell’art. 7 del d. lgs. n. 165/2001, secondo il quale “Le amministrazioni pubbliche
disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative
per il conferimento degli incarichi di collaborazione”. Il mancato esperimento di
siffatte procedure comparative rende illegittimo l’incarico, e, al pari della violazione
delle altre previsioni di cui si è detto, provoca danno erariale (Corte conti, Sez. giur.
Lombardia, n. 642/2009).
Quanto, in particolare, ai contratti di collaborazione coordinata e
continuativa, si è posto in evidenza come si tratti di tipologia negoziale
comunemente ritenuta intermedia tra il lavoro autonomo, proprio dell’incarico
professionale, e il lavoro subordinato (art. 409 c.p.c.; art. 61 del d. lgs. n. 276/2003).
Essa si caratterizza per la continuazione della prestazione e la coordinazione
con l’organizzazione ed i fini del committente, dove, pertanto, quest’ultimo
conserva non un potere di direzione, ma di verifica della rispondenza della
prestazione ai propri obiettivi attraverso un potere di coordinamento spaziotemporale (così la circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica della
Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2 dell’11 marzo 2008).
La sua inclusione nell’alveo della disciplina in materia di incarichi esterni è
dovuta al d. l. n. 223/2006, conv. con l. n. 248/2006, che, nel sostituire il comma 6
dell’art. 7 del d. lgs. n. 165/2001, ha espressamente menzionato i contratti di
collaborazione coordinata e continuativa tra quelli che l’Amministrazione può
32
stipulare soltanto in presenza dei presupposti di legittimità prima ricordati.
Dopo l’entrata in vigore del c.d. decreto Bersani, il Dipartimento della
Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha emanato una
circolare, la n. 5 del 21 dicembre 2006, in cui ha osservato, in particolare, quanto
segue: “le amministrazioni, nello svolgimento delle proprie competenze, potranno
conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale
o coordinata e continuativa, determinando durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione, quando debbano soddisfare esigenze alle quali non sia possibile fare
fronte con il personale in servizio, dal punto di vista qualitativo e non quantitativo.
Pertanto, tali esigenze dovranno essere di natura temporanea e, al contempo, richiedere
l’apporto di prestazioni professionali altamente qualificate. Si sottolinea che i soggetti a
cui è possibile conferire sono dalla norma definiti come <<esperti di provata
competenza>>, quindi attinenti a professionalità non reperibili in ambito interno, ad
esempio verificandone la presenza attraverso la valutazione dei curricula del personale
in servizio, fermo rimanendo il rispetto della disciplina delle mansioni prevista
dall’articolo 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
La Corte dei conti ha chiosato, a tal riguardo, che “per l’espletamento delle
ordinarie
attività
amministrative
varrà
il
principio
generale
<<dell’autosufficienza>>” (Corte conti, Sez. autonomie, del. n. 6/2008).
Questa Procura ha quindi ritenuto che anche per le c.d. co.co.co., al pari delle
altre tipologie di incarichi esterni, valga quanto sopra si è detto circa il carattere
illecito dei contratti conclusi per lo svolgimento di attività che non presentino
carattere straordinario e non possano essere in alcun modo assicurate dal personale
in servizio, previa adozione delle necessarie misure organizzative da parte dell’Ente.
Ciò è stato, del resto, sancito dall’introduzione nel testo dell’art. 7, comma 6, del d.
lgs. n. 165/2001, da parte del d. l. n. 112/2008, conv. con l. m. 133/2008, della
seguente proposizione: “il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e
continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come
lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha
stipulato i contratti”. E’ stato, peraltro, precisato come, non trattandosi di una
fattispecie di carattere sanzionatorio, ma di una qualificazione ex lege di una certa
condotta come illecita (in proposito Corte conti, Sez. Riun., n. 12/QM/2011), non sia
preclusa all’interprete l’individuazione, quali responsabili del danno, di soggetti
diversi dalla persona che ha stipulato il contratto per conto dell’Amministrazione.
E ciò, tipicamente, allorquando la stipula non sia frutto dell’iniziativa di un
dirigente, ma dia mera attuazione a una deliberazione dell’organo politico o
comunque a un provvedimento “a monte” (e costituisca, pertanto, un atto dovuto),
come è accaduto nella maggior parte dei casi.
Allo stesso modo, ad avviso dell’Ufficio, si applica anche alle co.co.co. la
regola che impone la selezione dei collaboratori mediante procedura comparativa
(art. 7, comma 6-bis, del d. lgs. n. 165/2001).
Quanto qui affermato in merito alle collaborazioni coordinate e continuative
33
è stato ritenuto estensibile alla figura negoziale, pure ricorrente nelle vicende
oggetto delle cause in questione, del contratto di collaborazione a progetto
(co.co.pro.). Essa è definita dall’art. 61, comma 1, del d. lgs. n. 276/2003 come segue:
“i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e
senza vincolo di subordinazione, di cui all'articolo 409, n. 3, del codice di procedura
civile devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o
fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in
funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del
committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività
lavorativa”. La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, considera il co.co.pro.
“una particolare forma di lavoro autonomo”, il cui contenuto tipico è “costituito dal
carattere coordinato e continuativo della collaborazione, prevalentemente personale,
riconducibile a uno specifico progetto finalizzato al conseguimento di un risultato finale”
(Cass. civ., Sez. lav., n. 23021/2014).
Proprio il fatto che il co.co.pro. rappresenti, per così dire, un’evoluzione, e
comunque una species, della categoria delle collaborazioni coordinate e
continuative, consente, ad avviso di questa Procura, di ritenere le due figure del
tutto assimilabili ai fini dell’applicazione della disciplina sul conferimento di
incarichi esterni da parte delle pubbliche Amministrazioni.
Sulla base di queste premesse in punto di diritto, questa Procura, avendo
ravvisato numerosi casi di violazione delle disposizioni e dei principi richiamati, ha
provveduto a citare in giudizio gli amministratori e i funzionari che si sono resi
responsabili dell’indebito conferimento degli incarichi esterni.
Un esempio per tutti è fornito dalla citazione che ha riguardato le
contestazioni di responsabilità amministrativa nei confronti di amministratori e
dirigenti dell’ex AUSL di Ravenna (dal 2014 accorpata nell’AUSL di Romagna) per
l’illecito conferimento, negli anni dal 2009 al 2013, di alcuni incarichi di lavoro
autonomo, per oltre 130 mila euro in relazione alla realizzazione di un progetto
aziendale in cofinanziamento Stato-Regione Emilia Romagna, senza aver
preliminarmente verificato la presenza di risorse professionali interne utilizzabili
per il medesimo progetto, ai sensi dell’art. 7, comma 6, D.Lgs n. 165/2001 e s.m.i.,
nonché, sempre in violazione del medesimo precetto legislativo, per la mancanza
della necessaria, elevata competenza professionale in capo ai soggetti affidatari
degli incarichi in discorso.
Un significativo riconoscimento della bontà delle tesi sostenute da questa
Procura si rinviene nelle sentenze emesse dalla Sezione Giurisdizionale nel 2016
riguardo a tale tipologia di danno.
Viene in evidenza, in primo luogo, la sentenza n. 28 dell’8.3.2016 di condanna
del direttore dell’azienda speciale “CTC” della Camera di Commercio di Bologna ad
€7.000,00 per il danno da mancanza di utilitas della controprestazione in relazione
alla gestione gravemente negligente e l’invalido rinnovo tacito di alcuni contratti di
34
collaborazione autonoma con il responsabile p.t. dell’ufficio ragioneria; di condanna
di quest’ultimo, per una quota pari al 70% del totale, ad un importo di €65.800,00,
a titolo di danno indiretto derivante dal pagamento delle sanzioni imposte con atto
di recupero del credito d’imposta IRES (concernente gli anni d’imposta 2006, 2007,
2008 e 2009), n.THBCRCG00054/2011, emesso ai sensi dell'art. 1, comma 421, della
L. n.311/2004, credito dichiarato inesistente, per omessa presentazione al Fisco delle
dichiarazioni dei redditi aziendali (Mod. Unico) riferiti agli anni 2007, 2008, 2009 e
2010, e di conseguenza, indebitamente utilizzato in compensazione, ai sensi dell'art.
17 del D. Lgs. 241/1997.
Significativa è poi la sentenza n. 73 del 2016 resa in una vicenda relativa
all’assunzione dall’esterno, da parte del Presidente della Provincia di Parma, di una
dipendente presso l’Ufficio di Gabinetto del Presidente, con inquadramento
funzionale in Cat. D3, in carenza del titolo di studio richiesto (diploma di laurea) e
alla conseguente attribuzione dell’emolumento unico da parte dell’Amministrazione
provinciale, ai sensi dell’art. 90 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL). La indicata
dipendente era stata inquadrata, inizialmente (dal 2005 al 2010), in categoria D –
posizione economica D3 in difetto del prescritto titolo di studio, mentre nel
successivo periodo (fino al mese di giugno 2014) nella categoria corrispondente al
titolo di studio posseduto (C1), ma le era stato riconosciuto, tuttavia, un
trattamento economico complessivamente equivalente a quello in precedenza
erogato a seguito dell’inquadramento in categoria D.
Nella sentenza la Sezione, nel rigettare le eccezioni pregiudiziali di rito (tra
cui quella in punto giurisdizione e di inammissibilità della citazione per tardivo
deposito, ribadendo al riguardo il principio che in caso di pluralità di invitati <<…
il dies a quo del termine di centoventi giorni stabilito dal primo comma dell'art. 5 della
legge n. 19/94 decorre dalla data dell'ultima notifica del (contestuale) invito a
dedurre.>>), dopo aver rilevato che la Provincia di Parma non avesse <<introdotto
nel proprio regolamento di organizzazione (e neanche nello statuto) requisiti ulteriori o
diversi da quelli stabiliti dalla legge e dal CCNL in relazione ai requisiti professionali e
alla categoria di inquadramento dei dipendenti degli uffici di supporto>>, ha concluso
<<escludendo in radice che un dipendente privo di laurea potesse essere retribuito con
uno stipendio (così come invece ora prevede l’art. 90, comma 3-bis, introdotta dal d.l. n.
90/2014, applicabile ratione temporis a far data dall’entrata in vigore del predetto
provvedimento legislativo d’urgenza trattandosi, all’evidenza, di norma sostanziale e
dunque applicabile, ai sensi dell’art. 11 delle preleggi, per il futuro e, pertanto, non anche
alla fattispecie in esame)>> parametrato a quello dirigenziale, la cui attribuzione,
nel caso di specie, << costituisce frutto di grossolana imperizia>>, la quale <<inficia
sia le deliberazioni giuntali n. 855 del 2005, di inquadramento della signora … in
categoria D1, quanto le deliberazioni 647 del 2009 e 444 del 2010, di inquadramento
della stessa dipendente in categoria C1 ma con invariato mantenimento della
complessiva entità dell’emolumento (per un’ipotesi analoga, cfr. Corte conti – sez. giur.
Emilia-Romagna, sentt. n. 165/2014; n. 92/2014).>>.
35
Di conseguenza, ha condannato i 20 convenuti (tra cui, in primis, il
Presidente della Provincia p.t., poi i componenti di diverse Giunte provinciali e
infine i dirigenti che via via: rilasciarono i pareri di regolarità tecnica; presenziarono,
in veste di Segretario generale, alle adunanze di Giunta in cui si deliberò
l’emolumento unico spropositato; sottoscrissero e prorogarono il contratto di lavoro
de quo) a risarcire l’Amministrazione di appartenenza per un danno patrimoniale
pari a complessivi € 150.972,29.
3.2.3.- Danni nel settore dei lavori, delle forniture e dei servizi pubblici
Nella gestione e conduzione dei contratti di cui è parte la P.A., l’osservanza
delle norme comunitarie e nazionali, anche regolamentari, è essenziale al fine di
rafforzare la concorrenza nel mercato e di assicurare la realizzazione in tempi certi
e alle migliori condizioni in termini di qualità-prezzo degli interventi previsti,
evitando distorsioni e ripercussioni negative sull’intero sistema economico.
Nella delicata materia di cui trattasi, nell’anno appena trascorso sono stati
introdotti diversi significativi giudizi di responsabilità.
In proposito, la vicenda più rilevante è sicuramente quella riguardante il
“Civis” per la quale nel 2016 vi è stata una nuova citazione in giudizio nonché
l’emissione di una sentenza di condanna su una precedente citazione.
Questa Procura ha infatti chiamato in giudizio ex amministratori comunali
(tra i quali l’ex Sindaco di Bologna) e dell’Azienda consortile dei trasporti pubblici
ATC (poi confluita in Tper), in relazione alla procedura di appalto per la
realizzazione, nelle città di Bologna e San Lazzaro di Savena, del sistema di trasporto
pubblico a guida vincolata (TPGV) c.d.“Civis” (dal nome degli autobus), conclusasi
con la stipulazione del contratto avvenuta in data 14 febbraio 2004 tra ATC SpA,
soggetto attuatore dell’intervento de quo per conto del Comune di Bologna, e l’ATI
aggiudicataria composta da IRISBUS e dal Consorzio Cooperative Costruttori.
L’attività istruttoria ha consentito di far emergere molteplici indici
sintomatici di condotte illecite, foriere di un rilevantissimo danno erariale lesivo
delle finanze del Comune di Bologna e di ATC SpA e degli altri enti pubblici
coinvolti in qualità di cofinanziatori del progetto (per oltre 98 milioni di euro, allo
stato liquidati).
Con la citazione in argomento si è imputato ai convenuti: i) di aver appaltato
un sistema di trasporto che già ex ante appariva, sotto plurimi profili, di incerta
realizzazione e di pressoché certa inutilizzabilità finale in quanto non esistente “in
nessun’altra applicazione” (nonostante dovesse essere, in base alla documentazione
di gara, “funzionante, ancorché in via sperimentale”), non funzionante, non
affidabile, mai sperimentato prima; in sostanza di avere finanziato la
sperimentazione di un’opera pubblica inedita con risorse pubbliche, stipulando un
contratto pubblico aleatorio e perciò gravando la collettività del rischio economico
insito nella realizzazione di un sistema di trasporto mai realizzato prima, rischio che
invece avrebbe dovuto assumere l’appaltatore quale rischio d’impresa; ii) in secondo
36
luogo, di avere consentito la intera realizzazione dell’opera e i conseguenti
pagamenti a prescindere da collaudi e nullaosta per la sicurezza, anche parziali sui
singoli stralci, giacché i documenti di gara prevedevano le liquidazioni dei
SS.AA.LL. sic et simpliciter a carenze periodiche predeterminate; iii) la realizzazione
– al netto delle varianti contrattuali, intervenute dopo che il Ministero nel 2011
aveva certificato la definitiva (e quasi scontata) impossibilità di realizzare un
sistema di trasporto completamente automatico e a guida vincolata, che fosse altresì
“di regolare e affidabile funzionamento” su tutto il percorso – di un sistema di
trasporto, il Crealis Neo, che costituisce, allo stato degli atti e dei fatti, un normale
filobus a guida manuale e perciò un minus rispetto al Civis giacché integra anziché
un sistema di guida vincolata su tutto il percorso, un sistema “che prevede un
utilizzo della linea ottica soltanto nelle fasi di accostamento in banchina”; iv)
l’inutilità di tutte le opere e le forniture di beni e servizi strumentali alla realizzazione
del sistema di guida vincolata Civis, non necessarie anche per il funzionamento del
diverso e meno funzionale sistema di trasporto in fase di realizzazione (Crealis Neo).
