Tsunami dell`innovazione e rinnovo delle infrastrutture

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Transcript Tsunami dell`innovazione e rinnovo delle infrastrutture

Tsunami dell’innovazione e rinnovo delle infrastrutture urbane
Giuseppe Longhi1
Abstract: The paper proposes the hypothesis that the Italian society underestimated the "disruptive"
innovation processes of the last two decades, by not addressing the essential infrastructural renewal
of our cities. The paper proposes a reflection about the innovation cycles occurred since the post
second world war, summarizing them into three phases: the era of innovation archeology, from the
end of the 50s until the early 90s, the era of innovation planning, running from the Rio Conference
until today, the era of innovation 'tsunami', manifesting in the new millennium, driven by the need
to re-evaluate the physical and human capital.
Consequently, the output from the current decline will depends on the ability to quickly deal with
the urban human, physical and natural infrastructures renewal challenges dictated by undervalued
'disruptive' innovations.
Abstract: L’articolo propone l’ipotesi che la società italiana abbia sottovalutato i processi di
innovazione “dirompenti” degli ultimi due decenni, evitando di affrontare l’indispensabile rinnovo
infrastrutturale delle nostre città. Questa ipotesi si fonda sull’analisi dei cicli innovativi che si sono
manifestati a partire dal secondo dopoguerra, che sono sintetizzati in tre fasi:
- l’epoca che va dalla fine degli anni ’50 fino all’inizio degli anni ‘90, che definisco “l’archeologia
dell’innovazione” in cui hanno inizio i processi destinati a rendere obsolete le innovazioni
dell’epoca industriale e, di conseguenza, la struttura della città ereditata da quell’epoca;
- il periodo de “l’innovazione programmata a scala globale”, che va dalla Conferenza di Rio, su
Ambiente e Sviluppo “Vertice della Terra” organizzata dalle Nazioni Unite nel 1992, ai giorni
nostri, in cui si definiscono precise scadenze per l’avanzamento dei processi innovativi a
salvaguardia della Terra;
- l’epoca de “gli ‘tsunami’ dell’innovazione”, che si succedono rapidamente nel nuovo millennio a
causa dell’accelerazione dei processi innovativi, sia sociali che tecnologici.
Di conseguenza l’uscita dall’attuale declino dipenderà dalla capacità di affrontare rapidamente e
criticamente le sfide di rinnovo delle infrastrutture urbane dettate da processi innovativi
‘dirompenti’ fino ad oggi sottovalutati.
Premessa
Parafrasando Vincent Guallard: “Se pensiamo che l’economia della città sia basata
sull’innovazione, l’attuale progettazione urbana non è parte di quell’economia”. Guallard sottolinea
l’inadeguatezza degli attuali criteri di progettazione urbana, troppo ancorati a un’idea “alla
Christaller” dello spazio urbano, ossia frutto di relazioni tempo spazio riguardanti esclusivamente
masse e flussi fisici, e a disagio nell’affrontare opportunità e contraddizioni di una dimensione
dello spazio e degli interventi nella quale:
- la componente fisica (gli atomi) opera in sinergia con elementi immateriali (i bit);
- la manipolazione della componente fisica è in una fase di transizione dalle storiche pratiche di
sottrazione di materia a nuove pratiche additivo-generative rese possibili dalle nano-bio tecnologie.
L’ipotesi che propongo è che di fronte alla rapida successione di innovazioni i pubblici
amministratori, ma anche gli erogatori istituzionali del sapere e gli imprenditori, abbiano preferito
ignorare la portata dei nuovi processi, focalizzandosi su innovazioni incrementali, puntando al più
su un miglioramento dell’esistente (sia esso prodotto o servizio o modo di pensare), evitando di
IUAV - Venezia e-mail: [email protected]
affrontare i problemi legati al rinnovo infrastrutturale delle nostre città. In sostanza si è preferito
evitare un confronto operativo con i cicli innovativi che si sono manifestati a partire dal secondo
dopoguerra e che sintetizzo in tre fasi: l’epoca in cui ha inizio il processo innovativo destinato a
rendere obsolete le innovazioni dell’epoca industriale e, di conseguenza, la struttura urbana
ereditata da quell’epoca, che definisco l’epoca de “l’archeologia dell’innovazione”, che va dalla
fine degli anni ’50 fino all’inizio degli anni ‘90, il periodo de “l’innovazione programmata a scala
globale”, che va dalla Conferenza di Rio su ambiente e sviluppo “Vertice della terra” (1992) alla
Conferenza di Rio+20 sullo sviluppo sostenibile (2012) , l’epoca degli “tsunami dell’innovazione”,
che, iniziata con lo tsunami dell’istruzione universitaria a distanza, vede il rapido succedersi di
innovazioni ‘dirompenti’ che riguardano l’economia e la società.
Di conseguenza l’uscita dall’attuale declino dipenderà dalla capacità di affrontare rapidamente e
criticamente le sfide di rinnovo delle infrastrutture urbane dettate da una serie di processi innovativi
‘dirompenti’ fino ad oggi sottovalutati.
