1 - Comune di Milano

Download Report

Transcript 1 - Comune di Milano

SCENARI
Agenda Milano
Ricerche e pratiche per una città inclusiva
A cura di
David Bidussa ed Emanuele Polizzi
Con una postfazione di
Cristina Tajani
© 2017 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Via Romagnosi 3, 20121 Milano (MI)
www.fondazionefeltrinelli.it
ISBN 978-88-6835-273-8
Prima edizione digitale febbraio 2017
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo
elettronico, meccanico, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dalla Fondazione. Le
riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale
possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata daFondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Segui le attività di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli:
facebook.com/fondazionefeltrinelli
twitter.com/Fondfeltrinelli
I testi contenuti in questa pubblicazione sono parte delle proposte pervenute all’interno del progetto “Laboratorio Metropolitano per la
conoscenza pubblica su innovazione e inclusione”. Tutti i documenti presentati sono leggibili alla pagina web:
http://www.lavoroeformazioneincomune.it/repository-virtuale-del-laboratorio-metropolitano-per-la-conoscenza-pubblica-su-innovazione-einclusione/
La scelta dei testi che compongono questa pubblicazione è il risultato di un lavoro di una commissione di valutazione composta da: Prof. Enzo
Mingione (Università di Milano Bicocca), Stefano Parise (Comune di Milano); Emanuele Polizzi (Università degli Studi Ecampus) e David
Bidussa (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli).
Indice
Emanuele Polizzi
La ricerca come risorsa per le politiche pubbliche.
L’esperienza del Laboratorio Metropolitano per la Conoscenza Pubblica su Innovazione e Inclusione
7
Prima parte. Politiche per lo sviluppo economico e l’inserimento lavorativo
18
Marika Arena, Giovanni Azzone, Irene Bengo, Mario Calderini
Innovazione sociale e riconversioni industriali
19
Letizia Chiappini, Marianna d’Ovidio
Il potenziale dei makers: tra innovazione economica e coesione sociale
33
Luca Daconto
Mobilità quotidiana e inclusione nel lavoro: sfida dell’accessibilità e politiche urbane
42
Seconda parte. Politiche per l’abitare e la rigenerazione urbana
50
Claudio Calvaresi, Ivana Pederiva
Community hub: rigenerazione urbana e innovazione sociale
51
Elena Ostanel
Rigenerazione urbana e innovazione sociale in periferia. Un incontro possibile?
59
Roberta Marzorati, Michela Semprebon
La gestione sociale: la grande sfida dei progetti di housing sociale a Milano tra intervento pubblico e privato.
Una riflessione a partire dal caso di ViaPadova36
Terza parte. Pratiche e politiche per l’inclusione sociale
70
79
Cristina Pasqualini
Il quartiere del Terzo Millennio: le social street a Milano e provincia
80
Caterina Gozzoli, Chiara D’Angelo
Lo sport strumento innovativo per l’inclusione sociale: quali condizioni?
91
Cristina Tajani
Postfazione
103
Agenda Milano
Ricerche e pratiche per una città inclusiva
Emanuele Polizzi
La ricerca come risorsa per le politiche pubbliche.
L’esperienza del Laboratorio Metropolitano per la Conoscenza Pubblica su Innovazione e
Inclusione
Questo volume rappresenta il primo passo di una sfida ambiziosa e complessa: quella di
sperimentare una forma di dialogo aperto e costruttivo tra chi governa la città e chi studia i
fenomeni emergenti e le politiche pubbliche sull’area urbana. Può infatti essere così
sintetizzata la scommessa che il Comune di Milano ha fatto due anni fa, su iniziativa
dell’Assessore Cristina Tajani, all’interno del percorso politico-amministrativo “Milano In”1,
in collaborazione con la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. È a partire da questa sfida che
è stato lanciato nel giugno 2015 un appello pubblico, sotto forma di una call for paper,
rivolto a tutti i ricercatori che, a prescindere dal loro status, fossero disposti a confrontarsi
sui fenomeni emergenti in ambito urbano e su quali siano le politiche pubbliche più capaci
di interpretarli e di promuoverne le potenzialità inclusive, mettendo sotto esame casi e
policy poste in atto dai governi locali, a cominciare da quelli dell’area metropolitana
milanese. Tale sfida, sperimentale e inedita, mirava a intercettare il ricchissimo patrimonio
del sapere sulla città prodotto dai ricercatori che hanno studiato questo territorio o altri
territori urbani analoghi. Si tratta infatti di patrimonio spesso assai poco conosciuto e
valorizzato al mondo delle istituzioni politiche oltre che dentro allo stesso mondo
accademico.
L’appello lanciato con la call for paper ha riscosso l’interesse di più di cinquanta
ricercatori, per lo più giovani e spesso precari, che vi hanno risposto in forma individuale o
di gruppo, inviando i propri lavori2. Essi provenivano da percorsi disciplinari molto
eterogenei: dalla sociologia all’urbanistica, dalla scienza politica alla geografia urbana,
dall’economia politica alla psicologia sociale. Da questo appello pubblico è nato il percorso
che abbiamo chiamato “Laboratorio Metropolitano per la Conoscenza Pubblica su
Innovazione e Inclusione”3. Il nome dell’iniziativa sta ad indicare il fatto che il percorso si è
voluto configurare come un’attività interattiva e senza rigidi steccati disciplinari, nella
quale i contributi scientifici, dopo un processo di selezione sulla base dell’appropriatezza e
della qualità, potessero essere discussi congiuntamente da ricercatori e da rappresentanti
7
politici dell’Amministrazione comunale milanese. Questo volume raccoglie una selezione
dei contributi presentati dai ricercatori che hanno partecipato alla call e costituisce una
dimostrazione significativa del lavoro svolto in questi seminari. Dato che uno degli obiettivi
di questo percorso è stato di rendere il più possibile pubblico e fruibile a chiunque il
patrimonio di ricerca raccolto, il resto dei paper che hanno partecipato al Laboratorio è
stato reso pubblicamente accessibile, tramite una repository virtuale presente sul sito del
Comune di Milano4.
Il rapporto tra politiche e conoscenza
L’idea di costruire una forma di rapporto sistematico tra policy maker e ricercatori non è
nuova. Nel passato lontano e recente del contesto italiano ed europeo sono state praticate
infatti diverse forme di relazione tra questi attori [Guidali 2016].
Una delle più importanti forme praticate in passato di ingaggio degli studiosi nelle
politiche è quella basata sui cosiddetti “intellettuali organici”, ossia figure di studiosi e più
in generale di esponenti del mondo intellettuale dichiaratamente sostenitori o vicini ad un
partito politico e dunque anche a chi elaborava le politiche dentro a quel partito [Asor Rosa
1982]. Tale modello, come noto, si è affermato soprattutto nel corso del ‘900 in Europa,
all’interno dei grandi partiti provenienti dal movimento operaio, socialisti e comunisti, ma è
stato presente in forme varie anche nei grandi partiti centristi o conservatori europei, come
la DC in Italia o la CDU in Germania o nei partiti liberali e democratico-repubblicano (come
in Italia sono stati gli azionisti o i radicali)5. Si tratta di un modello nel quale la funzione di
supporto scientifico alle politiche era soprattutto di tipo ideologico e nel quale gli
intellettuali producevano prevalentemente riflessioni di fondo a supporto della visione
generale e del posizionamento del partito rispetto ad alcune grandi opzioni politiche6. In
questo modello, le politiche ricevevano un vaglio scientifico per lo più in forma indiretta e
preventiva, cioè attraverso il filtro politico dei partiti a cui gli intellettuali organici
aderiscono e a cui contribuiscono. Rimaneva quindi trascurata la dimensione di analisi delle
politiche prodotte dai governi. Tale analisi, d’altronde, non ha ricevuto una rilevante
attenzione specifica da parte degli studiosi come oggetto di ricerca, se non negli ultimi
decenni del ‘900. Ciò avverrà infatti solo con lo sviluppo della politologia nordamericana
degli anni ’60 e solo a partire dagli anni ’70 e ’80 questa attenzione inizierà ad entrare nel
dibattito scientifico europeo [Regonini 2001].
Un secondo tipo di relazione che possiamo individuare tra ricercatori e decisori è quella
di tipo consulenziale. Essa consiste in una relazione professionale e circoscritta tra
amministratori e professionisti del sapere esperto attorno ad un particolare tema di
politiche. Si tratta di un rapporto nel quale l’amministratore pubblico identifica un
interrogativo specifico, decide in maniera discrezionale a quali esperti e ricercatori
rivolgersi per cercarvi una risposta, affida loro un mandato retribuito e infine decide se,
8
quanto e come rendere pubblici i risultati dell’indagine. Un tale tipo di relazione ha un
carattere pragmatico, dal momento che nasce esattamente in relazione a degli interrogativi
di policy. D’altronde, tale modello implica una visibilità pubblica molto variabile, in quanto
dipendente dalla discrezionalità del decisore pubblico, con il rischio di produrre una scarsa
discussione pubblica degli esiti della ricerca stessa. Inoltre, il ricercatore che riceve un
incarico di ricerca di questo tipo si trova sempre in una situazione di potenziale conflitto di
interessi, nella misura in cui, quando l’oggetto della sua indagine sono proprio le politiche
del suo committente, egli si trova a gestire un dilemma tra il voler dire liberamente ciò che
l’indagine mette in luce rispetto a tali politiche, compresi gli aspetti problematici, e il non
voler mettere troppo in difficoltà il proprio committente criticandone le politiche.
Negli ultimi anni, alcuni studiosi hanno messo in luce l’emergere di un’ulteriore
modalità di utilizzo da parte dei policy maker della conoscenza scientifica. Essa fa
riferimento al cospicuo utilizzo, da parte dei policy maker, di dati statistico-quantitativi,
presentati come giustificazione esclusiva, o quasi, delle proprie scelte di policy [Desrosiéres
1998, 2011]. Si tratta di una forma di utilizzo della conoscenza volto al presentare le proprie
scelte politiche come obbligate dai dati, declinando in modo spesso assai superficiale il
concetto di evidence based policies [Pawson 2003, Salais 2009, Wolin 2008]. Se infatti le
scelte di politiche vengono presentato come auto-evidenti, esse diventano anche non
discutibili, se non dalla sola comunità scientifica. Questo tendenza opera cioè una sorta di
collasso della dimensione normativa sulla dimensione descrittiva, in virtù della quale una
certa osservazione della realtà, supposta come oggettiva e indiscutibile, diventa di per sé
sufficiente a orientare le scelte di governo della cosa pubblica, senza passare dal vaglio di
considerazioni di opportunità morale o politica [Bosco 2012, De Leonardis, Giorgi 2013].
Questo tipo di argomentazione viene spesso accompagnata dall’affermazione della
mancanza di alternative alla politica scelta, in nome non di un principio etico-morale, ma di
un principio di realtà. Esso appare dunque come un modo per rafforzare la legittimità delle
proprie scelte da parte del decisore pubblico, dandovi una connotazione scientifica
apparentemente inoppugnabile. Tale modalità sembra essere adottata in maniera crescente
dai decisori pubblici, a vari livelli, non solo a livello nazionale e internazionale, ma anche in
alcune esperienze amministrative locali [Borghi et al. 2013]. Anche in questo caso, dunque,
l’utilizzo del sapere prodotto dai ricercatori appare di tipo prevalentemente strumentale e
tende a ridurre lo spazio del dibattito democratico.
Il lavoro del Laboratorio Metropolitano presentato in questo volume mira a configurare
un tipo di relazione assai differente da tutti e tre questi modelli di relazione tra
Amministrazioni pubbliche e ricercatori. Da una parte infatti, esso intende porre la
relazione con i ricercatori in termini non strumentali, cioè non chiede loro di diventare
consulenti per la giustificazione delle proprie politiche e non offre infatti alcuna
retribuzione. Dall’altra parte, qui i ricercatori non sono chiamati in causa nella loro veste di
sostenitori politici dell’Amministrazione comunale, e tantomeno nella veste di ideologi di
9
riferimento di un partito o di una corrente politica. Il loro ingaggio avviene semmai su
lavori da loro già prodotti autonomamente o in corso di produzione. L’obiettivo è infatti
quella di mettere in valore quanto la ricerca scientifica sui fenomeni urbani e sulle
politiche che li governano già produce e porlo all’attenzione di un’Amministrazione
pubblica, attraverso un processo pubblico di selezione nel quale il criterio di inclusione è lo
spessore scientifico e la pertinenza del contributo ai temi che l’Amministrazione ha
proposto. Inoltre, dentro al Laboratorio non si vogliono solo presentare dati e risultati di
ricerche come base indiscutibile di lavoro, bensì porre anche le modalità di raccolta dei dati
e più in generale le basi informative delle politiche come punto di discussione, in virtù della
presenza di ricercatori diversi per orientamento e per estrazione disciplinare all’interno del
confronto. Si tratta quindi di una sorta di piattaforma insieme scientifica e democratica, di
tipo non assembleare e rappresentativo ma laboratoriale e qualitativo.
La differenza sostanziale di questo tipo di percorso da quelli sopra menzionati sta nel
porre la relazione tra policy maker e ricercatori sotto il profilo della reciproca e pubblica
discutibilità e nello stesso tempo sotto il profilo del pragmatismo. La discutibilità pubblica e
reciproca è qui intesa come possibilità di entrambe le parti di presentare autonomamente le
proprie ragioni e discutere i risultati dell’altra parte, in una modalità strettamente legata a
delle precise tematiche di policy e prendendone anche in esame le conseguenze in termini
di efficacia ma anche di impatto sociale e politico delle policy stesse. Il pragmatismo è
inteso invece nel senso della tradizione risalente a John Dewey [1927]7 di analisi dei
problemi pubblici nella loro genesi e nel loro grado di specificità e di generalità, tenendo
allo stesso tempo presenti le loro caratteristiche contestuali e le loro possibili implicazioni
sociali e politiche più ampie.
Una sfida per policy maker e ricercatori
Un tipo di confronto come quello qui presentato costituisce una sfida di grande portata,
tanto per il mondo dei decisori politici, quanto per il mondo dei ricercatori, in particolare
quelli di provenienza accademica.
Per quanto riguarda infatti i decisori politici, questa sfida significa anzitutto saper
investire sulla conoscenza, dedicando tempo ed energie alla riflessività e discutendo le
proprie policy con soggetti indipendenti del mondo della ricerca. Ciò implica il fare un
investimento di medio-lungo periodo sulla qualità delle proprie politiche, mettendole sotto
esame e mettendo in discussione eventualmente anche le proprie letture dei fenomeni
urbani. Questo investimento ha certamente dei rilevanti costi politici, in primis il fatto di
allungare, almeno nel breve termine, i tempi di realizzazione del proprio programma.
L’investimento in conoscenza pubblica ha però anche dei ritorni politici rilevanti nel medio
e nel lungo termine. Esso infatti consente di rendere più efficaci le politiche stesse, in
quanto più capaci di anticipare gli effetti della propria azione e, in un’ottica più larga, può
10
essere uno dei fattori per coniugare sviluppo e coesione sociale. Una lunga tradizione di
studi ha messo in luce infatti la relazione tra investimento pubblico in conoscenza e
sviluppo economico e sociale complessivo di una società [Bagnasco 2003, Mazzucato 2013].
A questo proposito è importante sottolineare come il fare un investimento pubblico sulla
conoscenza non significhi solo e tanto sviluppare attività di ricerca direttamente da parte di
enti pubblici, quanto promuovere da parte delle istituzioni la costruzione di ecosistemi di
conoscenza abitati da soggetti privati e pubblici, presso i quali venga promosso e
incentivato dall’istituzione pubblica un orientamento verso un tipo di conoscenza che possa
avere ricadute moltiplicatrici di benefici sociali. Un caso esemplare di questo tipo di
investimento da parte delle istituzioni è ben mostrato dallo storico Olivier Zunz, nel suo
studio sul balzo di sviluppo economico e sociale avuto dagli Stati Uniti nel corso del ‘900
[Zunz 1999]. Egli osserva infatti come tale balzo sia stato in gran parte debitore della
creazione da parte dei governi federali e locali americani di quella che egli chiama una
institutional matrix of inquiry, cioè un modello di produzione e distribuzione di
conoscenza con potenzialità di sviluppo, attraverso la promozione della collaborazione tra
imprese, università, istituti di ricerca pubblici e privati, agenzie governative, fondazioni.
Inoltre, il fatto di discutere pubblicamente le proprie policy e i fenomeni su cui esse
insistono significa per un’Amministrazione pubblica fare uno sforzo di trasparenza. Tale
trasparenza è relativa in primo luogo alle finalità che l’Amministrazione stessa intende
perseguire, in relazione alla propria visione politica di fondo, così da permettere di
distinguere il piano tecnico dell’efficacia da quello normativo della desiderabilità dei fini. In
secondo luogo, tale trasparenza è relativa alle basi informative attraverso cui vengono
assunte le decisioni, e quindi i dati provenienti da fonti amministrative o statistiche, ma
anche le fonti più qualitative ed esperienziali. Ancora, trasparenza significa chiara
esplicitazione dei vincoli normativi dentro cui si muove l’azione amministrativa, così come
dei suoi vincoli politici, con il relativo carico di responsabilizzazione, nel bene e nel male, di
chi ha posto quei vincoli. E infine, trasparenza è intesa anche come piena pubblicizzazione
degli esiti delle politiche, almeno a partire dai dati e dalle informazioni che
un’Amministrazione può direttamente rilevare, in termini di impatto diretto e indiretto sui
beneficiari delle policy. Una trasparenza, quest’ultima, che implica un lavoro accurato di
monitoraggio dei propri servizi, premessa del più complesso, e in Italia ancora assai poco
praticato, lavoro di valutazione delle proprie policy.
Una sfida altrettanto rilevante, in questo tipo di rapporto con le Amministrazioni, è
quella che si trova ad affrontare il mondo della ricerca. Per come si è strutturato in ambito
italiano e nella maggioranza degli altri paesi europei, il mondo della ricerca è incentrato
soprattutto sulle istituzioni accademiche, anche se esistono significativi casi di centri di
ricerca, privati e pubblici, che hanno rapporti con i governi, a vari livelli. La grande risorsa
che le università possono giocare nel rapporto con i policy maker consiste nell’autonomia
di cui possono godere, cioè nel non dipendere da essi, se non in parte assai limitata e in
11
forma indiretta, nello svolgere attività di ricerca sulle loro politiche. È in forza di tale alto
grado di autonomia che le ricerche degli studiosi inseriti nelle università possono svolgere
con più libertà il loro ruolo di osservatori, esercitare anche in modo critico il proprio
compito di analisi e dunque valutare in modo efficace le politiche messe in campo dai
decisori pubblici. Tale autonomia appare invece assai inferiore per quegli enti di ricerca
privati che spesso si sostengono in misura ampia proprio mediante commesse pubbliche
ricevute dai soggetti di cui studiano le politiche.
La ricerca svolta dentro alle università, d’altra parte, sconta il problema di essere
organizzata prevalentemente per ambiti disciplinari molto rigidamente separati tra loro, e
con frequenti ulteriori separazioni tra sotto-discipline o tra scuole. Ciò rende sovente
questo tipo di ricerca meno capace di confrontarsi con i governi, i quali sono invece portati,
dalle esigenze della responsabilità istituzionale che hanno, a considerare tutte le dimensioni
dei problemi che affrontano. In altre parole, mentre gli accademici offrono contributi spesso
frammentati disciplinarmente, i policy maker necessitano di sollecitazioni alla riflessione
che tengano conto della poliedricità dei problemi e delle soluzioni di policy possibili8.
Vi è poi una sfida di atteggiamento che chi fa ricerca, specie nelle università, è chiamato
ad affrontare nel momento in cui si confronta con le Pubbliche Amministrazioni rispetto
alle loro policy. Si tratta della necessità di superare una certa diffidenza, ancora piuttosto
diffusa, verso forme di ricerca applicata e “utile”. Questa diffidenza sembra alimentarsi del
timore che discutere le proprie ricerche con soggetti esterni all’Accademia, e in particolar
modo con soggetti di tipo politico-amministrativo, possa implicare un abbassamento del
rigore scientifico e una perdita di autonomia nella ricerca. Tale timore apparirebbe
giustificato allorché il rapporto con la Pubblica Amministrazione fosse volto solo ad
accreditare le politiche dell’Amministrazione stessa, dando ad esse una patina di
scientificità. Come già detto però, non è questo il tipo di obiettivo a cui il modello sopra
presentato aspira, dal momento che esso mira a tenere tale rapporto pragmatico e
collaborativo ma non strumentale e non preventivamente selezionato nel merito da parte
del decisore politico. Si tratta quindi, per i ricercatori, di accettare la sfida della
collaborazione con i policy maker come una forma di interazione aperta, con la
consapevolezza che anche i ricercatori stessi possono aumentare il loro grado di
comprensione delle dinamiche del governo urbano, a partire da un’interlocuzione
sistematica con i policy maker.
Il percorso del Laboratorio
Sulla base del modello qui delineato, il Laboratorio si è svolto nel corso di più di un anno
di lavoro, tra il febbraio del 2015 e l’aprile 2016. I primi mesi, dal febbraio al giugno 2015,
sono stati dedicati alla progettazione del Laboratorio stesso all’interno del percorso politicoamministrativo “Milano In”. Tale percorso si è avvalso del confronto informale con un
12
gruppo di oltre venti ricercatori milanesi provenienti da diverse discipline e istituzioni
universitarie di ricerca. L’idea che ha preso corpo da tale confronto è stata appunto quella
di individuare una forma laboratoriale e insieme aperta e pubblica di interlocuzione tra
Amministrazione e ricercatori. Si è così scelto di adottare una forma giuridica che
permettesse la massima apertura del percorso, cioè una call for paper sotto forma di bando
pubblico, di mantenere un taglio interdisciplinare alla call, di privilegiare contributi che
contemplassero una dimensione di analisi empirica e di scegliere la formula seminariale
come modalità di confronto. Il partenariato con una delle più autorevoli istituzioni culturali
della città, la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, ha permesso di garantire spessore
qualitativo e visibilità al percorso9.
Il bando è stato quindi lanciato nel giugno 2015, con un evento pubblico organizzato
presso lo spazio Expogate e inserito dentro alla mostra itinerante sulla ingegnosità
collettiva Wave 10. La call for paper è stata aperta lungo tutto l’autunno 2015 e, nel gennaio
2016, un’apposita commissione di esperti nominata da Comune di Milano e Fondazione
Feltrinelli ha infine accettato i paper ritenuti pertinenti con la call. I paper sono stati quindi
prodotti e inviati nel marzo 2016, mentre l’intero mese di aprile è stato dedicato ai seminari
di discussione tra Amministrazione e ricercatori, con un momento pubblico conclusivo nel
quadro del “Jobless Society Forum”, organizzato dalla Fondazione.
Inizialmente il bando prevedeva una suddivisione in due sezioni dal taglio trasversale. La
prima sezione era denominata “Innovazioni emergenti” e raccoglieva contributi che si
interrogassero sui fenomeni di innovazione in campo economico, culturale, abitativo e
associativo che riguardano Milano e su come essi possono avere effetti di inclusione sociale.
La seconda sezione era denominata “Sfide di policy” e raccoglieva contributi che si
interrogassero su quali fossero le principali sfide che devono affrontare le politiche
pubbliche locali nella promozione dell’innovazione inclusiva e su come esse possono
aiutare a superarne gli ostacoli. Una volta raccolti i paper, le sezioni sono state rimodulate
su base tematica, poiché ci si è resi conto che quasi sempre i contributi presentati
contenevano già entrambi i focus delle due sezioni inizialmente previste: quella sulle
innovazioni e quella sulle sfide di policy. Le sezioni dei seminari che sono state infine
decise sono quindi state incentrate su tre aree: sullo sviluppo economico e inserimento
lavorativo, sulle politiche per l’abitare e la rigenerazione urbana e sulle politiche sociali per
l’inclusione.
I rappresentanti dell’Amministrazione Comunale che hanno fatto da interlocutori dei
ricercatori che hanno presentato i paper sono stati scelti in relazione alle tre tematiche nei
quali sono stati suddivisi i seminari: la stessa Cristina Tajani, nella sua veste di Assessore
alle Politiche del Lavoro e allo Sviluppo Economico, ha discusso i paper relativi alla sezione
“Politiche per lo sviluppo economico e l’inserimento lavorativo”; Daniela Benelli, Assessore
all’Area Metropolitana, Casa e Demanio, ha discusso i paper relativi alla sezione “Politiche
13
per l’abitare e la rigenerazione urbana”; Cosimo Palazzo, capo di gabinetto dell’Assessorato
alle Politiche Sociali e Cultura della Salute, ha discusso i paper della sezione “Pratiche e
politiche per l’inclusione sociale”.
Nel corso dei seminari, svoltisi tutti presso la sede della Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli, sono emersi numerosissimi spunti di riflessione, di analisi, di critica e di idee e
orientamento per le politiche. Tanto per gli amministratori quanto per i ricercatori, si è
trattato di un momento di apprendimento e di apertura di nuove prospettive di azione
politica e di indagine. L’impressione generalizzata è stata dunque quella di un esperimento
assai fecondo, meritevole di una prosecuzione e di uno sviluppo, a cui peraltro la nuova
Amministrazione comunale uscita dalle elezioni del giugno 2016 sta già lavorando.
Con il presente volume, si è voluto dunque testimoniare la possibilità di una pratica
sperimentale di confronto che si auspica possa diventare sistematica nel futuro delle
politiche pubbliche milanesi e non solo. L’obiettivo di miglioramento della capacità dei
policy maker di interpretare e governare i cambiamenti sociali, economici e culturali che
avvengono nelle città non può che passare da un investimento in conoscenza pubblica e
dunque anche da una valorizzazione del patrimonio di ricerca che proprio nei territori
urbani nasce e si sviluppa continuamente.
I contributi in questo volume
Tutti i contributi di questo volume nascono dentro al percorso laboratoriale che abbiamo
qui presentato. Come tale percorso di seminari è stato organizzato per suddivisione
tematica e non disciplinare, così anche per il volume si è scelto di operare una selezione che
mantenesse la suddivisione tematica dei seminari, con una trasversalità dei tagli
disciplinari. Tutti i contributi presentano una forte centratura empirica, analizzando casi
studio di fenomeni e politiche urbane. Diversi contributi ragionano a partire da casi
milanesi, ma sono presenti anche analisi comparative e casi tratti da altri territori urbani.
La prima sezione“Politiche per lo sviluppo economico e l’inserimento lavorativo” vede i
contributi di:
- Irene Bengo, Marika Arena, Giovanni Azzone e Mario Calderini, che si focalizza sui
processi di innovazione e sulle collaborazioni pubblico-privato-società finalizzate al
mantenimento o alla generazione di occupazione.
- Letizia Chiappini e Marianna D’Ovidio, che si soffermano sulle criticità e le sfide che la
fabbricazione digitale pone quando considerata come reale meccanismo di sviluppo
economico e strumento di coesione sociale.
- Luca Daconto, che si occupa del tema della mobilità come leva di inclusione, in
particolare ragionando su come migliorare l’accessibilità potenziale ai luoghi di lavoro e
insieme promuovere le capacità di mobilità e d’accesso degli individui.
14
La seconda sezione “Politiche per l’abitare e la rigenerazione urbana” vede i contributi
di:
- Claudio Calvaresi e Ivana Pederiva, che si concentrano sul nesso tra community hub,
rigenerazione urbana e innovazione sociale, a partire dal caso milanese.
- Elena Ostanel, che analizza le periferie come laboratori per discutere in maniera critica
gli effetti socio-spaziali delle sperimentazioni di rigenerazione urbana dal basso.
- Roberta Marzorati e Michela Semprebon, che affrontano il tema dei progetti di housing
sociale concentrandosi in particolare sulla loro gestione sociale, a partire dall’analisi di
un’esperienza milanese.
La terza sezione “Pratiche e politiche per l’inclusione sociale”, vede infine i contributi di:
- Cristina Pasqualini, che si occupa del fenomeno delle social street, una nuova forma di
incontro e scambio sociale tra vicini di casa che sta emergendo in Italia, a partire da
un’indagine sulle social street milanesi, sviluppata insieme al Gruppo Ricercatori Social
Street (GRISS).
- Caterina Gozzoli e Chiara D’Angelo, che affrontano il tema dello sport come
strumento innovativo al servizio dell’inclusione sociale, soffermandosi sull’importanza di
alcune condizioni metodologiche necessarie affinché tale inclusione si possa realmente
produrre.
Ringraziamenti
Il percorso laboratoriale svolto da Comune di Milano e Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli non avrebbe potuto svolgersi senza il supporto di chi l’ha promosso e
organizzato, partendo dall’Assessore del Comune di Milano Cristina Tajani e dal Segretario
generale della Fondazione Feltrinelli Massimiliano Tarantino, e arrivando a tutti coloro che
sono stati coinvolti nella sua realizzazione: per il Comune di Milano Chiara Daneo,
Salvatore Caschetto, Davide Agazzi, Giuseppina Corvino, Mirella Del Puppo, Stefano Parise,
Fabio Pecorari, Leonardo Santini; per la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Caterina Croce,
Francesco Grandi e il prof. Enzo Mingione. A tutti rivolgo un sincero ringraziamento.
Bibliografia
Asor Rosa, A.
1982 Lo Stato democratico e i partiti politici in Letteratura italiana, volume primo, Il
letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino.
Bagnasco, A.
2003 La società fuori squadra. Come cambia l’organizzazione sociale, Il Mulino, Bologna.
15
Borghi, V., De Leonardis, O., Procacci G., (a cura di)
2013 La ragione politica. Vol II. I discorsi delle politiche, Liguori, Napoli.
Bosco, N.
2012 Non si discute. Forme e strategie nei discorsi pubblici, Rosemberg&Sellier, Torino.
Cefaï, D. – Joseph, I. (dir)
2002 L’Héritage du pragmatisme. Conflits d’urbanité et épreuves de civisme, Editions de
l’Aube, La Tour d’Aigues.
De Leonardis, O. – Giorgi, A.
2013 Sulle tracce della depoliticizzazione nel governo della città, in Borghi, V.,De
Leonardis, O., Procacci G., (a cura di), La ragione politica. Vol. II. I discorsi delle politiche,
Liguori Napoli, pp. 135 - 168.
Dewey, J.
1927 The Public and its Problems. Holt, New York.
Desrosiéres, A.
1998 The politics of large numbers: a history of statistical reasoning, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.).
2011 Buono o cattivo? Il ruolo del numero nel governo della città neoliberale, in
“Rassegna Italiana di Sociologia”, n.5, pp.373-387.
Guidali, F.
2016 Scrivere con il mondo in testa. Intellettuali europei tra cultura e potere (1898-1956),
Mimesis, Milano-Udine.
Mazzucato, M.
2013 Lo stato innovatore, Laterza, Roma-Bari.
Pawson, R.
2006 Evidence-based policy. A realist perspective, Sage, London.
Regonini, G.
2001 Capire le politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna.
Salais, R.
2009 La democrazia deliberative e le sue basi informative: lezioni dall’approccio delle
capacità, “Rivista delle politiche sociali”, n. 3, pp.107-136.
Wolin, S.
2008 Democracy Incorporated: Managed Democracy and the Specter of Inverted
Totalitarianism, Princeton University Press, Princeton.
16
Zunz, O.
1999 Why the American Century? The University of Chicago Press, Chicago. [trad. It.
Perché il secolo americano, Il Mulino, Bologna, 2002].