Tale inutilità e minore funzionalità del sistema di trasporto oggetto di variante ha
cagionato la riduzione del contributo ministeriale nella misura del 30% rispetto a
quello riconosciuto al Civis (somma che il comune di Bologna si è accollata con
deliberazione consiliare n. 283/2015), facendo emergere la sussistenza di un danno
almeno pari a tale riduzione, dovuta alla rimodulazione progettuale di un sistema
viario irrealizzabile per come “previsto nel progetto originario”, che ha reso
“necessaria la riduzione del contributo ammissibile del 30%, a valere sia sulla flotta
degli autobus che sui costi fissi del sistema…” in un importo pari a 4.481.338,43
euro.
Tali ultimi assunti sono stati peraltro già valorizzati nella sentenza n. 141 del
4/8/2016 con la quale il Collegio bolognese ha condannato il Presidente p.t. di ATC,
convenuto con un atto di citazione precedente ma connesso alla medesima fattispecie,
sulla base di un riconosciuto «minore valore economico del sistema viario Crealis Neo,
rispetto all’originario sistema a guida ottica Civis», determinato dal cambio del
sistema di guida, avvenuto con la III variante progettuale del 2012 (del 29
novembre, che ha sostituito il Civis con il Crealis Neo), che ha a sua volta cagionato
«la motivata riduzione del contributo statale» così attestando «la riduzione sostanziale
del “valore economico del sistema Crealis Neo”».
La Sezione ha: i) riconosciuto che vi era tutta una serie di indici «che
avrebbero ragionevolmente consigliato di non procedere alla realizzazione
dell’originario progetto Civis a guida ottica», e che deponevano per la
«sostanziale irrealizzabilità del progetto originario» (pag. 63 punto 21); ii)
ritenuto il concorso del predetto amministratore di ATC (idem a pag. 63 e punto 21)
nella causazione del danno e non la sua responsabilità esclusiva. Per questo motivo
ha operato una riduzione dell’addebito al condannato nella misura del 10%: «occorre
tenere conto dell’apporto causale del comportamento del convenuto anche in relazione al
concorso ascrivibile a condotte di altri soggetti che – nello svolgimento della complessa
37
vicenda, come ricostruita in narrativa, dall’origine sino ai fatti, da ultimo, desumibili
dalla deliberazione del CIPE n. 25/2013 nonché dalla deliberazione del Consiglio
comunale di Bologna n. 283/2015 – a diverso titolo e in diverse occasioni, avrebbero
dovuto evitare o, quanto meno, limitare l’accollo al Comune di detta somma, ponendola
a carico (anche in quota parte) all’appaltatore ATI; detto apporto concausale dell’ing.
… alla determinazione del danno può ragionevolmente essere percentualizzata nella
misura del 10%; sicché il danno ascrivibile al convenuto viene quantificato in euro
448.133,84» (pag. 64 punto 22).
Altra importante azione di responsabilità amministrativa è quella esercitata
nei confronti del Presidente del Comitato Provinciale della CRI di Rimini, per avere
sottoscritto, e comunque per avere consentito -nella qualità di legale rappresentante
della sede territoriale della CRI- la efficacia di contratti e di clausole negoziali,
difformi dai parametri economici, vincolanti per le pubbliche amministrazioni,
relativamente a due contratti di telefonia.
Il danno erariale è stato quantificato -allo stato degli atti- nell’importo
complessivo di euro 7.791,98, pari alla differenza tra il minore prezzo fissato dalle
convenzioni Consip per i servizi di telefonia ed il maggiore prezzo liquidato per
effetto dei contratti stipulati con i gestori.
3.2.4.- Danni da illecito utilizzo di contributi e finanziamenti pubblici, anche
provenienti dall’Unione Europea
Materia di grande interesse per l’intera collettività, considerati gli esposti che
pervengono alla Procura con la richiesta di interventi a tutela del pubblico Erario,
è quella dei finanziamenti e contributi elargiti in vari settori e con finalità diverse.
Conseguentemente, diverse sono le iniziative intraprese da questa Procura al
riguardo.
Un primo significativo atto di citazione è quello con cui è stato contestato un
danno erariale di oltre 4,3 milioni di euro in relazione a una complessa fattispecie di
indebita percezioni di contributi pubblici. In particolare, si tratta delle agevolazioni
finanziarie di cui alla legge n. 488/1992, nel caso di specie rendicontate alla
Commissione europea nell’ambito del Programma Operativo Regionale Sicilia 20002006 (e infatti le prime indagini sono state svolte da una delegazione OLAF).
L’illecito è consistito nella manipolazione di alcuni dati rilevanti ai fini della
concessione del contributo: in primo luogo, il dato occupazionale è stato alterato
attraverso un abusivo ricorso alla cassa integrazione; inoltre, è stato falsato anche
l’apporto di “capitale proprio”, che doveva essere garantito nella misura di almeno
il 25% della spesa ammissibile.
La società convenuta ha fatto in modo di recuperare il denaro versato
attraverso sovrafatturazioni per l’acquisto di macchinari, servendosi della
collaborazione di più società estere, attraverso un complesso intreccio di transazioni
finanziarie, che ha coinvolto anche società aventi sede legale nelle Isole Vergini
Britanniche e a Panama.
38
Da qui la necessità di convenire in giudizio, oltre alla società beneficiaria delle
risorse pubbliche, nel frattempo fallita, anche la persona fisica, rivelatasi dominus
della società stessa, che ha falsamente dimostrato l’esistenza di requisiti per ottenere
il finanziamento pubblico, non consentendo che le risorse ottenute fossero destinate
conformemente alle finalità di sviluppo industriale previste dalla legge.
Del resto, la Corte dei conti, nei giudizi in cui è contestata un’analoga forma
di responsabilità amministrativa, ha avuto modo di precisare che «non v’è dubbio che
ogni irregolare utilizzo delle risorse pubbliche ricevute dal privato per la realizzazione di
un programma di promozione di un settore produttivo da parte della P.A., crea un danno
per l’ente che tali risorse ha erogato, in relazione al concreto andamento del programma
al quale il contributo stesso era funzionalizzato. In altri termini, in tutti i casi – come
in quello odierno – in cui l’erogazione di fondi pubblici a privati avviene in forza
dell’adesione ad un programma di attività varato dall’ente erogatore, il privato medesimo
diventa compartecipe fattivo di quell’attività pubblica, contribuendo a realizzare le
finalità perseguite con il programma stesso ed instaura, perciò, con il predetto ente un
rapporto funzionale di servizio» (così Corte conti, I sez. centr. app., 25 gennaio 2011,
n. 20).
Le condotte censurate hanno, quindi, consentito di ritenere superato, sul
distinto piano della responsabilità amministrativa, lo schermo della personalità
giuridica, interposto dalla società, formale beneficiaria dei predetti contributi, nella
determinazione del danno erariale consistito nell’illecita appropriazione delle
somme oggetto dei finanziamenti pubblici.
Secondo un autorevole insegnamento, la finalità che il giudizio di
responsabilità è diretto a realizzare è quella della «reintegrazione del pubblico
patrimonio che è quella stessa che fonda il potere del Procuratore generale di agire
d’ufficio al di fuori ed anche contro le determinazioni dell’amministrazione e anche dopo
l’acquisizione dei visti e pareri degli organi amministrativi di controllo» (in questi
termini, infatti, la Corte costituzionale nella sentenza n. 104 del 1989).
Da tali considerazioni discende che, nell’ipotesi, come quella in esame, in cui
si contesta la responsabilità amministrativa per illecita percezione di fondi, di
risorse pubbliche, di finanziamenti pubblici, ecc., da parte di società di capitali,
rimane un preciso onere del pubblico ministero contabile, in ossequio alla rilevata
finalità del giudizio di responsabilità, garantire massimamente le ragioni erariali,
non omettendo di convenire in giudizio il beneficiario effettivo del finanziamento,
anche di là dal principio della c.d. “fisicità” o “personalità” della condotta causativa
dell’illecito contestato (in termini v. Corte conti, sez. giur. Calabria, 22 luglio 2013,
n. 260).
Sul presupposto dell’accertata sistematica e reiterata violazione della
disciplina normativa e regolamentare di settore da parte degli organi sociali protempore della società convenuta, a quest’ultima è stata contestata una condotta
dolosa.
Occorre considerare, infatti, che l’indebita erogazione del finanziamento a
39
favore della stessa, sottraendo del pubblico denaro ad altre iniziative produttive e
ad altri soggetti imprenditoriali, costituisce di per sé un danno ingiusto subito
dall’Erario (in senso conforme v. Corte conti, sez. giur. Puglia, 2 settembre 2014, n.
576).
Si è fatto riferimento, a conferma della natura patrimoniale della
responsabilità amministrativa, anche alla citata sentenza Rigolio c. Italia del 13
maggio 2014 (ricorso n. 20148/09), con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo,
respingendo l’asserita assimilazione con il caso “Grande Stevens”, ha precisato che
il giudizio davanti alla Corte dei conti serve unicamente a riparare un pregiudizio
economico e ha pertanto natura risarcitoria e non punitiva.
A tale riguardo, tuttavia, si deve evidenziare che la medesima società è stata
dichiarata fallita dal Tribunale di Parma e che il curatore fallimentare ha dichiarato
che ben difficilmente il credito erariale potrà essere soddisfatto con moneta
fallimentare.
Nondimeno, in citazione si è evidenziato che la dichiarazione di fallimento
della società beneficiaria non pregiudica la giurisdizione contabile, atteso che
«Qualora la cognizione di un rapporto obbligatorio appartenga alla giurisdizione della
Corte dei conti, questa permane anche in caso di fallimento del debitore, sicché il giudice
contabile, davanti al quale sia dichiarato l’intervenuto fallimento, può pronunciare la
sentenza, i cui effetti confluiranno nella procedura concorsuale» (così Cass., sez. un.,
3.7.2012, n. 11073; in senso conforme ho citato anche Corte conti, sez. giur. Sicilia,
2 dicembre 2015, n. 1086)
In citazione si è quindi concluso nel senso della prevalenza della giurisdizione
contabile su quella fallimentare, con la conseguenza che la pretesa, che dovesse
risultare fondata all’esito del giudizio di responsabilità, nei confronti della società
fallita, sarebbe opponibile al fallimento, per evidenti ragioni di effettività della
tutela del credito erariale (per l’affermazione di tale rilevante principio si rinvia a
Corte conti, sez. giur. Emilia Romagna, 15.3.2012, n. 43, secondo cui «l’azione
contabile si serve degli istituti di diritto comune ma non può essere equiparata ad
un’azione di esecuzione individuale, pertanto non è conferente il richiamato art. 51 L.F.
poiché l’azione contabile è un’azione pubblica (non individuale e privata) a tutela di un
interesse pubblico primario indisponibile che non soggiace quindi alla par condicio»).
A ciò si aggiunge che, nel tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità, la
società convenuta aveva già presentato domanda di concordato preventivo con
continuazione dell’attività d’impresa attraverso una società di nuova costituzione
(la DIT s.r.l.), cui ha conferito il ramo d’azienda costituito dallo stabilimento
oggetto del finanziamento ex l. n. 488/1992, nonostante che la società stessa avesse
conseguito, nel 2013, un fatturato superiore ai 13 milioni di euro.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, sono stati evidenziati pertanto
plurimi e convergenti elementi per affermare la responsabilità amministrativa dei
convenuti in solido tra loro e giungere alla richiesta di una loro condanna al
risarcimento integrale del danno accertato (essendo inconfutabile la giurisdizione
40
della Corte dei conti in questo caso: cfr., in luogo di molti, Cass., S.U., 9 gennaio
2013, n. 295, che ha affermato la seguente massima: «L’amministratore di una società
privata destinataria di fondi pubblici, del quale si prospetti una condotta di dolosa
appropriazione dei finanziamenti, è soggetto alla responsabilità per danno erariale e alla
giurisdizione della Corte dei conti, atteso che la società beneficiaria dell’erogazione
concorre alla realizzazione del programma della P.A., instaurando con questa un
rapporto di servizio, sicché la responsabilità amministrativa attinge anche coloro che
intrattengano con la società un rapporto organico»; mentre, nell’ambito della
giurisprudenza contabile, può essere utile evocare Corte conti, I sez. centr. app, 23
gennaio 2012, n. 33, secondo cui «I privati beneficiari delle erogazioni pubbliche
possono essere responsabili in base al mero rapporto di finanziamento per il semplice
fatto della distrazione dei contributi dalle finalità programmate. E ciò è sufficiente ad
incardinare la giurisdizione di questa Corte»).
Continuando l’azione condotta negli anni precedenti e in linea con le
indicazioni impartite dalla Procura Generale, diverse chiamate in giudizio hanno
riguardato l’indebita erogazione di finanziamenti dell’Unione Europea (fondi
FEAGA) e nazionali in agricoltura di cui ai regolamenti comunitari 1782/03 e 73/09;
le denunce di danno discendono dalle segnalazioni della Guardia di Finanza
effettuate nell’ambito del progetto di lavoro denominato “Piano d’azione
BONIFICA” ideato dal Nucleo Speciale della Guardia di Finanza di Roma – Sezione
Spesa Pubblica e Repressione Frodi Comunitarie.
Le attività istruttorie svolte hanno rilevato che, in svariati casi, anche in
Emilia-Romagna, percettori di contributi europei avevano dichiarato di aver
ricevuto, tra l’altro, in affitto particelle di terreni agricoli di proprietà di soggetti
che, dagli accertamenti eseguiti, risultavano in realtà deceduti in data antecedente
la stipula del relativo contratto di affitto di fondi rustici e la registrazione della
relativa denuncia.
Le illiceità contestate, consistenti in molti casi nella presentazione di false
dichiarazioni sostitutive di certificazioni o di atti di notorietà, in merito alla
denunzia di contratti di affitto con “danti causa” inesistenti (in quanto deceduti
all’epoca della dichiarata data di stipula dei contratti) o del tutto ignari
dell’operazione negoziale, determinano, così come precisato dall’Agea/Pagatore e
dall’Agecontrol, la nullità delle domande stesse, essendo quello della sottoscrizione
requisito ad substantiam e non requisito meramente formale.
Chiamati a rispondere del nocumento arrecato all’Erario, di notevole importo
nel suo ammontare complessivo, sono stati sia i produttori agricoli sia gli operatori
accreditati ai locali CAA che, utilizzando illecitamente l’accesso ai rispettivi sistemi
informatizzati ed al SIAN, hanno intestato ed istruito domande di aiuto a soggetti
scomparsi.
Numerose altre istruttorie nell’ambito del “Piano d’azione BONIFICA” sono
in corso.
41
Anche dalle evidenziate fattispecie dedotte in giudizio emerge l’impegno,
sempre più rilevante, di questa Procura nell’area del contrasto alle frodi ed alle
irregolarità nella percezione ed utilizzazione di risorse pubbliche erogate dall’Unione
Europea.
Oggi, infatti, viene affermata la giurisdizione della Corte dei conti anche per
i finanziamenti direttamente erogati ai privati dall’Unione Europea, senza
l’intermediazione dell’Amministrazione italiana. Perseguendo i danni prodotti
direttamente ai bilanci comunitari, il Pubblico Ministero contabile si caratterizza,
quindi, sempre più quale garante degli equilibri finanziari nazionali ed europei.
Da segnalare, sul tema, la forte collaborazione reciproca fra la Corte dei conti
e l’OLAF (Ufficio europeo per la lotta antifrode) con il quale, nel settembre del 2013,
la Procura Generale della Corte ha rinnovato un “Accordo di cooperazione
amministrativa”.
