Relitti di naufragio – Mario Michele Merlino

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Transcript Relitti di naufragio – Mario Michele Merlino

Mi ritrovo, il tempo l’ha usurato (in ogni senso, probabile), Il tradimento dei chierici
di Julien Benda, il famoso pamphlet pubblicato nel 1927. L’edizione in mio possesso
risale al 1976 e, essendo a cura della Piccola Biblioteca dell’Einaudi, risente del
clima di faziosità che, tramite accurata introduzione, si premunisce di evidenziare
come il suo autore sia ‘un uomo di sinistra estremamente appassionato’, secondo il
giudizio di Paul Nizan, che ebbe in odio ‘gli sciovinisti, i razzisti, i fascisti d’ogni
gradazione, i servi d’ogni regime’. Stalin e lo stalinismo vanno ricercati all’interno
dello scritto chè ometterli era impossibile ma minimizzare sì. Non è qui, però, il
senso di questo mio richiamo, nato a caso (l’argomento vede sterminata saggistica),
solo la necessità, si potrebbe dire, di avere uno spunto per dare inizio.
Inizio a cosa, io stesso – lo ammetto – sono confuso. Sugli intellettuali idee impegno
o attenersi ad un ruolo estraneo alle beghe del mondo, forse. Altro ancora fine delle
illusioni intorno al pensiero e al suo ruolo-guida… E, quando le idee non trovano il
sostegno delle parole adeguate, cosa rimane di quel mondo che si diede guerra in
cielo, mentre, in terra, gli uomini per esse si battevano?
In questa edizione – dubito nell’originale francese – si dà, sotto il titolo, una sorta di
sintesi esplicativa: ‘Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea’. Tema
che appartiene non al presente, va da sé, chè già il solito Platone si fece carico di
andare dal tiranno di Siracusa per istruirlo sull’arte del ‘buon governo’, mentre si
dilettava a definire le idee universali – fuori, dunque, da ogni tempo e dallo spazio,
del vero del giusto del bello. E Benda, mi sembra, si diletti anch’egli – brutta copia
di un Maestro di ben altro spessore – a rendere quei valori universali propri dei
custodi deputati alla difesa della cultura, la ragione la verità la giustizia, nel mondo
presente, magari schierandosi contro l’Italia di Mussolini durante la campagna
d’Etiopia o dalla parte dei repubblicani nella guerra civile di Spagna. (E
decisamente odioso, l’edizione in mio possesso è frutto di successive rielaborazioni,
quando, ad esempio scrive: ‘Per di più, a meno di non chiamare pensiero tutto ciò
che si stampa, non vedo che cosa il pensiero abbia perso con la scomparsa di un
Maurras o di un Brasillach’).
Insomma: l’intellettuale pretende gli venga riconosciuto un ruolo svincolato da ogni
sentire del contingente del provvisorio del particolare, a cui guarda con un misto di
noia e dispetto, ma, al contempo, pretende essere arbitro insindacabile e giudice
severo proprio di quell’esperire legato alle vicende umane. E si rammarica si turba
si duole se gli si stampano sul culo i segni d’un paio di pedate ben aggiustate…
(Lezione prima da giovane militante, sprovveduto e intimorito, in un pomeriggio nei
pressi di un bar a Piazzale Prenestino, recatomi a consegnare, non ricordo più quale
messaggio, ad Angelino Rossi, noto attivista e pugile. Vengo coinvolto, al mio arrivo,
al diverbio fra lui e un tizio che l’aveva insultato – io da spettatore – per motivi
legati al parcheggio dell’auto troppo a ridosso al tavolino dove era seduto assieme
ad altri camerati. Due cazzotti, andato lungo l’imprudente, serafico e saccente mi si
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rivolge e m’impartisce il consiglio, che non ho dimenticato: ‘Prima mena, poi
discuti!’. Addio, in un solo momento, dei buoni propositi da studente liceale,
l’educazione borghese, la priorità della parola scritta ed orale su ogni forma di
lavoro manuale. Bastoni e barricate, la parola d’ordine, nonostante i libri affastellati
alle pareti e quarant’anni circa di amata professione da insegnante…).
L’intellettuale di questa misura – arroganza e presunzione, cattedra e registro – si
appella, anche qui, al solito Platone che, se non erro nel Libro I delle Leggi, elenca
le virtù fondamentali dove, al primo posto, colloca la saggezza e la temperanza
mentre il coraggio vi compare ultima – ed è il coraggio del ben morire più che forza
d’animo. Il guerriero, definito e insolente e ingiusto e immorale, sa affrontare
impavido nello scontro il nemico. Nulla di più. (Da aristocratico e cittadino di Atene
riconosce negli Spartani la potenza delle armi, ma ne disconosce le virtù che la
sottintendono, anzi ne rimprovera l’assenza. Invidia? Chissà se avrebbe applaudito
il Duce apparire con in una mano il libro e nell’altra il moschetto…).