1 Si tratta di un percorso di confronto pubblico e di progettazione di politiche per la città di Milano promosso dall’Assessore Cristina Tajani e
caratterizzato dalla volontà di promuovere pratiche e politiche che mirino all’inclusione sociale attraverso modalità innovative (da cui il suffisso IN).
2 I partecipanti alla call for paper sono stati: Alessandro Antonietti, Nami Avento con Monica Bernardi e Laura Querci, Pier Luigi Baldi, Paolo
Balduzzi con Alessandro Rosina, Giorgio Beltrami, Irene Bengo con Marika Arena, Giovanni Azzone e Mario Calderini, Paolo Borghi, Davide Caselli,
Letizia Chiappini con Marianna D’Ovidio, Sebastiano Citroni, Luca Daconto, Lucia Dal Negro, Benedetta De Pieri, Francesco Della Puppa con
Francesca Campomori, Michela Felicetti, Simone Cerrina Feroni, Caterina Gozzoli con Chiara D’Angelo, Daniele Ietri, Erika Lazzarino, Guido Lucarno,
Lara Ivana Maestripieri con Toa Giroletti e Nadia von Jacobi, Alessandra Marsiglia con Claudio Calvaresi, Linda Cossa, Andrea Di Giovanni, Gabriele
Pasqui e Paola Savoldi, Alessandro Merletti de Palo, Eugenia Montagnini con Alice Boni, Gigliola Onorato, Elena Ostanel, Cristina Pasqualini con
GRiSS - Gruppo Ricercatori Social Street, Ivana Pederiva con Claudio Calvaresi, Chiara Rabbiosi, Michela Semprebon con Roberta Marzorati, Fiorella
Vinci.
3 Chiamato frequentemente nella forma più breve di “Laboratorio Metropolitano per la Conoscenza Pubblica”.
4
http://www.lavoroeformazioneincomune.it/repository-virtuale-del-laboratorio-metropolitano-per-la-conoscenza-pubblica-su-innovazione-einclusione/.
5 Anche le esperienze dittatoriali europee hanno visto un ruolo organico degli intellettuali, come testimoniano i casi, pur diversi, di Giovanni
Gentile nell’Italia fascista o di Carl Schmitt nella Germania nazista.
6 Ciò non ha impedito che in alcuni casi gli intellettuali diventassero anche dirigenti dei partiti, come il caso di Antonio Gramsci per il Partito
Comunista Italiano, di Carlo Rosselli per Giustizia e Libertà o di Giuseppe Dossetti per la Democrazia Cristiana.
7 Si tratta di una tradizione ripresa negli ultimi decenni soprattutto nella sociologia francese, specialmente nelle analisi sulle mobilitazioni sulla
scala urbana [Cefaï - Joseph 2002].
8 Non tutte le discipline di scienze sociali, tuttavia, soffrono nella stessa misura di questo problema. Alcune sembrano essere più abituate ad avere
un rapporto con le Pubbliche Amministrazioni. Tra queste, l’urbanistica si connota probabilmente come la più propensa a considerare in forma
multidimensionale l’oggetto delle proprie ricerche, anche in virtù di uno statuto disciplinare e metodologico meno rigido rispetto a quello di altre
scienze sociali.
9 Tale percorso comune si è inserito dentro ad un progetto di collaborazione che il Comune e la Fondazione hanno sviluppato negli ultimi anni,
come il Laboratorio di confronto con le università milanesi sui temi di EXPO 2015 promosso dalla Fondazione e l’iniziativa denominata Spazio Lavoro,
cioè l’attivazione di borse di studio per giovani ricercatori sui temi dei cambiamenti del lavoro nella società contemporanea.
10 Mostra itinerante promossa da BNP Paribas che si è tenuta a Milano dal 4 giugno al 3 luglio 2015.
17
Prima parte
Politiche per lo sviluppo economico e l’inserimento lavorativo
Marika Arena, Giovanni Azzone, Irene Bengo, Mario Calderini
Innovazione sociale e riconversioni industriali
Introduzione
Negli ultimi dieci anni, rilevanti problemi sociali hanno iniziato ad affliggere seriamente
le cosiddette economie sviluppate, sfidando i responsabili delle politiche a livello
internazionale. La crisi finanziaria mondiale ha frenato l’economia mondiale, generando
problemi di sostenibilità finanziaria a organizzazioni private e pubbliche [Sgherri & Zoli
2009, p. 6]. I governi di molti paesi hanno dovuto affrontare questioni critiche come ad
esempio una generale diminuzione del reddito delle famiglie, livello di disoccupazione in
crescita in particolare per i gruppi vulnerabili (come le donne, i giovani, immigrati),
necessità di tagliare i programmi sociali (come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, lavorare
benefici) per preservare la sostenibilità finanziaria [Vis et al 2011, p. 10; Karanikolos et al
2013, p. 2].
In questo contesto si inserisce il nuovo ecosistema dell’innovazione sociale che è
in grado di rispondere ai nuovi bisogni sociali, che si basa su nuovi attori, o vecchi attori
che però giocano un nuovo ruolo, nuove partnership fra pubblico-privato-no-profit, e le
relative nuove opportunità sociali ed economiche attivabili e le tecnologie abilitanti che
stanno trasformando l’imprenditorialità da “labour intensive” a “capital intensive”.
19
La Commissione Europea definisce l’innovazione sociale così: “Le innovazioni sociali
sono innovazioni che sono sociali sia nei loro fini che nei loro mezzi. Più specificatamente
definiamo innovazioni sociali nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che al contempo
affrontano i problemi sociali (più efficacemente degli approcci esistenti) e creano nuove
relazioni sociali o collaborazioni” [Murray et al 2010, p.18].
Le innovazioni sociali possono essere generate e guidate dai differenti attori
dell’ecosistema sociale: soggetti pubblici o privati, imprese sociali, organizzazioni non-profit
e dalla collaborazione fra tali attori, sottolineando l’importanza del legame fra l’innovazione
nel settore pubblico e l’innovazione sociale.
In questo contesto diviene anche sempre più rilevante il contributo dell’economia sociale
e, in particolare, dell’imprenditorialità sociale. L’imprenditorialità sociale è stata definita
come un accordo basato sul mercato il cui primo focus è il perseguimento di obiettivi
20
sociali e ambientali, tuttavia, garantendo, almeno, il rimborso delle l’investimento [Yunus et
al 2010, p. 311].
Contemporaneamente abbiamo le imprese for-profit che stanno recuperando il loro
ruolo di attori stessi del cambiamento e della generazione di valore non solo economico ma
anche sociale ed ambientale. Le imprese stanno quindi attivando approcci innovativi nella
strutturazione dei rapporti tra business e comunità. Coerentemente stanno allineando il
proprio core business e le strategie aziendali agli obiettivi di creazione di valore sociale e
diffuso, riconoscendo che le aziende non funzionano in isolamento rispetto alle società e
comunità in cui operano e la loro capacità di competere dipende dalle condizioni socioeconomiche e dalle caratteristiche dei contesti locali. Quindi sono attore fondamentale
nello sviluppo di un paese, agendo come fattore di creazione di ricchezza, come datore di
lavoro o investitore attivando innovazioni industriali sia di modelli di business, di
governance e di processo.
Riassumendo stiamo assistendo a nuove riconfigurazioni dell’ecosistema sociale che si
basano sull’attivazione di nuovi attori, quali le imprese sociali, sul cambiamento di
comportamento degli attori tradizionali quali le società profit e le pubbliche
amministrazioni stesse, che attraverso partnership e collaborazioni attivano nuovi processi
d’innovazione sociale finalizzati a rispondere a reali bisogni sociali.
In questo testo ci concentriamo sui processi di innovazione sociale e sulle collaborazioni
pubblico-privato-società finalizzate al mantenimento o alla generazione di occupazione,
considerandola come una delle sfide principali del nostro Paese.
L’innovazione sociale e le riconversioni industriali
Attraverso l’innovazione sociale è possibile re-inserire nel mercato imprese in crisi,
riutilizzare spazi industriali dismessi al fine di sostenere l’occupazione locale. Il processo di
«recupero» delle aziende è forza sociale e spesso ha origine ed effetto sociale, le
opportunità di occupazione che genera si basano su un insieme di relazioni sociali e di
conforto.
Stiamo assistendo a tre macro fenomeni:
- imprese che attraverso nuovi modelli di business, spesso sociali, si trasformano al fine
di entrare in nuovi mercati e salvaguardare posti di lavoro;
- imprese che decidono di riutilizzare propri spazi dismessi per generale nuove
opportunità di business per la comunità partendo “dal basso”, coinvolgendo i cittadini al
fine di individuare nuove idee e rispondere a reali bisogni sociali;
- imprese in fallimento che vengono recuperate dagli stessi lavoratori.
Tali fenomeni hanno in comune gli autonomi processi di innovazione sociale finalizzati
a conservare o creare lavoro. In altre parole, le organizzazioni appartenenti
21
tradizionalmente a settori diversi (pubblico, privato, non profit), hanno deciso di collaborare
con il medesimo obiettivo di generare occupazione, unendo competenze e risorse spesso
complementari, attraverso l’attivazione di innovazione sociale (Murray, 2010)
definendo un’area di azione condivisa rappresentata dall’area evidenziata in
figura2.
È importante che tali innovazioni non possono essere limitate ai confini di nessun
settore dato che molte sono appoggiate e sostenute contemporaneamente dal settore
pubblico, gruppi di cittadini, organizzazioni della società civile e nel nostro caso di studio
da imprese private.
Il framework di ricerca
La ricerca mira ad approfondire, individuare le strategie a supporto dei differenti modelli
di riconversione individuati attraverso la metodologia dei casi di studio, presentando un
caso rappresentativo per ognuno.
La ricerca nel dettaglio vuole analizzare tre differenti linee strategiche:
22
- la prima linea strategica è connessa al coinvolgimento, è necessario attivare processi
che facilitino la partecipazione del pubblico, del mondo accademico, industriale, associativo
e l’intero ecosistema sociale al fine di individuare sia gli elementi di eccellenza del
territorio che i punti di debolezza e zone a rischio, al fine di raccogliere indicazioni dai
differenti attori al supporto alle aziende;
- la seconda a livello industria, prevede la revisione dei processi di produzione ed
organizzativi che devono essere ripensati in ottica di innovazione sociale, e considerando le
nuove opportunità economiche e sociali;
- la terza è legata al ruolo che le PA possono avere nel facilitare tali processi
promuovendo: strumenti che catalizzino e diffondano la conoscenza di tali opportunità, la
responsabilità sociale nel public procurement e l’adeguamento delle normative vigenti delle
politiche attive ed infine i sistemi di finanziamento.
Il framework di analisi si basa sulla letteratura connessa a modelli di innovazione sociale
che sono composti dai seguenti elementi: il driver, la mission, il processo, il risultato e il
target.
I driver rappresentano il fondamento logico di ogni innovazione sociale, in altre parole
formano l’obiettivo generale del progetto di innovazione [Sharra & Nyssen 2010, p. 12]. I
drivers sono il punto di partenza di ogni innovazione sociale e sebbene possano essere
molteplici e vari sono riconducibili a due tipologie: necessità e aspirazione. Generalmente le
innovazioni sociali sono motivate o da una necessità (povertà, discriminazione,
disoccupazione, etc.) o da una aspirazione (una società più equa, più democratica, più
rispettosa dell’ambiente, etc.) ma alcune volte è possibile che le due motivazioni siano
presenti simultaneamente. Nel nostro caso definiamo come driver principale la necessità di
generare o mantenere occupazione e che la mission della realtà che attiva il processo o del
singolo progetto sia di natura sociale.
L’innovazione sociale è un processo complesso che cambia il modo di operare all’interno
della società, o in parte di essa, creando e sviluppando nuove relazioni e collaborazioni, in
particolare, con i beneficiari del processo e con le altre organizzazioni, che partecipano a
tale processo. Nei confronti dei beneficiari tali relazioni e collaborazioni vengono create
tramite il loro coinvolgimento nel processo innovativo con il duplice obiettivo di
contribuire attivamente al processo e acquisire le capacità, competenze e strumenti
necessari a effettuare i cambiamenti indispensabili per migliorare le loro condizioni di vita
(empowerment). Tali processi si basano non solo su nuove soluzioni innovative ma anche
su nuove relazioni, forme organizzative e di collaborazione per risolvere e affrontare
problemi sociali. Considerando gli obiettivi della ricerca viene evidenziato il ruolo delle PA.
Il risultato del processo di innovazione sociale, può essere un prodotto, un servizio,
un processo, una tecnologia ma può anche essere un principio, un’idea, un atto legislativo,
un movimento sociale, un intervento pubblico, o più spesso, una combinazione di alcuni di
23
questi fattori. Oppure può essere un processo o un risultato che è o più efficiente o più
efficace o più sostenibile delle alternative esistenti. Fondamentale che il risultato generi
impatto e che tali impatto sia multi-dimensionale e misurabile.
Come detto in precedenza ogni progetto di innovazione sociale dovrebbe avere
l’obiettivo di risolvere problemi sociali e, se ha successo, portare beneficio ad una certa
tipologia di utenti, che chiameremo target. In letteratura vengono distinte diverse tipologie
di potenziali target: individui (minori, detenuti, disoccupati, etc.), organizzazioni (imprese,
non profit, scuole, istituzioni, etc.), territori (quartieri, città, regioni) e infine una
dimensione più generale che include tutte le precedenti che è quella globale.
24
La figura 3 sintetizza il framework di analisi:
L’analisi dei casi
Per ogni modello individuato viene presentato un caso di studio rappresentativo:
imprese che attraverso nuovi modelli di business, spesso sociali, si trasformano al fine di
entrare in nuovi mercati e salvaguardare posti di lavoro: il caso E-waste, il ciclo
intelligente;
25
imprese che decidono di riutilizzare propri spazi dismessi per generale nuove
opportunità di business per la comunità partendo “dal basso”, coinvolgendo i cittadini al
fine di individuare nuove idee e rispondere a reali bisogni sociali: il caso Mirafiori;
imprese in fallimento che vengono recuperate dagli stessi lavoratori: il caso Rimaflow.
Il progetto E-waste - il ciclo intelligente
Il progetto E-waste rappresenta un tipico caso dove la riconversione industrial,
attraverso nuove tecnologie, definisce nuovi modelli di business che permettono alle
imprese di ri-entrare nel mercato, basandosi su nuove partnership: privato (PMI), pubblico
(Regione, Comuni, Università), non-profit (consorzio)
26
Il caso Mirafiori
Il Concorso Mirafiori rappresenta un’eccellenza nell’ambito del riutilizzo degli spazi
dismessi – brownfields [Cabernet 2006, p. 23] da parte di un azienda grazie alla
partecipazione dell’amministrazione pubblica e attraverso una partecipazione dal basso dei
cittadini e delle imprese, con la finalità di generare nuove attività coerenti con i bisogni
locali
27
Il caso RiMaflow – la fabbrica recuperata
Il caso RiMaflow rappresenta un movimento importante e globale che meriterebbe un
articolo ad hoc, il fenomeno delle fabbriche recuperate dai lavoratori, empresas recuperadas
o workers buy out, è un processo attraverso il quale gli operai diventano imprenditori,
28
prendendo in mano le redini della loro azienda in crisi [Ruggeri 2009, p. 13]. Di fronte alla
certezza della perdita del posto di lavoro, gli operai reagiscono impegnandosi in un nuovo
progetto di autogestione. I valori di riferimento diventano quindi l’uguaglianza e la
solidarietà, perché da quel momento in poi sono tutti proprietari dell’azienda e responsabili
allo stesso modo delle sorti della stessa. Si tratta di lavoratori che si trovano a gestire
un’azienda di cui prima erano semplici dipendenti. Il fenomeno delle fabbriche recuperate
rappresenta una risposta dal basso alla perdita del posto di lavoro, non c’è premeditazione.
Solo se esistono le condizioni, una volta che sono state analizzate tutte le strade
percorribili, si procede col progetto di autogestione (ultima opzione). Alla base della nuova
attività ci sono lo spirito di condivisione e di democrazia, ma operativamente non esiste un
modello di riferimento da prendere come esempio, si guarda a quelle fabbriche che hanno
avuto esperienze simili precedentemente. Generalmente i lavoratori si costituiscono in
cooperativa, affrontando numerose problematiche derivanti dalla mancanza di alcune leggi
che possano favorire il passaggio e la formazione alla/della cooperativa di lavoro, che
facilitino l’espropriazione dei beni e dell’impresa, o in particolare una normativa specifica
per le cooperative nate da empresas recuperadas.
29
Conclusioni
In questo testo abbiamo voluto approfondire come attraverso processi partecipativi di
innovazione sociale è possibile salvaguardare o creare occupazione. Le traiettorie analizzate
attraverso i casi di studio rappresentano esempi di reinserimento nel mercato di imprese in
crisi e di riutilizzo di spazi industriali dismessi. Dall’analisi emerge chiaramente la necessità
di attivare collaborazioni pubblico-privato-società, e di processi che facilitino la
partecipazione del pubblico, del mondo accademico, industriale, associativo e l’intero
ecosistema sociale. Si delinea anche l’importanza della ricerca accademica finalizzata a
supportare tali fenomeni, mettendo a disposizione conoscenza per definire nuovi processi di
produzione ed organizzativi.
Una tematica ad oggi fondamentale per l’innovazione sociale, la finanza ad impatto, non
è stata qui trattata, ma sicuramente giocherà un ruolo essenziale nelle scalabilità di tali
fenomeni e evidenzierà maggiormente il fondamentale ruolo dell’amministrazione pubblica.
Soffermandosi su quest’ultimo punto i casi portano a delineare alcuni dei ruoli che la
pubblica amministrazione sta giocando e potrebbe giocare per rafforzare l’ecosistema
sociale. Primo fra tutti è il rafforzamento delle politiche del lavoro attraverso un
adeguamento normativo sia a livello paese che a livello Regione e Comune, proponendo
nuovi strumenti e soluzioni innovative, che per esempio vedano un ruolo nuovo della
responsabilità sociale di impresa, definendo nuove legislazioni che facilitino i processi di
30
riconversione. Gli strumenti dovrebbero essere chiari, trasparenti e facilmente accessibili.
Infine proseguire nei nuovi processi di procurement innovativo che aumentano la
ricettività del mercato rispetto a prodotti e servizi innovativi, che rispondono a reali bisogni
sociali, che coinvolgano i cittadini e l’intera società rendendo possibile la partecipazione dei
privati alle iniziative di investimento ad impatto.
Bibliografia
Alter, S. K.
2006 Social enterprise models and their mission and money relationships, in “Social
entrepreneurship: New models of sustainable social change”, n. 28, pp. 205-232.
Cabernet, Coordination Team, LQMG Group
2006 Sustainable Brownfield Regeneration: CABERNET Network Report, University of
Nottingham, University Park, UK.
Karanikolos, M. – Mladovsky, P. – Cylus, J. – Thomson, S. – Basu, S. – Stuckler, D. –
Nackenbach and J.P. McKee, M.,
2013 Financial crisis, austerity, and health in Europe, in “The Lancet”, n. 381, pp. 13231331.
Murray, R. – Caulier-Grice, J. – Mulgan, G.,
2010 The open book of social innovation, Tercer Sector, London.
Ruggeri, A.
2009 Las empresas recuperadas. Autogestión obrera en Argentina y América Latina,
Editoriale della Facultad de Filosofía y Letras (UBA), Buenos Aires.
Sgherri, S. – Zoli, E.,
2009 Euro Area Sovereign Risk During the Crisis. IMF Paper, WP/09/222.
Sharra, R. & Nissen, M.,
2010 Social innovation: An interdisciplinary and critical review of the concept. Université
Catholique de Louvain Belgium, pp. 1-15.
Vis B. - Kersbergen, K., and Hylands, T.
2011 To What Extent Did the Financial Crisis Intensify the Pressure to Reform the
Welfare State?, in “Social Policy & Administration”, n. 45, pp. 338–353.
Wilson, F. and Post, E. J.
2013 Business models for people, planet & profits: exploring the phenomena of social
business, a market-based approach to social value creation, in “Small Business Economics”,
n. 40, pp. 715-737.
31
Yunus, M. – Moingeon, B. – Lehman-Ortega, L.
2010 Building Social Business Models: Lessons from the Grameen Experience, in “Long
Range Planning”, n. 43, pp. 308-325.
32
Letizia Chiappini, Marianna d’Ovidio
Il potenziale dei makers: tra innovazione economica e coesione sociale 1
Dopo alcuni decenni di egemonia neoliberale, la crisi economico-finanziaria globale e le
conseguenti tensioni sociali, hanno contributo a ridisegnare alcuni assetti del capitalismo
contemporaneo. Da questa spaccatura emergono nuovi “seducenti” discorsi e pratiche che
all’apparenza promuovono forme di “comunitarismo”, azione collettiva, solidarietà e
collaborazione tra individui, e la condivisione di spazi, risorse, conoscenze, le quali
necessitano di differenti modelli economici, organizzativi e culturali. In diversa misura tali
discorsi e pratiche tentano di superare le pure logiche di mercato, e i modelli tradizionali di
produzione e di distribuzione del valore, ancorandosi ai discorsi pubblici e alla forza
trasformativa dei media digitali. La cosiddetta sharing economy (o economia collaborativa)
può produrre crescita e opportunità distribuite. All’interno del vasto panorama della
sharing economy, questo saggio prende in esame il making, ovvero la nuova fabbricazione
digitale come strumento di sviluppo economico e di coesione sociale nella città
contemporanea.
La fabbricazione digitale combina l’impiego di tecniche tradizionali e artigiane con l’uso
avanzato della tecnologia, ed è un fenomeno in crescita osservabile principalmente nelle
aree urbane, dove sorgono con un ritmo incessante spazi condivisi per la fabbricazione
digitale. Chiameremo maker-space, o luoghi/spazi di making questi luoghi, e utilizzeremo il
termine makers per indicare coloro che li frequentano e ne utilizzano i macchinari.
Se da un lato è ampiamente riconosciutala portata innovativa di queste pratiche,
dall’altro rimangono aperte questioni relative alla manifattura digitale come strumento di
coesione sociale e al suo reale impatto economico nella città contemporanea. L’obiettivo di
questo articolo è tentare di affrontare queste questioni, offrendo un’analisi in cui si esplora
il grado di radicamento dei luoghi della fabbricazione digitale.
Lo studioso americano Michael Storper [2013] propone un’analisi delle attività
economiche nella società, che ci permette di osservare il loro radicamentoattraverso la
formazione di: a) reti di relazione sociali in grado di produrre e far circolare un sapere
condiviso tra i produttori; b) istituzioni capaci di creare regole condivise di convivenza e
codici di comportamento comune per il mutuo riconoscimento, e in grado di rappresentare
gli interessi della collettività dei produttori nella sfera politica; c) rapporti di collaborazione
33
e sostegno con l’amministrazione pubblica locale e nazionale.
In genere, gli spazi di making appaiono come luoghi radicati e integrati nel tessuto
locale, del quale utilizzano principalmente risorse e know-how. Il tratto innovativo dei
maker-space risiede nell’organizzazione delle loro attività basate su processi orizzontali di
natura collaborativa; questi laboratori urbani non sono solamente spazi in cui sperimentare
nuove tecnologie e processi produttivi, ma anche luoghi di condivisione del sapere e di
innovazione collettiva. L’aspetto dell’auto-organizzazione, la creazione di (nuovi) legami
sociali che favoriscono la coesione sociale, la diffusione di un’etica ‘alternativa’ al consumo
massivo, sono tutti tasselli di un più ampio processo di innovazione che investe le nostre
città. Nel panorama milanese vi è stata una moltiplicazione di spazi di making che ha
portato Milano a essere la città italiana con il più alto numero di maker-space presenti sul
territorio. Diventa quindi necessario, oggi più che mai, osservare attentamente e
criticamente queste pratiche per comprenderne il contributo nell’economia e nelle società
urbane contemporanee.
La proliferazione di spazi di making nell’area milanese non è un dato rimasto
inosservato, il filone di ricerche esplorative sul fenomeno si è così irrobustito. Riportiamo
in questa sede due importanti contributi recenti. L’indagine svolta dal consorzio Aaster
sulla nuova economia leggera e gli innovatori diffusi nell’area metropolitana milanese, in
cui vengono presentate biografie e storie degli “innovatori” milanesi, con particolare
attenzione al lororapporto con la città e con il sistema economico territoriale nel suo
complesso. Il secondo contributo è pubblicato dalla Rivista della Camera di Commercio di
Milano [Imprese & Città, 2015], dove sono raccolti diversi articoli sul tema dei nuovi
processi di governo, gli hub e gli spazi urbani dell’innovazione. Il fil-rouge che unisce i due
lavori è l’attenzione conferita agli aspetti spaziali del fenomeno della fabbricazione digitale,
toccando questioni inerenti alla produzione post-manifatturiera e alla conseguente
integrazione di tali spazi di making nell’eco-sistema urbano.
Sebbene le ricerche appena citate si muovano suun terreno comune e affine al nostro,
questo contributo intende spingersi oltre, con l’obiettivo finale di decostruire le varie forme
di radicamento e in particolare il rapporto di collaborazione e sostegno con
l’amministrazione pubblica locale e nazionale. Pertanto, attraverso l’osservazione sul campo
di alcuni casi (spazi, soggetti e attività) già operanti a Milano, il saggio mostrerà criticità e
sfide che la fabbricazione digitale pone nel momento in cui si intende quest’ultima come
reale meccanismo di sviluppo economico e strumento di coesione sociale.
Le istituzioni e il governo metropolitano verranno identificati come fattori chiave non
solo nel processo di regolazione delle pratiche di making, ma, soprattutto, come connettori
capaci di far crescere le capacità e le opportunità di collaborazione tra il mondo delle
aziende e i makers. Senza l’intervento e la mediazione delle istituzioni, il processo di
integrazione del movimento makers con il tessuto produttivo e il contesto economico locale
risulta parziale e talvoltaconflittuale, in quanto i valori di cui si fanno portatori i makers
34
spesso non coincidono con lo spirito tradizionale delle aziende.
Makers e maker-space a Milano: quale potenzialità di sviluppo?
Al fine di investigare il potenziale dei maker-space in termini di sviluppo socioeconomico nell’area metropolitana milanese, si intende esplorare il ruolo della produzione
collaborativa nel contesto socio-economico locale. La nostra indagine osserva il
radicamento dei maker-space nell’economia locale, per poi muoversi lungo le dimensioni
proposte da Storper [2013]: la creazione di networks di relazioni sociali e professionali, la
costituzione di istituzioni informali e formali e la relazione con gli attori politici.
Radicamento nell’economia locale
Il radicamento nell’economia locale riguarda principalmente l’accumulazione storica di
know-how, saperi e conoscenze locali, dei modelli artistici e della tradizione creativa, che è
visibile per esempio nell’esistenza di particolari tradizioni di manifattura e conoscenze
tecniche. Il sapere diffuso nel territorio stimola la crescita di industrie specifiche, oltre alla
formazione e riproduzione di particolari skill se competenze. I makers 2 hanno, nella
maggior parte dei casi, precedenti esperienze lavorative nei settori economici
dell’innovazione e della creatività, in particolare design, moda, software ed elettronica. In
alcuni casi, la decisione di lasciare il precedente lavoro è guidata principalmente dal
desiderio di migliorare le loro competenze e trovare nuovi lavori che stimolino la loro
creatività. Ad esempio, uno degli intervistati afferma:
“Ho lavorato come designer e grafico per diversi anni. A un certo punto, ho sentito che non potevo imparare nulla di nuovo. Il mio
lavoro stava diventando routine. Ho deciso dunque di cambiare la mia vita. Ho preso parte a questo maker-space per imparare cose
nuove.” (Intervistato n.1)
In secondo luogo, la scelta è motivata dal bisogno etico di usare la propriaconoscenza e
abilità per un fine produttivo più sostenibile. Come afferma uno degli intervistati:
“Stavo lavorando per un prestigioso studio di design. La mia professione consisteva nell’integrazione di nuove tecnologie con
tradizionali metodi di design. L’obiettivo era ovviamente massimizzare il profitto e quindi puntare al settore del lusso. Applicare il
potenziale delle nuove tecnologie solo per creare prodotti di lusso, invece che progettare per questioni di stampo sociale era diventato
insopportabile. Per questo ho lasciato il lavoro.” (Intervistato, n.5)
Indipendentemente dalla ragione che ha portato i makers a occuparsi di fabbricazione
digitale, dalle interviste si evince soprattutto chequesti lavoratori sono ben connessi e
integrati nel mercato del lavoro e nel segmento creativo dell’economia della conoscenza: gli
intervistati mostrano un forte interesse nel continuare a costruire relazioni con gli attori
economici locali. Essi hanno, infatti, creato fruttuose collaborazioni con attività
economiche, localizzate spesso nelle vicinanze dei maker-space, tra i quali spazi di coworking o studi che si occupano di design, sviluppo di software e ICTs, moda e in generale
settori connessi all’economia cognitiva-culturale. Inoltre, essi hanno costruito reticon
35
piccole-medie imprese e artigiani locali con i quali sperimentare opportunità per nuovi
prodotti usando il potenziale della manifattura digitale. Dalle interviste con i gestori degli
spazi di making, emerge chiaramente che il loro obiettivo è diventare luogo di riferimento
per la ricerca e sviluppo delle imprese locali; rappresentare un centro per lo sviluppo del
business locale, per creare nuove idee, prodotti e tecnologie, grazie alla concentrazione di
lavoratori altamente qualificati. Ad esempio, diversi maker-space con il supporto di alcune
aziende hanno organizzato eventi, chiamati hackatons, nei quali gruppi di makers, compresi
progettisti, grafici, programmatori, collaborano al fine di sviluppare soluzioni innovative
per prodotti specifici; questi eventi sono resi possibili grazie alla collaborazione tra
professionisti organizzati in squadre che lavorano nel maker-space per numerosi giorni.
Sebbene sia fortemente promosso tra gli addetti ai lavori, finora i maker-space sono
raramente coinvolti in progetti di ricerca e sviluppo da aziende private. Sovente, invece, i
makers forniscono un servizio personalizzato di prototipazione ad aziende locali mediograndi; così facendo, le imprese che si servono del loro servizio hanno maggiore controllo
sul processo di design, sperimentando insieme differenti prodotti di design a basso costo. I
maker-space sono inoltre coinvolti nel design di oggetti per eventi culturali, tra i quali
esibizioni di istituzioni culturali.
In breve, i makers sembrano essere radicati solo parzialmente nell’economia locale: essi
mantengono relazioni professionali con grandi, medie e piccole aziende, artigiani locali e
istituzioni culturali,e sebbene le collaborazioni siano il più delle volte di breve durata, esse
rappresentano una fonte importante di reddito per i makers e, soprattutto, sono orientate
alla sperimentazione di possibili future partnership stabili nel tempo.
Reti di relazioni sociali
Dall’analisi della letteratura risulta che interazioni stabili tra lavoratori attorno a
specifici interessi creano network molto densi che possono favorire lo sviluppo socioeconomico a livello locale. Anzitutto, attraverso i network, i lavoratori condividono
innovazione e conoscenza, imparando a risolvere problemi insieme; in secondo luogo, la
rete locale di interazioni fornisce ai lavoratori la reputazione necessaria e i contatti
richiesti; in ultima istanza, questo meccanismo permette un controllo sociale sul
comportamento dei professionisti all’interno del network, incoraggiando la creazione di
fiducia, la quale facilita le collaborazioni [d’Ovidio 2010].