Tale Accordo prevede la cooperazione e lo scambio di informazioni e dati,
l’assistenza nelle indagini, la condivisione delle analisi strategiche e l’incentivazione
delle attività di formazione del personale nonché l’assistenza dell’OLAF per
l’esecuzione, da parte dell’Unione, di sentenze emesse dalla Corte dei conti a favore
della medesima, nelle ipotesi di frodi sui fondi diretti.
La peculiarità di siffatta tipologia di illeciti risiede nel fatto che - in
conformità ad un ormai pacifico orientamento giurisprudenziale, di poi avallato
dalla Corte di Cassazione - la responsabilità amministrativa viene ravvisata
direttamente in capo al soggetto privato che ha percepito o utilizzato indebitamente
il contributo o il finanziamento pubblico, in assenza, quindi, di un precostituito
rapporto di impiego o di servizio tra costui e l’amministrazione danneggiata che lo
ha erogato.
Secondo tale indirizzo, infatti, – così superandosi interpretativamente vetusti
schemi concettuali – ciò che è dirimente ai fini del radicamento della giurisdizione
della Corte dei conti non è punto l’elemento soggettivo dell’esistenza di un
preesistente rapporto di impiego e/o di servizio tra l’autore del danno e l’Ente
danneggiato, bensì quello oggettivo della natura pubblica delle risorse attribuite e
la loro finalizzazione alla realizzazione di un programma di interesse parimenti
pubblico.
La riferita giurisprudenza è, inoltre, ferma nel ritenere che, nell’ipotesi in cui
il beneficiario del finanziamento pubblico abbia – come frequentemente accade natura societaria o associativa, l’azione risarcitoria ben può essere esercitata anche
nei confronti della persona fisica che rivestiva la qualità di amministratore o nei
confronti del quale sia riconoscibile la qualità di effettivo dominus della persona
giuridica, poiché, in tal caso, la percezione del contributo con mezzi fraudolenti,
ovvero la sua successiva distrazione dalle finalità di interesse pubblico, fa assumere
a costui un rilievo autonomo e una propria soggettività nella gestione delle
pubbliche risorse, che trascende l’assetto societario o associativo.
Ciò consente di conseguire, a volte, concreti risultati sul piano del recupero
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dell’indebito, posto che assai spesso ci si trova dinanzi a società fallite o in
liquidazione, ad associazioni ormai sciolte, oppure, nella migliore delle ipotesi, a
situazioni in cui il patrimonio sociale è insussistente o, comunque, incapiente.
Parimenti, è stata riscontrata una illecita e indebita percezione di contributi
erogati a sostegno di attività produttive, risorse che, se oculatamente gestite e
realmente impiegate nel tessuto produttivo regionale, avrebbero potuto creare
presupposti di effettiva crescita economica e occupazionale per il territorio.
Due citazioni riguardano enti del c.d. terzo settore e no-profit area. Si tratta
di fattispecie di indebita appropriazione di contributi pubblici finalizzati ad attività
culturali, mai dimostrate, e del pagamento a forfait o pié di lista di somme ad una
onlus che svolge attività di manutenzione di spazi ed aree pubbliche, dove viene
contestato anche l’affidamento diretto di servizi di rilevanza industriale ed
imprenditoriale.
Rilevante, in proposito, è poi la sentenza n. 131 del 15.7.2016 relativa a un
giudizio di responsabilità amministrativa per indebita percezione di contributi
pubblici, ai sensi delle leggi n. 488/1992 e n. 46/1982, per un programma di sviluppo
precompetitivo e di industrializzazione mai realizzato.
In pieno accoglimento delle richieste della Procura Regionale, la sentenza ha
condannato, in solido tra loro, sia la società, beneficiaria del finanziamento, sia il suo
amministratore unico, al risarcimento in favore dell’Erario del danno patrimoniale
nell’importo di euro 2.977.547,00, oltre a rivalutazione monetaria e interessi di mora
sulla somma rivalutata anno per anno, con decorrenza dalle date di indebita
erogazione delle diverse tranches di finanziamento, nonché interessi legali dalla data
di deposito della sentenza e fino all’effettivo soddisfo.
Affermata la giurisdizione della Corte dei conti, la sentenza ha accertato i
numerosi fatti distrattivi posti in essere dall’amministratore della società, che in
diverse occasioni ha prelevato da conti correnti intestati alla società importi in
contanti, nonché emesso assegni circolari a lui intestati e posti all’incasso da terzi
non riconducibili all’attività della società.
La sentenza ha così affermato che «L’erogazione dei finanziamenti, sottraendo
del pubblico denaro ad altre iniziative produttive e ad altri soggetti imprenditoriali, che
avrebbero invece effettivamente realizzato il programma di interesse pubblico, costituisce
di per sé un danno ingiusto subito dall’Erario».
3.2.5.- Danni nel settore della sanità pubblica
Diverse sono state le iniziative portate a compimento nel 2016 da questa
Procura in tale delicato settore.
Al riguardo, diverse citazioni in giudizio riguardano alcune situazioni
d'incompatibilità di dipendenti collaboratori-infermieri dell’Azienda OspedalieroUniversitaria di Bologna Policlinico Sant'Orsola-Malpighi, assoggettati a regime di
esclusività nel rapporto di servizio aziendale, per incarichi professionali di natura
43
infermieristica non autorizzati ed espletati presso strutture sanitarie private, e
perciò retribuiti in violazione dell'art. 53, c. 7 del D. Lgs. n. 165/2001.
All'esito delle risultanze probatorie acquisite, il danno erariale cagionato alla
P.A. è commisurabile alla entità complessiva degli emolumenti indebitamente
percepiti dai convenuti, in posizione soggettiva d'incompatibilità, per un
ammontare complessivo superiore a 190 mila euro.
Fattispecie simile di responsabilità amministrativo-contabile è quella a
carico di un Collaboratore Professionale Sanitario Infermiere, in servizio presso
l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma per effetto del rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, in regime di impiego a tempo pieno, per avere adottato
comportamenti contrari ai doveri di servizio, i quali hanno generato danno erariale
nella misura di euro 41.846,90 per l’omesso riversamento dei compensi professionali
percepiti in conflitto d’interesse e nella misura di euro 2.500, computati con la stima
equitativa del disservizio arrecato all’organizzazione ed alla gestione delle attività
sanitarie.
Secondo la contestazione del fatto di rilevanza penale, l’infermiere
professionale in servizio presso il Centro Prelievi dell’Azienda OspedalieroUniversitaria di Parma, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso
ed in tempi diversi, con artifici e raggiri -consistenti nel presentare in modo reiterato
certificati medici attestanti falsamente un suo impedimento a svolgere attività
lavorativa,- durante l’assenza per malattia dal servizio pubblico, si recava nel
medesimo periodo presso le sedi dell’AVIS della provincia di Modena, dove prestava
la propria opera professionale retribuita in esecuzione degli obblighi negoziali
accettati nel contratto di collaborazione coordinata e continuativa sottoscritto con
l’AVIS sede di Modena e senza aver mai provveduto a richiedere all’Azienda
sanitaria alcuna autorizzazione allo svolgimento di prestazioni extraprofessionali, in
difformità dagli obblighi contemplati dall’art. 53 D. Lgs. n. 165/2001 in materia di
incompatibilità e di cumulo di impieghi dei dipendenti delle PP.AA..
Una conferma delle tesi della Procura si è avuta con la sentenza n. 47 del
4.4.2016 che ha condannato un medico in servizio presso il Pronto Soccorso del
Policlinico di Modena per un triplice ordine di ragioni: 1) un profilo di danno diretto,
individuato negli oneri stipendiali rimasti definitivamente a carico dell’Azienda
ospedaliero-universitaria per il periodo in cui il sanitario risultava assente per
malattia dal servizio mentre in realtà svolgeva attività lavorativa non autorizzata
presso un ambulatorio modenese; 2) il danno da disservizio, che il collegio, in
accoglimento delle prospettazioni della Procura, individuandolo «nell’effetto
dannoso causato all’organizzazione e allo svolgimento dell’attività amministrativa dal
comportamento illecito di un dipendente, che abbia impedito il conseguimento della
attesa legalità dell’azione pubblica e abbia causato inefficacia o inefficienza di tale
azione, con conseguente mancato raggiungimento delle utilità previste in rapporto alle
risorse impiegate», ha determinato nelle somme corrispondenti al mancato incasso,
44
da parte dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Modena, delle somme dovute dai
pazienti “privati” del convenuto a titolo di compartecipazione alla spesa sanitaria
per accertamenti eseguiti presso il Pronto soccorso modenese, nonché in altri costi
organizzativi ingiustamente sopportati dall’amministrazione sanitaria; 3) il danno
all’immagine, correlato all’accertamento definitivo, in sede penale, di reati contro
la pubblica amministrazione (peculato e abuso d’ufficio), ancorché con sentenza di
pena patteggiata (che, tuttavia, il collegio ha ritenuto del tutto equivalente, a questi
fini, a una sentenza di condanna).
Diverse altre citazioni riguardano casi di c.d. “colpa medica”.
Al riguardo si evidenzia che pervengono numerosissime denunce a questa
Procura poiché le Aziende unità sanitarie locali coinvolte corrispondono, con
finalità transattiva, somme a pazienti danneggiati da comportamenti negligenti e
imperiti dei curanti. Di queste somme può quindi, previa scrupolosa verifica della
sussistenza dei relativi requisiti, essere chiesto il ristoro ai responsabili degli atti di
malpractice sanitaria.
Trattandosi di danno erariale indiretto, infatti, il pagamento della somma a
titolo di ristoro transattivo da parte dell’amministrazione pubblica costituisce un
presupposto di fatto sul quale il giudice contabile deve svolgere le sue considerazioni
riguardo ai presupposti soggettivi e alla sussistenza di un nesso di causalità tra la
condotta dei convenuti e il danno arrecato all’amministrazione di appartenenza
onde procedere a un’autonoma valutazione sull’esistenza degli elementi della
responsabilità qui contestata.
Pertanto, le citazioni depositate sono state esitate dopo accurate ed attente
verifiche ed all’esito di acquisizione delle linee guida nazionali ed internazionali in
ordine alla tipologia di trattamento sanitario da cui origina il danno all’utente poi
risarcito dal sistema sanitario regionale.
In proposito, in un giudizio è emerso un chiaro segnale di difformità rispetto
alle regole di buona pratica clinica dei comportamenti tenuti dai sanitari convenuti
in una vicenda attinente a un errore chirurgico e a un connesso errore diagnostico,
laddove tale conclusione è rilevante, ai fini dell’affermazione della gravità della
colpa, anche alla luce dell’articolo 3 del decreto legge n. 158 del 2012, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 189 del 2012. Tale giudizio si è basato sulle concordi
valutazioni medico-legali del consulente tecnico nel giudizio civile di risarcimento
del danno alla salute, nonché del servizio medico-legale interno dell’azienda
sanitaria coinvolta.
In un altro giudizio, la contestazione ha riguardato una grave omissione
diagnostica commessa dal medico del pronto soccorso e dallo specialista ortopedico
che non si sono avveduti di un’ischemia acuta all’arto inferiore destro della paziente,
che, successivamente, per tale inadempienza, è stata costretta a subire
l’amputazione dell’arto stesso.
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La contestazione di responsabilità amministrativa ha fatto leva sulla
valutazione medico-legale delle consulenti tecniche del pubblico ministero penale,
che hanno ascritto, senza incertezze, dubbi o perplessità sul piano causale, alle
condotte gravemente colpose dei convenuti il danno alla salute subito dalla paziente
(nella stessa direzione, peraltro, si collocano anche il parere dell’unità operativa di
medicina legale dell’azienda sanitaria, nonché la relazione medico-legale del
fiduciario dell’impresa di assicurazioni della medesima azienda sanitaria).
Si tratta di omissioni, negligenze, disattenzioni, trascuratezze e imperizie che
hanno condotto, secondo le plurime e concordi valutazioni medico-legali sopra
richiamate, a un chiaro, colpevole e significativo ritardo nel formulare la diagnosi
di ischemia acuta nell’arto inferiore destro e nel determinare l’aggravamento delle
condizioni della paziente con conseguente necessità di procedere all’amputazione
dell’arto stesso.
Le regole di condotta, da osservare nel caso di specie, erano chiare e
pienamente esigibili da un professionista minimamente accorto all’esecuzione degli
atti fondamentali della propria professione con la conseguenza che, a causa di tali
gravi negligenze, si è determinato nei confronti della paziente un danno alla salute,
che l’azienda sanitaria è stata costretta a riconoscere transattivamente con
l’esborso, «a tacitazione e soddisfazione definitiva di tutti i danni», di una somma, di
cui la Procura Regionale ha chiesto l’integrale ristoro con la condanna da parte del
giudice contabile dei dipendenti dell’azienda sanitaria, individuati quali effettivi
responsabili del danno.
Lo scrupolo con cui agisce questa Procura è testimoniato dalle sentenze
emesse, in tale materia, dalla Sezione Giurisdizionale nel 2016.
In primo luogo, viene in rilievo la sentenza n. 12 del 2016. Nella fattispecie,
la Procura Regionale conveniva in giudizio un medico anestesista in servizio presso
l’Azienda Ospedaliero-Universitaria (AOU) di Parma, per sentirlo condannare al
risarcimento del danno erariale, pari ad euro 15.500,00 oltre rivalutazione ed
interessi. La vicenda di danno traeva origine dal risarcimento liquidato e corrisposto
ad un paziente nella stessa misura di euro 15.500,00 oggetto di richiesta risarcitoria,
a titolo di ristoro dei danni da quest’ultimo patiti per effetto ed a causa dell’anestesia
praticata nel corso di un intervento chirurgico di “uretrotomia endoscopica” al quale
quegli veniva sottoposto a seguito di ricovero presso l’U.O. di Urologia della
predetta Azienda in quanto affetto da “stenosi uretrale”. Dalla documentazione
medico legale prodotta dall’Azienda si evinceva che durante l’induzione
dell’anestetico, si verificava uno “stravaso” da un’agocannula malamente
posizionata al braccio destro, che richiedeva l’applicazione di un impacco caldoumido che, a sua volta, ed a causa dell’alta temperatura dell’acqua impiegata,
produceva una ustione di II grado sul braccio del paziente, rendendo necessaria la
successiva effettuazione di un intervento di chirurgia plastica finalizzato a lenire e
curare gli effetti della procurata ustione.
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Vi è poi la sentenza n. 181 del 22.11.2016 che, in pieno accoglimento delle
richiesta della Procura Regionale, ha condannato, al risarcimento del danno erariale
c.d. “indiretto”, primo operatore, anestesista e medico dimettente, i quali, in
occasione di un ricovero per un intervento elettivo di adenomectomia prostatica,
hanno ignorato un dato fondamentale della cartella clinica.
Infatti, nell’ambito degli esami propedeutici all’intervento chirurgico,
l’esame radiologico standard del torace evidenziò la presenza di un’opacità nodulare
del diametro di circa 2 cm, in corrispondenza del lobo inferiore di destra,
opportunamente segnalata nel corrispondente referto radiologico che suggeriva la
necessità di approfondimenti.
Questa necessità di approfondimenti diagnostici è stata ignorata dai
convenuti, i quali non segnalarono alcunché al paziente, che è successivamente
deceduto per un carcinoma polmonare (appunto).