1. L’epoca dell’archeologia dell’innovazione
Per epoca dell’archeologia dell’innovazione si intende quell’arco temporale che va dal secondo
dopoguerra fino agli anni ’90, in cui si innovano tecnologie e processi progettuali ereditati
dall’epoca industriale, molto sinteticamente i suoi eventi significativi possono essere ricondotti a:
- l’applicazione dei processi biologici alla progettazione, secondo l’intuizione del fisico Richard
Feynman alla fine degli anni ’50. Sostiene Feynman, “storicamente abbiamo lavorato con la
superficie della materia, per estrazione, oggi abbiamo l’opportunità di lavorare con gli atomi e con
la loro ricombinazione”; questa intuizione è una svolta epocale nel pensare l’architettura, segnata
dal passaggio dal millenario “impastare bitume e argilla” del Libro della Genesi al manipolare
atomi. La fecondità di questo percorso è confermata dall’ assegnazione del Premio Nobel per la
chimica del 2016 a tre studiosi che hanno progettato nano macchine molecolari;
- la rivoluzione dell’iperconnettività di persone e cose, avviata negli anni ’60. Essa presuppone
l’abbandono di processi progettuali gerarchici a favore di processi circolari e interattivi, secondo
l’intuizione dei cibernetici statunitensi, di cui mi limito a ricordare Jay Forrester e Nicholas
Negroponte con il Media Lab;
- la rivoluzione dell’energia rinnovabile a basso prezzo e dei nuovi materiali, secondo i principi
della bioeconomia, illustrati da Roengen alla metà degli anni 70;
- la rivoluzione della valutazione ‘verde’ del reddito prodotto, che considera il costo di
rigenerazione del capitale naturale e il costo del lavoro non di mercato, avviata da William
Nordhaus e James Tobin con il saggio “Is Growth Wrong?” (1972);
- l’inizio dell’era della biotecnologia con l’avvio del programma di ricerca che riguarda il
riconoscimento del genoma degli esseri viventi nel 1990;
- la rivoluzione della gestione dello spazio come elemento mediatore fra la dimensione angelica
dell’immaterialità, la fisicità dei comportamenti dell’uomo e l’impatto delle sue azioni con le regole
dell’universo biologico. Una questione trattata a partire da William Mitchell (con una ricca
produzione fra cui: Vitruvius computatus - 1975 - e The logic of architecture: design, computation,
cognition - 1995), da Paul Virilio in “Lo spazio critico” (1988), da Bernard Tschumi (Questioni di
spazio - 1990), Nicholas Negroponte in “Being digital: atoms and bits” (1995), e che oggi continua
con Toyo Ito, Massimo Cacciari, Carlo Ratti,….
Nel mondo del progetto urbano e di architettura questi trend innovativi sono stati interpretati
magistralmente dal movimento dei metabolici in Giappone, dal filone del “pattern language” ideato
da Cristopher Alexander e sviluppato da William Mitchell, da Cedric Price, capace di tradurre in
progetti urbanistici ed architettonici ad alto valore sociale (qui mi limito a ricordare “Pottery belt” e
“Fun palace”) le potenzialità dei nuovi strumenti progettuali, e, naturalmente, da Richard
Buckminster Fuller.
In Italia importanti soggetti di questo flusso innovatore sono dati dalla scuola di Roma, dove nel
1957 Luigi Moretti e Bruno De Finetti fondano l’IRMOU (Istituto di Ricerca Matematica e
Operativa per l’Urbanistica), Giancarlo De Carlo, che dal 1967 con la collana “Struttura e forma
urbana” del Saggiatore contribuisce a divulgare il lavoro del Media Lab, e Lucio Stellario
D’Angiolini, che con l’attività di ricerca e didattica svolta al Politecnico di Milano contribuirà alla
costruzione di un’idea di urbanistica sensibile al limite delle risorse e ispirata a modelli di gestione
democratici, aperti e generativi di nuova ricchezza.
Bisogna essere consapevoli che gli ambienti culturali, imprenditoriali e amministrativi del nostro
paese hanno sottovalutato gli importanti stimoli al cambiamento generati dai processi sopra
ricordati, una sottovalutazione che sarà uno dei fattori importanti del nostro declino. Infatti, quando
negli anni ’90, esauritisi gli effetti degli assetti sociali e spaziali impostisi all’inizio del secondo
dopoguerra, si manifesterà l’esigenza di rinnovare radicalmente l’assetto economico e
amministrativo del paese, l’impreparazione della classe dirigente porterà a sterili posizioni
conservatrici, improduttive per affrontare la recessione che, scoppiata nel 2008, dura fino ai giorni
nostri.
2. L’innovazione programmata a scala globale
Questo insieme di ondate ‘shumpeteriane di innovatori e di innovazioni, la cui manifestazione
iniziale appartiene ormai all’archeologia della scienza, è stata simmetrica con:
- la sensibilità verso il limite delle risorse da parte di una helite del mondo scientifico ed
economico, questo ha dato il via a modelli interattivi di progettazione collaborativa, supportati
da computer (il più noto è “Limit of growth” - 1972 -, promosso dal Club di Roma, e ideato dal
gruppo di Systems Dynamics dell’MIT, diretto da Jay Forrester);
- la capacità del mondo politico internazionale di tradurre la sensibilità verso il limite delle risorse
in sistematiche azioni integrate a scala globale, grazie alle Conferenze internazionali sullo
sviluppo e l’ambiente promosse dall’ONU, le quali ‘obbligano’ nel lungo momento paesi e
comunità ad alleggerire il proprio ‘fardello ecologico’ per diminuire la pressione dell’uomo
sull’ambiente.
Prende così il via, a partire dal 1992, anno della Conferenza di Rio sull’ambiente, un sistema di
progettazione promosso a scala globale ma da attuarsi, attraverso politiche proattive, a scala
globale, il cui scopo è:
- sviluppare progetti condivisi, agevolati dalla crescita esponenziale della connettività, il cui scopo è
la crescita delle risorse umane, al fine di ideare nuovi modelli di convivenza non intrusivi rispetto
all’ambiente;
- abbassare l’impronta ecologica, ossia abbassare la pressione degli interventi fisici sulla
bioproduttività, grazie al raggiungimento di severi standard di riduzione del consumo di materia,
energia ed emissioni, secondo un processo istituzionale promosso dalle Convenzioni internazionali
sull’ambiente, i cui obiettivi sono stati e sono sottoscritti in sede comunitaria e nazionale.