Dalle interviste con i makers milanesi, emerge che essi hanno instaurato relazioni stabili
nel tempo. Tali relazioni hanno luogo principalmente all’interno dei maker-space, che
vengono concepiti con la funzione primaria di permettere lo scambio della conoscenza e del
supporto reciproco soprattutto per quanto riguarda l’impiego delle macchine. Uno scambio
di conoscenza più intenso avviene, invece, durante i corsi di formazione e di training che
sono promossi all’interno dei maker-space. L’aiuto reciproco e la scambio di conoscenza
36
svolgono due funzioni chiave: la costruzione di reputazione nella comunità e la creazione
di fiducia.
Una buona reputazione è la condizione necessaria per le relazioni tra makers che
intendono passare da una semplice conoscenza o amicizia a una relazione di tipo
professionale: è solo dopo un mutuo riconoscimento delle abilità e dei comportamenti degli
altri membri della rete che i makers iniziano a condividere non solo conoscenze basilari e
tecniche ma anche idee, le quali possono divenire parte di una creazione di progetti
condivisi e persino trasformarsi in nuovi progetti imprenditoriali. Pertanto, i maker-space
diventano nella pratica dei cluster locali di innovazione e di imprenditorialità.
“Sono favorevole a condividere il mio lavoro e i miei files con i membri dei maker-space senza alcuna esitazione. Sono meno incline
invece a condividere il mio lavoro con altri, con sconosciuti online” (Intervistata n.3)
Le relazioni sociali dei makers si trasformano dunque in relazioni professionali che,
proprio per la loro origine, rimangono ancorate in una dimensione pubblica (sociale).
Questo ha il vantaggio di consentire una forma collettiva di controllo sui progetti,
assicurando il comportamento appropriato dei contributori. Grazie a questo controllo
collettivo, la fiducia, che rappresenta la risorsa necessaria per condividere non solo le skill
professionali ma anche i progetti e le idee, si moltiplica all’interno degli spazi di making.
Secondo i nostri intervistati, i makers sono anche desiderosi di instaurare relazioni con i
residenti presenti nel quartiere sempre nell’ottica che dalle relazioni possono emergere
progetti professionali di alto valore sociale. Ad esempio, uno dei maker-space in un anno di
attività ha creato con la stampante 3D una scenografia e un palcoscenico per un teatro
locale, avviato corsi di training per i giovani, partecipato a eventi locali e instaurato
relazioni con la ciclo-officina accanto al maker-space. In questi termini, la presenza di
maker-space sembra avere un impatto anche sulle attività locali nel quartiere.
Le istituzioni dei makers
Nella nostra ricerca abbiamo investigato se e fino a che punto i maker shanno creato
istituzioni formali in grado dirappresentare loro e i loro interessi. Dalla ricerca che abbiamo
svoltosi evince che effettivamente, nell’area metropolitana milanese, i makers stiano
istituzionalizzando la loro presenza attraverso la creazione di o l’adesione aorganizzazioni e
attori collettivi. Ad esempio, un gruppo di maker-space milanese sta realizzando un sistema
di educazione al making altamente qualificata, attraverso la partecipazione al network
internazionale Fab-Academy, con l’obiettivo di educare ad alto livello una nuova
generazione di makers.
“La formazione per un maker è cruciale. Abbiamo aderito a Fab-Academy, un Master internazionale per i maker sin tutta Europa. Le
persone frequentano questo Master perché vogliono imparare, non per ottenere un diploma ufficiale. Il diploma della Fab-Academy
non ha, infatti, valore ufficiale. Ma esso ha un valore ufficioso riconosciuto all’interno della Comunità. Se tu hai frequentato questo e
hai documentazioni online dei tuoi progetti, le persone sanno il tuo valore come maker.” (Intervistato n.5)
37
Inoltre, i makers milanesi sono stati particolarmente attivi nella creazione di un’agenzia
nazionale, la Fondazione Make-In-Italy, il cui fine è quello di costruire e rappresentare
un’immagine professionale dei makers, consolidando in tal modo relazioni professionali più
stabili con le aziende e offrendo visibilità e riconoscimento al movimento.
“In questo momento, siamo coinvolti nel processo di creare un’organizzazione nazionale per assicurare coordinamento tra i vari
maker-space. Stiamo tentando di raggruppare i maker-space a seconda della loro specializzazione al fine di organizzare attività più
coordinate a livello nazionale, ma anche per avere un’organizzazione nazionale che rappresenti i nostri interessi.” (Intervistato n.6)
Infine, la maggior parte degli intervistati èattiva nelle università milanesi (come docenti,
ricercatori o collaboratori) con il duplice obiettivo di rafforzare le relazioni tra università e
imprese locali su questo frontee di guidare e diffondere lo spirito innovativo che tale modo
di produzione si porta con sé.
Queste istituzioni hanno numerose funzioni nell’assicurare la crescita dei makers nel
futuro: in primis, queste possono rappresentare i loro interessi e agire come organizzazioni
di gruppi di interesse (lobby); in secondo luogo, esse possono garantire la riproduzione e la
diffusione della conoscenza nel contesto locale; in ultima istanza, tali istituzioni possono
rappresentare una fonte di supporto economico.
Il radicamento nella sfera politica
L’ultima chiave di lettura del radicamento nella società guarda alla presenza dei makers
nella sfera politica, indagando se e in quale misura il governo locale supporta lo sviluppo
della fabbricazione digitale.
Il governo locale milanese è attivo nella promozione dei maker-space e in generale della
manifattura digitale principalmente in due modi. Innanzitutto, a Milano e nell’area
metropolitana, è stato stanziato un budget per l’apertura di maker-space (sia mediante la
disposizione degli spazi sia tramite la fornitura dei macchinari) e per un numero di progetti
da sviluppare nei maker-space. In secondo luogo, le municipalità nell’area metropolitana
milanese stanno implementando politiche indirizzate allosviluppo di progetti culturali
attorno agli spazi di making. In diversi Comuni, ad esempio, le biblioteche pubbliche
riservano spazi per le attività di making e in tal modo incoraggiano i giovani a
sperimentare le loro capacità con l’uso della fabbricazione digitale. Inoltre, sono stati
considerati specifici schemi educativi affinché non si diffonda unicamente l’uso della
fabbricazione digitale ma anche, e soprattutto, i valori della condivisione che stanno alla
base delle pratiche del making.
Pertanto, osserviamo che le amministrazioni locali riconoscono il potenziale dei makerspace in due maniere: i maker-space sono intesi come fattore chiavedi sviluppo economico
locale, e il loro modo di produzione (condiviso, aperto e sperimentale) è percepito come
utile, innovativo e meritevole di supporto pubblico. In particolare, l’Assessore alle Politiche
per il lavoro, Sviluppo economico, Università e Ricerca di Milano ha stimato i maker-space
38
come driver economici e piattaforme per la costituzione di una nuova generazione di
artigiani specializzati nel settore dell’alta tecnologia:
“Dobbiamo aumentare la consapevolezza degli individui e delle aziende che possono usare la conoscenza e gli strumenti provenienti
dai maker-space per sviluppare nuove competenze e prodotti innovativi.” (Assessore alle Politiche per il Lavoro, Sviluppo economico,
Università e Ricerca, Milano, 2014)
Questo interesse nei confronti di una potenziale nuova generazione di artigiani deve
essere contestualizzato alla luce del retaggio dei distretti industriali italiani, i quali basano
il loro successo economico sul know-how locale e sulla tradizione dei mestieri artigiani.
Inoltre, i politici locali considerano i maker-space come potenti elementi per rivitalizzare le
aree urbane mediante la condivisione di spazi, strumenti e conoscenza, ma anche attraverso
il formarsi di nuovi lavori e competenze professionali.
Conclusioni
Attraverso queste pagine abbiamo proposto un’esplorazione del potenziale dei makerspace in termini di crescita socio-economica nell’area metropolitana milanese, allo scopo di
rispondere ad alcuni quesiti chiave: i maker-space rappresentano nuovi luoghi di sviluppo
economico per la città? Questi spazi sonocentri per la generazione di nuove imprese e
progetti?
Abbiamo quindi scomposto la relazione tra maker-space e città su quattro dimensioni,
studiando il radicamento dei makers nel tessuto economico, sociale, istituzionale e politico.
Anzitutto, possiamo dunque affermare che i makers costruiscono legami forti in un
network composito che include sia gli attori economici (makers, lavoratori e aziende) sia il
milieu locale; in secondo luogo, l’ideologia e la cultura del movimento dei makers si
sviluppano e vengono consolidate proprio attraverso questi vasti e fitti network di
relazioni. Talvolta, tali network si sovrappongono con organizzazioni no-profit con le quali
i makers condividono alcuni principi e orientamenti alternativi rispetto a quelli del
mercato. In terzo luogo, i makers sono organizzati in associazioni e istituzioni formaliche
ambiscono ad aumentare la loro visibilità, rappresentano i loro interessi e disseminano la
loro visione. In ultima istanza, i makers si dimostrano una forza vitale nella sfera politica
locale nel momento in cui essi sono stati capaci di trovare forme di supporto dal governo
locale: essi sono stati riconosciuti come innovatori sociali e come potenziali contributori
dello sviluppo sociale ed economico della città.
Possiamo dunque concludere che i makers sono ben radicati nel contesto locale, avendo
essi costruito densi network di relazioni e istituzioni ben funzionanti, sono infine
riconosciuti come interlocutori dall’amministrazione locale. Tuttavia, essi non sono
completamente integrati nel sistema economico locale. Le loro collaborazioni con le aziende
locali si riducono a consulenze a breve termine o alla costruzione di prototipi. Le imprese
non sembrano, per ora, interessate a costruire rapporti di stretta collaborazione con i
39
maker-space, che non vengono riconosciuti come centri per l’esternazione di ricerca e
sviluppo.
Chiaramente due visioni della produzione di conoscenza sono in conflitto. Da un lato,
all’interno dei maker-space si vuole produrre una conoscenza aperta e condivisa, accessibile
a tutti; dall’altro lato, le aziende hanno l’interesse a mantenere il completo controllo sul
processo di ricerca e sviluppo e, specialmente, sull’esito e sui risultati, dai quali intendono
trarre profitto. In questo conflitto le organizzazioni di rappresentanza e, soprattutto, le
istituzioni pubbliche possono giocare un ruolo fondamentale per favorire il dialogo tra
mercato e makers e promuovere una cultura della produzione di una conoscenza aperta e
condivisa, in grado di garantire profitto economico alle imprese, ma anche crescita e
sviluppo sociale.
Bibliografia
Adler, P. e Heckscher, C.
2006 The firm as a collaborative community: reconstructing trust in the knowledge
economy, Oxford University Press, Oxford.
Bathelt, H., et al.
2004 Clusters and Knowledge: Local Buzz, Global Pipelines and the Process of Knowledge
Creation. “Progress in Human Geography”, n. 28, pp. 31–56.
Bauwens, M.
2005, The Political Economy of Peer Production, in “C-theory Journal”, Accesso
September 3, 2014. http://www.ctheory.net/articles.aspx?id=499
Bonomi, A.
2008 Milano ai tempi delle moltitudini : vivere, lavorare, produrre nella città infinita, B.
Mondadori, Milano.
Colegrove, M.
2013 Editorial Board Thoughts: Libraries as Maker-space?, “Information Technology and
Libraries”, n. 32, pp. 1-5.
Colleoni, E., D’Ovidio M., Vicari S.
2015 The Making of the Human City, in S. Veca (ed.) Laboratorio Expo. The Many Faces
of Sustainability, Feltrinelli, Milano, pp. 145-162.
Consorzio Aaster
2015 Nuova economia leggera e innovatori diffusi a Milano: soggettività e politica.
Rapporto di Ricerca, Novembre 2015.
D’Ovidio, M.
2010 Network locali nell’economia cognitiva-culturale. Il caso di Milano, “Rassegna
40
Italiana di Sociologia”, n. 51(3), 459, pp. 459-484.
Gauntlett, D.
2011 Making is Connecting, Polity Press, London.
Hess, M.
2004 Spatial relationships? Towards a reconceptualization of embeddedness, “Progress in
Human geography”, n. 28, pp. 165–186.
Impresa & Città
2015 Nuovi processi di governo. Hub e spazi urbani. In “Rivista della Camera di
Commercio di Milano”, n. 8, pp. 51-89.
Moilanen, J., e Vadén, T.
2013 3D printing community and emerging practices of peer production, “First Monday”,
volume 8, n. 18. Online Journal.
Mingione, E. et al.
2007 Milan city-region: Is it still competitive and charming? Pathways to creative and
knowledge-based regions, AMIDSt, University of Amsterdam, Amsterdam.
Micelli, S.
2011 Futuro Artigiano, Marsilio, Venezia.
Sennett, R.
2008 The craftsman. Yale University Press, New Haven.
Storper, M.
2013 Keys to the city, Princeton University Press, Princeton, NJ.
1 La ricerca empirica che ha prodotto i risultati analizzati è stata svolta da Letizia Chiappini ed Elanor Colleoni, con il contributo di Fondazione
Feltrinelli Laboratorio Expo [Colleoni et al. 2015].
2 I makers coinvolti attivamente nella produzione all’interno dei maker-space possono essere divisi in due categorie: gli hobbisti, la cui attività di
maker non genera guadagno, e gli imprenditori, il cui reddito deriva dai progetti sviluppati nei maker-space. La nostra indagine si concentra sulla
seconda categoria.
41
Luca Daconto
Mobilità quotidiana e inclusione nel lavoro:
sfida dell’accessibilità e politiche urbane
Introduzione
La mobilità rappresenta una risorsa fondamentale per l’accesso al lavoro nella città
contemporanea [Orfeuil 2006]. Il decentramento tra residenze e luoghi di lavoro tipico di un
mercato organizzato su scala metropolitana ha avuto come effetto quello di aumentare la
domanda di mobilità degli individui. Le trasformazioni post-fordiste del ciclo produttivo si
sono inoltre accompagnate all’affermazione di orari lavorativi flessibili e atipici, anche
notturni [Gwiazdzinski 2003], alla frammentazione dei ritmi di lavoro e al bisogno di
raggiungere i luoghi di lavoro in specifici momenti della giornata. A causa dei limiti che
altre scelte modali (es. trasporto pubblico, bicicletta, a piedi) presentano nel rispondere a
una domanda di mobilità diffusa nello spazio e nel tempo, asistematica e individualizzata
[Colleoni 2013], l’accesso al lavoro nella città contemporanea non solo è strettamente legato
alla mobilità, ma è anche altamente dipendente dall’automobile [Dupuy 1999].
In questo contesto, una componente centrale dell’occupabilità è rappresentata dalla
capacità a spostarsi nello spazio-tempo metropolitano [Boltanski – Chiapello 1999]. Questa
capacità, definita in letteratura come motilità [Kaufmann 2002], non dipende solo dalla
localizzazione dei posti di lavoro e dal sistema di trasporto, ma anche da proprietà
individuali e risulta dall’intreccio tra:
a) le opzioni di mobilità disponibili agli individui;
b) le condizioni di accesso a queste opzioni (che può essere ostacolato da barriere di tipo
economico, fisico, familiare);
c) le competenze di mobilità (la capacità d’uso dei sistemi e dei mezzi di trasporto–
acquistare un biglietto, guidare, leggere una mappa);
d) fattori socio-cognitivi (le rappresentazioni che vengono associate a ogni mezzo di
spostamento).
In una prospettiva d’innovazione sociale [Moulaert-MacCallun-Mehmood-Hamdouch
2013], la sfida per le politiche è duplice: da un lato, migliorare l’accessibilità potenziale ai
42
luoghi di lavoro; dall’altro, promuovere le capacità di mobilità e d’accesso degli individui.
Basandosi sul materiale raccolto durante una ricerca di dottorato,1 l’articolo propone un
approccio che tenga conto di questa duplice sfida e dei limiti emersi nelle politiche
attualmente adottate.
L’accesso al lavoro nella città contemporanea
Date le caratteristiche spazio-temporali del lavoro nella città contemporanea, gli
individui possono ritrovarsi nella situazione di rifiutare un lavoro o di decidere di non fare
domanda anche se interessati per problemi legati agli spostamenti e ai trasporti.
Nell’industria, nell’edilizia e nella grande distribuzione, per esempio, i posti di lavoro sono
spesso localizzati al di fuori dei nuclei centrali delle metropoli, meglio serviti dal trasporto
pubblico e l’attività lavorativa può svolgersi in orari atipici, anche notturni, in cui il
servizio non è attivo. I lavori nel settore dei servizi alla persona e alle imprese (educatori,
operatori sociali, addetti alle pulizie, agenti di commercio), invece, si caratterizzano per
un’elevata domanda di (auto)mobilità associata allo svolgimento dell’attività lavorativa
presso più sedi e a volte, datori di lavoro.
In questo quadro, gli individui con più difficoltà sono quelli che non hanno la patente e
l’auto (in molti casi per ragioni finanziarie), che vedono dipendere le possibilità
d’inclusione dall’accessibilità garantita dal muoversi con il trasporto pubblico, in bicicletta
o a piedi. Questo vincolo coinvolge soprattutto chi cerca lavori dipendenti dall’auto oppure
chi risiede in aree dove il trasporto pubblico è inadeguato peri tempi d’accesso troppo
elevati, come nel caso dei tragitti non radiali tra zone periurbane o periferiche.
Se la disponibilità del mezzo motorizzato consente di adattarsi a posti di lavoro
dipendenti dall’auto, essa può trasformarsi in un possesso forzato [Currie 2011], poiché i
costi legati all’acquisto e al mantenimento del veicolo sono sottratti a budget finanziari di
per sé precari, come per i disoccupati e dei lavoratori con tipologie contrattuali poco
protette, in cui l’elevata domanda di mobilità non è contro bilanciata dal rimborso dei costi
sostenuti.
Il fenomeno riguarda, più in generale, chi ha un’elevata mobilità lavorativa e non solo
chi si muove in automobile. Il problema, infatti, è la mancanza d’indennità finanziarie, che
lascia a carico del lavoratore l’incombenza dei costi della mobilità quotidiana, come nel caso
degli addetti alle pulizie, degli educatori e degli operatori sociali.
Per un altro gruppo, la mobilità è problematica con riferimento alle competenze di
mobilità. La lunga disoccupazione può incidere sull’attitudine a spostarsi per cercare
attivamente il lavoro e portare a una relativa immobilità. In altri casi, sono l’abitudine, la
paura e altri fattori socio-cognitivi a rappresentare una barriera e ad associarsi a difficoltà
di accesso al lavoro. In particolare, sono le donne adulte che più hanno espresso la paura
dell’auto, della bicicletta, del trasporto pubblico in certi orari e che vorrebbero sapersi
43
muovere di più e meglio.
In generale, si conferma l’importanza della mobilità nell’influenzare le possibilità
d’inclusione nel lavoro. Nel caso dei disoccupati e dei lavoratori precari ciò conduce a un
paradosso: da un lato, infatti, la disoccupazione e la precarietà si associano all’aumento dei
bisogni di mobilità (funzionale all’accesso al lavoro); dall’altro, però, la situazione di
precarietà costringe le capacità di mobilità e di accesso degli individui.
Il ruolo delle politiche di mobilità
Gli individui rispondono a questa situazione negoziando i tempi e gli spazi della vita
quotidiana in base alle proprie preferenze, competenze e alle risorse di cui dispongono. Un
ruolo importante in questo processo è giocato dalla protezione assicurata dalle politiche
urbane.
Da una rassegna internazionale delle politiche di mobilità adottate per migliorare
l’accesso nella sfera lavorativa [Lucas 2004; Orfeuil 2004; Lucas-Tyler-Cervero-Orfeuil 2006]
possiamo suddividere gli interventi in due macro gruppi.
Da un lato, le politiche classiche che vanno a incidere sui costi della mobilità, in
particolare sulle tariffe del trasporto pubblico. Questi interventi si sono sviluppati
principalmente nel campo delle politiche per la sostenibilità e, promuovendo la
modificazione della ripartizione modale della mobilità casa-lavoro, hanno l’effetto di ridurre
il costo del trasporto pubblico2: la modalità di spostamento privilegiata dalle popolazioni più
precarie [Orfeuil 2004]. Altri interventi di tariffazione sociale sono invece nati nel campo
delle politiche per l’inclusione e hanno l’effetto di far beneficiare le persone disoccupate e
precarie di tariffe agevolate per l’accesso al trasporto pubblico.
Dall’altro lato, gli interventi innovativi emersi nel campo delle politiche attive per il
lavoro, che si rivolgono principalmente alle popolazioni escluse o precarie e che mirano allo
sviluppo di un’offerta di trasporto individualizzata oppure al potenziamento delle capacità
di mobilità degli individui [Le Breton 2005; Allemand 2008; Féré 2011]. Queste misure
includono servizi di trasporto a chiamata per recarsi a colloqui e luoghi di lavoro,
promozione del car-pooling, noleggi e auto-scuole sociali, laboratori di apprendimento della
mobilità.
In questo quadro, il caso italiano e milanese si situa in una posizione marginale: molti
interventi non esistono o sono limitati rispetto alle misure degli altri Paesi. Considerando il
primo macro gruppo, a livello nazionale si segnala l’istituzione del mobility management3
che però coinvolge solo parte del lavoro, ossia quello delle grandi aziende, che sono le sole
ad avere l’obbligo di definire un Piano degli spostamenti casa-lavoro (Pscl). A livello locale,
l’iniziativa “Milano viaggia con te” assegna abbonamenti annuali Atm gratuiti a disoccupati
e lavoratori precari, mala sua portata è ridotta per la scarsità di risorse allocabili. Per
quanto riguarda il secondo macro gruppo, invece, non si segnalano a Milano politiche che
44
rispondono a bisogni individualizzati di accesso al lavoro o che intervengono in una logica
di potenziamento delle capacità di mobilità e di accesso degli individui. Inoltre, a Milano,
come in altri Paesi, si evidenzia una tendenza, emersa parallelamente all’affermazione del
paradigma della sostenibilità, che vede calare l’attenzione sulla dimensione sociale della
sostenibilità, a favore di quella ambientale [Banister 2008].
I limiti delle politiche di mobilità per l’inclusione nel lavoro
All’interno della sfida dell’accessibilità al lavoro, innovazione sociale significa
immaginare interventi che soddisfino il bisogno di lavoro espresso dai gruppi più
vulnerabili attraverso l’offerta di nuove opportunità e il potenziamento delle loro capacità.
In base alla definizione proposta da Moulaert [Moulaert--MacCallun-Mehmood-Hamdouch,
cit., p. 10] sono infatti tre le principali dimensioni dell’innovazione sociale:
a) la soddisfazione dei bisogni di base;
b) l’empowerment;
c) il cambiamento delle relazioni sociali.
In questo quadro, le politiche che incidono sul costo del trasporto pubblico riconoscono
il bisogno di un servizio economicamente accessibile, ma non è scontato riescano a
soddisfare il bisogno d’inclusione, viste le caratteristiche spazio-temporali del lavoro nella
città contemporanea. Tra le politiche del primo macro-gruppo, inoltre, il mobility
management si rivolge a chi è già incluso nel lavoro, mentre per gli interventi di
tariffazione sociale sono emerse tensioni tra i bisogni di mobilità e di accesso degli
individui e il riconoscimento di questi bisogni da parte delle politiche. A Lione, ad esempio,
beneficiare della tariffazione sociale si rivela problematico a causa delle certificazioni
amministrative richieste [Féré, cit.]. A Milano, in un contesto di tagli alla spesa pubblica
locale,4 il possesso dei requisiti ritenuti sufficienti dall’amministrazione per il
riconoscimento di un aiuto (disoccupazione o ISEE, età e tipologia contrattuale) non
corrisponde all’ottenimento di questo aiuto, come dimostra l’esclusione di chi ha già
beneficiato del sostegno nell’anno precedente [Daconto, cit.].
Le valutazioni delle politiche appartenenti al secondo macro-gruppo ne hanno
evidenziato l’efficacia per l’accesso al lavoro, nonostante siano emersi limiti rispetto alla
loro efficienza [Lucas—Tyler-Cervero-Orfeuil, cit.] (i servizi individualizzati sono infatti più
costosi) e sostenibilità ambientale (visto che in molti casi l’inclusione nel mercato del
lavoro implica la promozione dell’uso dell’automobile) [Fol-Dupuy-Coutard2007]. In queste
iniziative, l’innovazione sta anche nel mettere in rete diversi attori, come nel caso della
Plateforme mobilité emploi insertion di Lione, di cui fanno parte istituzioni pubbliche,
imprese private e il Terzo settore.5 Inoltre, le politiche che intervengono per sviluppare le
45
competenze di mobilità, come migliorare la conoscenza e l’utilizzo degli strumenti e delle
opportunità di mobilità e l’apprendimento di forme di spostamento (auto, bicicletta), sono
innovative perché intervengono in una prospettiva di potenziamento delle capacità
personali.
Limiti sono emersi anche rispetto a questa tipologia d’interventi. Innanzitutto, la loro
attivazione è condizionale e dipende dagli operatori che decidono in merito all’eleggibilità
dei potenziali beneficiari [Féré, cit.]. In secondo luogo, queste misure sono legate al
reperimento di fondi e la loro portata è limitata nel tempo, che non sempre è sufficiente per
fare uscire le persone dalla situazione di bisogno [Daconto, cit.]. Infine, queste politiche
possono rappresentare un’ingiunzione alla mobilità, non legata alla maggior inclusione
degli individui [Bacqué – Fol 2007].
In altri termini, pur intervenendo in una prospettiva di empowerment, queste politiche
non tengono sufficientemente conto dei bisogni, delle competenze e delle strategie di
adattamento già messe in campo dagli individui in situazione di disoccupazione o
precarietà.
Conclusioni
In una prospettiva di promozione dell’inclusione innovativa, il contributo ha evidenziato
il ruolo che l’organizzazione spazio-temporale della città e la capacità degli individui a
muoversi nello spazio-tempo urbano esercitano, insieme ad altri fattori, sulle possibilità di
inclusione degli individui nel mercato del lavoro. L’analisi degli interventi adottati in
differenti Paesi rappresenta la base su cui le politiche milanesi possono sviluppare una
strategia innovativa che concili, in particolare, accesso al lavoro e mobilità sostenibile.
In questo quadro, la sfida è di adottare un approccio integrato al tema
dell’(in)accessibilità basato sul coordinamento delle politiche urbanistiche, dei trasporti, dei
tempi e del lavoro e sulla diversificazione degli interventi. Visto chela dipendenza
dell’accesso al lavoro dall’auto rappresenta una barriera significativa, una prima strategia
deve mirare alla riduzione della domanda di auto-mobilità avvicinando, anche
temporalmente, i posti di lavoro agli individui, attraverso una pianificazione che integri
fattori urbanistici e trasportistici:6per esempio, direzionando la crescita di bacini
occupazionali attorno alle infrastrutture di mobilità e adattando il servizio di trasporto
pubblico alla mutata domanda di mobilità [Cervero 1998]. Un’altra strategia è di ridurre il
mismatch tra domanda e offerta di lavoro, ovvero tra qualifiche degli abitanti e profili
professionali ricercati dai datori di lavoro di un determinato territorio [Provincia di Milano
2007].
Non sempre il trasporto pubblico rappresenta una soluzione percorribile, in quanto per
essere efficiente la domanda ha bisogno di raggiungere una massa critica non sempre
disponibile. Nei contesti periferici e periurbani, quindi, una strategia per favorire l’accesso
46
al lavoro dei gruppi più vulnerabili è sviluppare un’offerta di mobilità individualizzata, ad
esempio navette che colleghino direttamente le aree periferiche o che permettano di
accedere alle aree in cui vi è un’alta concentrazione di lavoro notturno. Inoltre, l’accesso a
questi servizi deve essere garantito alla scala della città metropolitana, visto che i bisogni di
mobilità per accedere al lavoro non si limitano ai confini comunali.
Per le persone con elevati e specifici bisogni di mobilità legati alle caratteristiche delle
occupazioni e alla scarsità di risorse per la mobilità, gli interventi possono promuovere
l’accesso alla mobilità (es. autoscuole sociali, noleggio sociale) e l’apprendimento delle
mobilità (conoscenza e capacità d’uso di un sistema complesso come quello dei trasporti la
cui mancanza può penalizzare gli individui con basso capitale culturale e le persone
socializzate in altri contesti, come i migranti). Altre pratiche innovative si ritrovano nelle
sperimentazioni del car-pooling informale [Certu 2009; Meissonnier 2011], in cui i bisogni di
mobilità e accesso sono soddisfatti attivando le risorse e le reti sociali in cui gli individui
sono inseriti.
La comune premessa di questa varietà d’interventi deve essere l’analisi approfondita dei
bisogni e delle forme di adattamento già messe in campo dagli individui. Per rispondere alla
sfida dell’accessibilità, infatti, le politiche devono essere sospinte da una filosofia
[Farrington 2007] che si ponga l’obiettivo di potenziare le capacità di accesso degli individui
partendo dalle risorse, competenze e pratiche già presenti sul territorio. In una prospettiva
d’innovazione, la sfida dell’accessibilità significa soprattutto volgere lo sguardo alle persone
e da qui partire per sviluppare le loro capacità di appropriazione delle opportunità offerte
dalla città.
Bibliografia
Allemand, S.
2008 Apprendre la mobilité : Les ateliers mobilité, une expérience originale, Editions Le
Cavalier Bleu, Paris.
Bacque, M. H. – Fol, S.
2007 L’inégalité face à la mobilité: du constat à l’injonction, in “Revue suisse de
sociologie” 33, n. 1, pp.89-104.
Banister, D.
2008 The sustainable mobility paradigm, in “Transport Policy”, 15, n. 2, pp.73–80.
Boltanski, L. – Chiapello, E.
1999 Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris (tr. it. Il nuovo spirito del
capitalismo, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014).
Certu,
2009 Le covoiturage dynamique. Étude préalable avant expérimentation, Certu – Les
47
rapport d’étude, Lyon.
Cervero, R.
1998 The Transit Metropolis: A Global Inquiry, Island Press, Washington
Colleoni, E.
2013, Mobilità urbana, in Vicari, S., a cura di, Questioni urbane. Caratteri e problemi
della città contemporanea, Il Mulino, Bologna, pp. 227–56.
Currie, G.
2011 New Perspectives and Methods in Transport and Social Exclusion Research, Emerald
Group Publishing, Bingley.
Daconto, L.
2015 Mobilità precaria. L’accesso alla città delle persone in situazione di precarietà
legata al lavoro a Milano e Lione, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano
Bicocca.
Dupuy, G.
1999 La dépendance automobile: Symptômes, analyses, diagnostic, traitements,
Anthropos, Paris.
Farrington, J.H.
2007 The new narrative of accessibility: its potential contribution to discourses in
(transport) geography, in “Journal of Transport Geography”, 15, n. 5, pp.319-30.
Féré, C.
2011 Concilier accès à la mobilité pour tous et mobilité durable. La prise en compte des
inégalités d’accès à la mobilité dans les politiques urbaines de l’agglomération lyonnaise,
Tesi di dottorato, Université Lumière Lyon II
Fol, S.
2009 La mobilité des pauvres: pratiques d’habitants et politiques publiques, Belin, Paris.
Fol, S., Dupuy, G., Coutard, O.