Con particolare riguardo al giudizio di colpa grave, la sentenza ha sottolineato
che: «La condotta richiesta ai sanitari convenuti non appare concretare una prestazione
implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, configurandosi
piuttosto come un’attenzione doverosa riguardo ai dati documentali presenti in cartella
clinica e alle esigenze di cura e di assistenza del paziente. L’omessa lettura del referto
radiologico integra, pertanto, un profilo particolarmente rilevante nel giudizio sulla
gravità della colpa dei convenuti».
Da segnalare, inoltre, anche se emessa in una diversa fattispecie, la sentenza
n.156 del 6/09/2016, di condanna a titolo di danno diretto, previo sequestro
conservativo confermato e convertito in pignoramento, di una dipendente con
qualifica di assistente amministrativo, categoria C, in servizio dal 1976 presso il
Distretto Ausl di Bologna - Supporto Amministrativo del Servizio Handicap Adulti
(U.S.S.I.) per condotte fraudolente di illecito incameramento di ausili finanziari
pubblici erogabili, a vario titolo (contributi, assegni di cura, borse lavoro, ecc.), in
favore di persone diversamente abili o dei familiari che ne hanno diretta cura, per un
totale di € 256.880,44.
Degno di nota è, da ultimo, l’atto di appello che questa Procura proposto
avverso la sentenza n. 74 del 2.5.2016, che ha deciso un giudizio in materia di
responsabilità medica.
Di là dai profili più strettamente attinenti alle specificità del caso concreto ed
alla ricostruzione dell’elemento soggettivo della colpa grave, merita di essere
sottolineata la parte dell’atto di appello in cui sono state svolte considerazioni
inerenti alla portata delle linee guide nel giudizio di responsabilità amministrativa.
I suddetti passaggi si ritrovano anche in un altro appello in materia di “colpa
medica”, avverso la quasi coeva sentenza n. 49 del 7.4.2016.
3.2.6.- Danni relativi ai c.d. “costi della politica”
Nel corso del 2016, sono stati discussi davanti alla Sezione giurisdizionale
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regionale per l’Emilia Romagna molti dei giudizi avviati nel 2015 dalla Procura
Regionale su vicende che hanno riguardato i Gruppi presenti nell’Assemblea
regionale nella scorsa legislatura e dei quali si è in attesa delle relative decisioni di
merito.
Con diverse sentenze-ordinanze, infatti, sono state rigettate le eccezioni
preliminari delle parti convenute ed è stato disposto il riordino della documentazione
di spesa prodotta dalla Procura “…che consenta di risalire in modo diretto dall’importo
contestato per voce tipologica di spesa (es.: taxi, pasti, alberghi) alla documentazione
istruttoria che ne costituisce il fondamento (es.: scontrini, locandine), con indicazione,
ove esista, della causale, risultante a stampa o autografa…” pur “…costituendo
materiale probatorio idoneo a supportare le pretese attrici…”;
Meritevole di segnalazione è poi un’altra fattispecie, riguardante l’indebito
utilizzo di permessi orari previsti per attività inerenti alla carica di Sindaco.
La vicenda è relativa alla fruizione di permessi lavorativi da parte di un
dipendente della Regione Emilia Romagna, all’epoca dei fatti Sindaco di un
Comune della Provincia di Bologna, per lo svolgimento di sedicente attività
connessa al mandato istituzionale. In particolare, il primo cittadino di tale Comune:
i) indiceva riunioni di Giunta informali/non deliberative, e/o attestava ore in più
rispetto a quelle realmente impiegate per partecipare alle sedute di Giunta formali;
ii) usufruiva dei permessi generici retribuiti omettendo sistematicamente di indicare
(e documentare) la causa giustificatrice dell’assenza e la inerenza all’espletamento
del mandato istituzionale.
A tal fine, si avvaleva della collaborazione di due dipendenti del Comune –
inquadrate nell’apposito Servizio staff, da egli stesso istituito – che producevano
attestazioni compilate con grave superficialità, in merito all’attività istituzionale
del sindaco, in quanto non supportate da alcun riscontro dimostrativo.
Di conseguenza, rendicontava al proprio datore di lavoro, per l’espletamento
del proprio mandato, un monte ore non documentato, atteso che non era supportato
né da alcun verbale di deliberazione relativo ad effettive e formali riunioni di Giunta
(intendendosi con tale espressione le sedute produttive di delibere, giusto l’art. 48
del TUEL “la Giunta collabora con il Sindaco e opera attraverso deliberazioni
collegiali”), né, nella gran parte dei casi, da documentazione di sorta in merito al
concreto svolgimento di attività connesse al mandato elettivo, nonostante le
contrarie attestazioni rese da funzionari comunali compiacenti o negligenti, in
palese violazione o elusione del paradigma di cui all'art. 79, comma 6 del TUEL, il
quale esige una pronta e puntuale attestazione delle (reali) attività connesse
all’espletamento del mandato.
In sostanza, egli non ha prodotto alcuna documentazione né
autocertificazione di sorta attestante lo svolgimento di attività funzionale
all’esercizio del mandato, onde fruire di permessi retribuiti (che per tali ragioni,
sarebbero) indebiti, per complessivi € 94.887,51, erogati all’ex sindaco dal suo
datore di lavoro pubblico, la Regione Emilia Romagna.
48
Sempre nell’ambito dei c.d. “costi della politica”, è da segnalare la sentenza
n. 15/2016.
Con “esposto” di un consigliere comunale di un Comune in provincia di
Ferrara, veniva segnalata l’esistenza, prevista dalla Statuto comunale, di
quattordici c.d. “Consigli di Partecipazione” (uno per ciascuna delle tredici frazioni
più uno per il Comune capoluogo).
Si evinceva al riguardo che fondi comunali venivano assegnati e ripartiti
annualmente ai predetti organismi sulla base di un “Regolamento comunale dei
Consigli di Partecipazione” approvato con Deliberazione del Consiglio Comunale e
più volte modificato successivamente.
Ciò detto, allo stato delle prove documentali acquisite nell’espletamento
dell’attività istruttoria svolta, questa Procura regionale ha ritenuto sussistenti
elementi idonei a prospettare una fattispecie di responsabilità amministrativa
imputabile al Sindaco pro tempore, all’assessore proponente della deliberazione ed ai
consiglieri comunali che approvarono la stessa, nonché al segretario generale pro
tempore del Comune che espresse il parere di regolarità tecnica sulla predetta, i quali,
anziché disporne e attivarsi per la cessazione, hanno assicurato la prosecuzione di
stanziamenti ed erogazioni di risorse comunali del tutto palesemente contra legem in
favore dei predetti organismi per l’ammontare complessivo di euro 15.138,07.
3.2.7.- Danni indiretti, debiti fuori bilancio ed “equa riparazione”
Nella giurisprudenza della Corte dei conti si intende per danno indiretto il
pregiudizio occorso all’amministrazione che sia stata condannata a risarcire soggetti
terzi per fatto imputabile a suoi agenti.
In tal caso, alla Procura regionale compete l’azione nei confronti dei pubblici
amministratori o funzionari che abbiano, in concreto, tenuto il comportamento
lesivo.
In questo contesto viene quindi in rilievo l’azione promossa da questo Ufficio
nei confronti di pubblici funzionari e dirigenti che si ritiene abbiano arrecato danno
all’amministrazione di appartenenza attraverso l’adozione di provvedimenti
illegittimi e in violazione dei propri doveri di servizio, coinvolgendola in contenziosi
civili e penali, con conseguente pagamento da parte della stessa delle somme dovute
contrattualmente, a titolo di risarcimento danni e spese di giudizio.
Si assiste, poi, sovente, al ricorso al riconoscimento del debito fuori bilancio
per far fronte alle spese derivanti dalle statuizioni adottate nei giudizi intentati nei
suoi confronti e in cui risulta soccombente.
Diverse citazioni in giudizio riguardano atti di transazione conclusi dal
Ministero dell’Interno con i soggetti che hanno subìto i danni provocati a persone e a
cose a seguito di operazioni di polizia giudiziaria o comunque ad opera di agenti di
p.g. ed hanno toccato temi di profondo spessore e di vasta eco nell’opinione pubblica
quali l’eccesso colposo nell’uso delle armi da parte di personale appartenente alle
Forze di Polizia.
49
Una prima fattispecie, che integra e completa quella relativa ad un
precedente giudizio, attiene all’atto di transazione, stipulato presso la Prefettura di
Ferrara nel 2010 tra il Prefetto e gli eredi di una persona deceduta in dipendenza
dell’azione di agenti di polizia giudiziaria, con apposizione del visto di legalità
dell’Avvocatura dello Stato ed autorizzazione al pagamento della somma
complessiva di euro 1.948.184,95, comprensiva della rivalutazione monetaria del
3%, per i fatti accertati in sede penale.
Infatti, nel 2009 in Ferrara, nel contesto di un’operazione di polizia condotta
da agenti della Polizia di Stato, decedeva purtroppo un giovane.
A seguito del tragico evento, che aveva ovviamente molta diffusione negli
organi di informazione e nell’opinione pubblica, presso il Tribunale di Ferrara
venivano avviati diversi procedimenti penali nei confronti degli agenti della Polizia
di Stato operanti, dipendenti del Ministero dell’Interno, in ciascuno dei quali si
costituivano parti civili i genitori, il fratello ed il nonno del giovane deceduto.
Con l’atto di transazione menzionato, l’Amministrazione risarciva il danno
prodotto dai suoi agenti e pertanto si determinava un danno indiretto all’Erario di
cui sono stati chiamati, da parte di questa Procura Regionale, a rispondere gli agenti
operanti.
Un’altra fattispecie simile riguarda sempre una vicenda di danno indiretto a
seguito di una transazione conclusa dal Ministero dell’interno nell’ambito del
procedimento di risarcimento dei danni provocati a persone e a cose a seguito di
operazioni di polizia giudiziaria, disciplinato dal d.P.R. 18.4.1994, n. 388 ma si
caratterizza perché attiene all’eccesso colposo nell’uso delle armi da parte di
personale della Polizia di Stato e in assenza di un giudicato penale nonché alla colpa
con previsione dell’evento ed al suo carattere aggravante dei delitti colposi.
La fattispecie oggetto della citazione consiste nell’esplosione di colpi di
pistola, da parte di un Agente della Polizia Stradale, durante l’inseguimento di
un’autovettura risultata rubata.
Uno dei colpi raggiunse un’altra autovettura, sfiorando i passeggeri a bordo
della stessa che, successivamente, avanzarono richieste di risarcimento danni per
“disturbo acuto post traumatico da stress”.
Espletata l’attività istruttoria prescritta, le richieste venivano accolte dalla
competente struttura ministeriale, originando il pagamento all’origine del danno
erariale “indiretto”.
La responsabilità amministrativa dell’agente è stata affermata per l’uso
gravemente imperito e imprudente dell’arma in dotazione, che è stata utilizzata con
palmare e abnorme sproporzionalità rispetto alla situazione contingente che questi
si è trovato ad affrontare.
L’arma è stata indirizzata verso malviventi in fuga, nei confronti dei quali
non vi era necessità di arresto obbligatorio, in un luogo aperto all’uso pubblico e in
orario notturno, senza che emergessero particolari circostanze denotanti l’insorgere
di pericoli per l’incolumità dell’agente e/o di terzi, con l’esplosione di più di un colpo
50
di pistola ad altezza d’uomo.
Tale comportamento si presenta quindi in palese difformità con le
prescrizioni sull’uso legittimo delle armi, impartite dal Capo della Polizia.
Una citazione ha riguardato, infine, la diversa fattispecie concernente il
riconoscimento di debiti fuori bilancio relativi a risarcimenti danni da ritardati
espropri, avviati dall’amministrazione comunale e mai conclusi in via formale, cui
è conseguito un giudizio civile da parte dell’espropriato esitato in una sentenza di
condanna per l’amministrazione a pagare cifre molto maggiori rispetto a quelle a
suo tempo preventivate e deliberate.
Merita, infine, di essere segnalata la sentenza n. 170/2016, di condanna per €
10.200,00 in materia di “equa riparazione”.
La Corte d’Appello di Ancona trasmetteva copia di due decreti con i quali la
Sezione Equa Riparazione aveva accolto due domande (con un esborso complessivo
di euro 20.400,00) proposte nei confronti del Ministero della Giustizia, per il danno
non patrimoniale subito dai ricorrenti a causa della eccessiva durata del
procedimento civile svoltosi innanzi al Tribunale di Modena e pronunciata da un
Giudice Onorario Aggregato (GOA).
In sostanza, dalla data in cui la causa è stata trattenuta in decisione
(4.12.2003) alla data in cui è stata depositata la sentenza (16.12.2008) risultano
trascorsi oltre cinque anni.
Alla luce di tali considerazioni, questa Procura Regionale ha citato in giudizio
il predetto GOA, contestandogli l’irragionevole e ingiustificato ritardo nella
conclusione del processo, che ha determinato le due condanne del Ministero della
Giustizia di cui trattasi, ritenendo pienamente sussistenti tutti gli elementi
costitutivi della responsabilità amministrativa per il danno erariale (cd. indiretto)
arrecato al patrimonio del Ministero della Giustizia complessivamente quantificato
in euro 20.400 e da imputare al convenuto sicuramente almeno per la metà del
tempo eccedente la durata massima reputata adeguata dalla Corte d’Appello per la
definizione della causa e quindi per complessivi euro 10.200:
a)
il rapporto di servizio. Il ruolo ricoperto di giudice onorario determina,
per tabulas, la soggezione del convenuto alla giurisdizione del giudice contabile. E
ciò, indipendentemente dalla circostanza che, a causa del gravissimo ritardo di cui
egli s’è reso responsabile per il deposito della sentenza de quo, il compito a lui affidato
sia stato eseguito solo dopo la cessazione dell’incarico (intervenuta il 31.12.2006) ed
in assenza di compenso;
b)
il nesso di causalità tra l’evento lesivo e il comportamento gravemente
colposo posto in essere dal GOA. Dall’espletamento dell’istruttoria risulta, infatti,
evidente come alla produzione del ritardo irragionevole e ingiustificato nella
conclusione del processo, che ha determinato la condanna del Ministero della
Giustizia, hanno contribuito in modo determinante gli anni (oltre cinque) di ritardo
ingiustificato nel deposito della sentenza (anche considerando la non particolare
51
difficoltà processuale e decisoria del processo in questione). Inoltre dalle acquisite
statistiche del convenuto, si constata che detto Giudice Onorario, in ben più di una
occasione, ha depositato le sentenze con un ritardo di oltre 1500 giorni dall’udienza
di assegnazione della causa alla sentenza;
c)
l’elemento soggettivo della colpa grave e dell’illiceità della condotta.
E’ manifesto come il GOA abbia gravemente violato un obbligo primario dei
Magistrati, ossia il deposito tempestivo dei propri provvedimenti, costituente regola
essenziale per l’effettiva attuazione del fondamentale principio (di espressa
canonizzazione costituzionale ex art. 111 Cost.) del “giusto processo”, la cui reale
osservanza non può prescindere dalla “ragionevole durata” dello stesso. Egli infatti nel lasciar decorrere un quinquennio dopo il trattenimento della causa in decisione
- ha sforato, di gran lunga e oltre ogni ragionevole tollerabilità, il termine previsto
per il deposito della sentenza.
3.2.8.- Danni conseguenti a comportamenti omissivi o gravemente negligenti
dei pubblici dipendenti.