Il palinsesto di obiettivi quantitativi promosso dalle Convenzioni internazionali per ridurre le
diverse forme di pressioni ambientali introduce di fatto una serie di rivoluzioni nel modo di ideare
lo sviluppo economico ed urbano. Ma il modo in cui si è preteso di gestire tale palinsesto ha apert1o
una grande contraddizione in quanto il mondo delle istituzioni, a partire dall’UE, ha preteso di
calendarizzare tale processo complesso, per sua natura rivoluzionario, quindi incerto nel suo
progredire perché legato a fattori non prevedibili a priori come l’invenzione e la creatività.
Si è arrivati così ad un’Agenda condivisa che:
- programma a tappe forzate la diminuzione della pressione sull’ambiente dei cicli economici e dei
comportamenti dei cittadini, introducendo nei progetti e nei bilanci comunitari la regola del
decoupling, ossia la crescita di produttività deve essere accompagnata alla diminuzione del
consumo di risorse naturali, per accelerare la transizione verso un mondo biologico e, di
conseguenza, la transizione accelerata da una città costruita su regole ‘meccaniche’ ad una costruita
su regole ‘biologiche’;
- richiede risorse esponenzialmente crescenti per ricerca e innovazione. Un obiettivo in evidente
contrasto con l’attuale situazione di stagnazione economica e di dilagante debito pubblico dedicato
sostanzialmente a finanziare la spesa pubblica corrente.
Tuttavia bisogna essere consapevoli che questo contradditorio processo ha dato il via a una vera e
propria rivoluzione nel modo di concepire e realizzare progetti, infrastrutture ed edifici. Una
rivoluzione che, iniziata nel 1992 con l’Agenda 21 propone un orizzonte di radicale innovazione
incentrato al 2050, con l’obiettivo di realizzare insediamenti equi, biocompatibili, ad alta
connettività, a basso costo energetico. Tale processo ha avuto ed ha un’evoluzione complessa,
sintetizzabile nelle seguenti fasi principali:
2.1 di ottimizzazione del ciclo del progetto;
2.2 dell’interattività dei processi progettuali;
2.3 del passaggio da processi progettuali ‘meccanici’ a processi ‘biologici’.
2.1 La fase di ottimizzazione del ciclo del progetto. Iniziata con la Conferenza di Rio del 1992,
introduce tre importanti principi: dell’operare per agende condivise, della supremazia della
comunità locale rispetto alle istituzioni formali, del progettare il territorio e gli edifici secondo la
regola del metabolismo ‘chiuso’.
Con l’introduzione dell’Agenda quale strumento di governance ha inizio la prassi dei sistemi di
gestione ‘aperti’ a tutti i portatori d’interesse, con lo scopo primario di abbassare a tappe forzate
l’impronta ecologica degli interventi. Questo implica una revisione dei criteri di gestione delle
diverse fasi del ciclo del progetto che porta al superamento dello storico processo “artistico
artigianale” di produzione a favore di procedure standardizzate di gestione dell’intero ciclo di vita
progettuale (quali il BIM o il LEED) coerenti con gli obiettivi fissati dall’UNEP nel percorso da
Rio 1992 fino all’attuale Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030.
Tali procedure sono sinergiche con l’avvio di metodi progettuali olistici, grazie ad Agende sempre
più interattive. Questa fase è ben rappresentata dall’AIA con il suo programma “50x50” destinato
alla razionalizzazione del sistema progettuale dei principali contesti metropolitani degli Stati Uniti
d’America.
Non si deve tuttavia ignorare che in tale fase si acuisce una contraddizione nello sviluppo del
metodo progettuale mai sanata: quella fra il procedere secondo osmosi tipico della componente
artistica e del procedere secondo modelli, tipico della componente tecnico-scientifica ;
2.2 La fase dei processi progettuali interattivi. Iniziata con la Conferenza di Rio+20 del 2012, grazie
ai progressi dei sistemi di connessione, di stoccaggio e di manipolazione delle informazioni, essa
propone:
- una nuova centralità della pubblica amministrazione, la quale è chiamata ad erogare nuovi servizi
a valore aggiunto;
- un diverso ruolo del progettista, che, sgravato della produzione di strumenti ‘di base’, è chiamato a
fondare la sua attività su livelli crescenti di creatività.
Queste opportunità sono legate all’efficacia delle infrastrutture pubbliche destinate ad erogare i
nuovi servizi urbani, che devono essere in grado di alimentare il nuovo alfabeto della progettazione
articolato in: “analytics”, data base, cognitivo.
Le pubbliche amministrazioni diventano così un vero e proprio settore di produzione “di base”,
destinato allo stoccaggio e alla manipolazione delle informazioni. La realizzazione di queste nuove
infrastrutture deve essere accompagnata da una radicale innovazione nei sistemi di erogazione del
sapere, la cui continuità e flessibilità sono essenziali per rendere possibili processi di aggiornamento
continuo di grande qualità e a basso costo, per la crescita continua di risorse umane chiamate a
gestire processi di innovazione sempre più rapidi e complessi.