2007Transport Policy and the Car Divide in the UK, the US and France: Beyond the
Environmental Debate, in “International Journal of Urban and Regional Research”, 31, n. 4,
pp.802-818.
Gwiazdzinski, L.
2003 La ville 24 heures sur 24, Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues.
Kaufmann, V.
2002 Re-Thinking Mobility: Contemporary Sociology, Ashgate, Farnham.
LeBreton, È.
48
2005 Bouger pour s’en sortir: mobilité quotidienne et intégration sociale, Armand Colin,
Paris.
Lucas, K.
2004 Transport and Social Exclusion: A survey of the Group of Seven Nations, Fia
Foundation for the Automobile and Society, London.
Lucas, K., Tyler, S., Cervero, R., Orfeuil, J.P.
2006 Movingfromwelfare to work: the role of transport, Fia Foundation for the
Automobile and Society, London.
Meissonnier, J.
2011 Pour un accès aux ressources urbaines plus équitables : la piste du covoiturage
dynamique sur le territoire d’un PRU, in Mobilités spatiales et ressources métropolitaines:
l’accessibilité en questions / 11éme colloque du groupe de travail “Mobilités Spatiales et
Fluidité Sociale” de l’Aislf, Grenoble.
Moulaert, F., MacCallum, D., Mehmood, A., Hamdouch, A., a cura di
2013 International Handbook of Social Innovation: Collective Action, Social Learning and
Transdisciplinary Research, Edwar Elgar, Cheltenham.
Orfeuil, J.P.
2004 Transports, pauvretés, exclusions: Pouvoir bouger pour s’en sortir , Éditions de
l’Aube, La Tour d’Aigues.
Preston, J., Rajé, F.
2007 Accessibility, mobility and transport-related social exclusion, in “Journal of
Transport Geography”, 15, n. 3, pp. 151-160.
Provincia di Milano,
2007 Territori in movimento. Rapporto sui mercati locali del lavoro inprovincia di Milano,
Franco Angeli, Milano.
1 La ricerca, condotta con il sostegno della Fondazione Roberto Franceschi ha studiato la relazione tra precarietà, mobilità e accessibilità,
avvalendosi di un approccio metodologico mixed methods e comparando, in due città metropolitane europee (Milano e Lione), l’accesso a una serie di
opportunità rilevanti per l’inclusione di un campione di 51 disoccupati e lavoratori precari. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Daconto 2015.
2 Ad esempio, in Francia, un Paese in cui il tema dell’esclusione legata alla mobilità si è affermato con più forza nell’agenda politica nazionale e
locale, il codice del lavoro stabilisce che ogni datore di lavoro (pubblico e privato) deve farsi parzialmente carico (di solito il 50%), delle spese legate
alla mobilità lavorativa nel caso in cui il tragitto avvenga con i mezzi pubblici (articolo L3261-2).
3 Decreto Ministeriale del 27 marzo 1998 del Ministero dell’ambiente (GU n.179 del 3-8-1998).
4 L’iniziativa “Milano viaggia con te” ha ricevuto uno stanziamento di 460 mila euro nell’anno 2014, riuscendo a erogare 2 mila abbonamenti
annuali Atm gratuiti. Nell’anno 2015 i fondi stanziati sono stati 215 mila euro con la possibilità di erogare mille abbonamenti.
5 Per approfondimenti si rimanda al sito internet: http://www.mobilite-vers-lemploi.org/, visto il 3 marzo 2016.
6 Questo è il caso, ad esempio, del accessibility planning nel Regno Unito. Per un’analisi critica si veda Preston -Rajé 2007.
49
Seconda parte
Politiche per l’abitare e la rigenerazione urbana
Claudio Calvaresi, Ivana Pederiva
Community hub: rigenerazione urbana e innovazione sociale
Questo testo è articolato in tre parti. Nella prima, forniamo un sintetico riferimento di
contesto: quali sono i termini della nuova agenda urbana in Italia e in Europa. La seconda
parte individua cosa si sta muovendo a Milano di interessante e coerente con gli
orientamenti europei più innovativi. La terza indica alcune lezioni di policy, con particolare
riferimento a Milano, sul nesso individuato dal titolo tra community hub, rigenerazione
urbana e innovazione sociale.
La tesi
La tesi del paper, che dà conto del titolo, è la seguente: le politiche di rigenerazione
urbana nascono dal riconoscimento di pratiche, attori, sistemi di opportunità, risorse
disponibili, in un campo locale, e dalla loro combinazione. Intercettano e valorizzano le
forme dell’innovazione sociale. Per questo, sono politiche pubbliche intelligenti, perché
permettono alla società di fare, ne accrescono l’autonomia, sollecitano sperimentazioni
diffuse, ridefiniscono il ruolo del settore pubblico come abilitatore.
Per la loro impostazione e il loro sviluppo seguono un approccio di co-creazione, che
coinvolge attori diversi lungo l’intero processo decisionale: dalla fase della progettazione a
quella dell’implementazione, a quella della valutazione.
Sono a base locale, ma non coincidono con un perimetro definito: il campo dove
agiscono non è un dato, ma un costrutto dell’azione degli attori. Più che area-based, sono
infatti place-based: il confine è messo in tensione, rappresenta un riferimento strategico,
perché è attorno ad una certa località che convergono risorse provenienti da più attori
(locali o meno)1. Ciò le connota come politiche di sviluppo urbano integrato [Fareri 2009],
svolte da partnership articolate, composte dal pubblico, privato, terzo settore e comunità
locale.
Non sono più prodotte da programmi straordinari. Un ciclo si è chiuso: oggi non vi sono
più né le condizioni finanziarie, né quelle politiche per disegnare ampi programmi di
rigenerazione urbana. Questa condizione va colta nell’opportunità che offre, che è quella di
ribaltare il punto di vista: non dobbiamo più immaginare programmi che si impongono su
51
un quartiere come se intervenissero su un vuoto, ma forme di azione che accompagnano,
completano, abilitano ciò che esiste2.
Questa prospettiva richiama la necessità di dotarsi di strutture di presidio locale dei
processi di rigenerazione. Nella stagione alle nostre spalle, questi sono stati i Laboratori di
quartiere. Sosteniamo che oggi siamo di fronte ad una pluralizzazione dei dispositivi di
sostegno alla rigenerazione urbana, secondo una prospettiva che affianca
l’accompagnamento sociale dei Laboratori di quartiere ad altri complementari modelli di
intervento.
Nascono così spazi e strutture di servizio che ospitano informazione ed erogazione di
servizi di welfare pubblico, insieme ad attività ad elevato impatto sociale non
necessariamente erogate dal pubblico e neppure dal privato sociale in regime di
accreditamento. Sono spazi di produzione e di lavoro, che fanno convivere l’artigiano e la
postazione per il giovane creativo, la start-up e la cooperativa sociale, il coworking e il fablab. Per questo, sono spesso spazi ibridi, di difficile definizione: fanno inclusione sociale, ma
sperimentano anche produzioni creative. Lasciano spazi ai talenti culturali, ma non sono
una sede espositive o un museo. Possono produrre beni e servizi insieme: dunque come la
mettiamo con le destinazioni d’uso, gli oneri di concessione e gli standard per i parcheggi?
Magari sono cascine, lo sono state o lo sono ancora parzialmente. Cambiano funzione e
ospitano pratiche differenti, che si alternano nel corso della giornata o nei giorni della
settimana: al mattino prestano colazioni, al pomeriggio fanno il doposcuola, alla sera ci si
balla il tango. Sono insieme innesco, garanzia e presidio delle pratiche di rigenerazione
urbana. Effettivamente rammendano brani scuciti, ma rilasciano ben poche interviste ai
quotidiani nazionali. Provano a contrastare l’esclusione, generando lavoro. Accompagnano i
processi, ma ne sono anche i protagonisti. Sono i makers della rigenerazione. Proviamo a
definirli community hub, perché il termine è evocativo del dispositivo che innesca il
movimento, dando così del termine comunità una accezione del tutto processuale, come
una tensione progettuale; niente affatto uno stato naturale da rivendicare, un heimat da
preservare.
Uno sguardo sulla rigenerazione urbana, tra l’Italia e l’Europa
Nel nostro Paese, il discorso pubblico sulla rigenerazione urbana è ancora in gran parte
dominato da quello dell’intervento straordinario sulle periferie3. Questo tipo di approccio
tende ad evidenziare, nominandole alla rinfusa, diverse situazioni problematiche che si
riconoscono tipiche dei quartieri periferici: degrado, disagio, marginalità, insicurezza e, da
ultimo, terrorismo4.
Periferie, nel nostro paese, è parola passe-partout. Basta nominarla e ci siamo capiti. Su
cosa, non è chiaro, ma certamente stiamo alludendo ad un grumo di problemi che
intimorisce e favorisce lo stigma. È utilizzata per evocare scompostamente un problema che
52
non si ha la perizia di definire. Sorprende tuttavia che questo “ordine del discorso” sia
transitato, tal quale, dal giornalismo pigro al policy making. Il quadro normativo ne è
determinato e le politiche pubbliche – come denunciato da Christophe Guilluy a proposito
di quelle per le banlieue in Francia – rispondono, prima che a una domanda sociale, ad una
domanda mediatica [Guilluy 2013].
In Europa, si sta lavorando sull’Agenda urbana5. Sono stati identificati dodici temi di
sperimentazione per le città. Su ciascuno di questi, lavorano partnership, composte da Stati
membri, città e altri soggetti (network, agenzie, associazioni). A queste, spetta il compito di
suggerire miglioramenti al trattamento del proprio tema con riferimento a tre dimensioni:
migliore regolazione, più adatta alle esigenze locali; migliore conoscenza, per qualificare
raccolta, gestione e scambio dei dati; migliore capacità di finanziamento, con la promozione
di strumenti finanziari intersettoriali. Sono partite le prime quattro partnership su qualità
dell’aria, housing, inclusione di migranti e rifugiati, povertà urbana.
Lo strumento operativo per accompagnare l’implementazione dell’Agenda urbana è
l’Iniziativa definita “Azioni urbane innovative”. Essa supporta progetti pilota che servono
ad identificare, testare e prototipare nuove soluzioni relative allo sviluppo urbano
sostenibile, non sostenute dalle fonti tradizionali di finanziamento. Una prima call è stata
emanata a fine dicembre 2015; successive call sono previste fino al 2020. La dotazione
finanziaria complessiva è pari a 372 milioni di euro. I progetti pilota devono avere, in
qualità di capofila di partenariati rilevanti, una autorità urbana con più di 50mila abitanti.
In sostanza, mentre la Commissione europea supporta progetti pilota che servono ad
identificare e testare nuove soluzioni relative allo sviluppo urbano sostenibile, il Governo
italiano tende a identificare la rigenerazione urbana con progetti “cantierabili” in grado di
contrastare problemi assunti come dati oggettivi. L’approccio europeo va seguito con
attenzione. Quello italiano ricalca modelli di intervento ampiamente superati, che
andrebbero del tutto ripensati. Ciò che è successo a Milano in questi anni può fornire
qualche indicazione a riguardo.
Uno sguardo su Milano
Usare Milano come punto di osservazione sulla rigenerazione urbana permette di
comprendere che i processi di rigenerazione urbana implicano la presenza di attori diversi,
che conviene superare la sola visione istituzionale, secondo la quale sono il prodotto di
specifici programmi, disegnati dal pubblico per comunità difficili.
Negli anni recenti, processi di sviluppo si sono messi in moto per iniziativa di operatori
privati, che hanno configurato nuovi spazi urbani (la Fondazione Prada, il mercato
metropolitano), trasferendovi cifra stilistica e intelligenza gestionale, dunque dando luogo a
politiche pubbliche via mobilitazione privata. Sono avvenuti per la capacità della città di
metabolizzare e risignificare grandi progetti unitari, che ad altre società meno resilienti
53
sarebbero rimaste indigeribili: e così Expo e Porta Nuova sono diventate nuove grandi
piazze metropolitane. Hanno messo radici grazie al supporto di big player, che hanno
saputo riconoscere e sostenere, nei quartieri difficili, competenze e risorse: è il caso di
alcuni bandi di Fondazione Cariplo (il progetto “Dencity” al Giambellino ha fatto emergere
culture locali orientate alla trasformazione), o delle iniziative di responsabilità sociale del
Politecnico (il progetto “Mapping San Siro” è oggi un laboratorio insediato in uno dei
quartieri pubblici più problematici della città). In qualche caso, hanno provato a costruire
coesione: è di questa natura, il lavoro tenace e riflessivo di gruppi di knowledge broker
impegnati nei laboratori di quartiere, un servizio dell’Amministrazione comunale che ha
saputo farsi prossimo alle comunità locali (come nel caso del Contratto di Quartiere di
Ponte Lambro: Calvaresi, Cossa 2011).
Un progetto recente di mappatura delle pratiche di innovazione dal basso nell’area
milanese, dal titolo “Segnali di futuro”, ci permette di enucleare un’altra peculiarità di
Milano con riferimento ai processi di rigenerazione urbana, che è quella della straordinaria
mobilitazione dell’intelligenza collettiva.
I segnali di futuro sono la cifra del cambiamento in atto: nella produzione ed erogazione
dei servizi, nei modi di abitare, nella creazione di coesione sociale, nelle strategie quotidiane
di cura del benessere individuale e collettivo, nelle pratiche culturali. Hanno molto a che
fare con la rigenerazione urbana, alla quale forniscono un profilo interessante, grazie alle
numerose tracce lasciate sul terreno.
La prima traccia sono le azioni-innesco, i “potenziali” della rigenerazione, quelle pratiche
che stanno aprendo nuove prospettive di intervento. Sono a volte pratiche che lavorano su
terreni contigui, che si occupano di sviluppo culturale o di coesione sociale, ma possono
generare, se sostenuti e accompagnati, utili agganci per una strategia di rigenerazione
urbana.
La seconda traccia sono gli attori ibridi, quelli che, per statuto si occupano di altro, ma
ad un certo punto del loro percorso, si accorgono che sono anche attori delle politiche
urbane.
La terza traccia è data dall’osservazione degli ambiti territoriali entro cui, a partire da
iniziative puntuali, si dispiegano effetti di rigenerazione: è il caso delle pratiche di riuso di
edifici dismessi o sottoutilizzati. Localizzate in una certa area della città, saranno le
funzioni ospitate, il modello gestionale, la loro capacità di intercettare reti più o meno
estese di attori a costruire il loro campo di azione, a indicare lo spazio del loro intervento di
rigenerazione.
La quarta traccia è basata sull’indizio della prossimità. Laddove operano strutture di
presidio locale; dove troviamo il lavoro non agevole di chi si fa prossimo ai quartieri
difficili, svolto con impegno quotidiano; dove si abbassa la soglia di accesso, ci si fa attivisti
di politiche non rinunciando alla riflessività del ricercatore; dove si opera come knowledge
broker, ebbene lì c’è da scavare e di sicuro qualcosa si trova.
54
La quinta traccia è data dagli attori che mettono in campo schemi di intervento che
provano a reggersi come imprese che producono valore sociale, che approntano modelli di
business senza contributo pubblico. Questi indicano un futuro, perché costringono a
ripensare, nello stesso tempo, impresa e dominio pubblico, innovando entrambi.
Qualche lezione di policy
1.
L’integrazione va assunta come approccio-guida delle politiche urbane. Ci sono almeno
tre condizioni che vanno rispettate per garantire l’efficacia di un tale approccio.
La prima condizione è la presenza di dispositivi in grado di garantire l’integrazione dalla
fase di progettazione e quella di implementazione: devono essere dispositivi locali,
laboratori di quartiere, community hub. Disegnare e condurre efficacemente processi di
rigenerazione urbana implicano un lavoro radicato nel quartiere, che non si riduca alla
costruzione di un qualche evento occasionale di partecipazione, ma una attività svolta
fianco a fianco con i gruppi e i singoli che intendono mobilitarsi, un intenso lavoro di
prossimità orientato a garantire diritti di cittadinanza.
La seconda condizione è che non si possono fare politiche integrate senza la
mobilitazione della comunità locale, secondo una prospettiva che assume la comunità locale
come protagonista del disegno e della gestione delle politiche. Integrazione significa
coinvolgimento degli attori del territorio: non tanto – come avviene nelle esperienze di
progettazione partecipata – come innesto delle loro conoscenze e dei loro sistemi di
preferenza nella costruzione delle decisioni, ma piuttosto come presa in carico diretta dei
problemi del quartiere da parte della stessa comunità che la abita.
La terza condizione, conseguenza della precedente, è superare l’idea della partecipazione
come maieutica delle volizioni degli attori, che serve a migliorare l’efficacia delle politiche
pubbliche. La prospettiva di lavoro interessante è quella di muoversi piuttosto sul terreno
della co-creazione e di intercettare nelle politiche di rigenerazione urbana i city makers,
coloro che chiedono alla sfera istituzionale di farsi partner delle loro azioni.
2.
Occorre stare nelle periferie. Standoci, si capiscono molte cose e molte altre si possono
fare: accompagnare processi, promuovere networking, favorire capacitazione, sostenere
innovazione sociale. A volte questa strategia prende la forma del laboratorio di quartiere, a
volte si danno modelli nuovi: imprese di comunità che operano sui terreni del lavoro e della
coesione sociale. A volte sono promossi dall’ente locale: ci sta provando il Comune di
Milano, nell’ambito del progetto Welfare di tutti, con la piattaforma di comunità in Zona 5.
Ma va ricordato anche lo straordinario Centro Pertini a Cinisello Balsamo, un piccolo
55
Beaubourg della grande regione urbana milanese, che è biblioteca, spazio di incontro,
caffetteria e fab-lab insieme.
In altre occasioni, sono associazioni, cooperative, imprese sociali che, avvicinandosi alle
periferie vi si stabiliscono e sviluppano nuovi modelli di business. È il caso del Laboratorio
di Barriera di via Baltea, a Torino, promosso e gestito dalla cooperativa SuMisura: una ex
tipografia di 900 mq è divenuta uno spazio multifunzionale con laboratori artigianali,
un’attività di ristorazione e servizi per il quartiere, co-working, che vuole favorire
l’integrazione tra attività commerciali, produttive e servizi per la socialità, generare
inclusione e lavoro. A San Giuliano milanese, sono cinque ragazze che animano La
Banlieue, una caffetteria sociale che è luogo di coesione e inclusione.
3.
Bisogna dare gambe all’innovazione sociale, mettendo la società in grado di fare e
costruendo le condizioni per cui questa possa esprimersi: tra queste vi sono regole e
standard, criteri di equità, accesso ai dati, trasparenza, assunzione piena di una nozione di
publicness come dato inerente ai beni e non agli attori. È quello di ridefinire il proprio
perimetro, nella consapevolezza che l’intelligenza delle istituzioni consiste nella capacità di
riconoscere e coltivare l’intelligenza della società. Non si tratta di sussidiarietà, casomai di
co-creazione, o addirittura di competizione tra chi (istituzioni e società) è in grado di
generare beni pubblici. Occorrerebbe riconoscere, sulla scorta del modello inglese
introdotto dal LocalismAct, community rights, sollecitare il profilo progettuale e le capacità
di management della società, nella responsabilità di gestione del patrimonio pubblico o nella
erogazione di servizi per la comunità. Si pensi, nel contesto milanese, alle ormai numerose
esperienze di gestione di immobili e attrezzature, dismessi o sotto-utilizzati, di proprietà
pubblica da parte di associazioni, cooperative e imprese sociali per fini di utilità collettiva;
al Mercato Lorenteggio, un mercato comunale che sta ridefinendo offerta e profilo,
combinando commercio, cultura e responsabilità sociale; a Base Milano, che sta costruendo
la propria missione di polo della cultura e della creatività, lavorando a più livelli (da quello
degli eventi internazionali a quello del radicamento locale).
4.
Una priorità su cui concentrare gli sforzi è la creazione di lavoro. All’interno di un
ragionamento sulla sostenibilità e sulla scalabilità degli interventi, occorre disegnare dei
percorsi che integrino produzione di valore aggiunto sociale e creazione di impresa; se
community involvement implica community ownership, occorre favorire il passaggio
dall’ingaggio civico alle community enterprise, qualunque forma giuridica essa implichi
[Euricse 2016]. La comunità cui questo tipo di imprese allude ha carattere processuale ed è
l’esito di giochi con più attori. Raccoglie comunità di interessi, di pratiche, di progetto; può
56
essere localizzata in un territorio definito, ma non necessariamente coincide con un luogo.
È piuttosto place-based: aderisce ad un luogo, favorendovi sperimentalismo e innovazione, e
sollecitando l’incontro con risorse e attori esterni [Barca 2011].
Il campo di azione è molteplice. Sono comunità che costruiscono “locali” diversi, nel
senso che la loro locality coincide con lo spazio definito dalla loro azione e dalle reti di
relazioni che intrattengono con gli attori della propria rete. Avendo un rapporto con il
locale di natura progettuale, il loro tratto identitario risulta spesso debole. Sono infatti un
“pubblico minore” [Bianchetti 2014], che si costituisce per l’occasione, su base
volontaristica, per reciproca utilità e con legami solidaristici. Sono “spazi della
condivisione”, dove si danno azioni orientate (a volte intenzionalmente, a volte come
risultato sotto-prodotto) a ispessire il legame sociale.
Si collocano a metà tra la pura appropriazione individualistica e l’ossessione
comunitaria. Definiscono certamente comunità inclusive: sono agite da individui con
sistemi di preferenze convergenti, mossi da interessi analoghi, che si riconoscono in
obiettivi congiunti. Danno luogo a joint venture che erogano beni pubblici (servizi,
infrastrutture) e aiutano a riprodurne (conoscenza, fiducia, riflessività, civismo). Anzi, si
potrebbe dire che tra lavoro civismo riflessività e fiducia non ci sono più barriere. Il
civismo, la riflessività, la fiducia si fanno lavoro e impresa. Inoltre, sono beni pubblici in
quanto alimentano potenzialità non esplorate: piuttosto che rispondere a bisogni
consapevolmente espressi dalla società locale, aprono a possibilità evolutive non intese.
In conclusione, pensiamo che una prospettiva di policy interessante sia quella di
diffondere esperienze di community hub. Basta anche gettare lo sguardo fuori dall’Italia e
la casistica diventa amplissima [Karvonen, Van Heur 2014]. Riconoscerli può permettere di
migliorare le politiche pubbliche. E politiche pubbliche intelligenti possono aiutarli a
consolidarsi. In Italia, i riferimenti sono l’esperienza dei Bollenti Spiriti in Puglia e la rete
delle Case di quartiere di Torino.
Crediamo si debbano soprattutto costruire condizioni per la diffusione dell’innovazione
e la capacitazione degli attori; orientare le risorse finanziarie sui processi abilitanti;
irrobustire il profilo progettuale e di capacità di management della società, anche favorendo
occasioni di patrimonializzazione a favore delle comunità, chiamate non più solo alle sfide
della progettazione e della gestione, ma anche a quella dell’acquisizione di asset pubblici.
Bibliografia
Aa. Vv.
2016 Libro bianco: La cooperazione di comunità, Euricse, Trento.
Appadurai, A.
2010 Modernity at Large, Univ. of Minnesota press, Minneapolis.
57
Barca, F.
2011 Alternative approaches to development policy: Intersections and divergencies, in
“OECD Regional Outlook 2011”, pp. 215 – 225.
Bianchetti, C. (a cura di),
2014 Territori della condivisione, Quodlibet, Macerata.
Calvaresi, C. - Cossa, L.
2011 Un Ponte a colori. Accompagnare la rigenerazione di un quartiere della periferia
milanese, Maggioli editore, Rimini.
Fareri, P.
2009 Rallentare, Angeli, Milano.
Guilluy, Ch.
2013 Fractures françaises, Flammarion, Paris.
Karvonen, A. - Van Heur, B.
2014 Urban Laboratories: Experiments in Reworking Cities, in “International Journal of
Urban and Regional Research”, vol. 38, n. 2, pp. 379-392.
1 «I view locality as primarily relational and contextual rather than as scalar or spatial. I see it as a complex phenomenological quality, constituted
by a series of links between the sense of social immediacy, the technologies of interactivity and the relativity of contexts» [Appadurai 1996, p.178]
2 Da questo punto di vista, segnaliamo di passaggio che a Milano il programma per Lorenteggio è particolarmente sfidante: perché è un unicum,
che va trattato superando la logica della straordinarietà e assumendo quella dell’intervento che integra e fa da upscaling all’esistente.
3 Ne sono testimonianza due recenti iniziative del governo italiano. La prima è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 15 ottobre
2015, che reca il bando per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate, con una dotazione di 194.138.500 euro per il triennio
2015-17. La seconda è costituita dal comma 974 della legge di stabilità 2015 che istituisce il Fondo per l’attuazione del Programma straordinario di
intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie, pari a 500 milioni di euro per il 2016. Il relativo bando è stato approvato con
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 25 maggio 2016.
4 Questo è un aspetto interessante. Una delle motivazioni per l’intervento straordinario sulle periferie starebbe nel contrasto all’insorgere
dell’integralismo islamico. Non c’è nessuna evidenza empirica a sostegno di questo nesso. Le cronache riportano piuttosto che il numero
(ridottissimo) dei foreign fighters lombardi proviene dalla “città infinita pedemontana”.
5 Il percorso dell’Agenda urbana ha trovato un momento di formalizzazione nella sottoscrizione del Patto di Amsterdam (il policy statement siglato
lo scorso 30 maggio, promosso dalla Presidenza olandese). Qui i riferimenti: http://urbanagenda.nl/
58
Elena Ostanel
Rigenerazione urbana e innovazione sociale in periferia. Un incontro possibile?
Negli ultimi anni in Italia e più in generale in Europa si è assistito ad un proliferare di
iniziative dal basso che si descrivono e vengono descritte come motori di rigenerazione
urbana. Esperienze di autorganizzazione, forme di impresa sociale, professionalità ancora
non ancora “codificate” e competenze variegate che si mettono in gioco come agenti di
sviluppo territoriale. In molti casi c’è uno spazio fisico da rigenerare che fa da “innesco”, in
altre situazioni parliamo di riattivazione di spazi già in uso ma che necessitano di nuova
linfa per diventare sostenibili (pensiamo ad alcuni comuni in spopolamento o ai centri
storici in crisi). Progetti che interessano un quartiere, parti di città, ma allo stesso tempo le
città nel loro complesso.
In Italia proliferano esperienze di questo genere. Partendo dall’esperienza “Bollenti
Spiriti” in Puglia che di fatto sancisce l’inizio di una stagione di esperienze di innovazione
sociale in Italia, arrivando fino al progetto “Case di Quartiere” a Torino come esito di un
processo di policy di lungo periodo, possiamo ricostruire una geografia complessa di
esperienze, percorsi di attivazione e sperimentazioni.
Molto è stato scritto sul tema dell’innovazione sociale in Italia. Poco invece sulla
relazione tra pratiche di innovazione sociale e rigenerazione urbana. Innovazione sociale e
rigenerazione urbana potrebbero essere considerate, come evoca il titolo di questo articolo,
in contraddizione: interventi dal basso che impegnano risorse relativamente modeste,
fortemente autoimprenditivi e che diventano forme di rivendicazione sociale, poco
avrebbero a che fare con i tradizionali interventi di rigenerazione top-down, a forte
investimento pubblico, scandite da temporalità dilatate.
Eppure recenti ricerche stanno dimostrando come innovazione sociale e rigenerazione
urbana possano essere considerate parte di uno stesso processo urbano e sociale, in maniera
particolare mentre la crisi economica riduce la capacità di azione del pubblico.
Ma possiamo spingerci ancora oltre, pensando a quelle pratiche dal basso che partono
dalle periferie. Non dobbiamo infatti dimenticare che esperienze di innovazione sociale per
la rigenerazione urbana si stanno sviluppando in un contesto sociale e urbano in profondo
mutamento; in Europa assistiamo oggi ad un rapido aumento della polarizzazione sociale e
spaziale [Marcuse, Van Kempen, 2000; Tammaru et al, 2016]. In quartieri sempre più
59
caratterizzati da diversità (culturali, sociali, di classe, di atteggiamenti) si sovrappongono
complesse questioni sociali, come povertà ed esclusione sociale o concentrazione delle
provenienze nazionali. Allo stesso modo, complice soprattutto la crisi ma non solo, la
capacità dello Stato di rispondere a bisogni emergenti è fortemente limitata. È sicuramente
in crisi il sistema di welfare ma lo è anche la capacità del pubblico di attivare processi
virtuosi che sappiano prendere in carico e quindi rigenerare spazi fisici e sociali in disuso,
senza identità, in degrado.
È proprio in questi contesti che pratiche professionali e forme di rivendicazione sociale
entrano in sinergia, nella maggior parte dei casi a partire da una conoscenza diretta del
luogo e mettendo al centro una dimensione operativa, più che analitica, dell’agire
professionale. Sono regimi di azione che vedono la partecipazione di soggetti eterogenei e
dove l’iniziativa privata trova spazio in particolare in un momento di crisi di ogni forma di
investimento pubblico.
L’articolo considera le periferie come laboratori interessati per discutere in maniera
critica gli effetti socio-spaziali di queste sperimentazioni di rigenerazione urbana dal basso:
quale la relazione tra iniziative dal basso e istituzioni? Quali sono le ricadute socio-spaziali
di tali azioni di rigenerazione dal basso? Come favorire la coesione sociale di territori in
crisi senza generare fenomeni di esclusione? Quali competenze devono essere mobilitate
affinché tali spinte dal basso siano motori di sviluppo territoriale sostenibile? Cosa
significa, associata a tali pratiche, il termine innovazione sociale?
Il testo ha l’obiettivo di produrre conoscenza disponibile [Lindblom, Cohen, 1979]
attraversando alcuni casi studio affrontati da recenti ricerche sul campo: l’area della
stazione di Padova, il caso Altobello a Mestre, il quartiere di San Salvario a Torino e il
quartiere di Charlois a Rotterdam6.
Innovazione sociale e apprendimento istituzionale: la sostenibilità come leva di sviluppo
La tesi che intendo sostenere, riprendendo parte della letteratura sull’innovazione
sociale, è che tali sperimentazioni dal basso siano socialmente innovative solo se dirette a
contribuire all’inclusione sociale attraverso cambiamenti nell’agire sia dei soggetti sia delle
istituzioni; con istituzioni si intendono l’insieme di norme e orientamenti culturali, routine,
repertori di modi di vedere e di fare le cose, che incentivano o sanzionano determinati
comportamenti, sia in modo formale che informale [Vicari, Moulaert, 2013; Garcia, 2006;
Oosterlynck et al, 2013]. Prospettiva, questa, che mette le pratiche di rigenerazione urbana
dal basso in un rapporto di mutuo apprendimento e scambio e che può portare, da un lato, a
riconoscere l’emergere di nuovi arrangiamenti istituzionali, formali e informali e, dall’altro,
generare un processo di upscaling attraverso il quale si ampliano progressivamente in senso
universalista le richieste e i riconoscimenti [Boltanski, Thévenot, 1991].
In questa prospettiva il concetto di apprendimento istituzionale, ma più in generale il
60
ruolo delle istituzioni nei processi di rigenerazione dal basso, è rilevante.
