500 anni dopo Lutero. Vincenzo Paglia: "La Riforma? Una felice

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500 anni dopo Lutero. Vincenzo Paglia: "La Riforma? Una
felice colpa"
Mimmo Muolo
"Uno scisma è una lacerazione: non si festeggia, ma ha avuto anche
conseguenze positive. Ora però è tempo di una testimonianza comune". Parla il
presidente della Pontificia Accademia della vita
Lucas Cranach il vecchio, "Martin Lutero", 1522 (WikiCommons)
Non c’è da festeggiare uno scisma. Ma c’è da rallegrarsi, e molto, per un evento
- il viaggio di Papa Francesco in Svezia - che è una tappa fondamentale nel
cammino verso l’unità, anche se il cammino stesso non è certo concluso. Per
questo la commemorazione dei 500 anni della Riforma luterana è un’occasione
da cogliere al volo. Come del resto ha fatto il Pontefice con la sua visita nel
Paese scandinavo. Pensieri e parole dell’arcivescovo Vincenzo Paglia, da
decenni attivo sul fronte dell’ecumenismo e da qualche mese presidente della
Pontificia Accademia della vita e Gran Cancelliere dell’Istituto "Giovanni Paolo
II" per gli studi sul matrimonio e la famiglia. «Si apre una nuova epoca –
afferma con gioia –. Sta a noi viverla nel modo corretto».
Dunque, anche lei appartiene alla scuola di pensiero secondo cui uno scisma
non si può festeggiare?
«È ovvio. Uno scisma non si festeggia mai, perché le lacerazioni fanno male,
producono drammi, tragedie e consuetudini divaricanti. Ma lo sguardo spirituale
può farci dire: o felix culpa. Se infatti guardiamo la storia dal punto di vista di
Dio, possiamo scoprire ricchezze anche nelle lacerazioni».
Ad esempio?
«Non è forse positivo il fatto che dalla data infausta della divisione si sia
sviluppata nella tradizione protestante un’attenzione molto forte sulle Sacre
Scritture? Oppure, per riprendere l’altro versante della divisione, quello
dell’ortodossia, ci sia stato uno sviluppo straordinario della prospettiva liturgicopatristica e nella Chiesa cattolica una sottolineatura della dimensione universale
e comunionale con la centralità del primato? Sono stati secoli di divisione, è
vero, ma la Chiesa è più ricca ora, nonostante tutto, perché il Signore ha
permesso che fossero evidenziate alcune dimensioni del cristianesimo che siamo
chiamati a ricollegare una all’altra».
Lei è quindi d’accordo con il teologo valdese Paolo Ricca, il quale proprio
su queste colonne sosteneva qualche giorno fa che la Riforma ha fatto bene
anche alla Chiesa cattolica?
«Il Concilio di Trento è parte di quel processo che ora gli storici riconoscono
come "riforma cattolica". I padri conciliari di allora, alcuni dei quali erano
consapevoli dell’assenza della tradizione ortodossa e se ne dolevano, sentirono
l’urgenza di ripensare il rapporto della Chiesa Cattolica con la propria tradizione
e con il mondo moderno che era alle porte. Come ha fatto notare il Papa nel suo
viaggio in Svezia, la grande domanda che "tormentava" Lutero era: "Come
posso avere un Dio misericordioso?". Quella sete di Lutero era genuina e oggi
possiamo comprenderla in maniera molto più evidente. Quindi la mia risposta
alla sua domanda è sì. Al netto dello scisma, ha fatto bene anche alla Chiesa
Cattolica».
Ma allora, alla luce di queste considerazioni, qual è il modo più corretto di
vivere la commemorazione?
«Credo sia quello di approfondire per un verso ciò che ci separa e ciò che ci
unisce sul piano teologico. E per l’altro di premere sull’acceleratore di tutto ciò
che già ci unisce sia nella dottrina che nella prassi ecclesiale. C’è ancora troppa
lentezza nella testimonianza comune. Quanti ulteriori campi di azione congiunta
possiamo sin da ora percorrere, ad esempio nella carità, nell’impegno per la pace
e per la salvaguardia del creato, nella lotta contro ogni violenza e nella difesa
della dignità delle persone in tutte le età della vita e in tutte le condizioni in cui
si trovano. Non è auspicabile inoltre la crescita di documenti comuni in questo
tempo globalizzato? A mio avviso una delle dimensioni delle quali è necessario
avere maggiore consapevolezza è che c’è un rapporto diretto tra la divisione dei
cristiani e quella dei popoli e quindi che bisogna innescare una prospettiva
virtuosa tra l’unità dei cristiani e l’unità dei popoli».
La statua di Martin Lutero a Wittenberg
Sta dicendo che l’ecumenismo è non più solo una questione intraecclesiale?
«Esattamente. È divenuto anche un "servizio" per l’unità del genere umano. Una
questione politica nel senso più alto del termine».
Tuttavia non si può nascondere che sul piano teologico, nonostante
l’accordo sulla giustificazione, alcune distanze, ad esempio riguardo al
ministero ordinato, siano oggi più marcate.
«Non c’è dubbio che il prolungarsi di cammini paralleli abbia accentuato alcune
divaricazioni nel campo della dottrina teologica, come pure sulle scelte pastorali
ed etiche. Se dei fratelli non si parlano per tanto tempo, è inevitabile che accada.
Ma l’intensificarsi degli incontri, del dialogo e dei passi comuni ci aiuterà a
liberare il rapporto dalle scorie della storia, dalla polvere che ha ricoperto gli
stessi concetti teologici e dalle incrostazioni di conflitti ormai lontani nel tempo.
Da cinquant’anni abbiamo ripreso a parlare. Ora ci vuole pazienza nel
rielaborare e nel ricomprendersi vicendevolmente».
Il viaggio del Papa in Svezia è dunque un punto di arrivo o di partenza?
«È un punto di arrivo assolutamente momentaneo, che chiede una pronta
ripartenza. Dobbiamo prendere coscienza che quel che ci unisce è più grande di
quel che ci divide (cosa che finora non è stata proprio così chiara). Scontiamo un
certo strabismo nei rapporti tra le Chiese e un po’ di pigrizia nel capirci. Il Papa
ci sta mostrando come purificare gli occhi e aprire le orecchie per comprendere
meglio la situazione».
E quindi a livello dell’ecumenismo per così dire di base?
«Vanno moltiplicati gli incontri per sconfiggere al più presto i luoghi comuni,
cioè quelle diffidenze che resistono nonostante tutto. Inoltre non è possibile
considerare il dialogo con i luterani, senza fare altrettanto con gli ortodossi. Anzi
il dialogo dovrebbe essere trilaterale. Una sinfonia ecumenica che deve crescere,
coinvolgendo anche il dialogo con le altre religioni e con l’intera umanità. A
mio avviso il grande insegnamento che ci viene dallo "spirito di Assisi" è che se
i cristiani accentuano la responsabilità verso il mondo e verso gli altri, saranno
più capaci di comprendere il grande patrimonio di fede che li unisce. Più
usciamo verso gli altri, più ci riscopriamo legati. Dio porta a dirigere in bene ciò
che noi avevamo frantumato. Dunque lo ripeto: se questo è il cammino, o felix
culpa, perché il Signore prepara una stagione nuova ancora più ricca.