Non possono essere tralasciate, inoltre, le chiamate in giudizio che vedono
coinvolti pubblici dipendenti che, con comportamenti omissivi o connotati da colpa
grave, in quanto tenuti in violazione dei fondamentali doveri di servizio ad essi
facenti capo, hanno arrecato all’Amministrazione di appartenenza un grave
nocumento.
Una prima fattispecie attiene alla deliberazione del Consiglio comunale di un
Comune in provincia di Parma, adottata per il riconoscimento del debito fuori
bilancio, pari a euro 14.684,58, nei confronti dell’INPS, discendente dal ritardo nel
pagamento dei contributi dovuti sulle annualità dal 2011 al 2013, per effetto
dell’aspettativa usufruita dal Sindaco pro tempore sul mandato elettivo 2011-2016,
in applicazione del regime giuridico disposto dall’art. 86 D.Lgs, n. 267/2000.
Sul fondamento della ricostruzione del procedimento concluso con il
riconoscimento del debito fuori bilancio, allo stato della prova documentale
acquisita nell’espletamento dell’attività istruttoria, sono emersi elementi idonei a
prospettare la fattispecie di responsabilità amministrativa, imputabile nei confronti
dei due soggetti responsabili pro tempore del settore gravato dagli adempimenti
necessari per i pagamenti dovuti, e non tempestivamente effettuali alla data delle
rispettive scadenze (ma versati solo tardivamente).
Infatti, dalla prova documentale acquisita, emergono comportamenti di
servizio commessi in violazione dei doveri professionali, i quali hanno generato la
lesione degli interessi patrimoniali della pubblica amministrazione.
Dalla quantificazione comunicata dall’INPS, si evince che la misura di
complessivi euro 14.684,58, costituisce la somma di euro 415,38 dovute per
differenze contributive e di euro 14.269,20 per le sanzioni e gli interessi maturati,
entrambi computati sul ritardo di pagamento della sorte principale.
Orbene, a seguito dell’esame degli atti del fascicolo e delle deduzioni
52
difensive, questo organo requirente non ha potuto che ribadire la sussistenza di una
responsabilità gravemente colposa dei due responsabili del settore interessato
(ognuno per il periodo di competenza) in ordine alla omissione del materiale
pagamento all’INPS dei contributi dovuti sulle annualità dal 2011 al 2013, per
effetto dell’aspettativa usufruita dal Sindaco pro tempore sul mandato elettivo 20112016, in applicazione del regime giuridico disposto dall’art. 86 D. Lgs, n. 267/2000.
Un altro giudizio attiene all’indebito utilizzo della chiavetta per il
collegamento a internet assegnata ad un Comando di Polizia Municipale, per effetto
del quale il Comune ha subìto un danno patrimoniale pari a complessivi € 10.943,04.
Il danno è stato imputato al soggetto al quale, per regolamento interno e per
disposizioni generali (art. 107 del d. lgs. n. 267/2000 - TUEL, e artt. 4, comma 2, 16
e 17 del d. lgs. n. 165/2001 - Testo Unico del pubblico impiego), era intestata la cura,
la vigilanza, la custodia e la responsabilità del corretto uso, in generale, delle risorse
e delle apparecchiature di servizio della P.M., e in particolare, del dispositivo che
qui interessa, vale a dire al Comandante della P.M., il quale, in conformità alle testé
citate disposizioni regolamentari, avrebbe dovuto, ad es.: custodirla in luogo sicuro
e accessibile solo a lui o a suo delegato; emanare direttive generali per il corretto
utilizzo della chiavetta internet; assegnarla di volta in volta all’agente responsabile
della pattuglia di turno; predisporre un registro o un elenco per la consegna e
riconsegna della medesima; esigere di volta in volta la riconsegna della chiavetta,
eventualmente delegando un sostituto in caso di sua assenza o impedimento per
tale incombenza; vigilare sul corretto uso di tale dispositivo. In sostanza, il predetto
Responsabile avrebbe dovuto adottare ogni misura organizzativa e materiale
finalizzata alla corretta custodia, consegna e restituzione dell’apparato in parola, sì
da evitare qualsivoglia situazione di abuso o utilizzo non connesso ai doveri
d’ufficio, peraltro reiterata nel tempo.
Una particolare attenzione merita la citazione inerente le mancate riscossioni
presso la CC.II.AA. di Parma, in relazione alla quale le indagini sono state condotte
dalla Guardia di Finanza su delega di questa Procura.
Da segnalare, infatti, è il rilevante importo del danno azionato, pari ad oltre
9 mln. di euro ed il numero di convenuti (superiore a 25) nonché la particolare
fattispecie, relativa all’inerzia prolungata da parte della Camera di commercio in
ordine allo svolgimento delle attività di accertamento e riscossioni di sanzioni
conseguenti al mancato deposito dei bilanci da parte delle imprese e delle società di
capitali.
Il fenomeno è particolarmente significativo, non solo sul piano locale ma su
quello nazionale; peraltro l’obbligo in capo alle CC.II.AA. di procedere alle attività
di accertamento ed irrogazione delle sanzioni era da tempo stabilito in formali note
del M.I.S.E. inviate alle singole amministrazioni.
La tipologia di danno in argomento è oggetto anche di sentenze emesse dalla
53
Sezione Giurisdizionale nel 2016.
Particolare menzione merita la sentenza n. 125 del 2016, resa su una vicenda
relativa ad un danno alla concorrenza cagionato al Comune di appartenenza dal
Responsabile dell’ufficio tributi attraverso l’affidamento del servizio di
accertamento di tributi comunali a condizioni capestro per l’Ente locale e con un
aggio – il 36,5% – assolutamente distante dai valori di mercato (il valore legale
dell’aggio del concessionario nazionale della riscossione era attestato sul 7,59%;
l’aggio medio risultante degli atti di affidamento del medesimo servizio posti in
essere da amministrazioni locali dello stesso contesto territoriale di riferimento si
attestava, invece, intorno al 10%, peraltro sull’incassato e non sull’accertato).
Per quanto gravata da appello su alcuni capi della domanda, la decisione –
di condanna parziale – ha comunque reputato la condotta dell’agente infedele – in
conformità alla prospettazione accusatoria – illecita (in quanto affetta da plurime
violazioni frontali di legge e del regolamento interno) ed eziologicamente connessa
alla produzione del danno alle finanze del Comune, quantificato (dal giudice)
facendo ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 c.c., fondato sul disposto dell’art.
345 legge 2248/1865, che indica nell’utile d’impresa, equitativamente determinato
nel 10% del valore dell’appalto, il danno di cui si tratta, calcolandolo sugli importi
fatturati.
L’appello avverso tale sentenza è stato proposto da questa Procura per le
seguenti ragioni:
1. - difetto di motivazione in ordine al criterio di quantificazione del danno
seguito, in discontinuità da quello proposto dalla Procura, basato sul valore legale
dell’aggio del concessionario nazionale della riscossione. Tale parametro è stato
confermato dalla breve disamina degli atti di affidamento del medesimo servizio
posti in essere da amministrazioni locali dello stesso contesto territoriale di
riferimento.
2. - omessa pronuncia sulla duplice voce di danno da disservizio e sulla voce
di danno relativa al mancato introito dei diritti di segreteria. E tanto nonostante il
giudice avesse accertato in sentenza che il contratto non fosse stato stipulato in
forma pubblica amministrativa a cura dell'ufficiale rogante, nella specie il segretario
comunale, il quale avrebbe potuto assicurare quel controllo interno che, nel caso che
occupa, è stato pretermesso.
3.2.9.- Danni in materia di personale.
Con riferimento a tale tipologia di danno, meritano menzione le azioni
intraprese relativamente a situazioni di incompatibilità assoluta nello svolgimento,
da parte soprattutto di docenti universitari, di attività economiche e prestazioni
professionali neppure comunicate all’Amministrazione di appartenenza.
In tale ambito, diverse citazioni derivano da istruttorie compiute a seguito di
denunce inviate a questo Ufficio dalla Guardia di Finanza – Nucleo Polizia
Tributaria di Bologna – Gruppo Tutela Spesa Pubblica.
54
In alcuni casi esse attengono all’avvenuto svolgimento, da parte di professori
o di ricercatori di ruolo a tempo pieno dell’Università degli Studi di Bologna, di
attività economiche e prestazioni professionali in situazione di incompatibilità
assoluta e senza che ne fosse stata data alcuna comunicazione all’amministrazione
di appartenenza.
Una fattispecie, simile anche ad altri giudizi attivati, è infatti quella di un
ricercatore di ruolo a tempo pieno dell’Università degli Studi di Bologna il quale,
titolare di partita IVA, ha dichiarato, oltre a redditi di lavoro dipendente per
l'attività d'insegnamento presso l'Università, anche redditi diversi percepiti,
nell’esercizio di attività libero professionale, da società e da soggetti privati.
Avendo svolto attività libero professionale risulta violato il regime
d’incompatibilità derivante dall’art. 60 del D.P.R. n. 3/1957 e dall’art. 11, comma
5, lett. a) del D.P.R. n. 382/1980, che, specificamente per il regime a tempo pieno,
dispone che “è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di
consulenza esterna e con la assunzione di qualsiasi incarico retribuito e con l'esercizio
del commercio e dell'industria (…)”.
Al riguardo si è precisato che non si è contestato affatto la mera tenuta di una
partita Iva, ma il suo consapevole utilizzo per lo svolgimento di una attività libero
professionale (cioè non meramente occasionale) e che, in tal senso, le (singole)
autorizzazioni e comunicazioni alla Università sono da ritenersi inutiliter datae
anche perché non poteva certo essere autorizzato lo svolgimento di una attività
(l’attività libero professionale) assolutamente vietata ai docenti a tempo pieno. Né
è possibile invocare le esibite autorizzazioni e/o comunicazioni come dimostrative di
una condizione soggettiva di buona fede (con l’effetto di escludere la dolosità o,
addirittura, persino la grave colposità della condotta), perché con esse l’Università
non ha fatto altro (e non poteva altro fare) che autorizzare (o prendere atto, per
quelle singolarmente soggette a mera comunicazione) di attività, di volta in volta,
singolarmente dichiarate.
Mancando inevitabilmente, cioè, il simultaneo quadro d’assieme di tutte le
attività svolte, dei relativi compensi lordi e dei conseguenti redditi conseguiti
depurati delle spese inerenti alla produzione (che l’interessato, invece, ovviamente
aveva) l’apparato amministrativo dell’Università non poteva avvedersi che dette
singole attività, considerate congiuntamente, integrassero in realtà una vera e
propria (vietata) attività libero professionale, il cui mancato svolgimento è e deve
essere rimesso alla personale responsabilità dell’interessato.
La non occasionalità della attività libero professionale svolta dal convenuto
si evince già dal chiaro disposto dell' art. 5 del D.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui:
"Per esercizio di arti e professioni si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché
non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero
da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra
persone fisiche per l'esercizio in forma associata delle attività stesse", nonché dalla
previsione contenuta nel successivo art. 35 del medesimo D.P.R., secondo cui la
55
partita IVA viene aperta su denuncia da chi ha intenzione di esercitare in forma
abituale l'impresa, l'arte o la professione.
Dirimenti, al riguardo, risultano, però, essere i principi normativi ricavabili
dalle disposizioni sulla “Gestione separata INPS”, istituita con la legge n. 335/1995
(al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero
sprovvisti). L’art. 2, comma 26, della legge n. 335/1995 ha, infatti, previsto, a
decorrere dall’art. 1.1.1996, l’obbligo per i soggetti che esercitano per professione
abituale, anche se non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di iscriversi presso la
suddetta Gestione separata. Orbene, in base all’art. 44, comma 2, del D.L.
n.269/2003, come convertito dalla legge n.326/2003: “A decorrere dal 1° gennaio
2004, i soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale e gli incaricati delle
vendite a domicilio di cui all'art. 19 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, sono
iscritti alla gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995,
n. 335, solo qualora il reddito annuo derivante da dette attività sia superiore ad euro
5.000”. L’imponibile assoggettabile è costituito dai compensi lordi erogati nell’anno
al lavoratore autonomo, dedotte eventuali spese poste a carico del committente (e
non del lavoratore autonomo) e risultanti direttamente dalle fatture emesse dal
lavoratore autonomo medesimo. E’ del tutto evidente, pertanto, come la legge
preveda una soglia massima di 5.000 euro di reddito annuo lordo derivante da
attività autonoma perché possa considerarsi tale attività ancora occasionale e non
invece una “professione abituale”. Infatti, come detto, allorché, si tratti di
professione abituale di lavoro autonomo è obbligatoria l’iscrizione alla Gestione
separata INPS (ai sensi dell’art. 2, comma 26, della legge n. 335/1995) e tale obbligo
scatta anche per i cd. soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale
allorché abbiano raggiunto un reddito annuo lordo superiore a 5.000 euro (ai sensi
dell’art. 44, comma 2, del D.L. n.269/2003, come convertito dalla legge n.326/2003),
al di sopra della quale la normativa vigente, evidentemente, ritiene venuto meno il
requisito della occasionalità e della non abitualità.
Che la predetta soglia costituisca un parametro normativo con portata
generale al fine di individuare il passaggio dalla “occasionalità” alla “abitualità”
delle prestazioni lo si desume anche dalla lettura dell’art. 61, comma 2, del D.Lgs.
n.276/2003 (cd. “legge Biagi”), abrogato a decorrere dal 25.06.2015, che, seppur ad
altri fini, così recita: “Dalla disposizione di cui al comma 1 sono escluse le prestazioni
occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta
giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso
complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro, nel
qual caso trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo.”.
Il convenuto ha superato - in tutti gli anni dal 2011 al 2015 - il reddito annuo
lordo di 5.000 euro da lavoro autonomo complessivo e, pertanto, in tutti questi anni
egli ha consapevolmente e dolosamente (quantomeno con il cd. dolo civile
contrattuale) condotto una attività libero professionale, assolutamente vietata ai
docenti a tempo pieno.
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Pertanto sono stati ritenuti sussistenti, nella fattispecie, tutti gli elementi
costitutivi della responsabilità amministrativo-contabile a carico del convenuto per
un danno erariale pari ad euro 104.249,02.
Particolare, poi, è il caso in cui il professore è stato amministratore delegato di
una S.r.l., esercente l’attività imprenditoriale nel campo dei disegnatori tecnici
nonché presidente del Consiglio di amministrazione della stessa società. Ha, pertanto,
ricoperto cariche di natura operativa all'interno di una società avente scopo di lucro
(pur senza dichiarare compensi).
Nel caso di assunzione della carica di consigliere di amministrazione e di
consigliere delegato di una S.r.l. svolgente attività d’impresa (pure nel caso di
assenza di percezione di compensi) è indubbia l’avvenuta violazione da parte di un
professore del divieto di assumere cariche in società “costituite a fine di lucro” e che,
quindi, risulta violato il regime d’incompatibilità derivante dai citati art. 60 del
D.P.R. n. 3/1957 ed art. 11, comma 5, lett. a) del D.P.R. n. 382/1980.
Dal divieto di “esercizio del commercio e dell’industria” di cui all'art. 60
del D.P.R. n. 3/1957 e all’art. 11 del D.P.R. n. 382/1980, non possono essere escluse
le S.r.l., posto che le società a responsabilità limitata rientrano ex art. 2249 cc. tra
quelle che sono costituite per “l’esercizio di un’attività commerciale”.
Pertanto, secondo questa Procura il danno in fattispecie, a maggior ragione
trattandosi di professore in regime d’impegno a tempo pieno, è quantificabile nella
misura di euro 121.687,00, pari agli emolumenti lordi liquidati dall’Università di
Bologna in favore del convenuto nel periodo 4.05.2011 – 15.10.2012, oggetto di
contestazione, essendo egli incorso in una insuperabile forma di incompatibilità
assoluta.