Nelle sperimentazioni che si stanno moltiplicando in Italia si assiste al tentativo da parte
delle istituzioni di ricollocarsi nel ruolo di mediazione e di restituire in maniera trasparente
e inclusiva beni alla collettività che sono stati sottratti dal disuso o da un uso a rischio
privatistico. Per esempio alcuni regolamenti sui beni comuni, come quello di Bologna, che
si configurano come tentativi di trovare un equilibrio tra inclusività e informalità, norma e
autonomia [Ostanel, Iannuzzi, 2015].
Nonostante sia ancora presto per sondare l’efficacia e gli effetti di tali strumenti, la
ricerca svolta propone di porre attenzione sul legame tra pratiche dal basso e istituzioni.
Troppo spesso alto e basso sono considerati momenti separati, sia nella fase di analisi sia
nella realizzazione dell’azione progettuale. Alto e basso sono elementi considerati in
contrapposizione, più che in reciproco apprendimento.
Nelle esperienze indagate, al contrario, vediamo in opera arrangiamenti istituzionali
particolari, rapporti pubblico-privato inediti e non del tutto pianificati, che vengono a
definirsi come esito di un processo di cambiamento dal basso e dall’alto assieme. Tali
esperienze, più che definire una relazione dicotomica tra ciò che è istituzione e ciò che è
autorganizzazione, raccontano di meccanismi virtuosi di co-design di beni e decisioni
pubbliche.
Il caso di Altobello a Mestre vede negli ultimi anni lo sviluppo di diverse iniziative di
innovazione culturale e sociale per la rigenerazione urbana come esito di un percorso
pluriennale di “contratto di quartiere” che ha riqualificato la periferia di Mestre tramite un
rapporto di collaborazione virtuoso tra amministrazione comunale e uno studio di
architettura. Una di queste esperienze, Lab Altobello, si descrive come “un’esperienza di
welfare-mix, all’interno della quale il Comune di Venezia, Assessorato alle Politiche
Educative e della Famiglia, partecipa con la concessione dei locali, i bambini e i ragazzi della
Consulta comunale con le loro idee e proposte, le cooperative Sumo e Formaset con
progetti d’impresa sostenibili e attenti alla dimensione familiare7”.
La Casa di Quartiere di San Salvario a Torino è l’esito di un percorso di policy di lungo
periodo che aveva visto più di 10 anni fa la nascita dell’Agenzia di Sviluppo Locale
supportata dall’amministrazione comunale come strumento di sviluppo territoriale. Oggi la
Casa di Quartiere di San Salvario, aperta in uno spazio sfitto recuperato, è un polo di
inclusione sociale in un quartiere ad alto tasso di immigrazione ed offre servizi
polifunzionali per popolazioni e target diversi che riescono a trovare nella Casa un luogo di
aggregazione sociale.
Come per il caso di Mestre, anche a Torino è forte l’elemento di co-progettazione con il
pubblico, nonostante la gestione degli spazio sia totalmente delegata al privato. A Mestre,
come a Torino, assistiamo alla proliferazione di spazi privati che producono servizi pubblici,
secondo arrangiamenti organizzativi eterogenei.
Come i due casi presentati brevemente testimoniano, ci sono momenti in cui le
61
istituzioni possono riposizionarsi come garanti di inclusività, trasparenza e
accompagnamento alla sostenibilità (perché non si tratta solo di sostenibilità economica, ma
anche appunto di policy) di iniziative di rigenerazione che sarebbero potute al contrario
rimanere “singolari”, a beneficio di pochi o sarebbero potute terminare con l’esaurimento
della sola iniziativa privata.
Queste esperienze dal basso raccontano una relazione pubblico-privato che sta
ricostituendosi in epoca di crisi e di contrazione della spesa pubblica, ma anche come
conseguenza di “competenze nuove” che dal basso si innestano producendo nuove
narrazioni, bisogni e di conseguenza interventi di policy.
Queste sperimentazioni appaiono particolarmente interessanti in un contesto come
quello italiano dove i processi di partecipazione sembrano essersi svuotati di senso a seguito
di numerose occasioni mancate o utilizzati come strumenti ridotti, per buona parte, alla
costruzione del consenso [Savoldi, 2006; Gelli, 2005].
Rispetto a questo scenario, emerge invece un nuovo coinvolgimento dei cittadini
all’interno di processi di rigenerazione urbana dal basso. Parliamo di un coinvolgimento dei
cittadini nella costruzione di un “pubblico quotidiano” [Iannuzzi, 2013], giocato nel proprio
quartiere e nella vita di tutti i giorni che può imporre una revisione di alcuni meccanismi
dati per scontati sia nelle forme istituzionali come nella pratica professionale di diverse
discipline: architetti, urbanisti, operatori sociali e culturali, attivisti, scienziati sociali,
manager, dirigenti e politici. Sono quindi pratiche che in qualche modo pongono una sfida
alle politiche e mettono in agenda la necessità di un ripensamento dell’intervento pubblico
secondo forme più leggere, adattabili e capillari, da costruire di volta in volta sul contesto
con gli attori coinvolti ma con alcune routine codificate in base all’esperienza. Politiche
dove la relazione, le forme di conoscenza interattive, la dimensione operativa e la messa in
campo di sperimentazioni concrete diventano chiave. In questo senso l’istituzione, oltre che
un facilitatore, diventa un garante di alcuni valori fondamentali come l’universalismo, la
trasparenza e la durata.
Una prospettiva questa che fa eco ad un testo di Carlo Donolo [1997] dal titolo
L’intelligenza delle istituzioni secondo cui le istituzioni hanno il compito di garantire la
riproducibilità di ciò che la società detiene in comune, cercano di ovviare a processi di
deterioramento. Donolo considera le istituzioni “intelligenti” proprio perché capaci di
modificarsi nel tempo in quanto costrutti sociali più che attori prodotti normativamente.
Osservando tali sperimentazioni dal basso nel rapporto con le istituzioni emergono
alcuni nodi critici: pensiamo ad esempio all’arretramento/deresponsabilizzazione del
pubblico come esito della presa in carico di alcuni servizi pubblici da parte di soggetti del
privato sociale.
Il caso di Padova fa emergere in maniera chiara questa contraddizione [Mantovan,
Ostanel, 2015]. In un quartiere caratterizzato da profonda marginalità sociale,
l’amministrazione comunale decide da un lato di tagliare il sostegno alle unità di strada e ai
62
servizi sociali, dall’altro di investire più di un milione e mezzo di euro in un progetto di
pura riqualificazione fisico-urbanistica, associando il progetto ad una serie di interventi
“spettacolari” come l’uso di 22 ordinanze sindacali per il controllo dei negozi etnici in
cinque anni, il ricorso alle forze militari per il controllo del territorio, la decisione di non
concedere più licenze per negozi etnici in quartiere. L’animazione di comunità, come
l’assistenza sociale sono demandate quasi totalmente ad associazioni del privato sociale
senza nessuna garanzia di sostenibilità e continuità da parte dell’attore pubblico.
Ricadute socio-spaziali e fenomeni di esclusione
L’articolo tratta di rigenerazione urbana e innovazione sociale in periferia. In quartieri
che sono definiti iperdiversi8 [Tasan-Koc et al, 2014], l’immigrazione continua a definire
forme specifiche di inserimento interstiziale in contesti sociali in cui disoccupazione,
austerità e povertà rendono le società locali spazi sempre più contesi. In alcuni quartieri la
specializzazione etnica si sovrappone a fenomeni di esclusione e deprivazione, rafforzando
ulteriormente la polarizzazione dello spazio urbano. Soprattutto in questi quartieri la
prossimità non è sinonimo di riconoscimento e spesso gli abitanti storici considerano la
diversità come qualcosa che disturba quello che è familiare, mette in crisi le regole di
convivenza date per scontate, distrugge un passato mitico e rafforza un senso di insicurezza
[Marconi, Ostanel, 2016; Pastore, Ponzo, 2013]. Sono solitamente “spazi contesi” dove le
istituzioni erano latitanti ben prima che la crisi economica erodesse la possibilità di
intraprendere iniziative complesse di rivitalizzazione sociale e urbana. Come conseguenza
in diversi casi si sono radicalizzate le richieste di intervento, “umanizzando” il concetto di
degrado urbano e collegandolo alla presenza di diversità e immigrazione: si sono così
definiti progetti di intervento più spettacolari che efficaci, ispirati ai principi del controllo e
dell’estetica urbana [Cancellieri, Ostanel, 2015] più che del coinvolgimento e
dell’attivazione sociale. In diversi contesti, dove il pubblico è intervenuto tramite i
tradizionali processi di rigenerazione urbana, ha prodotto ricette di sviluppo top down che
sono risultate in nuove tensioni urbane e sociali [Flint and Raco, 2012], processi di
gentrification [Lees, 2008] o di esclusione.
Diversi autori sostengono che alcune iniziative dal basso in contesti di periferia abbiano
al contrario trasformato alcune relazioni di potere asimmetriche e ineguaglianze sociospaziali [Oosterlynck et al, 2013; Vicari, Moulaert, 2009] definendo processi di innovazione
nella collaborazione pubblico-privato molto diversi a seconda del contesto di osservazione.
Il caso di Rotterdam Charlois può dare materiale importante per approfondire cosa
accade quando processi di rigenerazione complessi top down incontrano pratiche dal basso
che hanno l’obiettivo di diventare agenti di trasformazione positiva in quartiere.
Charlois è un quartiere multiculturale dove sono presenti forti marginalità sociali: il 18%
delle famiglie accede ad un sussidio di disoccupazione o a benefit di altro genere. Solo il
63
60% delle famiglie vive grazie ad un reddito da lavoro. Per questo nel 2008 il quartiere viene
inserito in una lista di 40 in stato di bisogno dalla municipalità di Rotterdam.
L’amministrazione locale spinge affinché in quartiere inizi un processo di gentrification
(considerato positivo) e considera la classe creativa presente in quartiere uno tra i partner
di questa operazione. Già dal 1987 infatti un gruppo di artisti occupa alcuni stabili
inutilizzati nel quartiere iniziando un percorso che avrebbe portato Charlois ad essere
considerato un quartiere accogliente per artisti e creativi; nel corso degli anni vengono a
vivere in quartiere diversi artisti che sviluppano lì progettualità o iniziative estemporanee
dedicate alla rigenerazione urbana.
Tra i progetti più importanti realizzati vi è “Stichting-nac” realizzato in dalla Fondazione
NAC9 in collaborazione con le housing corporations del quartiere: 120 alloggi non utilizzati
vengono dati alla fondazione che li gestisce secondo una graduatoria di accesso dedicata ad
artisti e artigiani che vogliono andare a vivere e lavorare nel quartiere. Un secondo
progetto, realizzato assieme ad altri collettivi, è “Charlois aan het water”: uno spazio sul
waterfront destinato alla demolizione e riqualificazione che un gruppo di associazioni
artistiche del quartiere prende in gestione (per 5 anni, dall’amministrazione comunale) per
avviare un luogo di incontro aperto, dove l’arte e la promozione culturale diventino parte
di uno spazio che offre servizi diversi come doposcuola, corsi di lingua, babysitting,
formazione al lavoro.
L’articolo vuole porre al centro da un lato i punti di forza, dall’altro le contraddizioni di
queste esperienze dal basso che negli anni si sono sviluppate in quartiere. La classe
culturale e creativa a Charlois non ha di fatto ad oggi generato effetti spinti di
“museificazione della città”: in questi anni non si sono spostati a Charlois grandi curatori o
gallerie d’arte importanti, né si è sviluppata una vita notturna fatta di locali radical bo-bo;
sembra invece essersi sviluppato un approccio di cura del territorio particolare, fatto di una
serie di microprogetti sviluppati in rete tra più realtà che denotano un certo radicamento
delle iniziative artistiche e culturali che si sono sviluppate nel corso degli anni.
Allo stesso tempo però il quartiere è oggetto di un percorso di rigenerazione urbana
“classica” da parte dell’amministrazione comunale in collaborazione con il governo centrale
e in questo processo l’amministrazione locale considera la classe creativa e artistica come
un alleato e utilizza la presenza di questi collettivi da un lato come informatori, dall’altro
come punto di entrata in quartiere. In generale quello che la ricerca fa emergere è
l’impossibilità di tali pratiche dal basso di ovviare agli effetti, spesso perversi, di processi di
gentrification spinti, con effetti socio-territoriali irreversibili come l’espulsione di classi
sociali svantaggiate.
Ma c’è al contrario uno spazio di azione importante. Soprattutto in quartieri
caratterizzati da diversi accessi alla cittadinanza e alle forme di partecipazione politica
queste iniziative possono essere capaci di non riprodurre processi partecipativi elitari, che
escludono popolazioni marginali e producono esternalità positive solo per comunità chiuse
64
e autoreferenziali. Possono al contrario sperimentare forme di azione collettiva che sanno
coinvolgere e includere oltre le singole appartenenze, mobilitando forme di
protesta/resistenza a futuri o in corso fenomeni di espulsione.
Ciò che la ricerca fa emergere, al contrario di quello che accade nel caso di Padova, è
una rete variegata di soggetti che collaborano a progettualità dal basso in maniera
continuativa da anni e che ormai hanno generato routines, modalità di azione, capitale
sociale.
La questione centrale è la capacità di tali processi dal basso di configurarsi non come
pratiche comunitarie, ma pratiche pubbliche, utilizzando un concetto di ‘publicness’ che
non si riferisce tanto ad aspetti giuridici (per es. pubblico come Statale) o normativi, ma
piuttosto ad aspetti interazionali [Brighenti, 2011].
È chiave in questo ragionamento il concetto di empowerment che riprende una delle tesi
di questo articolo: che senza rapporto, non per forza pacificato, con le istituzioni tali
pratiche dal basso rischiano di mancare di sostenibilità e di peccare di “privatismo”. E
ancora, che particolarmente in contesti periferici, queste esperienze possano diventare
forme efficaci di rivendicazione sociale e leve per un diverso modello di sviluppo urbano.
Ragionamenti conclusivi: quali competenze e quale innovazione sociale
I casi presentati raccontano una diversa relazione di collaborazione tra cittadini e
istituzioni, tra cittadini e spazio urbano, capace da un lato di mettere in luce i limiti odierni
dell’azione pubblica sul tema della rigenerazione urbana, dall’altro di comprendere che
esistono variegate forze sociali prodotte dal basso da poter mobilitare in chiave collettiva.
L’Italia sta raccontando diverse storie di questo genere, nelle grandi città, come nelle
città di piccole e medie dimensioni.
Questo avviene anche e soprattutto in periferia: nonostante si continui a parlare di
riqualificazione mettendo l’accento sui temi della sicurezza (uso delle ordinanze sindacali,
forze di polizia speciali, telecamere, architetture antiseduta) e dell’estetica urbana (enfasi
sulla pura riqualificazione urbana) esistono invece forme di attaccamento al luogo peculiari,
risorse inattese, interstizi in cui inserirsi per progettualità radicalmente diverse. Leve di
sviluppo assolutamente peculiari che si dovrebbero saper cogliere in chiave di sviluppo
territoriale.
Il caso di Padova dimostra cosa accade invece quando questo importantissimo capitale
sociale non viene mobilitato: aumenta il conflitto sociale, si radicalizza il dibattito pubblico
contro le popolazioni più ai margini considerate causa del “degrado urbano”, aumenta
l’insicurezza percepita, diminuiscono le occasioni di scambio e incontro interculturale.
Troppo spesso quando si parla di innovazione si pensa di dover per forza ideare e
mettere in atto soluzioni radicalmente diverse, di rottura con il passato; ci si sofferma alla
ricerca di un evento spettacolare, lavorando solo sugli immaginari, oppure sul replicare in
65
maniera asettica “buone pratiche” apprese altrove.
L’innovazione dovrebbe invece essere considerata l’esito di un processo fortemente
contestuale [Donolo, Fichera, 1998] riportando di fatto il ragionamento sui temi dello
sviluppo locale in un’ottica di rigenerazione urbana [De Rita, Bonomi, 1998; Bagnasco,
2004]: le esperienze qui analizzate infatti utilizzano lo spazio urbano come volano per una
riappropriazione che va oltre il micro-spazio utilizzato, che partono da un innesto specifico
per definire progettualità che tagliano trasversalmente la città, sono azioni dove il sociale è
di fatto embedded nell’urbano e viceversa.
I casi qui discussi introducono diverse innovazioni di processo (di policy). Pensiamo
all’innovazione prodotta da diversi arrangiamenti di collaborazione tra istituzioni e forme
di azione collettiva, come al superamento di alcune tecniche partecipative per preferire
invece momenti di co-costruzione agendo direttamente nei quartieri da rigenerare.
Queste esperienze dimostrano una geografia più complessa degli attori in gioco che non
sono sempre attori collettivi, ma anche individuali o comunitari con ricadute pubbliche
[Melucci, 1998]. L’innovazione insita in tali sperimentazioni è di fatto quella di accrescere le
capacità di diversi soggetti di esercitare molteplici diritti spaziali [Lynch, 1981] a partire dai
vuoti e dagli interstizi della città. Le esperienze analizzate raccontano possibili spazi inediti
di rivendicazione sociale che allo stesso tempo non rimangono nel puto registro discorsivo,
ma pragmaticamente agiscono come leve di sviluppo endogeno.
Il termine innovazione sociale, quando sia legato alla rigenerazione urbana, mette al
centro altri elementi importanti. Il primo, non scontato, è il seguente: rigenerare un
territorio significa lavorare su e con i suoi abitanti.
Esistono storie e percorsi locali entro cui inserire un progetto di cambiamento e risorse
umane oltre che spaziali da poter mobilitare. Anche i conflitti sociali fanno parte di un
patrimonio che invece di essere controllato, dovrebbe essere lasciato esprimere verso il
cambiamento. Le esperienze analizzate cambiano il modo di pensare alla rigenerazione
urbana come macrointervento definitivo, non sempre possibile e auspicabile; esistono
esperienze di riuso temporaneo di successo che sono state utili a sperimentare forme di
utilizzo inedite che poi sono diventate parte integrante di quartieri; esistono poi interventi
anche massicci di rigenerazione che hanno saputo procedere per stralci, coinvolgendo per
fasi successive soggetti interessati e producendo spesso sinergie inedite sia nelle forme di
partnership che di finanziamento.
La ricerca fino a qui condotta ha enumerato anche una serie di punti di debolezza da
tenere in considerazione Tra questi, due sono importanti: l’effetto di deresponsabilizzazione
del pubblico, il fatto che, come effetto sottoprodotto, queste esperienze spesso diventino
coadiuvanti di percorsi di esclusione/espulsione.
Le esperienze che stanno cambiando dal basso parti di città, quartieri e piccoli comuni,
in Italia come in Europa, rendono urgente un ripensamento delle forme del progetto per la
rigenerazione urbana come delle competenze che devono essere messe in campo, sia nelle
66
istituzioni, sia nei progetti dal basso, per realizzare azioni di sviluppo sostenibili. In attesa
di questo cambio di passo alcune figure professionali non ancora “codificate” riescono ad
agire come facilitatori, connettori e attivatori di percorsi di rigenerazione urbana e
innovazione sociale.
Bibliografia
Bagnasco A.
2004 Tracce di Comunità, Il Mulino, Bologna.
Boltanski L., Thévenot L.
1991 ‘De la justification: les économies de la grandeur’, Edition Gallimard.
Brighenti A. M.,
2011 Pubblico e comune: un’approssimazione alla loro articolazione contemporanea,
“Tecnoscienza”, no. 2(2), pp. 85-101.
Cancellieri A., Ostanel E.
2015 The Struggle for Public Space: the Hypervisibility of Migrants in the Italian Urban
Landscape, City: analysis of urban trends, culture, theory, policy, action, 19 (4), Routledge,
Taylor and Francis.
De Rita G., Bonomi A.,
1998 Manifesto per lo sviluppo locale. Dall’azione di comunità ai Patti territoriali, Bollati
Boringhieri, Torino.
Donolo C.
1997 L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano.
Donolo C., Fichera F. (ed.)
2009 Le vie dell’innovazione. Forme e limiti della razionalità politica, Feltrinelli, Milano.
Flint, J. and Raco, M. (ed.)
2012 The Future of SustainableCities: CriticalReflections, Policy Press, Bristol.
Gelli F.,
2005 La democrazia locale tra rappresentanza e partecipazione, FrancoAngeli, Milano.
Garcia M.
2006 Citizenship Practices and Urban Governance in European Cities, “Urban Studies”,
vol. 43 no. 4, pp. 745-765.
Iannuzzi M.
2003 PubblicoQuotidiano. Beni collettivi a Gela tra intervento dal basso e regolazione
statale, Tesi di dottorato, Università Roma Tre.
67
Lees, L.
2008 Gentrification and social mixing: towards an inclusive urban renaissance?, “Urban
Studies”, 45, pp. 2449–70.
Lindblom C., Cohen D.K.
1979 Usable Knowledge: Social Science and Social Problem Solving, Yale University Press.
Lynch, K.,
1981 A Theory of Good City Form, MIT Press, Cambridge MA and London.
Mantovani, C. – Ostanel, E.
2015 Quartieri contesi. Convivenza, conflitti e governance nelle zone stazione di Padova
e Mestre, FrancoAngeli, Milano.
Marconi G., Ostanel E., (ed)
2016 The Intercultural City: Migration, Minorities and the Management of Diversity, IB
Tauris, London.
Marcuse P., Van Kempen R.
2000 Globalizing Cities: A New Spatial Order?, Springer.
Melucci, A.
1998 Verso una sociologia riflessiva. Ricerca qualitativa e cultura, Bologna, Il Mulino.
Oosterlynck s., Kazepov Y., Novy, A., Cools P., Barberis E., Wukovitsch F., Sarius T., &
Leubolt B.
2013 The butterfly and the elephant: local social innovation, the welfare state and new
poverty dynamics, Improve Working Papers, No. 13/03.
Ostanel E., Iannuzzi M.
2015 Fare città, dal basso: tra pratiche identitarie e pratiche pubbliche, Ibidem 4/2015,
Planum. “The journal of urbanism”, pp. 38-43.
Pastore F., Ponzo I.
2012 Concordia Discors. Convivenza e conflitto nei quartieri di immigrazione, Carocci,
Roma.
Savoldi P.
2006 Giochi di partecipazione. Forme territoriali di azione collettiva, FrancoAngeli,
Milano
Tammaru T., Marcińczak S., van Ham M., Musterd S.
2016 Socio-Economic Segregation in European Capital Cities. East meet west. Routledge,
Taylor and Francis.
Tasan-Koc T., Van Kempen R., Raco, M., Bolt G.
68
2014 Towards Hyper-Diversified European Cities. A Critical Literature Review,
DIVERCITIES Project Report.
Vertovec, S.
2007 Super-diversity and its implications,“Ethnic and Racial Studies”, Vol. 30, Issue 6, pp.
1024-1054.
Vicari S., - Moulaert F.
2009 Rigenerare la città, il Mulino, Bologna.
6 A Padova e Rotterdam è stata condotta una ricerca-azione sul campo, ancora in corso, che ha utilizzato un approccio multi-metodo; a Padova la
ricerca è iniziata nel 2012 all’interno del progetto finanziato dal Fondo Europeo per l’Integrazione “Mediare.com. Percorsi di comunità attraverso la
mediazione” ed è proseguita fino al 2015, in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova. La ricerca è stata condotta
utilizzando diversi metodi di analisi qualitativa come l’osservazione partecipante, interviste in profondità, analisi del discorso pubblico, focus group
con gruppi di abitanti, analisi dei documenti di policy e, infine, analisi dei dati di sfondo. La ricerca-azione sta continuando attraverso l’ideazione e
realizzazione di alcuni progetti di innovazione culturale per la rigenerazione urbana. I risultati della ricerca sono pubblicati Mantovani-Ostanel 2015.
A Rotterdam la ricerca è stata condotta nel 2015 all’interno del progetto Charmeuse Charlois, finanziato dal Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e del Turismo: è stata utilizzata una metodologia sperimentale di collaborazione con un progetto artistico che aveva l’obiettivo di “creare il
pubblico” per uno spazio di quartiere di nuova apertura. Nel corso della ricerca sono stati intervistati in profondità attori chiave (amministrazione
nazionale, amministrazione locale, collettivi artistici, fondazioni, artisti, attivisti e politici) e sono state realizzate interviste collettive a cittadini
immigrati nel quartiere con lo strumento del focus group.
I casi di Altobello a Mestre e San Salvario a Torino, analizzati come casi studio durante il Master di Rigenerazione Urbana e Innovazione Sociale
dell’Università Iuav di Venezia, vengono utilizzati in questo Paper per definire traiettorie di approfondimento situate su alcune questioni peculiari che
le ricerche condotte sul campo hanno posto all’attenzione.
7 Dal sito del progetto http://www.labaltobello.it/
8 Partendo dal concetto di superdiversity di Vertovec [2007], recenti ricerche hanno introdotto il concetto di hyperdiversity per porre l’attenzione
sulle molteplici dimensioni della differenza, oltre a quella legata alla provenienza nazionale.
9 Fondazione culturale e artistica che nasce dalla da alcuni membri di B.a.d (il collettivo formalizzato dopo l’occupazione del 1987) più alcuni
abitanti del quartiere per la realizzazione di questo progetto specifico.
69
Roberta Marzorati, Michela Semprebon
La gestione sociale: la grande sfida dei progetti di housing sociale a Milano tra intervento
pubblico e privato.
Una riflessione a partire dal caso di ViaPadova36.
Introduzione
La questione abitativa in Italia rappresenta da decenni un nodo problematico, in
particolare dagli anni ’70, quando si è esaurita la stagione dell’edilizia residenziale pubblica.
Ha riguardato in maniera crescente non solo i soggetti più poveri ma anche quelli
appartenenti alla classe operaia e alla classe media [Tosi 2008]. La recente crisi economica,
insieme ai tagli del welfare e al disinvestimento nell’edilizia residenziale pubblica, non ha
fatto che esacerbare la povertà abitativa. Tuttavia, nonostante le risorse per la ERP siano
state progressivamente ridotte, sono emersi nuovi attori e nuove forme progettuali nel
campo abitativo: il settore non profit e l’housing sociale.
Il termine “housing sociale” si riferisce a “un’area di politica abitativa non ricompresa
nella tradizionale edilizia residenziale pubblica e che da questa si differenzia per la
flessibilità, il target (non i più poveri ma una fascia più ampia di persone in difficoltà) e i
soggetti coinvolti (attori pubblici ma anche del privato e non profit)” [Fondazione Anci
Ricerche, 2010, p. 52].
In seguito ad un percorso iniziato più di un decennio fa, l’housing sociale in Lombardia
si sta consolidando. Dalla prima esperienza milanese, il Villaggio Barona (edificato nel 2002
su iniziativa della Fondazione Cassoni), nasce, nel 2004, la Fondazione Housing Sociale
(FHS), emanazione di Fondazione Cariplo, con la partecipazione di Regione Lombardia e
ANCI Lombardia. FHS è stata costituita dalla volontà di superare le procedure urbanistiche
in uso fino a quel momento nel governo delle trasformazioni del territorio e negli
interventi per la realizzazione di edilizia residenziale pubblica. Nasce con l’intento di
promuovere nuovi strumenti negoziali che superino le rigidità dei bandi tradizionali, per
aprire il campo a nuove forme di partecipazione del settore non profit nel campo delle
politiche abitative [Capelli 2014]. In questo senso, FHS si è posta come obiettivi la
promozione della finanza etica, in primis di fondi immobiliari (è del 2005 l’istituzione del
Fondo Abitare 1), lo sviluppo di modelli gestionali non profit e il partenariato con la
70
Pubblica Amministrazione [Galeazzi – Valsesia 2013]. La nascita di FHS e la comparsa
dell’housing sociale in Lombardia sono il risultato di un movimento adattivo tra interessi
pubblici e privati favoriti dal quadro legislativo e politico-amministrativo. Gli esiti di questo
processo non sono semplici forme di partenariato pubblico-privato ma forme avanzate di
“contrattualizzazione delle politiche”, in cui non solo cambiano gli attori in gioco, ma
anche le “logiche di regolazione dell’azione pubblica”.
Recentemente si è compiuto un ulteriore passo avanti rispetto all’obiettivo del non profit
di dialogare e lavorare con l’Amministrazione Pubblica e di giocare un ruolo sempre più
importante nelle politiche abitative. Nel 2012 è stato sottoscritto il “Patto regionale per la
casa” con linee di intervento su welfare abitativo, offerta abitativa in affitto, progetti di
riqualificazione urbana, rilancio delle Aler; particolare rilievo assumono anche la diffusione
delle buone pratiche di housing sociale e i temi della sicurezza e della socialità.
Il dibattito in questo senso è proseguito con il “Laboratorio Sociale”, che ha visto
coinvolti diversi attori dell’abitare, e che oltre ad affrontare i temi della gestione
immobiliare di patrimoni in locazione (manutenzione, riscossione dei canoni d’affitto, ecc.),
tenta di far emergere un approccio che ha come perno il coinvolgimento delle comunità
residenti e un continuo scambio con il territorio. Si tratta di obiettivi che l’housing sociale
in Lombardia persegue da sempre e che sono impliciti nel ruolo stesso del gestore sociale.
Con l’housing sociale si è dato avvio a sperimentazioni innovative nella concezione
stessa dell’“abitare”. Ci riferiamo in particolare al ruolo del “gestore sociale” che, oltre alla
gestione dell’immobile, si occupa della “costruzione” della comunità di residenti in base a
criteri di mix sociale, attività di accompagnamento, promozione della socialità e del buon
vicinato ed infine perseguimento di obiettivi di coesione sociale e integrazione all’interno
dei condomini e nei quartieri [Del Gatto - Ferri - Pavesi 2012].
Il principio di mix sociale è un principio fondamentale che regola la costruzione della
comunità nei progetti di housing sociale in Italia. Ispira le politiche abitative europee ormai
da decenni ed è stato ampiamente studiato, con risultati che ne mostrano per lo più le
debolezze [Marzorati – Semprebon 2015]. Gli studi concordano generalmente nel
sottolineare l’importanza di fattori quali buona manutenzione, configurazioni spaziali
includenti e iniziative di promozione della socialità, affinché si producano interazioni
positive fra residenti. Nelle politiche italiane il mix sociale ha fatto capolino molto più
recentemente [Mugnano – Palvarini 2013] e come all’estero è stato fortemente criticato
[Agustoni – Aglietta 2015]. Bricocoli e Cucca [2014] sottolineano il rischio che sia utilizzato
(nei progetti del privato sociale) come retorica che legittima nuove disuguaglianze e forme
di segregazione spaziale. Sono preoccupazioni condivisibili soprattutto se pensiamo alle
interminabili liste di attesa ERP, all’enorme patrimonio sfitto e ai soggetti che non riescono
a sostenere i costi del mercato dell’affitto a Milano. Si tratta di problemi che si sono
esacerbati in questi ultimi anni, proprio mentre l’housing sociale si affermava come nuova
via nelle politiche abitative, offrendo però soluzioni a una piccola parte della popolazione e
71
non a quella maggiormente in difficoltà1. È però interessante notare come a fronte della sua
crescente rilevanza a Milano, manchi una mappatura che permetta di farne una valutazione
critica. Con questo paper intendiamo dare un primo contributo, concentrandoci
sull’esperienza di ViaPadova36 e su una dimensione centrale, eppure ancora poco studiata:
la “gestione sociale”. Le nostre riflessioni si basano su uno studio etnografico del progetto
nel suo “farsi”, realizzato fra il maggio 2014 e il febbraio 2016.