Questa fase propone un’importante evoluzione della natura del progetto, che si identifica sempre
meno con un prodotto e sempre più con un flusso creativo, alimentato dalla rete e dai suoi strumenti
interattivi. Il progetto, da risultato della manipolazione di un sistema ‘chiuso’ (connesso alla
supremazia del luogo e dell’area) basata sulle risorse messe a disposizione dal committente, si
trasforma nell’ideazione e gestione di un sistema ‘aperto’, basato sulla collaborazione tra pubblica
amministrazione, imprese, progettisti e figure professionali diverse, con lo scopo di generare nuove
risorse. Così la rigenerazione delle infrastrutture urbane diventa parte di un processo ‘industrioso’
finalizzato alla crescita del capitale umano ed alla generazione proattiva di nuova ricchezza, in
sintonia con le politiche di economia collaborativa, dove i progetti urbani e degli edifici sono
finalizzati all’autonomia di funzionamento ed all’inclusione dei cittadini (per quanto riguarda
l’organizzazione sociale) e alla loro autosufficienza (per quanto riguarda la produzione di energia e
di cibo);
2.3 La fase attuale, basata sul passaggio da processi progettuali ‘meccanici’ a processi ‘biologici’.
Essa trova espressione significativa nella Conferenza di Parigi sul Clima del 2015, che va oltre gli
obiettivi del controllo delle emissioni e dell’autoproduzione di energia da fonti rinnovabili, che
hanno costituito il cuore delle Convenzioni sull’ambiente a partire da Rio, proponendo la
diminuzione del consumo di materia nei processi costruttivi. Questo obiettivo segna il passaggio da
una progettazione ‘sostenibile’ finalizzata dalla moderazione dei consumi (anche degli edifici e
delle infrastrutture pensati storicamente come “bombe energetiche” ) all’ideazione di manufatti
“vegetariani” (secondo la definizione di Ronald Rovers), cognitivi (secondo il programma Watson
dell’IBM), ispirati alla condivisione (secondo World Economic Forum).
La progettazione è ormai matura per sostituire gli storici metodi ‘meccanici’, basati sulla
sottrazione di materia, con processi basati su regole biologiche, quindi autogenerativi.
3. L’epoca degli tsunami
E’ indubbio che la fase de “l’innovazione programmata” abbia aperto una serie di contraddizioni:
- i paesi più gravati dal debito non riescono a tenere il passo con la velocità di innovazione
imposta dalle Convenzioni internazionali, lo stesso può dirsi per i paesi in stagnazione;
- i paesi consociati su base nazionale, come quelli aderenti all’UE, non sembrano in grado di
sviluppare adeguate politiche collaborative, secondo quanto imposto dai loro statuti;
- la rigida programmazione dell’evoluzione dei sistemi produttivi (tendente sostanzialmente
all’invenzione, vedi punto 2.3), imposta dalle Convenzioni internazionali, si sta rivelando
irrealistica;
- l’aggiustamento dei modelli di sviluppo economici nati con la rivoluzione industriale funziona
sempre meno;
- l’azione della finanza è fuori dal controllo degli apparati pubblici.
Nello stesso periodo sono emerse alcune sostanziali trasformazioni strutturali:
- il baricentro dello sviluppo si è spostato velocemente verso i paesi asiatici;
- l’insediamento della popolazione in aree metropolitane in rapida crescita sta spostando
l’organizzazione politico-sociale dalla centralità della nazione alla centralità delle aree
metropolitane;
- il cuore dell’economia si sta spostando dalla centralità dei beni rivali nella produzione a quella
dei beni non rivali, da cui l’importanza della filiere risorse umane, sistemi cognitivi, sapere….;
- gli sciami di innovatori che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra invece di muoversi
ordinatamente secondo i modelli evolutivi immaginati dalle Convenzioni internazionali, si sono
moltiplicati caoticamente dando luogo a una esplosione difficilmente prevedibile di innovazioni
‘dirompenti’, gli attuali tsunami dell’innovazione.
Come aveva previsto Donella Meadows abbiamo avuto troppa fiducia nella modellistica e nella
razionalità e sottovalutato gli effetti della creatività dell’uomo.
La regolarità dei cicli dell’innovazione teorizzata da Kondratieff ha ceduto il passo ai cicli
dirompenti di Metcalfe che si manifestano con intensità e velocità esponenziale. Il procedere
secondo processi dirompenti mette a dura prova le teorie di costruzione della città, perché le
storiche regole di permanenza e stabilità sono messe a dura prova dalla rapidità dei cambiamenti.
Per questo le sperimentazioni di rigenerazione urbana assumono carattere dicotomico: da una parte
sono basate su una ipotetica relativa stabilità di lungo momento dei processi naturali e dall’altra su
incertezza e resilienza, ossia sulla capacità di adattarsi a eventi futuri imprevedibili.
La rilettura del potenziale patrimoniale delle nostre realtà urbane alla luce degli effetti dei processi
innovativi ‘dirompenti’ è un’operazione indispensabile per lo sviluppo di una nuova agenda urbana,
coerente con gli obiettivi della comunità internazionale e le scadenze proposte dalla
programmazione dell’UE. Le innovazioni ‘dirompenti’ sono molteplici, ne tratterò tre che ritengo
strategiche per la rigenerazione urbana:
3.1 la visione antropocenetica dello sviluppo urbano;
3.2 il sistema di innovazioni connesse alla Smart City;
3.3 il nuovo ruolo del sapere.