Una fattispecie simile ma in parte diversa è quella oggetto di altri atti di
citazione con i quali sono stati affrontati due profili di illiceità rilevanti, anche per
l’importo di alcune centinaia di migliaia di euro, sul piano della responsabilità
amministrativo-contabile. Il primo profilo attiene all’espletamento di un’attività
libero professionale, come tale incompatibile in via assoluta, da parte di un docente
universitario, a tempo pieno, dipendente presso l'Università di Parma in qualità di
professore ordinario nel settore scientifico-disciplinare di “Anestesiologia” presso la
Facoltà di Medicina e Chirurgia. Il quadro normativo richiamato in citazione
riguarda anche in questo caso l’art. 60, D.P.R. n. 3 del 1957, c.d. Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, che prevede:
“L'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione
o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite
a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è
riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del ministro competente”.
L’art. 6, comma 9, legge n.240/2010 “Norme in materia di organizzazione delle
università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per
incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario”, ha sancito chiaramente
57
che “…L'esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime di tempo
pieno”. In linea con la normativa nazionale succitata, si presentano anche i
regolamenti dell’Ateneo di Parma, ove il docente ha svolto (e svolge) i propri
compiti istituzionali. In particolare, l’art. 3, lett. b), del regolamento adottato con
decreto rettoriale n. 818 del 19.08.1999, prevedeva un divieto assoluto, per i
professori e ricercatori universitari a tempo pieno, di svolgere attività libero
professionale. I successivi decreti rettoriali nn. 875 del 06.11.2009 e 310 del
28.04.2010 (cfr. art. 3 dei rispettivi regolamenti), hanno consentito la partecipazione
dei docenti universitari a tempo pieno ad attività didattiche e tecnico-scientifiche
presso committenti privati, previa autorizzazione datoriale, solo qualora non
comportino alcun esercizio professionale delle stesse.
Un secondo tipo di contestazione mossa al docente si è fondata sul presupposto
del conferimento dell’incarico di Direttore di Struttura Complessa della Unità
Ospedaliera n. 2 “Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica” presso l'Azienda
Ospedaliero-Universitaria di Parma. L’opzione per il c.d. regime di libera
professione medica intramoenia non consente, in forza della previsione di cui all’art.
72, comma 4, e ss., della legge 23 dicembre 1998, n. 448, l’esercizio di alcuna altra
attività sanitaria resa a titolo non gratuito. Sulla stessa linea risulta l’articolo 15quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (introdotto dal d.lgs n.
229/99), e s.m.i. L’opzione per l’attività assistenziale esclusiva è requisito necessario
per l’attribuzione ai professori e ai ricercatori universitari di incarichi di direzione
di struttura, nonché dei programmi di cui al comma 4 (comma 7). Inoltre, il
D.P.C.M. del 27 marzo 2000 (i cui contenuti si accavallano in parte con la disciplina
di CCNL), recante “Atto di indirizzo e coordinamento concernente l'attività liberoprofessionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario
nazionale”, all’art. 4, rubricato “Soggetti ed enti destinatari”, al comma 2, ha previsto
che: “2. Salve le specificazioni e gli adattamenti previsti dal decreto legislativo 21
dicembre 1999, n. 517, le disposizioni del presente atto di indirizzo e coordinamento si
applicano anche al personale universitario appartenente alle categorie professionali
indicate all'art. 2, che presta servizio presso i policlinici, le aziende ospedaliere e altre
strutture di ricovero e cura convenzionate con l'Università, ivi compreso il personale
laureato medico ed odontoiatra dell'area tecnico-scientifica e socio-sanitaria di cui
all'art. 6, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive
modifiche e integrazioni”. Pertanto, il citato D.P.C.M. trova applicazione anche per
i docenti universitari a tempo pieno, impegnati nell’attività assistenziale, che
abbiano optato per il regime di intramoenia (come nel caso di specie e a prescindere
dall’effettivo svolgimento dell’attività). A ciò deve aggiungersi che, in forza della
previsione contenuta nell’art. 5, d.lgs n. 517/1999: “Ai professori e ricercatori
universitari di cui al comma 1, fermo restando il loro stato giuridico, si applicano, per
quanto attiene all'esercizio dell'attività assistenziale, al rapporto con le aziende e a quello
con il direttore generale, le norme stabilite per il personale del Servizio sanitario
nazionale. Fermo restando l'applicazione del presente decreto, apposite linee guida
58
emanate con decreti dei Ministri della sanità e dell'università, d'intesa con la Conferenza
Stato-Regioni, possono stabilire specifiche modalità attuative in relazione alle esigenze
di didattica e di ricerca. Dell'adempimento dei doveri assistenziali il personale
universitario risponde al direttore generale. Le attività assistenziali svolte dai professori
e dai ricercatori universitari si integrano con quelle di didattica e ricerca”.
Ai sensi dell’art. 13, D.P.C.M. cit., lo svolgimento di prestazioni autonome,
rese a titolo non gratuito, per conto di privati o pubblici committenti, comporta la
previa richiesta e conseguimento dal direttore generale p.t. (o, a tutto concedere,
dal rettore p.t., d’intesa con il direttore generale azienda ospedaliero-universitaria
di Parma) di apposite autorizzazioni, da motivarsi sulla scorta dei parametri
qualitativi e quantitativi indicati nel medesimo articolo. Al dipendente sono stati
contestati due profili di danno erariale: a) €340.615,00, conseguiti a titolo di
prestazioni di lavoro autonomo, indebitamente rese in quanto unitariamente
configuranti l’esercizio di un’attività libero professionale; b) una seconda voce di
danno erariale, pari ad €71.601,92, è rappresentata dalla indebita percezione, da
parte del docente universitario prestato all’attività assistenziale, della c.d.
indennità di esclusività, per gli anni in cui è stata accertata in sede ispettiva la
violazione della normativa in tema d’incompatibilità.
Altra azione di responsabilità amministrativa per incompatibilità è quella
attivata nei confronti di un Vice Brigadiere, in servizio presso la squadra
radiomobile di una Compagnia Carabinieri, il quale aveva acquisito la qualità di
socio in un’impresa sociale e in altre società.
Verificato l’esercizio dell’attività extra-professionale in difetto di preventiva
autorizzazione, il Comando Legione Carabinieri dell’Emilia Romagna sul
presupposto della condizione oggettiva di incompatibilità ambientale provvedeva a
disporre il trasferimento del militare presso la squadra radiomobile di altra
Compagnia CC.
Con successive verifiche, veniva accertato che il Vice Brigadiere ha
continuato ad esercitare l’attività extra-professionale non autorizzata di
intermediario immobiliare per conto di una società intestata alla moglie ed alla
sorella della predetta presso la medesima residenza del militare.
Il danno erariale veniva quantificato in molteplici componenti patrimoniali,
oltre al danno da disservizio.
Una conferma della bontà delle tesi sostenute da questa Procura si rinviene
dalla sentenza n. 61 del 12.4.2016, di condanna al pagamento di €19.560,00 a titolo
di danno diretto derivante dall’illiceità dell’attività extra-istituzionale di docente
universitario a tempo pieno, per violazione della relativa normativa (nazionale e di
settore) in tema d’incompatibilità, consistente, prevalentemente, nello svolgimento
di prestazioni di consulenza esterna e partecipazioni a seminari, nelle materie della
medicina del lavoro, della tossicologia e dell’igiene industriale — in favore di diversi
committenti privati, senza la prescritta richiesta e conseguente rilascio
59
dell’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza (di competenza del
Rettore p.t. dell’Università di Parma). La sentenza è stata altresì appellata dalla
Procura regionale, poiché trattasi di condanna parziale.
Meritevole di menzione è anche la sentenza n. 161 del 2016, di condanna per
€ 36.254,63.
L’attività istruttoria prende le mosse da una comunicazione, pervenuta a
questa Procura regionale, del Presidente del Collegio dei Revisori dei conti
dell’Università “Alma Mater Studiorum” di Bologna, circa la sussistenza di una
ipotesi di danno erariale conseguente alla liquidazione del rimborso delle spese di
viaggio, per un totale di euro 37.727,84, in favore del direttore dell’Azienda Agraria
dell’Università di Bologna (A.U.B.).
La comunicazione informativa evidenziava che, tra gli importi indicati,
almeno euro 31.548,12 erano certamente rimborsi riferibili alle spese di viaggio dal
luogo di residenza del direttore A.U.B. (in Reggio Emilia) alla sede di servizio (in
Bologna). Tali rimborsi, come è noto, non sono consentiti, ed anzi sono
assolutamente vietati, dalle disposizioni vigenti in materia.
Questo Organo requirente ha, quindi, espletato una articolata attività
istruttoria, all’esito della quale è, tra l’altro, emerso che le somme per spese di
viaggio indebitamente rimborsate (e contestate con il successivo atto di citazione)
al direttore A.U.B. nel periodo considerato (vietate dalle norme di legge, e dalle
disposizioni interne contenute nei Regolamenti UNIBO sulle missioni e nelle Linee
Guida sulla mobilità intra-ateneo) ammontano esattamente ad euro 36.254,63, di cui
31.548,12 relative alla tratta da Reggio Emilia (sede di residenza) a Bologna (sede
di servizio) e, per la rimanente parte, alla tratta da Reggio Emilia verso altre sedi
dell’Ateneo. Spostamenti tutti effettuati con l’auto propria.
Il direttore che, recita l’art. 7 del regolamento emanato con Decreto
Rettorale n.962/2010, aveva anche la responsabilità amministrativo-contabile
dell’A.U.B., negli anni 2010/2014 ha illegittimamente ottenuto il rimborso per spese
di viaggio, tutte con auto propria, per spostamenti da Reggio Emilia (sede di
residenza) a Bologna (o ad altre sedi dell’Azienda) e viceversa, in attuazione di un
deliberato del Comitato preposto alla gestione dell’Azienda Agraria – Comitato
A.U.B. (di cui all’artt. 2 e 3 del citato regolamento emanato con D.R. n.962/2010),
votato dal presidente del Comitato e da entrambi gli altri suoi componenti pro
tempore e con la presenza dello stesso direttore (anche lui facente parte del Comitato
A.U.B., anche se - ai sensi del regolamento all’epoca vigente - “con funzioni
consultive”). Tra l’altro detto deliberato non faceva alcun riferimento né all’utilizzo
dell’auto propria né a tratte diverse da quella “da Reggio Emilia a Bologna e
viceversa”.
Al direttore A.U.B. è stata contestata la evidente sussistenza -quantomeno dell’elemento psicologico della colpa gravissima ed inescusabile, che presuppone che
il soggetto responsabile agisca con la consapevole ignoranza delle norme
fondamentali della disciplina del proprio rapporto di lavoro. Si è poi reputato
60
concorrere, nella specie, l’imputazione soggettiva della responsabilità
amministrativa nei confronti delle persone fisiche-componenti dell’organo collegiale
che hanno agevolato i rimborsi di spesa.
Infatti, dagli atti istruttori si evince che l’indebito rimborso delle spese di
viaggio da- e per- la sede di residenza del direttore A.U.B. è stato consentito grazie
al voto favorevole espresso nella deliberazione del Comitato A.U.B., adottata su
richiesta e con la presenza dello stesso interessato (all’epoca facente parte del
Comitato con funzioni consultive), nonostante l’evidente incompatibilità per
conflitto d’interesse.
Il concorso di colpa grave è imputabile per la inammissibile agevolazione
nonché l’intollerabile e negligente “benevolenza” prestata a fronte della pretesa
economica avanzata dal direttore senza alcuna ricerca delle fonti normative poste a
supporto del diritto al rimborso (la insussistenza del quale, unitamente
all’incompetenza in materia del Comitato A.U.B., potevano essere facilmente
verificabili).
Infine, la sentenza n. 68 del 21.4.2016, in pieno accoglimento delle richieste
dalla Procura Regionale, ha condannato il vice segretario generale (nella misura di
due terzi del danno complessivamente accertato) e i componenti della giunta della
Provincia di Reggio Emilia (nella misura di un terzo da ripartire in parti uguali) per
una fattispecie di indebita utilizzazione dell’incarico di “alta specializzazione” e di
violazione del divieto di cumulo di impieghi pubblici.
E’ accaduto infatti che la Giunta Provinciale aveva deliberato di accogliere
la richiesta di aspettativa del vice segretario generale convenuto (dettata dalla
necessità di assumere l’incarico di docente di ruolo presso un istituto scolastico di
Reggio Emilia) e di autorizzare, in ragione delle valutazioni esposte nelle premesse
della medesima deliberazione, la stipulazione con la stessa di un contratto di “lavoro
a tempo determinato e pieno di alta specializzazione” di diritto privato per lo
svolgimento degli incarichi dirigenziali dalla stessa già ricoperti (dirigente del
Servizio Lavoro, Formazione Professionale e Risorse Umane, dirigente del Servizio
Appalti e Contratti, limitatamente alla medesima Unità Operativa, incarico di Vice
Segretario Generale e Segretario Generale reggente), con analoghe modalità ed
invarianza del trattamento economico già percepito.
Con specifico riguardo alle modalità realizzative della condotta, il collegio ha
avuto modo di precisare che il dirigente: «nel momento in cui ha accettato l’incarico
di docente, mantenendo in vita il rapporto di lavoro con l’amministrazione provinciale,
ha manifestamente violato le richiamate norme di divieto del “cumulo di impieghi
pubblici”, dettate a tutela della integrità della spesa pubblica e della necessità di evitare
inutili duplicazioni a carico dell'erario».
3.2.10.- Altre fattispecie di danno non sussumibili nelle precedenti
classificazioni.
Una citazione ha avuto ad oggetto l’accertamento una serie di condotte illecite
61
tenute, rispettivamente, dal presidente p.t. e dal segretario p.t. dell’associazione
sportiva Tiro a segno di un Comune in provincia di Parma (di seguito anche “TSN”).
Dopo un breve richiamo alle funzioni pubblicistiche svolte ed alle entrate (in parte)
coattive e di diritto pubblico introitate dalle sezioni territoriali di tiro a segno,
ancorché tali soggetti abbiano natura giuridica di associazioni non riconosciute, si è
proceduto a contestare, in primo luogo, una serie di illecite/indebite operazioni di
prelievo e di spendita di denaro da c/c bancari e postali, intestati all’associazione TSN
e non pertinenti con le funzioni ed i programmi di rilievo pubblico della sezione di
tiro a segno, ovvero non supportate da documentazione giustificativa, in palese
violazione di quanto richiesto dal quadro normativo di riferimento vigente e
applicabile ratione temporis (ossia dal 2007 al 2011).
In secondo luogo, si è proceduto a contestare alcune condotte illecite di
acquisto, a mezzo bancomat intestato al TSN, di ricariche telefoniche a beneficio di
terzi non legittimati. Condotte imputabili al presidente e alla segretaria p.t. della
sezione di tiro a segno.
In terzo luogo, sono state oggetto di contestazione alcune indebite ed illecite
operazioni di bonifico su c/c e sul fondo economato del TSN disposte in favore di un
socio, per prestazioni associative (es: attività di istruzione di tiro, collaborazione alla
manutenzione impianti, ecc.) che, in base alle disposizioni statutarie, avrebbero
dovuto essere effettuate a titolo gratuito.