Descrizione e obiettivi del progetto
ViaPadova36 è un progetto di housing sociale che ha preso il via nella primavera del
2014. É la continuazione del progetto Maison du Monde, realizzato da Fondazione Cariplo in
collaborazione con FHS2, che ha portato alla ristrutturazione di un edificio storico situato
in Via Padova 36. Ora l’edificio appartiene a Investire Immobiliare SGR SPA e all’Impresa
Sociale a.r.l Abitare Sociale Metropolitano (ASM)3.
Il progetto fornisce 41 appartamenti a prezzi calmierati (giovani coppie, famiglie e target
specifici come padri divorziati con figli). Comprende inoltre una comunità per minori e una
residenza sociale per single e famiglie, che necessitano di supporto nella costruzione di una
carriera abitativa autonoma, e individui che cercano un alloggio temporaneo (studenti,
parenti di persone ospedalizzate, ecc.). L’obiettivo è di sperimentare una forma alternativa
di abitare comunitario e di favorire la coesione sociale nell’edificio e nel quartiere. Infatti il
progetto è stato pensato appositamente per il quartiere di via Padova, con la sfida di
contribuire, con la valorizzazione di risorse umane e materiali, al ribaltamento dello stigma
di cui soffre.
ViaPadova36 è stato realizzato in base a principi di mix sociale e funzionale. Il mix
sociale è basato su tempo di residenza nel condominio, ossia nuovi e vecchi condomini, età
e nazionalità. 13 unità abitative sono destinate a famiglie straniere (Sri Lanka, Perù,
Marocco, Senegal, Albania), 22 a famiglie italiane, alcune alle cooperative proprietarie e
tutte le altre a residenti con bisogni speciali o temporanei. Ai vecchi condomini, che
abitavano nell’edificio prima delle ristrutturazione, è stata data la possibilità di scegliere se
rientrare o trasferirsi; i nuovi residenti sono stati selezionati da ASM a seguito di un bando
pubblico.
Il mix funzionale riguarda l’apertura di due negozi al piano terra: un negozio di
abbigliamento di seconda mano e un caffè solidale. Sono una “finestra” del condominio sul
quartiere e sono finalizzati a promuovere la socialità e uno stile di vista sostenibile.
ASM, oltre ad essere proprietario, è responsabile della gestione degli appartamenti,
insieme a quattro cooperative sociali: La Cordata, Filo d’Arianna, La Strada e Farsi
Prossimo. In linea con il modello di housing sociale di FHS, ViaPadova36 si caratterizza per
una forma di gestione non profit che privilegia una gestione integrata, coordinata e
condivisa del condominio, attraverso l’inclusione di vari attori, fra cui il gestore sociale
72
(ASM stesso) con un compito di property e facility management e di accompagnamento e
costruzione della comunità.
“Il progetto dovrebbe contribuire all’attivazione di relazioni fra i residenti che dovrebbero a loro volta stabilire relazioni con i
vicini di via Padova (…) [è pensato come] un luogo di promozione di attività culturali, commerciali e sociali, un luogo dove la
diversità sia uno strumento per facilitare la coesione sociale nel condominio, nel quartiere e nella città.” (Collaboratrice FHS 27
maggio 2014). Promuove un concetto di casa differente come “uno strumento con il quale puoi agire tutta una serie di
interventi sociali, educativi e pedagogici (…) verso (…) la ricomposizione della frammentazione sociale che oggi abbiamo sulla
città” (Responsabile gestione sociale 23 giugno 2014).
ViaPadova36 si trova come detto nell’omonimo quartiere multietnico. Si tratta di un
quartiere con un’alta presenza di residenti stranieri, che è stato negli anni oggetto di una
costruzione mediatica particolarmente negativa e che presenta problematiche legate
all’abitare e agli usi dello spazi pubblici. Della decostruzione di questi stereotipi e del
miglioramento della convivenza si è occupato il vasto ed eterogeneo tessuto associativo, in
primis l’Associazione Amici del parco Trotter e il coordinamento di associazioni e cittadini
“Via Padova è meglio di Milano”, che per anni ha organizzato l’omonima festa. Sebbene i
residenti abbiamo tacciato di latitanza le amministrazioni comunali che si sono avvicendate,
negli anni più recenti si è assistito a una rinnovata attenzione a questo (e altri quartieri),
per quanto i risultati debbano essere ancora valutati. Ad esempio, il Comune ha istituito
qui, insieme ad alcune cooperative, il Laboratorio di via Padova, che intende sperimentare
interventi sull’abitare e sull’accompagnamento sociale, ponendosi la sfida di agire in un
contesto in cui la totalità del patrimonio abitativo è privato.
I soggetti e le sfide della “gestione sociale” in ViaPadova36
Una parte fondamentale del progetto di ViaPadova36 è rappresentata dalla gestione
sociale che prevede l’attivazione di due figure, il “gestore sociale” e le “famiglie
consapevoli”, che si ritrovano anche in altri progetti, ma che presentano qui alcune
specificità. La prima figura è rappresentata da un’operatrice socio-educativa il cui ruolo
consiste nella costruzione e accompagnamento della comunità, nel seguire il pagamento
degli affitti, la manutenzione ordinaria, le autorizzazioni dei proprietari per l’utilizzo degli
spazi comuni all’interno del condominio e altre questioni amministrative, oltre che nel
fornire un supporto nella mediazione di eventuali conflitti tra condomini e proprietari e tra
gli stessi condomini. Il gestore sociale dispone di un ufficio all’interno dell’edificio, aperto
in specifici giorni/orari della settimana, anche se la sua presenza va al di là degli orari
d’ufficio: il progetto necessita di essere monitorato e i condomini accompagnati nelle
questioni pratico-logistiche, amministrative e in quelle di convivenza, non solo nella fase di
inserimento ma anche nelle fasi successive e in generale nella quotidianità.
La seconda figura sono le famiglie consapevoli. Si tratta di cinque giovani coppie, tra i 20
e i 30 anni di età, che hanno aderito al progetto come nuovi condomini. Hanno un profilo
omogeneo: sono di nazionalità italiana, classe media e livello educativo alto. Tutte
73
sperimentano per la prima volta sia la convivenza di coppia che la convivenza in un
progetto di housing sociale. Il loro ruolo come famiglie consapevoli è stato assegnato
(informalmente) dal gestore sociale, in seguito ad un colloquio di selezione, tenendo conto
della loro disponibilità e della predisposizione ad un coinvolgimento attivo. Infatti, le
famiglie consapevoli hanno scelto di entrare nel progetto sia perché erano alla ricerca di
una casa con un canone di affitto sostenibile, sia per il desiderio di sperimentare una forma
alternativa di “abitare comunitario” nel condominio e nel quartiere, che conoscevano come
“multietnico e problematico”. Nelle intenzioni del gestore sociale, queste famiglie
dovrebbero essere un punto di riferimento per i condomini e contribuire ad attivare le
relazioni all’interno del condominio, attraverso il contatto quotidiano con i vicini e
l’organizzazione di attività di socializzazione.
Fin dal loro inserimento le famiglie consapevoli si sono organizzate per incontrarsi con
cadenza regolare, nell’ufficio del gestore sociale, per confrontarsi sulla convivenza
all’interno di ViaPadova36 e per progettare attività. Hanno poi organizzato feste di
condominio (aperte anche agli abitanti del quartiere e della città), serate di cinema
all’aperto e un doposcuola per i bambini residenti nel condominio. Non hanno un budget a
disposizione e questo rappresenta un limite. Un altro potenziale limite è dato dal fatto che
ogni attività, negli spazi comuni, deve essere preventivamente autorizzata da tutti i
proprietari; ciò comporta una procedura burocratica che può rallentare i tempi e
scoraggiare le iniziative “last minute” più spontanee.
Va notato che la partecipazione a tali iniziative da parte dei vecchi condomini è stata
finora scarsa. In parte ciò è dovuto al fatto che si è deciso di coinvolgerli poco nella fase
iniziale, lasciando loro il tempo di “sistemarsi” e godersi un po’ di pace dopo i disagi subiti
con i lavori di ristrutturazione. Alcuni hanno tuttavia mostrato entusiasmo rispetto alla
“nuova” vita del condominio, per quanto questo non sia affatto scontato.
Per quanto riguarda lo scambio fra condominio e quartiere, le famiglie consapevoli
hanno collaborato al progetto “Piacere Milano” (http://www.piaceremilano.it/en/) e nel 2014,
gli spazi del condominio sono stati messi a disposizione per la festa di “Via Padova è meglio
di Milano”. Il gestore sociale ha inoltre preso parte al Tavolo del Laboratorio di via Padova.
Nei primi mesi di insediamento dei nuovi condomini, a fronte di una situazione di
convivenza pacifica sono emerse alcune tensioni legate al rispetto di regole tacite (usare
spazi comuni, fumare nei corridoi, ecc.) e meno (raccolta dei rifiuti, ecc.). Tali tensioni sono
sfociate in lamentele prese a carico, e in larga parte arginate, dal gestore sociale e dalle
famiglie consapevoli, attraverso il dialogo e la ricerca di compromessi. In generale, i
condomini intervistati hanno descritto ViaPadova36 come un contesto di bassa
conflittualità. D’altro canto ci chiediamo se questo non suggerisca che la vita sia meno
“comunitaria” di quanto sperato e che i condomini si incontrino raramente, anche in
ragione di tempi e ritmi di vita diversi. Ci sembra poi ragionevole chiederci se i conflitti
possano nascere ed esacerbarsi nel tempo a causa di visioni divergenti della vita
74
condominiale.
Secondo le descrizioni dei vecchi condomini, quando il condominio era gestito dal suo
fondatore, Marco Mantovani, era un condominio signorile. Non si giocava nel cortile, né
nei corridoi. Tutti i condomini si conoscevano ed erano quasi totalmente di nazionalità
italiana. Con l’avvio del progetto ViaPadova36 i vecchi condomini si sono trovati con nuovi
vicini di casa, sia italiani che stranieri, con presenze temporanee e con soggetti in
condizioni di vulnerabilità. In uno spazio relativamente piccolo di soli 40 appartamenti, si è
“costruita” una comunità molto diversificata e complessa che pone delle sfide nel vivere
quotidiano che vanno al di là delle normali dinamiche di condominio. Da questo punto di
vista ci sembra che il ruolo del gestore sociale (e delle famiglie consapevoli) sia cruciale
nell’ottica della socializzazione, per poter promuovere forme di incontro che altrimenti
potrebbero non presentarsi e che comunque non possono essere date per scontate solo in
virtù della prossimità fisica.
Dopo circa un anno dall’insediamento dei nuovi condomini, sono sorti problemi legati
alla gestione finanziaria, alle spese condominiali nello specifico. Questa situazione ha
parzialmente frenato la dimensione sociale del progetto - come potrebbe succedere anche
con le varie situazioni di morosità che si stanno presentando. Allo stesso tempo ha
mostrato come la molteplicità dei ruoli del gestore possa costituire un elemento critico, da
un lato, e positivo dall’altro. Il gestore sociale si è fatto carico di alcune funzioni, per
quanto non di sua competenza, che si è trovato a “dover” assumere in ragione della sua
presenza regolare nel condominio. Di fatto alcuni condomini lo considerano alla stregua di
un amministratore di condominio, figura che comunque esiste, ma che si è rivelata poco
efficiente nella comunicazione con i condomini. Da un lato questo ruolo non ufficiale
assunto spontaneamente dal gestore sociale ha portato i condomini a “scaricare”
sull’operatrice le problematiche emerse e le relative tensioni – che hanno a loro volta
comportato un rallentamento nella progettazione delle attività di socializzazione che danno
maggiore “visibilità” al progetto, fermo restando che le attività più ordinarie (come il
doposcuola per i bambini del condominio) sono proseguite senza interruzioni. Dall’altro
lato la duplicità di ruoli assunti dall’operatrice del gestore sociale le ha permesso di essere
più vicina ai condomini nelle “questioni pratiche della vita quotidiana”. Questo ha favorito
un ulteriore avvicinamento che a sua volta potrebbe contribuire positivamente allo
sviluppo delle attività di accompagnamento, grazie ad una rinnovata fiducia reciproca.
Durante le nostre interviste è emerso con chiarezza come la disponibilità di spazi
comuni sia indispensabile per facilitare l’incontro e la socializzazione tra condomini.
Tuttavia, il cortile interno è l’unico spazio comune (aperto) disponibile, visto che le sale
espositive (coperte) della Fondazione Mantovani, che si trovano anch’esse in ViaPadova36,
non sono ancora state messe a disposizione dalla Biblioteca Ambrosiana, che ne è
proprietaria.
I negozi - di cui abbiamo accennato, con i loro obiettivi di promozione della socialità e di
75
uno stile di vita etico - rappresentano indubbiamente una risorsa per il quartiere. Tuttavia
tali obiettivi ci sembrano piuttosto ambiziosi. Il caffè, dati i prezzi proporzionalmente più
elevati dei prodotti solidali, è probabilmente accessibile ad un’utenza (omogenea) che
comprende soggetti di classe media e non agli abitanti del quartiere in generale. Oltre a ciò,
entrambi i negozi sembrano rispondere a una logica di rottura dell’offerta commerciale di
via Padova, fatta in gran parte di negozi gestiti da stranieri e da alcune botteghe storiche.
Ci chiediamo in che misura questo possa contribuire al processo di gentrification e
branding del quartiere, di cui ultimamente ci sono stati dei segnali forti4.
Conclusioni
Dalla nostra analisi e dal confronto con vari colleghi, pensiamo di poter sostenere che
non esista un modello “ideale” di gestione sociale, ma che tale modello debba essere
necessariamente ancorato, di volta in volta, al contesto specifico e soprattutto che vada
costruito passo per passo con i condomini. La gestione sociale deve essere un processo
costante che accompagna il progetto in tutte le sue fasi ed essere sufficientemente flessibile
per potersi adattare alle esigenze emergenti “in corso d’opera”.
Auspichiamo di poter realizzare un monitoraggio puntuale e una valutazione
complessiva dei progetti di housing sociale a Milano, considerando il crescente spazio che
occupano nel più ampio spettro dell’abitare. Nel caso di ViaPadova36 è evidente come il
ruolo del gestore sociale sia particolarmente complesso, considerando che si occupa sia
della gestione immobiliare che sociale e che deve condividere le scelte gestionali con
quattro diverse cooperative. Tuttavia, la nostra ricerca ha mostrato come talvolta sia
proprio la molteplicità dei ruoli, in alcuni casi assunti informalmente, a favorire la gestione
sociale nel suo complesso.
Nel condominio sono emerse tensioni, in relazione a stili di vita diversi e a diversi
significati dell’abitare ma anche e forse soprattutto, a questioni economiche. Non va
sottovalutato che il progetto ha portato alla costruzione di una comunità molto complessa
che comprende numerose micro-categorie di gruppi sociali. Questo comporta il rischio che
nel nome del mix sociale si producano nuove classificazioni e quindi separazioni che
scoraggino anziché favorire la coesione sociale, con l’emergere, per esempio, di relazioni
basate sull’ “assistenza” più che sull’incontro.
Il ruolo del gestore sociale ed in particolare quello delle famiglie consapevoli può essere
utile in questo senso. Può essere criticato per l’omogeneità dei profili delle famiglie che
difficilmente può favorire la costruzione “corale” della comunità e per il suo carattere “topdown” che poco si sposa con l’idea della “costruzione” di una comunità condivisa. Allo
stesso tempo non è scontato che le relazioni si creino spontaneamente e in questo senso il
loro impegno può effettivamente contribuire a promuovere forme di socialità e in ultimo di
coesione sociale nel condominio. Si tratta di figure che possono ispirare il ruolo di altre
76
figure, seppur diverse, come quelle del portiere sociale, ecc. Guardare a queste esperienze
può servire all’amministrazione pubblica per immaginare nuove forme di solidarietà nei
condomini e nei quartieri, che quindi si espandano fuori dai progetti di social housing (ad
esempio nell’ambito di iniziative di inclusione e innovazione come quelle del welfare di
condominio).
Rispetto all’impatto del progetto sul quartiere vediamo il rischio di una lettura naif che
sottovaluti la complessità del tessuto in cui si inserisce. Il rischio che ravvisiamo è che da
una parte viaPadova36 più che integrarsi nel contesto locale e influenzarlo positivamente
resti un’esperienza chiusa su se stessa; dall’altra parte che contribuisca sì alle dinamiche di
riqualificazione del quartiere ma in un’ottica di espulsione delle fasce più deboli e di
attrazione di classi medie. Inoltre, via Padova è un tessuto civico stratificato, fatto di
soggetti che vi lavorano da anni e attraversato anche da conflitti profondi: l’inserimento di
un nuovo attore, che si presenta come esempio virtuoso di “pratica abitativa” può avere un
impatto positivo ma ciò non è scontato. In questo senso si auspica che i progetti di housing
sociale non restino “isole felici” chiuse su se stesse nei quartieri, ma che ci offrano effettive
opportunità di scambio e dialogo tra progettualità diverse.
In questo contesto ci sembra fondamentale il ruolo dell’Amministrazione Pubblica, che
deve agire nei quartieri in base ad una logica includente, lavorando prima di tutto sulle
questioni strutturali, come l’accesso alla casa, e sui temi di convivenza e integrazione fra
gruppi. Piccoli passi sono stati fatti con il Laboratorio di quartiere, e altri, sulla città in
generale, con l’attenzione al mercato dell’affitto (Agenzia Milano Abitare). Inoltre il dialogo
del settore pubblico con il non profit deve proseguire ma con un ruolo di regia del
pubblico. Tale ruolo dovrebbe tradursi in un attento monitoraggio e nella valutazione dei
progetti di social housing e dell’impatto che hanno sui quartieri e su Milano - in linea con
l’idea di città includente che il Comune vuole perseguire. Ciò per evitare una totale e
acritica delega al non profit nel nome di un decantato approccio che non è per forza
“social”.
Bibliografia
Agustoni, A. - Alietti, A.
2015 Il Social Mix. Riflessioni su una politica Di Contrasto Alla Disuguaglianza SocioSpaziale, in “Sociologia Urbana e Rurale”, n. 108, pp. 7-18.
Bricocoli, M. - Cucca R.
2014 Social Mix and Housing Policy: Local Effects of a Misleading Rhetoric. The Case of
Milan, in “Urban Studies”, n. 53, pp. 1-15.
Capelli, E.
2014 Abitare a Progetto. Le competenze, i territori e le politiche del social housing. Tesi
77
di dottorato. Dipartimento di Architettura, Università di Roma Tre.
Del Gatto, M.L. - Ferri, G. - Pavesi A.S.
2012 Il gestore Sociale quale garante della sostenibilità negli interventi di Housing
Sociale,
“Techne”
n.
4
http://www.programmaurbano.it/attachments/article/148/ALLEGATO%20GESTORE%20SOCIALE.pd
Cittalia
2010 I Comuni e la questione abitativa. Le nuove domande sociali, gli attori e gli
strumenti operativi?
Galeazzi, C. - Valsesia, M.
2013 Laboratorio sociale. Verso la definizione di nuovi modelli di gestione residenziale,
Ed. Regione Lombardia, Milano.
Marzorati, R. - Semprebon, M.
2015 Building community in and out ViaPadova36: the challenge of a social mix housing
project in a multiethnic Milanese neighbourhood, in “Sociologia Urbana e Rurale”, n. 108,
pp. 69-85.
Mugnano, S. - Palvarini P.
2013 Sharing Space without Hanging Together: A Case Study of Social Mix Policy in
Milan, in “Cities”, n. 35, pp. 417–22.
Tosi, A.
2008 Le case dei poveri: ricominciare ad annodare i fili, in “La vita nuda”, a cura di
Bonomi, Triennale Electa, Milano, pp. 151-162.
1 Per un’interessante riflessione critica sull’housing sociale, accompagnata da proposte concrete, si veda OFF TOPIC, 2016 “Pieghevole #4 - La casa
dei sogni”. Disponibile alla pagina http://www.offtopiclab.org/pieghevole/
2 Il progetto consiste nella ristrutturazione di un edificio del XIX secolo donato dall’artista Marco Mantovani alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana
e finanziato attraverso il Fondo Immobiliare Lombardia da Polaris Real Estate SGR Spa, Regione Lombardia and Fondazione Cariplo.
3 Consorzio Sistema Imprese Sociali, Consorzio Farsi Prossimo, Cooperativa sociale Chico Mendes onlus, Cooperativa sociale La strada Onlus.
4 Ci riferiamo in particolare al successo che sta avendo il brand NoLo (North of Loreto). Vedi: http://goo.gl/oglTQQ
78
Terza parte
Pratiche e politiche per l’inclusione sociale
Cristina Pasqualini
Il quartiere del Terzo Millennio: le social street a Milano e provincia
Dalle strade sociali alle strade sociali 2.0
A ben vedere le social street non sono un fenomeno del tutto nuovo, ma sono
indubbiamente un fenomeno innovativo. Mentre le strade sociali sono sempre esistite, le
strade sociali 2.0, altrimenti dette social street, decisamente no. Queste ultime sono le strade
sociali del nostro tempo, sono il portato della Rete. Sono un caso d’innovazione sociale,
perché hanno trovato un modo innovativo per raggiungere un obiettivo classico:
promuovere la socialità tra vicini di casa passando in primis attraverso la Rete, senza
tuttavia fermarsi al Web, ma scendendo in strada. Hanno una natura ibrida, virtuale e reale
al contempo. E, per certi aspetti, recuperano un’antica attitudine umana, che è andata via
via scomparendo soprattutto nelle grandi città: condividere e collaborare con chi è prossimo
nello spazio fisico, con spirito di gratuità. La parola “dono disinteressato” è la parola chiave
delle strade sociali 2.0, che ne magnifica la loro bellezza e bontà: conoscere, socializzare,
aiutarsi tra vicini, per il piacere di farlo, senza nessun tornaconto personale o di altra
natura.
Facciamo allora un passo indietro. Le strade sociali esistono da sempre nel nostro Paese,
nelle piccole comunità, nelle città di piccole-medie dimensioni, ma decisamente meno nelle
metropoli. Non possiamo infatti non riconoscere l’impatto e le conseguenze che il crescente
e inarrestabile processo di urbanizzazione, iniziato in particolare con il boom economico e
l’edilizia razionalista, ha avuto sulle grandi città italiane – in primis Milano – e di
conseguenza sulla vita delle persone. Questi ultimi abitano città sempre più anonime, in cui
il senso di comunità è pressoché assente, in cui i legami sociali di prossimità sono deboli,
apparentemente impossibili da tessere, da riannodare. Se è vero che le strade sociali sono
sempre esistite in alcune “zone felici” del nostro Paese, oggi più che mai se ne sente
l’esigenza nelle metropoli, in cui le persone sperimentano quotidianamente il sentimento
della solitudine, la debolezza dei legami sociali, la fragilità della rete del proprio capitale
sociale [Istat 2015].
Milano incarna in pieno il valore della mobilità: popolata di giorno dai city user e di
notte da spazi svuotati, viene ancora troppo spesso considerata la città da lavorare e non da
vivere. In realtà Milano non è solo da attraversare, da vivere part-time, giusto per il tempo
80
di divertirsi/studiare/lavorare, ma può essere molto di più, può essere una scelta di vita. E
per coloro che ne fanno una scelta di vita è fondamentale non viverla “a metà servizio”, ma
abitarla in tutta la sua complessità. Abitare pienamente una città come Milano è faticoso
non solo per l’elevato turn over delle persone, ma anche per la compresenza sullo stesso
territorio di culture e etnie diverse, per le tante problematiche di disagio, spesso
concentrate in alcune zone della città.
La città di Milano ha delle caratteristiche demo-sociali ben precise, potremmo dire note.
Abitare in centro, nel Municipio 1, è altra cosa rispetto ad abitare nei restanti 8 Municipi;
così come abitare nella fascia del medio-centro è differente dal vivere nelle periferie.
Tuttavia, un aspetto accomuna il centro alle periferie: lo scarso senso di comunità, i legami
sociali deboli, il basso capitale sociale, la bassa fiducia reciproca, il senso di isolamento e
individualismo. Le ragioni sono evidentemente diverse, ma il risultato non cambia: la
primazia dell’asocialità. Forse è questo allora il bandolo della matassa, il punto di partenza
da cui ripartire per costruire assieme, per ideare nuove politiche per la città e per i suoi
cittadini: rigenerare la socialità di prossimità, per rigenerare la città. Perché non può esserci
la seconda senza la prima.
Come si fa a creare socialità laddove non c’è più o, addirittura, non c’è mai stata? Come
si fa a generare socialità in una metropoli come Milano dove la complessità umana e sociale
è elevata e amplificata da contingenze storiche, come l’emergenza umanitaria dei profughi?
Ecco allora che possono venirci incontro le social street, una idea nata dal basso, a costo
zero, che risponde al bisogno primario di socialità e lo fa attraverso le nuove tecnologie, il
social network più noto e diffuso attualmente, ovvero Facebook. Le social street hanno
proprio questa finalità: far conoscere e mettere in connessione i vicini di casa. Entrando in
relazione i vicini di casa imparano a (ri)conoscersi, ad aver fiducia reciprocamente. Iniziano
a sentire di far parte di uno stesso condominio, di una stessa strada, di uno stesso quartiere,
di una stessa città. Maturano nei confronti del territorio un senso di appartenenza e di
attaccamento mai provati prima.
Questo è l’obiettivo principale delle social street: sviluppare senso di comunità,
promuovere la socialità di vicinato. Un obiettivo non residuale, ma assolutamente
propedeutico. Perché se e quando questo obiettivo entra a regime possono eventualmente
accadere altre cose: tipo scambiarsi favori, beni, servizi, tempo. Quindi potremmo dire che
la socialità viene prima di tutto ed è alla base di altre future possibili pratiche collaborative,
di altre forme di economie collaborative, della sharing economy, per dirla con un termine
oramai caro a molti, non da ultimo agli stessi amministratori della città di Milano, che ne
hanno colto il potenziale di crescita in termini di benessere per i cittadini. Da parte loro, le
social street possono contribuire alla crescita della città, poiché riattivando i legami sociali
producono una scossa, un’onda d’urto che può generare benessere personale e sociale,
prima ancora che economico e soprattutto inclusione sociale.
Le social street nascono sempre per volere di una persona che decide a un certo punto
81
della sua vita, per i motivi più diversi, di riattivare la socialità nella propria strada. E lo fa
aprendo un gruppo chiuso su Facebook, che prende il nome della strada (es. Residenti in via
X – Milano – Social street). Una volta aperto il gruppo, il fondatore/amministratore invita le
persone che già conosce, i propri vicini, i quali a loro volta faranno altrettanto. Questa è la
prima fase di vita della social street, che definiamo virtuale, in cui le persone si scambiano
informazioni prevalentemente attraverso il social network. Per essere quanto più inclusivo,
il fondatore, di lì a breve, distribuirà dei volantini cartacei, nei vari condomini, locali e
negozi della strada, in cui si darà notizia della nascita della social street, dell’esistenza del
gruppo Facebook. Si possono prevedere anche delle bacheche di strada, in cui lasciare
messaggi ai propri vicini, a coloro che eventualmente non utilizzano i social network.
Il passaggio dal virtuale al reale si compie quando i vicini di casa, dopo essersi conosciuti
nel gruppo Facebook, decidono di incontrarsi face to face. L’amministratore creerà l’evento
sul gruppo a cui tutti i vicini saranno invitati. L’evento si svolgerà a casa di qualcuno o in
un locale in zona, meglio ancora nella propria strada. Il passaggio al reale rinsalda i legami
già creati online, rinsalda il capitale sociale, rinsalda la fiducia. Quando con il tempo si
viene a costituire una rete di persone non più virtuali ma reali su cui si può fare conto,
vuol dire che si è fatto un passo ulteriore, ossia si è transitati dal virtuale, al reale al
virtuoso. Quella voglia di comunità che ciascun cittadino globale prova nelle città
complesse e anonime viene finalmente soddisfatta, trova compimento, attraverso questa
modalità assolutamente innovativa e inclusiva, a costo zero, peraltro senza
controindicazioni.
Che cos’è allora una social street?
Con Marc Augé abbiamo ipotizzato di considerarle “nuovi luoghi”, ovvero spazi nella
città che mantengono le caratteristiche tradizionali del luogo – familiare, caldo e abitato –
più che dei non-luoghi – intesi come spazi di puro attraversamento, anonimato e
sradicamento [Augé – Pasqualini 2016]. Ma, rispetto al luogo classico, sono qualcosa di
diverso, sono realtà ibride tra il reale e il virtuale. Le social street ricalcano, riproducono
virtualmente un preciso spazio fisico – la strada, il quartiere. Nel virtuale si genera capitale
sociale di prossimità, si rinsalda la rete dei legami sociali, i cui benefici si riversano
nuovamente sul luogo reale, sulla strada che diviene abitata da persone che finalmente si
conoscono, si frequentano, possono contare le une sulle altre, se necessario.
Le social street hanno pochi principi ma chiari. Come si legge nelle linee guida presenti
sul portale di Social Street International: “L’obiettivo del Social Street è quello di
socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame,
condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti
collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore
interazione sociale. Per raggiungere questo obiettivo a costo zero, ovvero senza aprire
nuovi siti, o piattaforme, Social Street utilizza la creazione dei gruppi chiusi di Facebook.
Nello specifico:
82
- Il social street ha la funzione di creare una rete di solidarietà e condivisione tra vicini
di casa.
- Il social street non ha finalità di lucro ma solo finalità sociali.
- Il social street non porta avanti nessuna visione politica, religiosa, ideologica di alcun
tipo, raggruppa le persone con l’unico criterio della vicinanza fra residenti nell’area”.
Tutti possono aprire una social street, tutti possono farne parte, nel rispetto delle regole
sopra indicate. Non sono ammesse persone che abbiano finalità differenti dalla socialità e i
suoi derivati virtuosi.
L’indagine Vicini e connessi
Se è vero che la prima “social street” nasce a Bologna in via Fondazza nel mese di
settembre 2013, è stato fin da subito evidente quanto Milano fosse altrettanto pronta e
predisposta a raccogliere la sfida social.
A Milano erano già attive delle strade sociali 2.0, in particolare quella di Paolo Sarpi,
aperta a gennaio 2010, che oggi conta quasi 5.000 iscritti al gruppo Facebook, così come
quelle di zona Savona-Tortona, via Bixio e via Marco D’Oggiono, esperienze
numericamente più piccole, nate rispettivamente a novembre 2011, giugno e settembre 2013.
Il terreno era fertile e ben orientato alla sperimentazione.
A partire da settembre 2013, con la grande risonanza mediatica che la social street
fondazziana ha prodotto a livello nazionale e internazionale, a Milano nascono un numero
considerevole di social street. Alcune delle più grandi e attive nascono proprio in questo
periodo. Solo per citarne alcune: Parco Solari (ottobre 2013), via Maiocchi (novembre 2013),
via Morgagni (dicembre 2013), Lambrate (gennaio 2014), San Gottardo-Meda (febbraio 2014).
Dal monitoraggio effettuato (Fig. 1), emerge che nell’anno 2013 vengono aperte
complessivamente 13 social street, di cui 11 a Milano e 2 in provincia. Un buon inizio.