3.1 La visione antropocenetica dello sviluppo urbano. Il termine Antropocene, coniato negli anni
ottanta dal biologo Eugene Stoermer e adottato nel 2000 dal Premio Nobel per la chimica Paul
Crutzen, postula la fine dell’Olocene a favore dell’era del vivente, nella quale i processi umani e
naturali sono considerati un insieme interconnesso. Questa visione implica un radicale
ripensamento dei processi di sviluppo urbano rispetto a:
- nozione di tempo: la nuova era è definita dai geologi, scienziati che non affrontano il breve
termine ma pensano in migliaia di anni. L’era geologica più recente, l’Olocene, risale a 10.000 anni
fa. Ricollegare il pensiero urbano ai tempi dei geologi invita a pensare lo sviluppo urbano in termini
‘patrimoniali’, alla dilatazione nel tempo e nello spazio delle scelte, al pericolo dell’operare con
attenzione al solo breve momento. Non dobbiamo dimenticare che gli esseri umani sono capaci, in
500 anni, di bruciare la biomassa prodotta in 500 milioni di anni e di alterare il clima con le
emissioni di gas serra;
- consapevolezza e responsabilità: la consapevolezza che gli esseri umani sono divenuti la forza
geologica più significativa (dal punto di vista quantitativo e comportamentale), ha generato studi
scientifici importanti dedicati alla contabilizzazione dei flussi di materia, alla pressione dei consumi
sulla bioproduttività, al tendenziale esaurimento della materia grazie ai lavori del Club di Roma, del
Wuppertal Institut, dello Stokholm Environmental Institute. Una seconda fase, in armonia con gli
obiettivi della Millennium Agenda, concentra l’attenzione sul valore economico del capitale
naturale e sul suo ruolo rispetto alla contabilità ‘verde’. Di conseguenza una delle priorità delle
pubbliche amministrazioni diventa una rinnovata conoscenza del capitale naturale, quale
responsabile sensibilità sia verso lo stock di patrimonio indisponibile e disponibile per la
collettività, sia verso la sua capacità di generare nuova ricchezza;
- rinnovo del paradigma progettuale: secondo l’Antropocene la città è natura e quindi va considerata
come qualsiasi altro ecosistema, con gli esseri umani come specie dominante. Quindi nessuna
posizione romantica verso una natura ‘incontaminata’, ma consapevolezza dei nuovi ambienti
generati dai flussi evolutivi che coinvolgono flora, fauna ed esseri umani sempre più urbanizzati.
Il modello che emerge è quello della città intesa come un unico ecosistema che va gestito in modo
olistico, responsabile e resiliente, al fine di sfruttare le interdipendenze fra le risorse umane, le
risorse naturali e le risorse fisiche.
Questo approccio esige la programmazione del metabolismo urbano, ossia del sistema di
interdipendenze fra città e il suo esterno che permette lo scambio, la trasformazione e il consumo
dei flussi di risorse, e questo implica un nuovo approccio alla progettazione.
Storicamente i pianificatori hanno progettato la città sulla base della domanda, specie di manufatti
edilizi; ora è chiesto loro di progettare la città basandosi soprattutto sull’analisi dei flussi.
Generare una progettazione spaziale da un numero enorme di dati di flusso significa passare dal
trattare oggetti esclusivamente fisici al trattare interdipendenze, ossia gli input e gli output connessi
a questi oggetti. Questo implica un modo molto diverso di osservare e di pensare, in quanto
abbiamo la possibilità di alimentare il disegno degli spazi fisici con le interdipendenze dei flussi
della biosfera (generati dalle risorse naturali e dall’atmosfera), della noosfera (generati dalla
conoscenza, dalla cultura e dalla tecnologia), della cybersfera (generati dalla connettività e
dall’intelligenza aumentata).
3.2 La Smart City (da Internet delle Cose alla robotizzazione). Se la città è intesa come un unico
ecosistema, la sua evoluzione non può prescindere da un sistema cognitivo-neuronale capace di
gestire i suoi flussi complessi, questa è l’argomentazione base con cui viene presentata la Smart
City. Essa aggiunge alla potenzialità degli atomi, con cui è realizzata storicamente la città, le
potenzialità dei bit, per dotare il sistema economico, amministrativo e civico delle capacità
accresciute dell’intelligenza artificiale al fine di gestire i sistemi urbani in modo ‘intelligente’.
I nuovi strumenti sono potenti:
- grazie ad internet delle cose stanno trasformando la base industriale da produttrice di singoli
oggetti a produttrice di sistemi interconnessi, in grado di generare flussi continui di relazioni;
- con la tecnologia del blockchain le relazioni sono circolari, non più subordinate a un’entità
centrale di comando o di controllo. Questa morfologia da nuove prospettive a tutto il sistema
delle transazioni (bancarie, finanziarie, ma anche umane) e, in generale delle relazioni;
- grazie alle regole biologiche di progettazione e realizzazione dei nuovi apparati essi sono
autogenerativi, quindi teoricamente in grado di riprodursi senza consumo di materia.
Ma questa potenza non può prescindere da una rinnovata idea di civitas, in quanto i gestori pubblici
della città si trovano oggi in una posizione di quasi monopolio per quanto riguarda la disponibilità
della materia prima dell’era ‘smart’: i dati. E dalla sensibilità a questa idea rinnovata e dalla
capacità di trasformare tale potenzialità in industria civica dipende probabilmente il futuro della
nostra democrazia. Un’industria civica che deve essere in grado di dialogare con un sistema
economico con nuove caratteristiche nel quale i settori trainanti sono quelli dell’ideazione e
gestione di reti (imprese che creano reti nelle quali i soggetti interagiscono e condividono la
creazione di valore) e della creazione tecnologica (imprese che sviluppano e vendono proprietà
intellettuale come software, ricerche, brevetti). Questi settori affiancano e superano, in quanto a
creazione di valore, i settori consolidati della produzione e distribuzione di beni fisici e della
fornitura di servizi.
I nuovi strumenti, inoltre, stanno disegnando una nuova morfologia della città in cui i data center
sostituiscono le industrie di base del passato, le storiche strutture a rete si trasformano in sistemi per
il trasporto di informazioni, o, come nel caso delle smart grid, per l’autoproduzione di energia con il
risultato di disegnare la nuova forma dei quartieri, i cui edifici sono proattivi produttori di energia e
di informazioni, a servizio di popolazioni sempre più diversificate, instabili, con quote crescenti di
soggetti a basso reddito.