Guerra dell’intelletto ai nemici dell’intelletto, ma anche lotta mortale alla pretesa di
essere l’intelletto la ‘Dea Ragione’ d’ogni agire. L’irrompere di Nietzsche, disperato
e folle, martello e dinamite gli strumenti del filosofare, questa deriva
dell’irrazionale ove il filo spinato la mitragliatrice i gas venefici diventano ‘opere
d’arte’ e le trincee a Verdun o tra le aspre rocce del Carso i camminamenti fango
pidocchi orbite vuote ossa spezzate carne lacerata tappe di un immenso museo
dell’orrore – ‘Per qualche centinaio di statue rotte, – Per poche migliaia di libri a
brandelli’ –. Così l’uomo si fa nemico dell’umano si rende con una lamentazione non
con uno schianto. Tradire il proprio ruolo, vergine pudica e altera e sdegnosa,
scendere in strada – ‘battete in piazza il calpestio delle rivolte’, urla il futurismo
russo, ad esempio –, ecco l’impegno nuovo dell’intellettuale.
Non contano più le idee in sé ma le opinioni – ben intendendo le proprie ‘universali’
e arricchite da presupposti e finalità morali, quali la Patria o la Classe o la Razza e,
la più facile da spendere, la Libertà (quella a stelle e strisce con la Bibbia in mano e
il cuore a forma di dollaro, poi, s’è dimostrata vincente). L’importante che per esse
si sappia ben spargere il sangue (altrui). D’altronde dove risiedono le idee? Non più
in un luogo altro ed alto, ma quale febbre della mente sogni incubi pulsioni rancori
e quanto più proviene dagli occhi dall’eco di voci – armonie, più spesso, note
stonate e suonate su una nota sola – dagli oscuri meandri del corpo. La tigre che è
in noi e che si fa pronta a sbranare sbranarci…
Così, a vario titolo, gli emuli di Nietzsche e dintorni. Penso a Marinetti e
D’Annunzio in Italia; a Sorel e Péguy in Francia, ad esempio. Intanto gli algidi
sostenitori del pensiero fattosi degno solo di se medesimo – come il Benda, appunto
– percorrono da funamboli in scarso equilibrio l’autonomia della razionalità in sé
con l’aderire alle cose del mondo, giustificandosi che essi mantengono fissa la barra
sull’eterno vero e il giusto e il bello. E, come Benedetto Croce, determinano le leggi
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che guidano, esse sole, lo svolgimento delle cose, il senso del divenire. In più
occasioni, con paradosso solo apparente, gli schieramenti in lotta fra loro
pretendono di applicare l’idea di Lenin come la conquista del territorio avvenga
tramite la conquista delle coscienze… In fondo l’intellettuale organico prima
(Gramsci) e l’engagement poi (ad esempio di J.P. Sartre) sono figli della stessa
pretesa e del medesimo abbaglio.
Una fucina di caleidoscopi variopinti, sovente lavacro purificato dal sangue versato,
di visioni bandiere barricate illusioni inganni, chi nelle trincee nelle dune del
deserto fra la neve lungo sentieri di montagna angoli di strade in cielo sul mare, chi
a vivere chiuso nella propria stanza trasformatasi in universo senza confini, tutti,
però, eroi o vili, ‘faccia al sole e in culo al mondo!’, forse un po’ beceri e forse
patetici, ‘immenso e rosso’, sbarre e chiavistelli, molotov e lacrimogeni, P38 e
spranghe. La giovinezza dei nostri nonni, la terra che fu dei padri, un angolino di
cielo riservatosi per alcuni di noi, involontari sopravvissuti, relitti di naufragio…
(Uso il termine ‘periglioso’ – ultimo anno da insegnante –. Alessandra mi chiede
cosa voglia dire. Ha almeno la curiosità del domandare. Cerco di spiegare che è una
sorta di sinonimo di ‘pericoloso’, forse ormai desueto. Dall’ultimo banco, polemico,
Paolo ribatte che dovrei parlare come mangio. Lo mando a ‘fanculo’ senza
metafora… Però mi scorrono immagini di vascelli in lotta fra loro e contro gli
elementi – il vento e le onde che vorrebbero scassare e trascinare a fondo i fragili
legni – e penso a queste scene ‘perigliose’ che nessuno potrà più descrivere!).
Rettori di venti e più università e professori d’ogni ordine e grado e da ogni
cattedra e studiosi del linguaggio, anche di recente, hanno sollevato timori
reprimende grida di dolore ammonimenti strazi e lagne per il degrado della ‘nostra’
lingua, per il suo impoverimento – ormai utilizziamo intorno a duecento parole e ne
comprendiamo forse meno –. Congiuntivi e condizionali spazzati via; parole troncate
uso sms; basta comunicare ‘a viva voce’ (affascinanti immagini di coppie, il giorno
di San Valentino, che neppure si guardano negli occhi, mentre ognuno digita sul
proprio cellulare)… E, allora? I nostri libri con la carta che s’ingiallisce e il profumo
inconfondibile? In quale cimitero, oscuro e polveroso archivio, scantinato della
memoria finiranno la storia di uomini che furono confusi dalle parole vi giocarono
nella mente l’affidarono a mani cuori gambe ardite come squilli di tromba in
imminente attacco?
Ho trovato alfine l’espressione giusta: relitti di naufragio. Noi stessi. Eppure ‘Amore
e Coraggio non sono soggetti a processo’…
Mario Michele Merlino
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