Nell’anno 2014 si registra un andamento ancora più positivo: 55 nuove social street, di cui
48 a Milano e 7 in provincia. Tra quelle aperte in provincia, ne ricordiamo alcune
particolarmente attive: due a San Donato milanese (via Libertà e via Morandi), una a San
Giuliano Milanese (Cascina Selmo) e una a Sesto San Giovanni (La Piazzetta di SestoResidenti QT1). Nell’anno 2015 si registra un primo fisiologico “calo di natalità”: ne sono
state censite 11 nuove, 9 a Milano e 2 in provincia. Nel 2016, al mese di marzo, ancora
soltanto 1 su Milano.
È interessante osservare che 2 delle social street più recenti – NOLO-North Loreto
Social street (gennaio 2016) e Gli amici di Pasteur (dicembre 2015) – sono nate nella stessa
zona, in cui peraltro esisteva già da tempo la social street di via Padova (dicembre 2014).
Questo è un caso interessante perché ha innescato un dibattito pubblico nei gruppi
Facebook delle tre social street confinanti, per volere degli stessi amministratori, i quali
83
hanno proposto agli iscritti l’opportunità di fondersi in un unico Social district. Nel mese di
aprile 2016 le tre social in questione si sono fuse in un’unica realtà: Nolo Social District.
Volendo delineare una fotografia del fenomeno, potremmo dire che ad oggi – maggio
2016 – le social street in Italia e all’estero sono indicativamente 450, di cui, come abbiamo
visto, a seguito anche della fusione di tre social street avvenuta nel mese di aprile 2016, 69 a
Milano e 11 in provincia per un totale di 80. La metropoli meneghina detiene il primato, che
si gioca con Bologna, dove sono state mappate 57 social street più 10 in provincia per un
totale di 67. Altre 33 sono a Roma, 21 a Palermo, 15 a Torino e 11 a Firenze, ecc. Un
fenomeno che coinvolge l’Italia intera, sia le grandi città metropolitane – Milano, Roma,
Napoli e Palermo – ma anche le piccole-medie cittadine come Bologna, Mantova, Trento,
Modena, Novara, Udine, Ferrara.
È interessante inoltre osservare che il modello social street ha iniziato ad essere
esportato, soprattutto a partire dal mese di settembre 2015, anche all’estero: in tutto ne
abbiamo mappate 30, distribuite tra Germania, Croazia, Austria, Polonia, Svizzera, Paesi
Bassi, Francia, Portogallo, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Irlanda, Australia e Brasile. Se
questo è lo scenario, è necessario andare dentro ciascuna social e analizzare anche il
numero di iscritti ai gruppi Facebook, il grado di attività e il coinvolgimento delle persone
online e offline. Se consideriamo le social rispetto al loro ciclo di vita, ci accorgiamo che
alcune di loro sono molto attive, altre meno; alcune sono passate dalla fase virtuale a quella
reale – raggiungendo talvolta, ma non necessariamente, numeri significativi di iscritti ai
gruppi Facebook. Vi sono anche social street inattive, mai decollate, praticamente rimaste
84
ferme a piccoli numeri, per cause diverse (amministratori che si sono trasferiti/hanno perso
l’interesse al progetto/problemi del territorio); che vivono una sorta di stato di latenza, ma
pronte a riattivarsi in caso di necessità. Insomma, le social street sono molto diverse tra loro
per mission, dimensioni (ovvero per il territorio che intendono coprire/persone che
intendono includere), numero di iscritti, grado di partecipazione/attivazione sia online che
offline, tipologia di eventi/incontri realizzati.
Tornando a Milano, se consideriamo ancora i numeri, secondo il monitoraggio effettuato
nel mese di maggio 2016, la social street con più iscritti risulta essere Paolo Sarpi (4.724),
che come abbiamo detto parte con un vantaggio di tre anni sulle altre, seguita dalle social
storiche, alcune di quelle più anziane: San Gottardo-Meda (3.303), Lambrate (2.204),
Maiocchi (1.362), Morgagni (1.118) e Parco Solari (1.099). Ad oggi, le social inattive/chiuse
sono 8 a Milano e 1 in provincia.
Rispetto alla loro distribuzione sul territorio è interessante osservare che non sono
equamente presenti in tutti i 9 Municipi.
85
Come si osserva dalla Figura 21, le social street sono presenti in numero esiguo nel
Municipio 1, inoltre le 5 presenti sono inattive/poco attive. Le social street si concentrano
subito fuori dal Municipio 1, distribuite in tutti i restanti municipi. In particolare, i
Municipi 3, 4, 5 e 6 sembrano essere più interessati dal fenomeno.
Le periferie, così come il centro di Milano, risultano ancora poco social(i). Spesso sono
spazi di attraversamento/spazi commerciali o zone residenziali in cui la socialità di
prossimità manca e fa fatica ad attecchire. Qui si gioca la vera sfida per le social:
risocializzare le zone asociali. Le social presenti nelle zone periferiche sono in totale 18. Tra
queste, alcune hanno raccolto poche adesioni e poca partecipazione – ad esempio: Niguarda
[68 iscritti], via Missaglia [293 iscritti]. Altre, invece, poche eccezioni a dire il vero, sono
attive sul territorio e funzionano da antenne, da connettori e facilitatori di socialità – ad
esempio: Rubattino [485 iscritti], i Derganesi Social district [363 iscritti], Baia del Re [453
iscritti], Corvetto-Bonomelli [602].
È opportuno sottolineare che un elevato numero di iscritti ai gruppi Facebook non si
traduce necessariamente in social reali e virtuose, in quanto possono comunque fermarsi al
primo step, a quello del virtuale e funzionare bene in questa unica/prevalente modalità. Al
contrario, ci sono piccole-medie social street, che hanno relativamente pochi iscritti ai
gruppi Facebook, ma che sono passate dal virtuale, al reale al virtuoso: un esempio sono
Santa Maria del Suffragio (290 iscritti), Martiri Triestini (139 iscritti) e Cenisio (465 iscritti).
In queste social assistiamo a iniziative interessanti, in cui le persone dopo aver costruito la
propria rete di capitale sociale, si attivano per progetti condivisi, come il Mercato contadino
del sabato mattina in Santa Maria del Suffragio e i tanti eventi collegati in tema di
integrazione, oppure il sostegno ad alcune famiglie indigenti della zona (Cenisio), oppure
più semplicemente il desiderio di condividere un interesse culturale/ludico/culinario e fare
cose assieme (Martiri Triestini).
In linea generale, le social street lavorano per rigenerare la socialità di vicinato e lo
fanno all’insegna della gratuità, nella logica dell’economia del dono. Indipendentemente dal
loro stato prevalente – virtuale e/o reale – le social street possono svolgere alcune
importanti funzioni, sempre orientate ovviamente ad alimentare e potenziare il loro
obiettivo principale dichiarato, che resta la socialità [Pasqualini 2016]:
1. Possono avere innanzitutto una funzione informativa rispetto ad eventi/servizi in
zona, situazioni di vulnerabilità, di degrado urbano e sicurezza. In questo modo, gli
streeters che vogliono tenersi informati su quanto accade nella strada e nel quartiere
possono farlo attraverso il gruppo Facebook. Si può anche aver bisogno di un consiglio, di
un indirizzo utile. Poi se oltre all’indirizzo di un idraulico onesto in zona trovi anche una
persona della tua strada che viene in casa tua e ti fa il lavoro gratis, significa che dal
virtuale si è passati al virtuoso. Non è scambio/baratto è solo solidarietà di vicinato.
Quando sono attive, le social street sono dei veri e propri ripetitori/informatori rispetto a
86
quanto accade sul territorio. Se in zona si verifica un evento eccezionale, come una
nevicata/una alluvione che impedisce la normale circolazione delle auto, dei tram e della
metro, se si verifica una esplosione/un rumore sospetto in un edificio, un furto in un
appartamento, un tentativo di truffa/scippo a qualcuno in strada, immediatamente vengono
postati avvisi sul Gruppo Facebook, in cui si danno informazioni aggiornate in tempo reale
su quanto sta accadendo. E, se necessario, scatta la solidarietà.
2. Possono stimolare la socializzazione tra i vicini mediante l’organizzazione di occasioni
reali di intrattenimento ludico-ricreativo, direttamente sui luoghi: biciclettate (Corvetto),
aperitivi (Apedì, l’appuntamento fisso del lunedì sera, di Maiocchi al Bar Stoppani),
merende al parco con i bambini (Parco Solari, Morgagni), feste di strada in occasione di
Halloween e Carnevale (Gambara, Morgagni, Piero della Francesca), brindisi di Natale
(Maiocchi) o di fine estate (Martiri Triestini, Veglia, Baia del Re), compleanno della social
street (San Luigi), serate con annesso bookcrossing (Parco Solari), ecc. Questi sono tutti
momenti della social street in cui si passa del tempo assieme ai propri vicini, con la sola
finalità di socializzare, costruire capitale sociale.
3. Possono decidere di impegnarsi collettivamente in progetti che hanno come obiettivo
la cura dei beni comuni e dei propri vicini di casa, così come la promozione del territorio:
ad esempio, la cura dell’orto urbano (Maiocchi), la pulizia delle aiuole presenti sulla strada e
dei parchetti nel quartiere (Cenisio, San Gottardo-Meda, NoLo), la raccolta di indumenti e
generi di prima necessità per i profughi ospitati nei centri di accoglienza della città
(Maiocchi, Parco Solari, Cenisio, NoLo), la collaborazione con alcune associazioni su
progetti mirati (tra SOS ERM – l’associazione di volontari, impegnata con l’emergenza
profughi, presente da oltre due anni prima al Mezzanino, poi all’Hub in Stazione Centrale e
ora all’Hub in via Sammartini – e le social street Maiocchi, Parco Solari e NoLo), il sostegno
a un senza fissa dimora che abitualmente abita nella strada (Morgagni), il sostegno ai vicini
di casa in difficoltà (San Gottardo, Cenisio), ma anche manifestazioni-mobilitazioni in
piazza per il diritto ai servizi di base, come le scuole (Rubattino) o il rispetto di alcuni
valori, come la non-violenza sulle donne (via Padova). Tutte queste iniziative riguardano
solo alcune social street, una minoranza. In realtà, per quanto assolutamente meritevoli,
non sono una finalità primaria delle social street, ma possono sicuramente svilupparsi in
alcune di loro, dove soprattutto si è consolidato un buon capitale sociale.
Quando le social incontrano le istituzioni locali
Per loro stessa natura, in quanto realtà informali, le social street non hanno necessità di
relazionarsi con le istituzioni amministrative. Se ci si vuole conoscere tra vicini di casa
utilizzando un social network non ci sono problemi, idem se si vuole fare un aperitivo in
un locale in zona. Il problema di una interlocuzione con gli amministratori pubblici locali
87
nasce nel momento in cui la social street, per una delle sue attività, intende occupare la
strada, una piazza, uno spazio pubblico. Oppure se vuole prendersi cura di un’aiuola
pubblica e trasformarla in orto urbano. In tutti questi casi è necessario relazionarsi con le
istituzioni. Un dialogo è stato richiesto dagli stessi streeters di Milano, iniziato nel 2015 e
durato oltre un anno, in cui l’assessore alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino ha dato
vita e animato quattro tavoli di discussione presso la Casa dei diritti, aperti a tutte le social
street e alle persone interessate. A questi incontri hanno preso parte diverse realtà milanesi,
in particolare quelle più attive sul territorio: Maiocchi, Morgagni, Parco Solari, San
Gottardo-Meda, Cenisio, Baia del Re, Martiri Triestini, Paolo Sarpi, Santa Maria del
Suffragio, San Luigi, Piola, Corvetto, Piazza Udine, Piero della Francesca. Altre hanno
seguito in remoto le vicende, mentre altre ancora hanno scelto di mantenere una certa
distanza/indipendenza dalle istituzioni.
Sulla scorta delle esperienze di Bologna e Rimini, e dopo le diverse consultazioni con le
social street milanesi, il Comune di Milano il 25 gennaio 2016 ha presentato pubblicamente
la “Bozza dell’atto di indirizzo per l’istituzione, mediante avviso pubblico, di un elenco
cittadino di gruppi informali di cittadinanza attiva” e la “Bozza disciplinare gruppi
informali di cittadinanza attiva”. Questa soluzione è stata accolta con interesse dalle social
street milanesi, poiché consente a coloro che ne hanno necessità di censirsi presso il
Comune come gruppi informali, lasciando la libertà di non farlo a chi non è interessato.
Non solo: di volta in volta, il Comune stipulerà delle convezioni ad hoc e a tempo
determinato con le social street che ne faranno richiesta, convenzioni che avranno la
durata del progetto che si intende realizzare, garantendo la copertura assicurativa per
l’intera durata dello stesso. Se si vuole fare una festa di strada, occupando il suolo pubblico,
occorrerà innanzitutto che la social street si censisca, che presenti un progetto in cui siano
indicati le finalità, gli obiettivi e la durata, oltre ad individuare di volta in volta una persona
di riferimento della social street, in qualità di mero interlocutore con le istituzioni. Da parte
sua il Comune, vagliata attentamente la bontà della domanda, potrà concedere
l’autorizzazione allo svolgimento del progetto, garantire la copertura assicurativa ai
partecipanti, coprendo eventualmente alcune spese dell’evento (ad esempio, la stampa delle
locandine), attingendo da un fondo dedicato.
Questa strategia risulta a nostro avviso “rispettosa”, poiché consente di promuovere,
valorizzare la partecipazione dal basso, senza imbavagliarla. Sarà interessante a questo
punto vedere come si comporteranno le social street, se approfitteranno di questa
opportunità, perché così dovrebbe essere intesa. “I patti di collaborazione” che saranno via
via stipulati saranno a loro volta oggetto di analisi, diventeranno un altro importante
tassello di questa indagine condotta dall’Osservatorio sulle Social Street. Infine, nel mese di
aprile 2016 l’iter si è concluso con l’approvazione da parte della Giunta Comunale della
Delibera “Linee di indirizzo per la costituzione di un elenco di Gruppi informali di
cittadinanza attiva”. Oggi Milano, come Bologna, Rimini e molti altri comuni italiani, ha un
88
suo regolamento per la cittadinanza attiva informale, tutta, in tutte le sue declinazioni. Se
ha raggiunto questo importante obiettivo, lo si deve anche alle social street.
Per concludere…
Potremmo dire che le social street sono soggetti informali e tali vogliono restare; sono
realtà innovative e inclusive, soggetti ibridi tra reale e virtuale, talvolta anche virtuosi, che
lavorano, più o meno carsicamente e latentemente, al perseguimento del loro principale
obiettivo: rigenerare le città a partire dai legami sociali.
Viste le potenzialità intrinseche a questo fenomeno, avere una mappa completa e
dettagliata delle social street presenti a Milano e provincia, conoscere la loro collocazione,
ampiezza, il loro grado di attività e le loro finalità è fondamentale per la stessa
Amministrazione comunale, che può svolgere un ruolo importante, ascoltandole – quali
antenne più prossime sui territori –, valorizzandole, rispettando la loro natura di forme
emergenti di cittadinanza attiva, informale e bottom-up [Pasqualini - Introini 2015].
Infine: che impatto hanno prodotto le social street sulla città e sui legami sociali? Forse è
legittimo domandarselo, anche se è presto per fare bilanci. Lo abbiamo chiesto direttamente
agli streeters iscritti ai Gruppi Facebook, attraverso un web survey, a cui hanno risposto in
618. Solo un dato: circa il 60% ha dichiarato di essere abbastanza-completamente d’accordo
nel ritenere che da quando fa parte della propria social street ha ampliato il numero di
conoscenze nella via. Bene, il resto vien da sé.
Bibliografia
Augé, M. – Pasqualini, C.
2016 Habiter les villes-monde. (Non/Virtuels/Nouveaux) Lieux et relations sociales, in
“Studi di Sociologia”, n. 4, pp. 303-313.
Comune di Milano, Assessorato alle Politiche Sociali
2016a Bozza Atto di indirizzo per l’istituzione, mediante avviso pubblico, di un elenco
cittadino di gruppi informali di cittadinanza attiva, 25/01/2016.
2016b Bozza disciplinare gruppi informali di cittadinanza attiva, 25/01/2016.
Comune di Bologna Labsus
2014 Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la
rigenerazione dei beni comuni urbani, 22/02/2014.
Comune di Rimini
2011 Approvazione “Disciplinare per lo svolgimento delle attività di volontariato civico”,
Deliberazione di G.C. n. 282 del 18/10/2011.
ISTAT, BES 2015,
89
2015 Il benessere equo e sostenibile in Italia.
Pasqualini, C.
2016 Una nuova cultura della socialità: la sfida delle social street a Milano, in
Fondazione Ambrosianeum (a cura di), Rapporto sulla città di Milano 2016, FrancoAngeli,
Milano, pp. 191-206.
Pasqualini, C. – Introini, F.
2015 Vicini e connessi. Alla scoperta delle social street milanesi, in “Gli Stati Generali”, 3
novembre.
http://www.glistatigenerali.com/milano_sharing-economy/vicini-e-connessi-allascoperta-delle-social-street-milanesi/
1 Nella Mappa figurano ancora tre distinte social street nel Nucleo di Identità Locale 20 (Loreto) e non una. Come si è detto, nel mese di aprile 2016
si sono riunite nel Nolo Social District.
90
Caterina Gozzoli, Chiara D’angelo
Lo sport strumento innovativo per l’inclusione sociale: quali condizioni?
Lo sport che include
Lo sport come strumento per l’inclusione sociale ha trovato recentemente spazi di forte
attenzione e ampio utilizzo. Lo testimoniano i sempre più numerosi progetti attivati a tal
fine (per una rassegna aggiornata si veda la piattaforma http://www.sportanddev.org), così
come il crescente numero di studi di settore [Lawson, 2005; Levermore & Beacom, 2009;
Hartmann & Kwauk, 2011; Schulenkorf, N., 2012; Schulenkorf et al, 2016]. Da una analisi
delle iniziative poste in essere, tuttavia, emerge molta confusione in merito alle reali
finalità perseguite, alla coerenza delle azioni proposte, e ai dispositivi di valutazione per
verificarne l’efficacia. Il presente contributo, in continuità con lavori precedentemente
proposti [si vedano ad esempio Sanchez e Gozzoli, 2010; Sanchez et al., 2013; Gozzoli et al.,
2013], intende mettere in evidenza come lo sport possa costituire uno strumento reale ed
innovativo al servizio dell’inclusione sociale mettendo in evidenza alcune fondamentali
“condizioni metodologiche”. Tali condizioni vengono proposte a partire da una ricognizione
della letteratura scientifica sul tema e dall‘analisi trasversale di recenti progetti di
intervento attivati e sviluppati con diverse realtà territoriali, progetti che utilizzano lo sport
come strumento per promuovere inclusione sociale di soggetti a rischio.
Inclusione alla pratica sportiva o inclusione sociale attraverso lo sport?
Lo sport come fenomeno sociale complesso [Manzi & Gozzoli, 2009; Gozzoli & D’Angelo,
2013], è oggi considerato un importante strumento non solo per la promozione del
benessere psico-fisico di chi lo pratica, ma anche strumento in grado di promuovere
processi di inclusione sociale per fasce fragili della popolazione. Esso possiede alcune
caratteristiche che lo rendono unico (è un potente meccanismo rituale e simbolico, è
caratterizzato da una intensità emozionale e relazionale) [Sanchez & Gozzoli 2012] che a
certe condizioni lo rendono potente strumento di sviluppo di capitale sociale e di inclusione
sociale.
La letteratura internazionale più recente tuttavia mette in evidenza come spesso
l’attribuzione di queste potenzialità allo sport sia un automatismo (basta l’intenzionalità),
91
una moda e una sorta di panacea [Green, 2008]. Per questo oggi appare importante una
riflessione critica che contribuisca a mettere in evidenza quali siano le condizioni
progettuali e attuative che consentono allo sport di costituire realmente una occasione di
inclusione sociale.
Un’analisi trasversale di circa 50 progetti internazionali attivati negli ultimi 5 anni con
tali finalità ci ha consentito di mettere a fuoco gli elementi caratterizzanti tali programmi
(target, durata, coerenza finalità dichiarata e azioni, presenza o meno di valutazione e
indicatori di impatto) e di evidenziarne punti di forza versus limiti.
Ciò che emerge in modo significativo è che le finalità dichiarate dei diversi progetti
appaiono piuttosto omogenee: nella quasi totalità dei casi si parla di sviluppo di relazioni
comunitarie e di inclusione sociale e in alcuni casi di promozione del benessere.
Tuttavia ad una più attenta lettura si coglie che spesso manca una coerenza tra le
finalità dichiarate e azioni concrete messe in atto. La maggior parte dei progetti di fatto
favoriscono la pratica sportiva di segmenti sfavoriti e a rischio di esclusione sociale, più che
utilizzare lo sport come strumento per l’inclusione sociale di tali soggetti.
Già Coalter [2002] ha sottolineato come il ruolo dello sport nelle aree di povertà
economica e sociale può essere giocato principalmente in due modi: sviluppando lo sport
nelle comunità, quindi promuovendo l’accessibilità alla pratica sportiva a fasce marginali di
popolazione (il modello oggi prevalente) oppure utilizzando lo sport come strumento per
attivare processi di inclusione sociale (modello più sofisticato e complesso).
Nel primo caso, lo scopo verso cui tendere è l’inclusione sportiva, aumentando la
partecipazione alla pratica sportiva e riducendo le barriere di accesso ad essa
(prevalentemente di tipo economico), fornendo l’opportunità di progredire nelle abilità
sportive anche a livello agonistico. In progetti di questo tipo il rischio è che si attribuisca
allo sport il potere automatico di generare legami inclusivi; si assume per assodato che la
pratica sportiva di per sé generi valore e processi positivi, che lo sport generi
automaticamente valore in termini di salute, benessere psicofisico e sociale. In realtà diversi
progetti e ricerche nel settore [Green, 2008; Hartmann & Kwauk, 2011] hanno messo in
evidenza che non si può assumere che la pratica sportiva faccia bene di per sé, ma che
concorrono una serie di fattori alla buona riuscita di un progetto sportivo.
Nella seconda accezione di utilizzo dello sport come strumento per attivare processi di
inclusione sociale, lo sguardo viene allargato ai risultati di tipo sociale piuttosto che solo a
quelli sportivi [Gomez et al., 2009; Perks, 2007]. In altri termini l’attenzione è a come il
coinvolgimento di alcune fasce di popolazione a rischio di esclusione sociale possa generare
a diversi livelli processi di inclusione nelle micro-realtà territoriali e di generazione di
capitale sociale.
In questa seconda accezione una sfida centrale appare quella di inserirsi nei tessuti
comunitari e territoriali degli utenti ai quali i progetti si rivolgono (minori a rischio di
marginalità sociale, soggetti diversamente abili, fasce marginali della popolazione adulta,
92
anziani soli, ecc.) per favorirne l’inclusione in gruppi e contesti organizzativi a diversi
livelli (la squadra sportiva, il club, l’oratorio, il quartiere, la scuola) e generando così
capitale sociale come esito dei processi di inclusione a diversi livelli e tra più parti. È in
questo caso che l’Ente locale pubblico può rivestire un ruolo cruciale nella regia di tali
progetti: dal delineare politiche consone ai processi di governance a favorirne l’effettiva
attuazione.
Un ulteriore elemento che emerge in modo chiaro e trasversale dall’analisi dei diversi
programmi sportivi è la forte carenza di dispositivi per la valutazione di efficacia. Di rado le
ampie finalità progettuali vengono tradotte in obiettivi concreti e specifici, né vengono
descritti con coerenza gli esiti attesi e gli indicatori volti a monitorare nel tempo la qualità
delle azioni sviluppate [Whitley et al., 2014; Darnel et al., 2016].
Ciò che si rileva nella quasi totalità dei casi è una delega da parte di Fondazioni, Enti
Locali o finanziatori dei programmi ai soggetti realizzatori senza un tavolo di lavoro
congiunto che progetti e verifichi il processo.
Elementi chiave
l’esperienza in questi anni sia a livello di ricerca, sia di intervento, posta in dialogo
critico con la letteratura a livello internazionale ci ha portato a definire alcune condizioni
che paiono necessarie nella messa a punto di progetti che vogliano far leva sullo sport per
attivare processi sociali inclusivi. Tali elementi paiono fondamentali anche per una
governance efficace da parte degli Enti locali che vogliano esserne promotori.
In premessa ci preme sottolineare che tutte gli elementi riportati di seguito fanno
riferimento a metodologie partecipative [McTaggart, 1997; Cousins & Chouinard, 2012;
]. Come evidenziato da alcuni studi pubblicati di recente [Burnett, 2006; Sanchèz & Gozzoli,
2012] l’attivazione di processi partecipativi rappresenta una pre-condizione fondamentale
per progetti che si pongono obiettivi di ricaduta a livello sociale e comunitario. Poiché
l’obiettivo di questi progetti sportivi è il cambiamento non solo a livello individuale, ma
anche a livello di gruppo e sociale, grazie all’utilizzo di metodologie partecipative le
competenze e conoscenze di partecipanti e consulenti vengono messe in dialogo per
generare nuovi livelli di conoscenze e competenze co-costruite.
Il rischio diversamente è che un ente finanziatore/promotore del progetto imponga un
modello “dall’alto”, un modello poco o per niente ancorato ai bisogni reali del contesto
territoriale in cui il progetto stesso va a svilupparsi.
Entro questo approccio, ci sono alcuni passaggi che riteniamo preliminari e cruciali per
qualsiasi progettualità di questo genere.
Un primo passaggio è la costituzione fin dalle fasi di avvio e ideazione di un “tavolo di
regia e progettazione”. Esso ha la funzione di far emergere e circolare idee progettuali e
dare via via sostanza a tali idee pianificando azioni concrete. A tale tavolo è fondamentale
93
la partecipazione fin dall’inizio di diversi interlocutori implicati poi a diversi livelli del
progetto (finanziatori, project management, valutatori, partner istituzionali, ecc.). Il tavolo
avrà il compito di definire la finalità del progetto da attivare e il target di massima a cui
esso intende rivolgersi (minori a rischio di devianza, disoccupati, donne fragili, detenuti,
stranieri, ecc.), oltre che un budget indicativo entro il quale il progetto possa orientarsi.
Esso rappresenterà, per l’intera durata e attuazione del progetto il luogo privilegiato di
raccordo tra la diverse “parti” implicate e delle loro culture di riferimento: l’ente
promotore, l’equipe operativa, l’equipe valutativa, i partner istituzionali/finanziatori.
Un secondo passaggio fondamentale è un fine lavoro di esplicitazione e condivisione da
parte degli interlocutori della concezione di sport e delle caratteristiche ad esso
attribuite per generare inclusione: cosa intendiamo per sport? quali potenzialità gli
attribuiamo? quando è inclusivo? Esiste un generale accordo sui risultati positivi generati
dalla pratica sportiva (nella percezione del proprio corpo, nello sviluppo integrato tra mente
e corpo, nello sviluppo dell’autostima, nello sviluppo di legami sociali ecc.) [Bailey, 2000].
Assumere che lo sport contribuisca allo sviluppo di benessere, di competenze personali e
atteggiamenti verso sé e gli altri, non equivale però ad assumere che questi benefici si
possano riscontrare a qualsiasi condizione. Affinché lo sport assuma una valenza inclusiva
è fondamentale che si generi una cultura innovativa e condivisa dello sport entro una
concezione e accezione più complessa ed ampia.
Un terzo passaggio è la assunzione dello sport come fulcro intorno al quale far
ruotare e facilitare altre azioni che coinvolgano il tessuto sociale e comunitario (Ad
esempio: laboratori e attività sul tema lavoro/istruzione; laboratori e attività sul tema
salute; laboratori sul tema cultura/educazione alla vita). Come affermano Collins e Kay
[2003] “lo sport da solo raramente contribuisce a favorire l’inclusione sociale, lo sviluppo di
comunità, la prevenzione dalle malattie e dai comportamenti antisociali, ma piuttosto
collabora a supporto ad azioni all’interno di un orizzonte più ampio, per esempio una rete
di servizi territoriali che presentino una ricca offerta” (p. 24). Una prima fase di ogni
progetto dovrebbe pertanto essere spesa nella messa a punto di momenti e occasioni di
confronto rispetto a come lo sport e la pratica sportiva possano diventare un’occasione di
attivazione di processi territoriali più ampi.
Infine un quarto passaggio riguarda la previsione di un impianto di valutazione che
accompagni i progetti fin dalle fasi progettuali. In un’ottica di valutazione partecipata
appare fondamentale la messa a fuoco fin dalle origini, insieme ai partecipanti stessi al
progetto, delle specifiche finalità che si intende perseguire, così da operazionalizzarle poi in
indicatori (es: numero di partecipanti diretti; numero di enti locali coinvolti, ecc). Questo
processo consente di monitorare se le azioni progettuali via via messe in atto consentono o
meno il raggiungimento di tali finalità. Tra gli indicatori che una valutazione efficace
dovrebbe mettere a fuoco ricopre un ruolo fondamentale la “sostenibilità” dell’intero
progetto sia in termini economici che soprattutto in termini di eredità locale. In altri
94
termini: come dare visibilità e valorizzare cosa rimane alle comunità locali dopo che l’ente
finanziatore sarà uscito di scena? Che rapporto può essere evidenziato tra costi e benefici
sociali?
Passaggi operativi
Entrando più nello specifico di seguito vengono delineati alcuni passaggi operativi
conseguenti e concatenati temporalmente gli uni agli altri nello sviluppo di un progetto che
utilizza lo sport per l’inclusione sociale. Per comodità espositiva le divideremo in due
sezioni:
1. La preparazione alla realizzazione del progetto;
2. la realizzazione concreta del progetto.
Esse sono chiaramente strettamente interconnesse le une alle altre e non è detto che
sempre debbano presentarsi e attuarsi secondo tale consequenzialità temporale; i passaggi
operativi delineati di seguito vogliono rappresentare una traccia di riferimento per chi
volesse sviluppare programmi di intervento complessi che utilizzano lo sport come
strumento di inclusione sociale.
1.1 – Definizione beneficiari diretti
Un momento fondativo per l’avvio di nuovi progetti, sulla base della storia e della
mission dell’ente promotore/finanziatore del progetto, è quella della definizione del target
di riferimento dei beneficiari diretti del programma (es: stranieri, minori a rischio,
disabili, ecc.). In questo modo sarà possibile orientare l’analisi del contesto e delle sue
criticità rispetto ai bisogni di inclusione del target individuato.
1.2 – Analisi contesto territoriale specifico e dei relativi bisogni
Il secondo passaggio è appunto l’attenta analisi del contesto socio-culturale in cui si
ipotizza la messa in atto del progetto: caratteristiche socio-demografiche, interlocutori
istituzionali e informali presenti sul territorio, analisi delle problematiche più cogenti e
95
della presenza o meno di altre iniziative simili. Per lo sviluppo di progetti sportivi ad
esempio è fondamentale una mappatura delle realtà esistenti (società sportive, associazioni
del terzo settore, oratori, spazi e impianti sportivi) e delle loro caratteristiche. Questo primo
passaggio richiederà tempi e risorse tanto maggiori quanto più il contesto di intervento è
distante (tanto in termini geografici quanto in termini culturali) dalla “casa madre”
dell’ente promotore del progetto.
In questa fase è fondamentale uno sguardo che a partire dai potenziali utenti target,
ponga attenzione alle reti reali o potenziali attorno ad essi che possono essere fonte di
inclusione e legame (approccio multi-stakeholder) a partire dalle realtà sportive del
territorio per arrivare alle istituzioni (pubbliche o private che siamo: enti locali,
associazioni, università, scuole, ospedali, ministeri).