La sfida quindi consiste nella creazione consapevole di nuove infrastrutture urbane di base o
‘abilitanti’ indispensabili per la generazione dei nuovi settori di attività a più alto valore aggiunto:
quelli dell’ideazione e gestione delle reti e della creazione tecnologica.
Morfologicamente stiamo assistendo ai fenomeni dell’interconnessione di tutti gli ‘oggetti’ che
compongono la struttura urbana e della sostituzione di mega impianti invasivi con infrastrutture
miniaturizzate.
Ad oggi la potenza della tecnica non sembra essere compensata dalla responsabilità sociale: come
nel caso della priorità alla realizzazione di residenze temporanee a basso prezzo che non riesce a
mettere in crisi il mito immobiliarista del grattacielo, bello ma invenduto.
L’ascesa della smart city è accompagnata da alcune inquietanti contraddizioni, mi limiterò a due: il
collasso dell’idea di collettività e la robotizzazione.
Il collasso dell’idea di collettività: Eli Parisier sostiene che le informazioni erogate dalla rete
passano attraverso una “Filter bubble” destinata a filtrare in modo personalizzato le informazioni
che alimentano il web. E’ la riedizione del “Daily me”, l’informazione personalizzata teorizzata a
suo tempo da Nicholas Negroponte. Ne risulta una visione di Smart City in cui i cittadini bypassano
gli intermediari degli interessi generali e fondamentalmente si limitano ad ascoltare gli echi sempre
più forti delle loro stesse voci, impegnati a dialogare su opinioni e argomenti personali. I social e lo
smart dunque come il piombo usato per la colorazione delle stoviglie, destinato a far collassare la
mente dei cittadini, come ricorda Carlo Maria Cipolla nel suo “Leggi fondamentali sulla stupidità
umana”?
La robotizzazione: Non si può ignorare che la ricerca e le nuove applicazioni ‘industriali’ sono
indirizzate verso i computer neuronali e la completa robotizzazione dei sistemi industriale, della
sanità, del sapere, dei trasporti (come nel caso del programma Watson promosso dall’IBM), con
l’effetto di vedere prospetticamente ridotta la base occupazionale del 40%. In sostanza la Smart
City, parafrasando Piero Sraffa, sarà “una città che produrrà disoccupati a mezzo di disoccupati “?
E’ evidente che l’apparato tecnologico della Smart City è sovrastato dal quesito: chi la governa?
A livello internazionale nell’arco di un decennio si è passati dalla Smart City 1.0 dominata
dall’offerta dei produttori di tecnologia e legittimata dall’obbiettivo di offrire un’accoglienza
ottimale alle nuove classi creative, alla Smart City 2.0 dominata da amministratori lungimiranti, che
hanno considerato le strategie tecnologiche abilitanti per il miglioramento della qualità della vita dei
cittadini e dei visitatori, alla Smart City 3.0 frutto della co-creazione dei cittadini.
Empiricamente, a scala internazionale, oggi assistiamo all’integrazione fra politiche di governo tese
alla realizzazione di nuovi servizi attraverso infrastrutture e processi di digitalizzazione sempre più
avanzati (Smart Cities 2.0) e la spinta degli stessi governi verso la co-creazione dei cittadini per la
crescita organica di ecosistemi civici e imprenditoriali locali (Smart City 3.0). In un mondo dove
grandi aziende come Toyota e Tesla liberalizzano i loro brevetti, nella speranza di avviare processi
di innovazione più aperti, le città devono stimolare continuamente la capacità innovativa dei loro
residenti, offrendo strutture collaborative per risolvere tempestivamente i problemi a basso costo ed
alta efficacia. Le città devono passare dal trattare i cittadini come passivi destinatari di servizi, ad
attivi partecipanti nella co-creazione di una migliore qualità della vita.
3.3 Il nuovo ruolo del sapere. Michael Spence, Erich Brynjolfsson e Andrew McAfee, sostengono
che la risorsa più scarsa e più preziosa nell’attuale "seconda età della macchina", guidata dalle
tecnologie digitali e dalle relative caratteristiche economiche, non sarà il lavoro ordinario, né il
capitale ordinario, ma il capitale umano in grado di creare nuove idee.
Il rinnovo della città di conseguenza deve affrontare la sfida della realizzazione di un ambiente
favorevole per i cittadini attraverso la fornitura pubblica di servizi di base di alta qualità tra cui
l'istruzione, l'assistenza sanitaria e la sicurezza delle pensioni. Tali servizi saranno fondamentali per
garantire parità di opportunità in un contesto economico ed urbano in rapido cambiamento.
Determinante a questo fine è l’innovazione nel campo dell’apprendimento con le tecnologie a
distanza, le possibilità long life learning e l’integrazione fra saperi e nuove attività produttive.
I luoghi del sapere diventano così gli spazi sociali strategici per un’idea rinnovata di città, la cui
priorità passa dalla gestione esclusiva degli spazi fisici alla promozione dei beni ‘non rivali’
costituiti dalle idee, per cui il ruolo del progetto urbano è rimuovere gli ostacoli alla crescita della
conoscenza.
Sostiene William Mitchell: “Occorre creare un ambiente urbano ad alta intensità di conoscenza,
realizzando collegamenti inaspettati, consentendo alle persone di incontrarsi in modo non
programmato, permettendo i più svariati mix di conoscenze. Solo la creazione di un clima culturale
non autoritario, che consenta e valorizzi la speculazione e incoraggi le persone a sviluppare idee
“out of the box”, porta da qualche parte”.