In quarto luogo, si è proceduto a contestare la mancata emissione di n. 6.002
ricevute interne di avvenuto pagamento, secondo gli accertamenti effettuati dalla
Guardia di Finanza e il confronto incrociato dei registri del TSN attestanti le
frequenze al poligono dei vari avventori con i registri contabili dell’Associazione. Le
condotte di occultamento e di mancata registrazione in contabilità delle operazioni
d’incasso, negli anni dal 2007 al 2011, sono risultate imputabili al presidente e alla
segretaria p.t.
In quinto luogo, gli esiti dell’indagine di polizia giudiziaria hanno fatto, altresì,
emergere alcune operazioni di spesa imputate sul fondo economato del TSN ma non
supportate da idonei documenti giustificativi (es: atti negoziali, fatture, ricevute e/o
scontrini fiscali, ecc.), atti a comprovare l'effettivo sostenimento di un costo
pertinente ed inerente alle finalità istituzionali dell’Associazione.
In sesto luogo, è stata rilevata un'ulteriore condotta illecita avente ad oggetto
alcuni asseriti rimborsi effettuati a beneficio della segretaria p.t. Tali uscite
(ricorrenti con cadenza mensile), sono state registrate in contabilità utilizzando le
causali: "rimborso segretaria", "rimborso impiegata", ovvero inglobate nell'ammontare
complessivo della voce "rimborso dirigenti".
In settimo ed ultimo luogo, si è rilevata la condotta di un socio nonché
consigliere dell’associazione che si occupava della vendita dei bossoli in ottone e del
piombo sparati sul poligono del TSN, materiale che successivamente alienava ad una
società; i proventi ricavati dalla vendita dei bossoli e del piombo, pari a circa €700,00
l'anno, sovente non confluivano nella cassa del TSN, come sarebbe dovuto accadere,
62
e, all’epoca, non veniva redatta alcuna documentazione inerente alle operazioni di
smaltimento dei siffatti rifiuti. Tali condotte sono state imputate al presidente, alla
segretaria p.t. ed al socio gestore delle operazioni negoziali sopra citate. Il danno
erariale complessivamente identificato e quantificato è risultato pari a €186.030,19.
Un altro giudizio, avviato nei confronti di 19 soggetti (Consiglieri comunali e
dirigenti), attiene alla mancata nomina, da parte del Consiglio comunale di un
Comune in provincia di Parma, a seguito di avviso pubblico, quale revisore dei conti,
di un soggetto in possesso dei requisiti di legge, a vantaggio di altro professionista che,
pur avendo ottenuto lo stesso numero dei voti, non era invece in possesso di tali
requisiti. Tale fattispecie ha cagionato un presunto danno erariale per il Comune di
circa 35 mila euro, derivante dalle sentenze di condanna del TAR di Parma, adito dal
predetto soggetto.
In particolare, il soggetto nominato dal Consiglio non solo non era in possesso
di tali requisiti, ma era stato indicato da una parte dei consiglieri seduta stante, non
consentendo agli uffici preposti la verifica di eventuali situazioni di incompatibilità,
nei fatti poi verificatasi. Chiamati ad emendare il vizio che affliggeva la procedura, i
Consiglieri, anziché nominare il soggetto inizialmente pretermesso, prima tentavano
di annullare tout court la precedente deliberazione (nonostante una diffida legale)
sulla base di un malinteso vizio genetico del processo formativo della volontà che, al
più, se sussistente era stato determinato da una parte della stessa assemblea; poi
procedevano, nonostante una specifica sollecitazione rivolta dal Prefetto di Parma,
illegittimamente a nominare un nuovo collegio dei revisori nonostante quello
precedente non fosse stato ancora formalmente sciolto per mancato perfezionamento
della procedura di nomina. La dichiarazione di accettazione di due componenti,
difatti, non era nemmeno stata acquisita al protocollo dell’ente, denotando anche in
tal caso la infrazione manifesta di elementari regole di gestione delle procedure
amministrative e di acquisizione dei documenti nell’Ente, i quali solo dopo la
registrazione al protocollo acquisiscono validità giuridicamente rilevante.
In tal guisa, è stato frustrato il diritto di una parte della minoranza consiliare
a vedere eletto un proprio rappresentante nell’organo di revisione contabile, ed è
stato esposto l’Ente a subire il ricorso al TAR e al pagamento di somme di danaro a
titolo risarcitorio, oltre al pagamento di spese processuali e interessi aggiuntivi sulle
somme spettanti a causa di un ricorso per ottemperanza cui ha dovuto ricorrere il
revisore non eletto, seguito al mancato adempimento spontaneo della prima sentenza
di condanna del Comune, resa dal giudice amministrativo.
Altra fattispecie è quella relativa all’omesso riversamento dei proventi del
Gioco del Lotto da parte di concessionari: al riguardo vi sono state nel 2016 diverse
citazioni in giudizio nonché sentenze di condanna.
3.2.11.- Misure cautelari ed iniziative a tutela del credito dell’Amministrazione.
Si segnalano due richieste di misure cautelari entrambe successive all’entrata
63
in vigore del nuovo Codice di Giustizia Contabile.
Una prima vicenda attiene ad un’ipotesi di danno erariale derivante della
indebita percezione di fondi pubblici erogati, in plurime occasioni di finanziamento,
in favore di una importante Società con sede in Parma.
La contestazione di responsabilità amministrativa è stata indirizzata alla
Società e alla sua controllante, nonché alle persone fisiche, che, quali vertici
aziendali delle due Società, hanno materialmente concorso alla realizzazione
dell’illecito erariale, concretatosi nell’indebita percezione e utilizzazione di plurimi
contributi pubblici erogati.
In particolare, vi è stata una sistematica falsificazione dei bilanci della Società
a partire dall’esercizio 2010, che le ha consentito di ottenere il finanziamento: i) di
una prima iniziativa sul mercato nord-americano, finanziamento (pari ad euro
4.263.000) non utilizzato per gli scopi di interesse pubblico; ii) nel settembre 2011,
della rilevante somma di 11 milioni di euro sulla base di requisiti falsamente
rappresentati, essenzialmente grazie al quadro economico-patrimoniale
dolosamente manipolato dai vertici aziendali. Tale ultima operazione ha
comportato l’acquisizione, con denaro pubblico, di una partecipazione pari al 15,6%
del capitale sociale e conseguente versamento a favore della Società di un importo
corrispondente a euro 11.000.000,00, per la realizzazione di un «progetto di
investimento» per lo sviluppo di quest’ultima in Italia e all’estero «mediante il
potenziamento delle strutture di produzione (impianti ed immobili) e di
commercializzazione dei prodotti», sulla base di uno studio di fattibilità per
l’attuazione del progetto e di un business plan «che ha consentito di valutarne la
validità tecnica ed economico-finanziaria, nonché l’idoneità al conseguimento degli
obiettivi prefissati».
È stata contestualmente presentata istanza di emissione, nei confronti delle
persone fisiche rappresentanti legali e amministratori delle predette società, della
misura cautelare del sequestro conservativo sino alla concorrenza della somma di
euro 15.994.509,09, corrispondente all’importo del danno complessivamente
accertato (euro 3.495.421,42 per la prima iniziativa + euro 12.499.087,67 per la
seconda iniziativa, comprensivi degli interessi maturati). Quanto, in particolare, al
requisito del periculum in mora, sono stati messi in luce i fondati e obiettivi timori
di vanificazione dell’effettività della giustizia contabile in considerazione del tempo
verosimilmente occorrente prima della statuizione definitiva nel merito, con il
rischio di annullare o fortemente ridurre la garanzia patrimoniale generica a
disposizione dell’Erario per effetto di modificazioni in peius dei patrimoni di tutti i
soggetti coinvolti, indotte dall’esercizio dell’azione di risarcimento del danno
erariale. Sul punto, è stato osservato che: a) la Società è assoggettata a procedura
concorsuale che, oltre a rendere problematico l’esercizio dell’azione cautelare nei
suoi confronti (per divieti già posti dalla legge fallimentare), determina comunque
una notevole incertezza nell’integrale recupero delle somme, quanto meno perché il
credito erariale potrà, al più, essere soddisfatto in moneta concorsuale ovvero,
64
ancorché recato da una sentenza di condanna del giudice contabile, non potrà essere
fatto valere nei confronti della procedura, ma dovrà comunque attendere il ritorno
in bonis della società, tutt’altro che probabile; b) la liquidità, presente nei conti
correnti intestati alla Società, è già stata sottoposta a sequestro preventivo dal
Giudice per le indagini preliminari di Parma per una somma corrispondente a euro
9.757.332,37; c) la controllante è stata posta in liquidazione volontaria nel febbraio
2015, ossia subito dopo che aveva preso avvio l’attività di verifica nei confronti della
controllata da parte della Guardia di Finanza. Peraltro, soltanto tre mesi dopo la
messa in liquidazione, il socio unico della controllante ha trasferito a titolo gratuito
la sua partecipazione al proprio coniuge nell’evidente tentativo di sottrarre attività
sia alle conseguenze sanzionatorie dei propri illeciti nella controllata sia alle
presumibili azioni di recupero del soggetto erogatore dei finanziamenti; d) come da
accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza, la controllante è oramai una “scatola
vuota” poiché risulta titolare esclusivamente della partecipazione nella Società
controllata (786.370 azioni pari al 58,40% del capitale sociale), il cui valore
patrimoniale attuale è, alla luce delle considerazioni sopra svolte sullo stato di crisi
di quest’ultima, pari a zero.
In un’altra fattispecie, questa Procura ha chiesto il sequestro conservativo per
oltre 6 milioni di euro nei confronti di una società che gestisce un ospedale privato
accreditato con il servizio sanitario regionale.
La contestazione di responsabilità amministrativa, che riguarda non soltanto
la società predetta ma anche quattro persone fisiche, che rivestono cariche
amministrative e sanitarie apicali nella medesima struttura, è relativa all’indebito
rimborso di ricoveri di riabilitazione intensiva (codice 56 nei modelli di informazione
del Sistema informativo sanitario – categoria diagnostica principale MDC 23), resi
a favore di assistiti residenti al di fuori del territorio regionale e ritenuti dalla
Procura Regionale inappropriati.
E’ stato infatti accertato, per le sole annualità 2011-2012, un danno erariale
di ammontare superiore ai sei milioni di euro.
Si deve sottolineare che il danno, per il quale è stato richiesto il sequestro, è
solo la punta di un iceberg, pregiudizievole per gli interessi del SSN, i cui contorni
sono ancora in ampia parte sommersi. Fuor di metafora, gli oltre 6 milioni di euro
contestati riguardano soltanto 1.315 ricoveri avvenuti negli anni 2011 e 2012
(perché su questi, sino a ora, si è compiuta una puntuale e esaustiva determinazione
delle somme non dovute alla società), mentre restano ancora da indagare funditus i
circa 3.000 ricoveri relativi agli anni precedenti, dal 2007 al 2010 (e sussistono
numerosi indici presuntivi che lasciano ritenere un andamento del danno subito dal
SSN non dissimile da quello registrato negli anni qui contestati).
Le complesse indagini, svolte in parallelo con la Procura penale competente
per territorio, hanno infatti rivelato varie irregolarità a cominciare dalla mancata
dimostrazione che la necessità del ricovero per riabilitazione intensiva fosse dettata
dall’esigenza di provvedere al recupero di disabilità importanti, suscettibili di
65
miglioramento, richiedenti un elevato impegno diagnostico medico specialistico a
indirizzo riabilitativo e terapeutico, come invece richiedono le linee guida
ministeriali. Molte delle prestazioni erogate erano in realtà trattamenti riabilitativi
ambulatoriali, che non dovevano essere posti a carico del servizio sanitario
nazionale in quanto escluse dai c.d. LEA – Livelli essenziali di assistenza a partire
dal 2002.
Più in generale, si è constatato che il costante ricorso da parte dell’ospedale
privato a forme di ricovero per riabilitazione di tipo intensivo era ingiustificato e
poteva essere sostituito da tipologie di trattamento meno impegnative da un punto
di vista economico e più appropriate da un punto di vista clinico.
Va menzionata, infine, al riguardo, la sentenza n. 172 del 2016 con la quale la
Sezione ha accolto la citazione della Procura per azione revocatoria.
Gli accertamenti patrimoniali compiuti dalla Guardia di finanza di Piacenza
hanno permesso di evidenziare che il convenuto (ex dipendente della CCIAA di
Piacenza) in un precedente giudizio, nel corso dei mesi di maggio e di giugno 2013,
allorché era in corso l’istruttoria di questa Procura, poi sfociata nel predetto giudizio
(in corso all’atto del deposito della citazione per revocatoria), aveva “alienato” alla
sorella e alla madre i propri beni immobili, all’evidente scopo di sottrarli ad un
eventuale futuro pignoramento. Lo stesso dicasi a proposito di atti dispositivi su
beni mobili, intercorsi sempre tra i medesimi, predetti, soggetti, i quali hanno messo
in luce, sotto il profilo della scientia damni, la sottrazione totale dei beni al creditore,
assolutamente pregiudicato nella soddisfazione del credito.
Il Collegio, pertanto, nella fattispecie in esame, dopo aver ritenuto sussistenti
gli elementi dell'eventus et scientia damni e della partecipatio fraudis, evidenziati: i)
dalla consapevolezza e dall'intenzione del depauperamento del patrimonio del
debitore in danno del creditore pubblico, atteso che gli atti di disposizione sopra
indicati, erano stati sottoscritti e/o effettuati in data immediatamente successiva
all'invito a dedurre della Procura erariale notificato al convenuto; ii) dalla
sottrazione dei beni al creditore pressoché totale; iii) dalla stipulazione degli atti di
disposizione oggetto di revocatoria in costanza di evidente rapporto di parentela tra
le parti, ha dichiarato inefficaci nei confronti della Camera di Commercio i predetti
atti di disposizione immobiliare.
3.2.12 Il follow-up del primo grado: appelli e sentenze d’appello
Tra i vari appelli proposti da questa Procura avverso le sentenze di primo
grado, alcuni dei quali già menzionati in relazione alle precedenti classificazioni dei
danni, si segnalano altresì i seguenti.
Questa Procura ha appellato la sentenza della locale Sezione Giurisdizionale
n. 115 del 1/9/2016, di assoluzione del Capo di Gabinetto pro-tempore del Presidente
della Giunta Regionale della Regione Emilia-Romagna, del Direttore Generale protempore della Struttura “Organizzazione, personale, sistemi informativi e
telematica”, e di una dipendente, con incarico dirigenziale di diretta collaborazione
66
politica della medesima Regione.
La sentenza aveva ritenuto infondate le contestazioni di responsabilità
amministrativa per condotte illecite poste in essere, negli anni 2008, 2009 e 2010,
per il conferimento di un incarico dirigenziale privo di obiettivi ed indicatori utili a
valutare e misurare la performance del dirigente citato e per non aver motivato e
documentato l’avvenuto raggiungimento di obiettivi individuali e concreti, in quanto
non prefissati a monte del conferimento dell’incarico e, pertanto, insussistenti; i
giudici di primo grado hanno fatto leva, in proposito, sulla natura eminentemente
politica dell’incarico dirigenziale, tale da giustificare una elaborazione “dinamica”,
ossia in corso di svolgimento del rapporto dirigenziale, degli obiettivi e degli
indicatori.