Sarà così possibile un’analisi specifica dei bisogni territoriali del target di
riferimento. Dalla fase di mappatura iniziale in questa step è necessario costruire occasioni
di confronto e dialogo con interlocutori del territorio (referenti istituzionali di scuole, enti
pubblici, realtà sociali) in cui si discuta del bisogno reale del territorio e del target di
massima ipotizzato, delle possibili partnership e delle azioni di attivazione della rete.
1.3 – Definizione partner territoriali e costituzione del Tavolo di gestione
Il terzo passaggio, conseguente all’individuazione del target e all’analisi del contesto, è
l’individuazione di possibili partner sportivi territoriali del progetto. Per la
selezione di questi partner è bene tenere conto di alcuni elementi chiave: una solida
strutturazione organizzativa, un riconoscimento territoriale rispetto alle competenze
sportive e sociali, una conoscenza e un radicamento territoriale spiccato, la presenza al
proprio interno di interlocutori forti e ingaggiati rispetto ad un progetto dalle finalità
sociali ipotizzate. Il processo di selezione dei partner territoriali è un punto di snodo
fondamentale se l’obiettivo del progetto non è solo facilitare la pratica sportiva di fasce di
popolazione che non ne avrebbero accesso in altro modo ma anche quello di scaturire a
partire da essa processi inclusivi a diversi livelli.
Analizzato il contesto di intervento e i possibili partner territoriali, affinché prenda
avvio la fase di micro-progettazione e implementazione del programma è fondamentale la
messa a fuoco del team di lavoro, con la costituzione di un tavolo di gestione coordinato
da un Project Manager che coinvolga gli interlocutori territoriali precedentemente
individuati.
Le figure di project manager solitamente coinvolti in questi progetti spesso sono
professionisti con percorsi formativi nell’ambito delle scienze motorie o del marketing
sportivo, quindi generalmente molto esperti del mondo sportivo ma con competenze più
carenti nell’ambito della gestione di reti complesse e della progettazione sociale; riteniamo
siano invece fondamentali, per una figura che coordini progetti sportivi con finalità di
96
inclusione sociale, competenze di attivazione e gestione di reti territoriali a diversi livelli, di
facilitazione e attivazione di processi complessi a livello territoriale.
Il tavolo di gestione, coordinato dal PM e composto dai partner territoriali del progetto,
ha la funzione di monitorare e regolare l’intero processo di lavoro. Nelle fasi iniziali in
particolare: circoscrivere il target di riferimento, definire e co-costruire gli obiettivi di
lavoro specifici (entro la più ampia finalità progettuale data dal tavolo di regia) con i
partner locali, definire le progressive azioni progettuali, individuare le risorse umane e
materiali necessarie per avviare il progetto.
Esiti attesi di questa fase sono: definizione dei partner di progetto accanto agli enti
sportivi, definizione specifica del target (esempio: minori di fasce marginali di età tra gli 11
e i 13 anni; donne straniere che non lavorano, adulti richiedenti asilo che vivono presso
centri di accoglienza) e dei conseguenti enti invianti, definizione di massima del programma
di attività (ore di attività settimanali, spazi disponibili ed eventualmente da individuare,
profili di operatori richiesti, monte ore degli operatori), migliore definizione del budget
necessario alla realizzazione delle attività.
1.4 – Selezione del team di lavoro
Parallelamente alla fase di attivazione della rete territoriale nella costruzione operativa
del progetto è fondamentale, in questa fase preparatoria, la selezione degli operatori che
gestiranno la quotidianità del progetto. Essi vanno identificati in funzione delle finalità e
attività specifiche dei progetti con un’attenta definizione dei profili di competenze
richieste. Generalmente questi progetti necessitano di figure esperte in ambito tecnicomotorio (tecnici, allenatori, preferibilmente laureati in scienze motorie) a cui però è
richiesta una forte inclinazione educativo-relazionale. Accanto ad esse è fondamentale il
lavoro di figure dal profilo psico-pedagogico (psicologi ed educatori) a cui oltre alle
competenze relazionali e di ascolto è fortemente richiesta una certa familiarità e abitudine
al linguaggio, alle culture e ai mondi sportivi (lavorare in setting non abituali, lavorare con
tempi e in luoghi flessibili, lavorare con abbigliamenti adeguati).
Qualora i partner sportivi territoriali non abbiano già al loro interno figure con tale
profilo, una partnership anche con Università ed enti di formazione locali può
rappresentare una buona prassi nell’ottica del reclutamento, ma anche della loro
formazione e aggiornamento costante degli operatori. In alcuni casi, qualora le
risorse umane territoriali non posseggano le core competences richieste dal progetto, sarà
necessario un periodo formativo preliminare volto alla creazione di conoscenze e
competenze di base comuni che mettano in dialogo le diverse professionalità. In lavoro di
supervisione e monitoraggio delle equipe sarà poi un nodo chiave per il funzionamento del
progetto anche nella fase di implementazione vera e propria, e affinché una delle eredità dei
progetti a livello comunitario sia anche la definizione di nuove competenze professionali
legate al mondo sportivo.
97
2.1 – Reclutamento beneficiari diretti
Un primo passaggio operativo fondamentale per l’inizio delle attività è il reclutamento
e coinvolgimento dei beneficiari diretti e solitamente riuscire a far sì che soggetti non
soliti alla pratica sportiva si ingaggino e si presentino a fare sport è un esito tutt’altro che
scontato. Questa prima fase operativa è il frutto di uno stretto lavoro di collaborazione con
gli interlocutori territoriali “invianti” (servizi sociali, scuole, centri di accoglienza, centri di
aggregazione, la strada), e richiede una implicazione diretta degli operatori del progetto
inversamente proporzionale al grado di strutturazione dell’ente inviante (es: ragazzi di
strada VS ragazzi in comunità alloggio). Ai fini della progettazione operativa in questa fase
di aggancio dei beneficiari diretti è fondamentale non solo la relazione che si riesce ad
instaurare con loro, ma anche con chi li conosce e li segue in altri ambiti di vita, al fine di
costruire progettazioni mirate e specifiche.
Il monitoraggio costante della partecipazione degli utenti alle attività rappresenta un
importante indicatore dell’andamento del progetto. Un’attenta cura e monitoraggio delle
motivazioni delle assenze o di eventuali abbandoni rappresenta un elemento fondamentale
per progetti sportivi con finalità di inclusione sociale; tali indicatori qualitativi e
quantitativi possono mettere in luce, durante lo svolgimento del progetto, la necessità di
ampliare o attivare nuovamente le azioni di reclutamento.
2.2 – Programmazione delle attività e monitoraggio
In base alla definizione specifica dei beneficiari diretti del progetto andrà fatto un
preciso lavoro di programmazione delle attività in risposta agli obiettivi prefissati (es.
Inclusione dell’utente nel gruppo sportivo; inclusione dell’utente in una rete tra società
sportiva e scuole del territorio). Come evidenziato in apertura sarà importante che la
progettazione delle attività non preveda solo attività di pratica sportiva, ma accanto ad esse
si sviluppino via via iniziative di raccordo o di potenziamento di attività legate ad altre
sfere di vita degli utenti coinvolti (istruzione, salute, ecc,.).
In questa fase di programmazione è fondamentale la stretta supervisione e monitoraggio
98
delle equipe operative da parte del Project Manager attraverso:
- organizzazione di riunioni cadenzate sia “sul campo” per la gestione delle urgenze
operative quotidiane, sia “fuori campo” per una riflessione più ampia sui passi operativi e le
criticità emergenti (esempio: scarse presenze, problemi comportamentali, problemi
organizzativi, integrazione dei diversi ruoli degli staff di progetto);
- strumenti di monitoraggio delle attività (verbali di riunioni, registri presenze, schede,
report).
Tali attività necessitano poi una costante condivisione dell’intera linea di progetto sia
entro il tavolo di gestione che con il tavolo di regia.
Il lavoro di co-costruzione ed esplicitazione degli obiettivi specifici e delle azioni volte al
loro raggiungimento rappresenta un passaggio fondamentale per il processo di valutazione
di efficacia dei progetti; grazie a questo momento è possibile per l’equipe di valutazione
individuare gli indicatori di efficacia del progetto e progettare strumenti e dispositivi di
ricerca adeguati alla loro rilevazione.
2.3 – Verifica in itinere
L’adozione di metodologie di progettazione partecipata presuppone che gli esiti
progressivi dell’andamento del progetto vengano “messi in circolo” affinché i diversi
interlocutori del progetto (dagli utenti diretti fino ai finanziatori) possano esprimersi in
merito e influenzare la direzione e l’attuazione stessa del progetto. Una forte attenzione alla
calendarizzazione di momenti di verifica è pertanto fondamentale. Tali momenti
andranno appunto attuati a diversi livelli: un livello più “interno” al progetto, con gli staff
di lavoro entro le realtà sportive implicate nella realizzazione delle attività quotidiane; un
livello più “esterno”, con i diversi interlocutori istituzionali e territoriali implicati. Dagli
esiti di questi momenti di verifica sarà fondamentale che entro il tavolo di regia e
progettazione si discutano e decidano azioni di “aggiustamento” e “riprogettazione” volte
all’ottimizzazione dell’efficacia del progetto stesso.
2.4 – Valutazione finale: sostenibilità e legacy
Un momento di verifica finale dell’impatto sociale del progetto è fondamentale in
ottica di valutazione della sostenibilità del progetto e della legacy da esso generata. Esso
rappresenta un’occasione di bilancio del progetto ma anche un’occasione di rilancio a
nuove linee di intervento. Data la complessità dei progetti di cui stiamo parlando è evidente
che ha senso ipotizzare una valutazione dell’impatto sociale di un progetto solo su tempi
medio-lunghi di attuazione.
99
Una cultura e una politica innovativa per lo sport
Una ultima considerazione riguarda la necessità di valorizzare a livello istituzionale lo
sport come strumento sociale. Esso è ancor oggi uno strumento poco usuale, meno
esplorato rispetto ad altri per il sostegno all’inclusione sociale; potrebbe dare il suo
contributo alla società come altra occasione per creare reti istituzionali, organizzative,
gruppali, e interpersonali; come possibilità per generare processi nuovi e partecipati, per
dare chiavi alternative di lettura di alcuni fenomeni sociali. Un Ente locale, come il Comune
di Milano, può rivestire un ruolo cruciale nella regia di progetti e programmi che utilizzino
lo sport con finalità inclusive: sensibilizzare l’opinione pubblica e gli addetti al lavoro
sociale sul possibile ruolo dello sport come strumento innovativo per attivare processi di
inclusione sociale; promuovere politiche che spingano in tale direzione; favorire
l’attivazione di sinergie tra partner territoriali fino addirittura a farsi garante della
governance delle reti attivate
D’altro canto poter sperimentare e monitorare in modo adeguato lo sport di fronte a
questa sfida, farebbe bene anche allo sport stesso, generando forse una nuova cultura dello
sport e dell’inclusione.
Bibliografia
Bailey, R.
2005 “Evaluating the relationship between physical education and sport”, “Educational
Review”, 57, pp. 71-90.
Burnett, C.
2006 Building social capital through an ‘active community club’. “International Review
for the Sociology of Sport”, 41, pp. 283–294.
Coalter, F.
2002 Sport and community development: A manual research. Edinburg, Research Unit
Sportscotland.
Collins, M. F. & Kay, T.
2003 Sport and social exclusion. London, Routledge Taylor & Francis Group.
Cousins, J. B. & Chouinard, J. A.
2012 Participatory evaluation up close: An integration of research-based knowledge.
Charlotte, NC: Information Age Publishing.
Darnell, S. C., Chawansky, M., Marchesseault, D., Holmes, M. & Hayhurst, L
2016 The State of Play: Critical sociological insights into recent ‘Sport for Development
and Peace’ research, “International Review for the Sociology of Sport”, 51 (3), pp. 1–19.
Gómez, C., Puig, N. & Maza, G.
100
2009 Deporte e integración social: Guía de intervención educativa a través del deporte.
Madrid, INDE.
Gozzoli C., D’Angelo C.
2013 Trabajar con las canteras de clubes profesionales de fútbol: una experiencia de
consultoría de procesos para aceptar desafíos y mantener posibilidades, In Cantarero L.
(eds). Jugar con cabeza. Psicologìa Aplicada al futbol, Prensas Universitarias de Zaragoza
(PUZ): Zaragoza.Sanchez.
Gozzoli C., D’Angelo C., Confalonieri, E.
2013 Evaluating sport Project which promote social inclusion for young people: a case
study, “Revista Iberoamericana de Psicologia del Deporte”, 8,1, pp. 153-172.
Green, B. C.
2008 Sport as an agent for social and Personal Change, in Girginov V. (ed.), Management
of Sports Development, Elsevier, Oxford. p. 129-146.
Hartmann, D. & Kwauk, C.
2011 Sport and Development: An overview, critique, and reconstruction, “Journal of
Sport and Social Issues”, 35, pp. 284-305.
Levermore, R. & Beacom, A.
2009 Sport and International Development, Basingstoke: Palgrave.
Lawson, H., A.
2005 Empowering people, facilitating community development, and contributing to
sustainable development: The social work of sport, exercise, and physical education
programs, “Sport, Education and Society”, 10, pp. 135-160.
Manzi C. & Gozzoli C. (a cura di)
2009 Sport. Prospettive psicosociali, Carocci Editore, Roma.
McTaggart, R.
1997 Participatory action research: International contexts and consequences. Albany,
State University of New York Press.
Perks, T.
2007 Does sport foster social capital? The contribution of sport to a lifestyle of
community participation, “Sociology of Sport Journal”, 24, pp. 378-401.
Sanchez, R. & Gozzoli, C.
2012 Deporte, cooperación y desarrollo comunitario. La experiencia del Playground de
Manenberg (Ciudad del Cabo, in Cristina Larrea, Monica Martinez (Eds.), Contribuciones
antropológicas al estudio del desarrollo , UOC Ed., pp. 101-117.
Sanchèz, R., Gozzoli C., D’Angelo C.
101
2013 Can sport include people? Risks and chanches, “Revista Iberoamericana de
Psicologia del Deporte”, 8,1, pp.173-192.
Schulenkorf, N.
2012 Sustainable community development through sport and events: A conceptual
framework for Sport-for-Development projects, “Sport Management Review”, 15, pp.1–12.
Schulenkorf, N., Sherry, E. & Rowe, K.
2016 Sport for development: an integrated literature review, “Journal of Sport
Management”, 30, pp. 22–39.
Whitley, M. A., Forneris, T., & Barker, B.
2014 The Reality of Evaluating Community-Based Sport and Physical Activity Programs
to Enhance the Development of Underserved Youth: Challenges and Potential Strategies,
“Quest”, 66, pp. 218-232.
102
Cristina Tajani
Postfazione
Il Laboratorio Metropolitano per la Conoscenza Pubblica, da cui questo libro origina, è il
frutto di un’ipotesi – condivisa anzitutto da Comune di Milano e Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli – e della ricerca di un metodo aperto, fondato e critico per verificarla.
L’ipotesi è che esista un’innovazione “diffusa” in grado di generare inclusione sociale.
Viviamo in un tessuto economico storicamente dinamico, capace – anche durante la crisi
più lunga degli ultimi sessant’anni – di attivare anticorpi e dischiudere opportunità. Fin dal
2011 abbiamo difeso la convinzione che questa reattività si debba anche a fenomeni
“emergenti”, da alcuni inizialmente vissuti come marginali o laterali ma, in realtà,
determinanti.
L’esperienza dimostra però che non basta la fiducia nelle risorse spontanee, endogene,
per garantire solidità e durata alle soluzioni più promettenti. Nella prassi, si trattava per noi
di associare ab inizio parti consistenti della cittadinanza nel disegno delle politiche,
abbandonando ogni tentazione top down ma evitando, allo stesso tempo, l’illusione che un
processo di sviluppo possa fare a meno di governance e fattori abilitanti. Senza il
coinvolgimento dei protagonisti non avremmo promosso, ad esempio, gli interventi in
materia di coworking e start up digitali o sociali, o le iniziative sull’economia della
collaborazione o sul crowdfunding civico che sono riconosciute come un tratto della
Milano degli anni recenti.
Qui entra in discussione il metodo e in particolare – ragionando di questo libro – il
rapporto tra saperi e politiche.
Ciascuno dei temi affrontati negli incontri del Laboratorio (“Nuove forme di
produzione”, “Rigenerazione urbana e leve di sviluppo”, “Smart city e politiche inclusive”,
“Promozione dei talenti e delle competenze”) nasce dalle risposte ricevute alla call for paper
lanciata nel 2015 dal Comune. Chi, nella propria attività scientifica, avesse prodotto un
contributo riconducibile al rapporto tra innovazione e inclusione nelle politiche pubbliche
poteva sottoporlo a selezione e valorizzare la propria analisi. Hanno risposto ricercatori in
grande maggioranza giovani e spesso (nel gergo accademico) “non strutturati”, operanti su
Milano e non solo: la conferma che, se per tante ragioni è conclusa la stagione degli esperti
ingaggiati ad hoc dalle amministrazioni, esiste un sapere capillare – teorico ed empirico,
103
spesso comparativo - con cui predisporre modalità sistematiche di scambio.
La mobilitazione di conoscenza per il policy making urbano è del resto un’eredità della
nostra storia. Nel primo novecento Milano divenne “scientifica” rispondendo alla domanda
rivolta al governo municipale da saperi nuovi: statistica, chimica, igiene, ingegnerizzazione
dei servizi ne cambiarono il volto; ciò fu possibile perchè un arcipelago di istituti formativi
(sorti prima delle università) ci aveva allineati alle più “tecniche” capitali europee,
consentendo di attrarre intelligenze anche nella macchina amministrativa. Non è insomma
pensabile intervenire efficacemente su dinamiche di trasformazione tecnologica, culturale
ed economica come quelle (anche) oggi sotto i nostri occhi senza dedicare tempo alla loro
lettura; e senza confrontarsi sugli effetti – attesi o inattesi – delle politiche nate per
abilitarli o regolarli. Tanto più se l’ibridazione degli “innovatori” con il sistema di impresa e
l’associazionismo di stampo tradizionale non è più un’eccezione.
Inclusione e innovazione non sono universi separati. Le nuove idee nascono e si
sviluppano nei contesti aperti ed accoglienti. A certe condizioni, spazi, strumenti e
investimenti in conoscenza o tecnologia possono cambiare il destino di un quartiere e di
una città. Un’innovazione in grado di generare valore aggiunto, ma anche socialità e
comunità, mette in discussione il repertorio tradizionale di interventi a sostegno del lavoro,
dell’impresa e della formazione professionale. Per gli enti pubblici si tratta allora di
“reinventare la tradizione”, rinnovando il catalogo delle misure per lo sviluppo.
Se rendere sempre più conosciuto il patrimonio di conoscenza prodotto da Milano e su
Milano era l’obiettivo del primo Laboratorio metropolitano per la conoscenza pubblica,
aprire il dialogo con tutti i protagonisti della vita sociale ed economica della città è lo scopo
di questo libro e delle prossime iniziative che Comune e Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli si accingono a proporre. Intendiamo allargare ancora di più la platea dei possibili
contributori, migliorare il prototipo e cimentarci su scala più ampia.
Assecondare le innovazioni che Milano è in grado di produrre o, quando è il caso, di
“importare” dall’Europa e dal mondo è quanto intendiamo continuare a fare con tutti i
mezzi disponibili.
104
Gli autori
Giovanni Azzone è professore ordinario di Economia e organizzazione aziendale
presso il Politecnico di Milano. Dal 2010 al 2016 è Rettore del Politecnico di Milano. Ha
svolto e svolge attività di ricerca nel campo dell’analisi organizzativa e del controllo di
gestione in imprese industriali e pubbliche amministrazioni (Ministero dell’Economia e
della Finanze, Presidenza del Consiglio dei Ministri). Ha inoltre lavorato per il Comitato
Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (benchmarking delle prestazioni
delle attività amministrative degli Atenei), il Ministero delle infrastruttura e dei trasporti
(benchmarking delle prestazioni degli UMC), la Commissione Tecnica della Spesa Pubblica
(la nuova programmazione di bilancio), l’Università degli Studi di Bologna (audit del
sistema di governance), l’Istat (audit organizzativo e monitoraggio del processo
organizzativo), l’ENEA (audit delle competenze tecnologiche) la Regione Lombardia, la
Provincia di Milano (misura di performance del sistema di trasporto locale) e i Comuni di
Milano e Roma.
Marika Arena è professore associato presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale
del Politecnico di Milano. È docente del corso di Sistemi di controllo di gestione e Economia
e organizzazione aziendale e collabora alla didattica in diversi master e corsi di formazione
post laurea presso il Consorzio MIP. Svolge attività di ricerca e consulenza nell’ambito del
controllo di gestione, risk management e internal auditing. I suoi interessi di ricerca
riguardano principalmente tre aree, quali la definizione di sistemi di misurazione delle
prestazioni in contesti specifici; la sostenibilità, come fonte di vantaggio competitivo e il
risk management e l’internal auditing. È autrice di numerose pubblicazioni scientifiche in
ambito nazionale ed internazionale.
Irene Bengo è ricercatrice presso il dipartimento di Ingegneria Gestionale del
Politecnico di Milano, laureata in Ingegneria Ambientale, dottorata in Ingegneria
Gestionale. È docente del corso “Business In Transformation: Social and Sustainability
Challenges Lab”. La sua ricerca si focalizza sugli strumenti di misura dell’impatto sociale e
del social business, sui modelli di innovazione sociale e dell’impact investing e sui modelli
di riciclo/riconversione in campo industriale. È autrice di pubblicazioni scientifiche in
questi ambiti a livello nazionale ed internazionale. Nel 2014 Staff della Task Force G8 on
105
social investment. Nel 2012 Consulente nazionale di UNIDO sul social business e i sistemi
di misura delle performances. Dal 2009 ad oggi Presidente dell’associazione “Ingegneria
Senza Frontiere di Milano”.
Mario Calderini è laureato in Ingegneria Meccanica al Politecnico di Torino, ha
ottenuto il PhD in Economics presso la University of Manchester. È Professore Ordinario al
Politecnico di Milano presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale dove insegna
Economia e Organizzazione Aziendale. È Vice Direttore dell’Alta Scuola Politecnica. È
Honorary Research Fellow presso la University of Manchester. È autore di libri e
pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e i suoi interessi di ricerca si
concentrano nel campo dell’economia e del management, con particolare riferimento alle
politiche pubbliche per l’innovazione e alla finanza per l’innovazione. Ricopre numerosi
incarichi in organizzazioni ed istituzioni pubbliche nazionali ed internazionali. È il
consigliere del Ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca, con delega alle politiche
di ricerca e innovazione. È membro dell’Advisory Board della European Patent Office
Academy ed è consulente dell’OECD e della Commissione Europea per le politiche di
innovazione. È membro della Task Force del G8 per la Social Impact Finance, è il
rappresentante italiano nel High Level Expert Group for Digital Agenda della Commissione
Europea.
Claudio Calvaresi, dottore di ricerca in Urbanistica, senior consultant presso Avanzi,
professore aggiunto di Urban Conflicts Analysis presso il Politecnico di Milano, è stato
direttore del Laboratorio di Quartiere di Ponte Lambro (Milano). Lavora al programma di
cooperazione europea Urbact come valutatore esterno. Svolge attività di ricerca,
valutazione e consulenza nel campo delle politiche urbane. Accompagna progetti di
innovazione sociale, rigenerazione urbana e sviluppo locale.
Letizia Chiappini, è dottoranda in studi urbani (UrbEur - Ph.D.) all’Università di
Milano-Bicocca. Il suo attuale progetto di ricerca studia la relazione tra sharing economy e
politiche urbane, in ottica comparativa a Milano e Amsterdam. In particolare, si concentra
sugli spazi di making e cultura DIY. Si occupa di governance, urban political economy,
discorsi e narrative in ambito urbano. Ha partecipato ad alcuni progetti europei in
Danimarca e in Turchia
Luca Daconto, dottore di ricerca in Studi europei urbani e locali, è attualmente
assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di
Milano-Bicocca. I suoi principali temi di ricerca riguardano la mobilità, l’accessibilità, gli
spazi pubblici, la vulnerabilità sociale, le politiche urbane e l’uso dei GIS nella ricerca
sociale. Dal 2011 è membro della segreteria di redazione della rivista Sociologia Urbana e
Rurale.
106
Chiara D'Angelo, ricercatrice presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore, docente di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, Coordinatrice
didattica del Master di secondo livello Sport e Intervento Psicosociale dell'Alta Scuola di
Psicologia Agostino Gemelli dello stesso Ateneo. In termini di ricerca scientifica i suoi
principali interessi vertono su: le figure professionali come allenatori, manager sportivi e
percorsi formativi che lavorano a supporto delle competenze relazionali di questi
professionisti; lo sviluppo del talento nello sport giovanile; le transizioni di carriera nello
sport d'elite (fine carriera, junior to senior transition, dual career); la progettazione e la
valutazione di efficacia di progetti che usano lo Sport come strumento di inclusione sociale
(Sport for Development Programs); lo sviluppo professionale dello psicologo in ambito
sportivo. Tali interessi sono maturati negli anni attraverso progetti di formazione e di
ricerca-intervento come consulente di ASAG (Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli),
al servizio di diverse realtà sportive del territorio italiano e di rilievo internazionale.
Caterina Gozzoli, Professore Associato in Psicologia del conflitto e della convivenza
socio-organizzativa presso la Facoltà di Psicologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore,
Direttore di ASAG (Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli), Direttore scientifico
dell'Unità Psicologia, Sport e Società, del Master di secondo livello in Sport e Intervento
Psicosociale e Responsabile scientifico di diversi progetti sullo Sport. Vice presidente
dell'AIPAF (Associazione Internazionale di Psicologia Applicata al Calcio) e membro del
GRIES (Gruppo di Ricerca Sport e Società dell’Università Blanquerna di Barcellona). Tra le
principali aree e tematiche di ricerca e di intervento, vi sono la formazione e la consulenza
al ruolo dedicata a professionalità nel mondo dello Sport, con particolare attenzione ai
dirigenti e agli allenatori; lo sviluppo dello Sport come strumento di inclusione sociale, con
particolare attenzione alla valutazione dell'efficacia dei progetti inclusivi; la consulenza a
Club professionistici per sostenere la qualità dei servizi.
Roberta Marzorati è attualmente visiting researcher presso il Colegio de la Frontera
Norte di Tijuana (Messico). Dal 2011 è stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento di
Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca, dove nel 2009 ha ottenuto il
dottorato in Sociologia Urbana in cotutela con il Departament de Sociologia dell’Universitat
Autònoma de Barcelona. I suoi principali interessi di ricerca sono: multiculturalismo
quotidiano in contesti urbani, diversità e coesione sociale nei quartieri, politiche urbane di
social mix, politiche locali di immigrazione, conflitti e partecipazione a livello locale,
risposte locali alla dispersione dei richiedenti asilo nella UE.
107
Elena Ostanel, è Dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e Politiche Pubbliche
del Territorio, dal 2012 è Research Fellow all’Università IUAV di Venezia dove collabora
con la Cattedra Unesco per l’inclusione socio-spaziale dei migranti internazionali. È
coordinatrice del Master U-RISE, Rigenerazione Urbana e Innovazione Sociale. È visiting
professor alla Venice International University per il corso City and Immigration. Negli
ultimi anni l’attività di ricerca è stata dedicata soprattutto alla ricerca-azione in quartieri
multietnici in collaborazione con alcune municipalità all’interno di progetti finanziati dalla
Commissione Europea, Ministero dell’Istruzione, Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e del Turismo (sui temi conflitti per lo spazio pubblico, politiche per la gestione
della diversità, sviluppo territoriale e rigenerazione urbana). Autrice di numerosi articoli
nazionali e internazionali sulla segregazione residenziale, la convivenza nelle periferie e la
rigenerazione urbana, ha di recente pubblicato il volume The Intercultural City: Migration,
Minorities and the Management of Diversity (a cura di, con G. Marconi, IB Tauris, London,
2016) e Quartieri Contesi. Convivenza, conflitti e governance nelle zone stazione di Padova
e Mestre (con C. Mantovan, FrancoAngeli, Milano, 2015). È visiting fellow presso The Open
University (UK) e ha svolto periodi di ricerca a Parigi, Johannesburg, Berlino e Rotterdam. È
Marie Curie Fellow presso l’Instituto Mora a Città del Messico.
Marianna d’Ovidio è ricercatrice di sociologia economica presso l’Università di Bari,
Aldo Moro. Si occupa di cultura, innovazione sociale e creatività, studiandone i legami con
lo sviluppo locale, il territorio e la città. Ha partecipato e partecipa a numerose ricerche
internazionali e nazionali sul tema della social innovation, dell’economia culturale e dello
sviluppo locale. Il suo ultimo libro: The creative city does not exist. Critical essays on the
creative and cultural economy of cities. Milano: Ledizioni, 2016
Cristina Pasqualini è ricercatrice confermata di Sociologia generale presso la Facoltà
di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove
insegna Metodi per la ricerca sociale (Tecniche qualitative), Laboratorio di ricerca sociale III
(Tecniche dell’intervista) e Sociologia dei fenomeni collettivi. Dal 2000 afferisce per le
attività di ricerca al Dipartimento di Sociologia dello stesso Ateneo. Dal 2011 collabora
all’indagine “Rapporto Giovani” curata dall’Istituto Giuseppe Toniolo e dal 2013 con il
Comune di Milano (Settore Politiche giovanili) in merito alla valutazione delle politiche
rivolte agli under35. Nel 2014 ha avviato e coordina l'Osservatorio sulle Social Street.
Ivana Pederiva urbanista, libero professionista, si occupa di accompagnamento di
progetti di rigenerazione urbana e sviluppo locale. Tra il 2012 e il 2016, per conto di
CICSENE, ha coordinato il servizio di accompagnamento sociale per l’ambito territoriale di
Gratosoglio (Milano) nell’ambito dell’attuazione del Contratto di Quartiere II ed il progetto
“Gratosoglio social lab, per una comunità più responsabile” nell’ambito del programma della
regione Lombardia “Laboratori sociali di quartiere. Nuovi spazi di attivazione sociale”.
108
Emanuele Polizzi è Assistant Professor in Sociologia Generale presso l’Università
degli Studi Ecampus. Già assegnista di ricerca presso l’Università di Milano Bicocca, nel
2008 ha ottenuto il dottorato di ricerca in sociologia alla Graduate School in Social and
Political Science di Milano. Si occupa di terzo settore, partecipazione politica e politiche
pubbliche locali. È membro del Laboratorio di sociologia per l’azione pubblica Sui Generis.
Nel 2013 ha pubblicato “Programmare i territori del welfare. Attori, meccanismi ed effetti”,
con Cristina Tajani e Tommaso Vitale.
Michela Semprebon è Post-doc Fellow presso il Dipartimento di Scienze Politiche e
Sociologia dell’Università di Bologna. È stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento di
Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca, dove nel 2010 ha ottenuto il
dottorato in Sociologia Urbana. I suoi principali interessi di ricerca sono: politiche urbane
ed abitative di social mix; politiche locali di inclusione dei migranti; politiche di asilo e di
accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati; conflitti urbani, democrazia e forme locali di
partecipazione politica; relazioni intergenerazionali tra prime e seconde generazioni di
immigrati.
109