Saper generare una molteplicità di aspettative, portare a tempestivo compimento gli esiti della cocreazione, queste sono le cose più importanti per rigenerare la città e uscire dalla crisi.
Conclusioni
L’articolo è costruito secondo il modello del system thinking con lo scopo di avviare una riflessione
sugli impatti che l’attuale sistema di innovazioni dirompenti genera sull’urbano, e sulle politiche di
rigenerazione urbana che ne derivano .
La struttura del discorso mette in evidenza come gli attuali processi di innovazione abbiano:
- una portata rivoluzionaria riguardo ai ‘materiali’ del progetto, in quanto hanno avviato: 1_ una
rapida sostituzione dei processi produttivi per sottrazione di materia a favore di processi biogenerativi (questione centrale per la produzione dei manufatti edilizi), 2_una rapida integrazione
dello spazio fisico con quello immateriale.
Con la sostituzione dei processi produttivi per sottrazione di materia con processi bio-generativi
entra in crisi l’idea della progettazione che si identifica con la realizzazione di ingombranti
esomacchine (termine coniato da Roengen, il quale ricorda che l’essere umano è l’unico
animale capace di produrre esomacchine come gli edifici, le auto,…..) a favore della
progettazione di manufatti microscopici (capaci di stare sul capello di un essere umano, per dirla
con Feynman), autogeneratori, perché risultato di processi biologici, in armonia con il
complesso del sistema naturale, in sintonia con i processi dell’Antropocene.
Contemporaneamente, stiamo assistendo alla rapida integrazione delle relazioni fisiche (esito
della relazione lineare fra tempo e massa dello spazio edificato), con le relazioni immateriali (la
cui nozione di spazio è ‘sfuocata’, risultante dalla capacità di attrarre flussi grazie alle nuove
infrastrutture di telecomunicazione). Questo implica il passaggio da un’idea di progetto
incentrata su un luogo e dominato da relazioni lineari tempo-spazio, a un’idea che ha come
elemento dominante l’attrazione e la gestione di flussi relazionali. Queste trasformazioni si
inseriscono in un sistema scientifico che prefigura possibilità di risorse illimitate in uno spazio
anch’esso senza limiti (per effetto delle nanotecnologie e della dematerializzazione), una realtà
che si scontra con il limite delle risorse generato dalla crescita esponenziale della popolazione e,
soprattutto, dalle ineguaglianze nella distribuzione della ricchezza;
- un’incubazione di lungo momento che procede per rapide e intense ‘esplosioni’. Nell’epoca
industriale la progettazione urbana ed architettonica sono state sincrone con le teorie
economiche del valore e con la teoria dei cicli di innovazione di Kondratieff , che ipotizzava
un’evoluzione tecnologica di lungo momento. Rispetto alle teorie del valore il progetto urbano
ha avuto fondamentalmente un ruolo redistributivo, mentre la teoria dei cicli lunghi
dell’innovazione alimentava un lento rinnovo dei ‘materiali’ di architettura. Questo ha dato
luogo a processi di evoluzione complessi (che nell’articolo sono sintetizzati nelle tre fasi
dell’archeologia, della programmazione, delle innovazioni dirompenti), in qualche modo
dicotomici perché la stabilità delle scoperte e delle innovazioni di base (la cibernetica e la
biologia) è accompagnata nell’ultimo decennio ad un susseguirsi straordinariamente rapido di
eventi e processi dirompenti. Così al regolare susseguirsi dei cicli economici, in qualche modo
compatibile con la stabilità relativa degli assetti territoriali e dei manufatti, è succeduta, con
l’inizio del millennio, un’esplosione virulenta di innovazioni dirompenti, con andamento
‘exponential’ a coda di squalo, creatrici di rapidi quanto effimeri processi, difficilmente
compatibili con la stabilità dei processi territoriali e degli eventi architettonici;
- una portata rivoluzionaria riguardo la struttura della governance, rispetto alla quale si sono e si
stanno manifestando tre tendenze:
- programmazione di lungo momento dello sviluppo in sinergia con le convenzioni
internazionali sull’ambiente. Questo implica una progettazione pro-attiva, che operi per
backcasting, adottando principi progettuali antropocenetici con lo scopo di rivedere
radicalmente le potenzialità del nostro patrimonio naturale e storico e di realizzare
sistemi urbani a ciclo ‘chiuso’. Un obiettivo raggiungibile solo a condizione di
-
investimenti che impegnano risorse per due generazioni, secondo le stime operate da
P. Baccini (« A city’s metabolism: Towards the sustainable development of urban
systems », Journal of Urban Technology, vol. 4, no. 2, p. 27-39, 1997) sulla base della
quota di prodotto lordo destinabile a tale tipo d’investimento. Ugualmente l’ASCE
(American Society of Civil Engineers) stima in 3 mila miliardi di dollari l’investimento
necessario per rigenerare le infrastrutture degli USA (a fronte dei mille miliardi
programmati dal neopresidente Trump). La dimensione dell’investimento per la
rigenerazione urbana chiarisce che essa non può essere vista come un sistema
episodico d’investimenti, ma ha carattere strutturante per la politica nazionale. Una
visione su cui il nostro paese e l’ambiente professionale che gravita intorno al mondo
del progetto è molto in ritardo. Occorrerebbe: 1_un rapido riallineamento al
programma TEEB promosso dalle Nazioni Unite con l’azione ‘Millennium’ per la
riclassificazione e la valutazione economica del nostro patrimonio naturale e storico
(così il bilancio dello stato e degli enti territoriali avrebbe finalmente una base di
riferimento solida sulla consistenza e stato del patrimonio stesso), 2_un’agenda per il
rilievo dei sistemi che alimentano il metabolismo urbano: energia, acqua, biomasse,
materiali da costruzione, sistemi di trasporto (per conoscere a 360° la realtà urbana e
non solo quanto avviene in superficie), 3_provvedere all’aggiornamento dei bilanci
pubblici e provati con la contabilizzazione dei flussi di materia generati dal sistema
industriale al fine di ridurre il “fardello ecologico” del sistema produttivo e rinnovare la
base produttiva stessa in armonia con gli obiettivi delle Convenzioni internazionali
sull’ambiente.