La sentenza è stata appellata da questa Procura regionale evidenziando, in
particolare, che la sentenza della Corte costituzionale n.104/2010, invocata
dall’organo giudicante di prime cure, dal rapporto strettamente fiduciario
intercorrente tra Ministri ed il personale, incluso quello dirigenziale, operante presso
gli uffici di diretta collaborazione politica, ha desunto esclusivamente i seguenti
corollari: 1) possibilità dell’interruzione del rapporto, al momento del giuramento
del nuovo Ministro, per il solo fatto del venir meno dell’elemento fiduciario con il
personale assegnato negli uffici in discorso (decadenza automatica, senza altra
garanzia di partecipazione e/o di contraddittorio procedimentale); 2) possibilità di
nomina del personale, compreso quello dirigenziale, basata solo sull’intuitu personae,
senza predeterminazione di alcun rigido criterio da osservarsi nell’adozione dell’atto
di assegnazione all’ufficio e di conferimento dell’ufficio.
La Corte costituzionale non ha desunto alcun altro corollario, oltre a quelli
appena indicati. In particolare, la Corte non ha affrontato il diverso problema se, a
fronte
di
obiettivi
generici
e/o
non
misurabili,
dunque
indeterminati/indeterminabili, o di indicatori non pertinenti o significativi per
misurarne il grado di realizzazione, ai dirigenti titolari di incarichi di diretta
collaborazione politica – in assenza di una norma di legge speciale o eccezionale - sia
o meno dovuta l’indennità di produttività (o di risultato). Il Giudice costituzionale
non ha neppure argomentato in merito alle conseguenze economiche derivanti dalla
decadenza automatica dall’incarico dirigenziale per mancata conferma (nella
sostanza, per sopravvenuta sfiducia) da parte del nuovo organo di vertice politico.
Pertanto, nell’atto di appello si è evidenziato che costituisce un vero e proprio salto
logico-giuridico l’affermazione per cui il principio di stretta compenetrazione
fiduciaria tra organo politico e uffici di diretta collaborazione garantisce il rispetto,
nella fattispecie concreta dedotta in giudizio, del requisito di
determinatezza/determinabilità dei compiti e degli obiettivi dell’incarico
dirigenziale affidato alla dipendente regionale; con conseguente riaffermazione, in
sede d’impugnazione, della non debenza dell’indennità di risultato erogata per il
2008, 2009 e 2010.
E’ stato, inoltre, prodotto appello avverso la sentenza n. 91 del 2016 della
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Sezione giurisdizionale che ha assolto presidente e componenti pro-tempore del
consiglio di amministrazione di un’Azienda pubblica di servizi alla persona (di
seguito, per brevità, indicata anche come “ASP”) in relazione agli emolumenti
corrisposti al direttore dell’Azienda da questi nominato senza diploma di laurea.
I giudici di primo grado hanno quindi ritenuto che un soggetto, privo di
diploma di laurea, possa essere destinatario di un incarico dirigenziale di vertice in
un ente pubblico, assolvendo, come detto, i convenuti da ogni addebito.
Il percorso motivazionale, attraverso il quale il giudice emiliano è giunto a
tale conclusione, prende le mosse dal riconoscimento all’ASP di un’autonomia
normativa praticamente senza limiti.
La sentenza gravata afferma infatti «la “supremazia” della previsione
statutaria preposta alla disciplina dell’adozione dello specifico provvedimento di
conferimento dell’incarico in parola, in grado di rendere inapplicabile ogni altra
regolamentazione che con essa contrasti» (così a pag. 14 della sentenza impugnata).
Secondo questa ricostruzione del giudice di primo grado, sarebbe legittima
ogni previsione statutaria contra legem, giacché lo statuto dell’ASP verrebbe a
operare in una sorta di ambito riservato, senza problemi né preoccupazioni di
interferenze con fonti di grado superiore.
La sentenza ritiene inoltre che la disposizione, contenuta nell’articolo 34 dello
statuto, secondo cui «Il Direttore è nominato dal Consiglio di amministrazione […]
con le modalità e secondo i criteri stabiliti nel regolamento sull’ordinamento degli uffici
e dei servizi», implichi una delega implicita a favore della fonte regolamentare di
disciplinare anche i requisiti soggettivi per siffatto incarico, avente indiscutibile
natura dirigenziale.
La Procura appellante ha contestato tale interpretazione, osservando che, in
realtà, i contenuti letterali della disposizione di cui al cit. art. 34 inducono a ritenere
che la scelta statutaria sia stata nel senso di affidare al regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi unicamente la disciplina delle modalità e
degli elementi oggettivi di valutazione delle capacità tecniche e professionali dei
diversi aspiranti (i criteri, appunto), ma non anche i requisiti di ammissione, della
cui menzione non vi è traccia nella disposizione statutaria richiamata.
Illuminante, sotto questo profilo, è la disposizione contenuta nel comma 2
dell’articolo 12 del regolamento che attribuisce al presidente dell’azienda il potere
di individuare il direttore «sulla base di un rapporto strettamente fiduciario» tra
persone dotate di «comprovata esperienza professionale», fermo restando che detta
individuazione può avvenire «anche a seguito di procedure comparative […] a favore
di candidati in possesso dei requisiti d’accesso alla qualifica dirigenziale di particolare
e comprovata qualificazione professionale che possano dimostrare il possesso di
specifiche esperienze, dettagliate all’art. 19, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001».
Un’interpretazione, condotta secondo ragionevolezza, attenta cioè ai valori
protetti dagli articoli 3 e 51 Cost., disvela che l’individuazione fiduciaria non può
derogare al principio di uguaglianza, consentendo l’accesso alle funzioni dirigenziali
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di direttore dell’agenzia anche a soggetti privi dei requisiti stabiliti dalla legge, come
invece ritiene la sentenza gravata, secondo cui la scelta fondata sul rapporto
fiduciario potrebbe fare affidamento unicamente sulla «comprovata esperienza
professionale, in quanto rilevabile dal curriculum».
Alla luce delle disposizioni richiamate e tenuto conto del costante
orientamento espresso dalla Corte dei conti nell’esercizio della sua funzione
consultiva (v. sez. centr. contr. legittimità, deliberazioni n. 3 e n. 7 del 2003, a
proposito della necessità del diploma di laurea ai fini della “particolare e comprovata
qualificazione professionale” di cui agli incarichi ex art. 19, comma 6, d.lgs. n.
165/2001; nonché sez. contr. Lombardia, parere, 31.10.2006, n. 20), la conclusione è
nel senso che gli amministratori dell’ASP non potevano prescindere, per
l’attribuzione dell’incarico di direttore, dal requisito necessario del diploma di
laurea, che è previsto, sul piano dell’ordinamento generale, per ogni ipotesi di
accesso alla dirigenza pubblica.
Un altro appello degno di menzione è quello avverso la sentenza n. 109 del
2015, con la quale la Sezione regionale dell’Emilia Romagna, in relazione ad una
vicenda che vedeva coinvolti i consiglieri comunali ed alcuni dirigenti di un Comune
per una fattispecie di indebito versamento di contributi straordinari a ripiano perdite
di una propria partecipata, ha assolto i convenuti per mancanza dell’elemento
soggettivo della responsabilità, sulla base: i) di un contesto ordinamentale di
riferimento (rappresentato dall’art. 3, comma 27 - “Limiti alla costituzione e alla
partecipazione in società delle amministrazioni pubbliche” della legge 24 dicembre
2007 n. 244, L.F. 2008; dagli artt. 6 -“Riduzione dei costi degli apparati
amministrativi”-, comma 19, e 14 -“Patto di stabilità interno ed altre disposizioni
sugli enti territoriali”-, e comma 32, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78
convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122 -“Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”), ritenuto
connotato da dubbi e da difficoltà applicative; ii) di un parere legale, emesso da un
noto professionista, a supporto della decisione amministrativa; iii) della
dichiarazione di intenti proveniente da altra amministrazione comunale di aderire
al Consorzio; iv) della circostanza che altri enti partecipanti – tra cui l’Università di
Bologna – avessero già deliberato i rispettivi contributi consortili.
La Procura aveva contestato al Consiglio comunale di avere erogato
contributi straordinari a ripiano di consistenti e pregresse perdite di esercizio ad un
consorzio universitario, in difetto di rilevanti presupposti normativi (sopra
indicati), tra cui in primis quello contemplante il rapporto di stretta inerenza con le
funzioni istituzionali del Comune stesso (art. 3, comma 27 sopra citato). Oltre a ciò,
l’Ente deliberava tale contribuzione in violazione del divieto che indicava una soglia
demografica ai fini della detenzione di società partecipate (art. 14, comma 32, del
d.l. 78/2010) e in violazione/elusione dell’art. 6, co. 19 del medesimo d.l. sul divieto
di finanziamento di società in perdita per tre esercizi consecutivi.
Nonostante plurime e ripetute violazioni di legge (tali ritenute anche dalla
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Sezione), la sentenza ha mandato assolti i convenuti ritenendo giustificabili le loro
condotte per difetto del requisito soggettivo del dolo o della colpa grave,
attribuendo significativo rilievo ad una serie di circostanze che, al contrario,
dovevano deporre per la dimostrazione di tale elemento soggettivo altro non essendo
che escamotage utilizzati per raggiungere un risultato vietato dalla legge. Tali
dovevano ritenersi, difatti (come emerge anche dal dibattito consiliare consacrato
nel verbale di deliberazione): - il parere legale confezionato dal professionista
incaricato dal Consorzio; - la mera dichiarazione di intenti manifestata dall’organo
incompetente di altro ente locale; - il business plan della società che, se pur teso a
programmare un’attività di rilancio della stessa, conteneva plurimi ed espliciti
riferimenti alla pregressa e grave situazione patrimoniale della società e che, per
essere considerato quale una fonte giuridicamente valida e legittimante eventuali
contributi straordinari alla partecipata, avrebbe dovuto programmare in anticipo
la copertura di eventuali perdite future e non prevedere la copertura di perdite
pregresse già consolidate; - lo stesso intervento finanziario disposto prima del
consolidamento formale della perdita nel terzo esercizio consecutivo. Tali evidenze
poggiavano sul dibattito consiliare consacrato nel verbale di deliberazione e sulla
documentazione agli atti del Consiglio, e avrebbero dovuto indurre il prudente
amministratore a non procedere nel senso contestato.
Le sentenze di secondo grado
Tra le varie sentenze di appello, si ritiene di menzionare la sentenza n. 609 del
28.11.2016, con la quale la III Sezione Centrale di Appello ha sostanzialmente
confermato la condanna in primo grado del Presidente e dei componenti protempore della Giunta regionale nonché del dirigente titolare della Direzione
generale Organizzazione, personale, sistemi informativi e telematica pro tempore
(sentenza n. 9/14/R del 14.1.2014), accogliendo solo parzialmente l’appello da questi
proposto con una riduzione equitativa della condanna all’importo complessivo di
100.000,00 euro.
La fattispecie riguardava l’illegittima corresponsione a favore di alcuni
dirigenti regionali di un’atipica indennità di coordinamento prevista dalla Giunta
regionale come una “quota” aggiuntiva della retribuzione di risultato.
Nell’atto di citazione la Procura Regionale aveva evidenziato che l’indennità
di coordinamento era finalizzata a retribuire lo svolgimento di normali mansioni
dirigenziali, senza alcun collegamento con specifici e concreti obiettivi gestionali,
connessi cioè all’ordinario ciclo annuale ‘programmazione-definizione degli
obiettivi-gestione-valutazione dei risultati’, per di più con una somma aggiuntiva
rispetto a quanto già previsto nell’ambito del trattamento economico accessorio
della dirigenza regionale.
Inoltre, con sentenza n. 571 del 4.11.2016, la III Sezione Centrale di Appello
ha confermato la condanna di due dirigenti del Comune di Bologna, responsabili di
illegittimi affidamenti di ripetuti incarichi di consulenza a favore di un medesimo
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professionista geologo (sentenza Sez. E.R. n. 125/14/R del 24.7.2014)
Il giudice di secondo grado ha validato la bontà dell’impianto accusatorio,
ritenendo comprovata l’inutilità della spesa, anche attraverso la lettura diacronica
della dotazione organica del Comune di Bologna e delle correlative esigenze di
prestazioni tecnicamente qualificate da parte del settore interessato. Nel rigettare
l’appello proposto dai condannati in primo grado, la III sez. centr. app. ha avuto
modo di censurare la mancanza da parte degli appellanti di elementi sufficienti a
dimostrare la necessarietà e l’eccezionalità della spesa per gli apporti consulenziali
esterni, osservando che «l’onere probatorio del danno erariale arrecato alle finanze del
Comune di Bologna è stato adeguatamente assolto dal locale Organo Requirente».
3.2.13.- La c.d. “riparazione spontanea”.
Va segnalato, infine, il sempre crescente fenomeno della cd. “riparazione
spontanea”, cioè il recupero economico a seguito di istruttoria o di notifica di invito
a dedurre o dell’atto di citazione.
Si tratta di somme importanti, che si aggiungono alle somme recuperate in
sede di esecuzione delle sentenze di condanna e che testimoniano l’elevato livello di
considerazione attribuito all’attività svolta da questa Procura.
3.3.- GIUDIZI DI CONTO E PER RESA DI CONTO
Un settore di rinnovato interesse per la Procura è quello relativo ai giudizi di
conto e per resa di conto. Questi ultimi sono introdotti dalla Procura nei confronti
degli Agenti contabili che non abbiano ottemperato all’obbligo di rendere il conto,
mentre i primi sono aperti dalla Sezione Giurisdizionale a seguito della
presentazione del conto giudiziale ed alle relative Udienze partecipa il Pubblico
Ministero.
Anche nel 2016 sono stati infatti discussi in Udienza, con la presenza della
Procura Regionale, diversi giudizi di conto.
RINGRAZIAMENTI
Prima di concludere, sento il dovere di esprimere il mio ringraziamento ai
Colleghi di questa Procura Regionale, con i quali condivido l’esercizio della funzione
requirente, per l’impegno profuso e l’elevata professionalità, che ha permesso un
risultato di lavoro particolarmente lusinghiero.
Un significativo e vivo ringraziamento va al personale amministrativo che
ha collaborato in maniera encomiabile con i Magistrati di questa Procura.
Un ringraziamento al Sig. Presidente, ai Colleghi ed al personale
amministrativo della Sezione Giurisdizionale, le cui pronunce (quale che sia l’esito
per le azioni introdotte dalla Procura) formano una giurisprudenza meditata,
significativa ed autorevole.
Ringrazio altresì il Sig. Presidente, i Colleghi ed il personale tutto della
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Sezione regionale di controllo nonché il Dirigente del Servizio Amministrativo
Unico Regionale ed il suo personale per la efficace collaborazione prestata alle
attività di questa Procura.
Un saluto ed un ringraziamento ai Colleghi delle Procure della Repubblica
del Distretto con i quali questa Procura Regionale è in continuo contatto.
Un sentito grazie va poi alla Guardia di Finanza, all’Arma dei Carabinieri ed
alla Polizia di Stato che, con abnegazione e notevole spirito di servizio, uniti ad
altrettanta passione e professionalità, hanno contribuito ad accrescere il nostro
impegno nella lotta comune contro gli sprechi di denaro pubblico.
Uno speciale saluto desidero inoltre rivolgere ai rappresentanti della classe
forense per il continuo, leale e proficuo confronto con questa Procura ed agli organi
di informazione che, seguendo con professionalità ed impegno il nostro lavoro,
hanno consentito di farlo conoscere all’opinione pubblica.
Nel ringraziare infine tutti i presenti per la cortese attenzione, Le chiedo, Sig.
Presidente, al termine degli interventi programmati, di dichiarare aperto l’anno
giudiziario 2017 della Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per l’EmiliaRomagna.
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