Il modello del lavoro da avviare può fare riferimento all’esperienza olandese, con
l’impianto operativo del Ministero dell’ambiente, con il piano metabolico della città di
Rotterdam e con la progettazione del quartiere di Almere (Amsterdam);
concentrazione della ricerca e dell’operatività dei settori, economici e pubblici, sulla
robotizzazione. Nel tempo lo scopo dell’innovazione che riguarda l’intelligenza
artificiale è andato mutando, passando dall’”architectural machine” di Nicholas
Negroponte, nata per assistere la progettazione, alla robotizzazione, che coinvolge tutti
i settori della società, dall’individuo fino alle infrastrutture urbane, in un processo che
ha l’effetto di breve e medio momento di sostituire il lavoro umano.
Questa questione è complessa, a scala di organizzazione d’impresa e della città sono in
corso processi di rapida sostituzione o integrazione delle tradizionali infrastrutture
fisiche con nuove infrastrutture virtuali, rapidamente mutanti (si veda il rapido
processo in corso di evoluzione dalla cloud alla blockchain). Questi processi sono
scalari e coinvolgono ogni persona e ogni oggetto fisico in una catena di relazioni che
va dalle grandi infrastrutture fino alla singola cosa. La progettazione deve così
confrontarsi con la quarta rivoluzione industriale, le sue nuove morfologie e le sue
ricadute sociali. In questo scenario se è chiara la meccanica degli eventi tecnologici,
non è chiara la catena del valore e della sua redistribuzione che tali processi stanno
avviando (salvo la evidente concentrazione di ricchezza e le stime di crescente
disoccupazione per sostituzione tecnologica). Così come non è chiaro il ruolo dei
cittadini rispetto allo strapotere delle nuove potenze cognitive rappresentate dai gestori
delle reti e dei relativi nuovi servizi. Su questi temi la politica è sostanzialmente
assente ed il progetto è in ritardo: la sensibilità su realtà e dinamiche delle nuove
morfologie urbane e sociali appartiene ad una élite, così come sono in ritardo gli studi
sui nuovi concetti di valore e di redistribuzione aperti dai nuovi scenari tecnologici, per
non parlare dei modelli di governance. Con il risultato di una confusione ed un terrore
planetario fra i cittadini;
-
esplosione della connettività cui non hanno corrisposto nuovi modelli di gestione
democratica delle relazioni. L’enorme crescita della connettività è stata sfruttata dai
cittadini per bypassare gli intermediari degli interessi generali, generando un
chiacchericcio planetario fondato sullo scambio di opinioni e argomenti personali.
L’esplosione tecnologica sta portando ovunque ad una perdita della civitas a favore di
un nuovo tribalismo cibernetico. Questa situazione è favorita dai gestori dei sistemi di
rete che, secondo Eli Pariser hanno costruito una sistema di “Filter bubble”, teso a
catturare le informazioni dell’universo personale di ciascuno e trattarlo attraverso una
gamma di filtri personalizzati con lo scopo di offrire informazioni personalizzate. E’ da
chiedersi se la smart city non stia trasformando la città in un’entità tribale alimentata da
un quotidiano “Daily me”, secondo la definizione data da Negroponte per descrivere
un’informazione quotidiana virtuale personalizzata secondo i gusti di ciascun
individuo. Il chiacchericcio planetario sta generando una nuova geografia, secondo il
sociologo politico Chris Anderson da una parte sono gli abitanti delle metropoli,aperti
a una governance globale, dall’altra i ‘parrocchiali’, cittadini con forte senso del
radicamento, che si sentono protetti dal loro confine.
Se nell’epoca industriale il progetto urbano era armonico con gli scopi dello stato
sociale, nella quarta rivoluzione industriale, essendo collassata la struttura pubblica,
esso è diventato semplice espressione degli interessi che fanno capo al sistema dei
gestori delle reti o del chiacchericcio espresso dalla tribalizzazione della società?
Sulla base di tutti questi elementi l’articolo vuole stimolare nuovi modelli organizzativi, capaci di
internalizzare le nuove discipline che contribuiscono al progetto e sperimentare nuove tecniche per
avviare sostanziali processi di rigenerazione urbana, con lo scopo di contrastare l’attuale decadenza
della civitas, di facilitare la ricerca di nuove forme di rappresentanza degli interessi generali, di
massimizzare il benessere nell’ambiente urbano in cui viviamo.
Per una maggiore efficacia e diffusione dell’articolo sarebbero utili infografiche per illustrare
l’articolazione dei processi che qui vengono espressi in forma essenziale. Un ulteriore avanzamento
deriverebbe dall’accompagnare la narrazione con gli importanti progetti empirici che hanno tradotto
i problemi in opportunità di rinnovo del sistema progettuale ed urbano.
Il miglior risultato sarebbe lo sviluppo in forma collaborativa di nuove forme di didattica, in parte a
distanza e in parte attraverso workshop, per sperimentare un reale rinnovo del panel scientifico,
tecnico e amministrativo che deve contribuire alla rigenerazione del paese attraverso la
rigenerazione urbana.
Riferimenti bibliografici
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