Cagliari – Inaugurazione anno giudiziario 2017

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Transcript Cagliari – Inaugurazione anno giudiziario 2017

Cagliari, 28 gennaio 2017
Inaugurazione Anno giudiziario 2017 – Corte d’Appello di Cagliari
Intervento del prof. Renato Balduzzi
Consigliere Csm
Anzitutto i saluti, non formali e di circostanza, avendo scelto personalmente di
venire a Cagliari, così completando, dopo Torino e Genova, la mia presenza in queste
occasioni inaugurali nelle “capitali” dell’ex Regno di Sardegna.
Saluto dunque, anche a nome del Consiglio superiore della magistratura, il
Presidente vicario della Corte, il Procuratore generale, il rappresentante del Ministero della
giustizia, il rappresentante dell’Anm e tutti i magistrati, il Presidente del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati e tutti gli avvocati, il personale tutto dei Palazzi di giustizia del
distretto e della sede distaccata di Sassari, le Autorità espressione delle autonomie
territoriali e funzionali, e tutti i presenti. Un saluto che è naturalmente esteso, anche da
parte mia, alla Presidente della Corte d’Appello, collocata in quiescenza a fine anno. Avrei
altresì voluto poter salutare il nuovo Procuratore distrettuale, ma il Consiglio superiore non
è ancora riuscito a deliberare tale nomina, pur risalendo la relativa vacanza al 31 dicembre
2015. Il mio auspicio, che ha anche, per la piccola parte che mi compete, il valore di un
impegno, è che tale adempimento sia svolto quanto prima, già alla ripresa consiliare di
febbraio.
Come avvenuto giovedì scorso nell’Aula Magna della Corte di Cassazione, alla
presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, vorrei iniziare anch’io, come
in quell’occasione ha fatto il vicepresidente Giovanni Legnini, ricordando Giorgio
Santacroce, la sua amicizia e la sua intelligente e colta signorilità. Un magistrato
esemplare.
Ho imparato in questi anni a considerare le inaugurazioni dell’anno giudiziario una
sorta di esame di coscienza pubblico della comunità forense, come tale caratterizzato
dalla "confessione" delle cose che non vanno e dal proponimento fermo di porvi rimedio,
indicando misurabili percorsi di cambiamento.
Forse sarebbe utile recuperare il significato etimologico originario della stessa
parole “inaugurazione”, e dunque trarre, dai segni del passato e del presente, concreti
elementi di prospettiva sui quali impegnarsi per l’anno di riferimento: non dunque un
elenco di cose fatte o da fare, non un cahier des doléances che non si saprebbe sempre a
chi rivolgere e a chi indirizzare, ma la previsione di comportamenti e di abiti virtuosi e
verificabili. Certo, noi moderni non pensiamo più di doverci rivolgere ad aùguri che
indovinino i passi che il prossimo futuro attende: i nostri “aùguri”, nel contesto
ordinamentale disegnato dalla Costituzione, sono i big data, sono l’insieme delle
conoscenze nel tempo acquisite e la capacità di un sottosistema quale quello della
giustizia di conoscersi, valutarsi e misurarsi sempre di più.
Ancora negli scorsi giorni, dalle relazioni svolte dal Ministro della giustizia davanti
alle Camere e dalla relazione del Primo presidente della Corte di Cassazione, abbiamo
verificato che tali dati hanno bisogno di essere riconciliati e a loro volta validati, e l’Ufficio
statistico del Csm, ridisegnato e ripensato in occasione della riscrittura integrale del
Regolamento interno, sarà senz’altro utile in questa prospettiva. Pur migliorabile, tale
documentazione statistica e informativa permette ormai anche al mondo giudiziario, come
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da tempo accade in altri sottosettori (penso soprattutto, sulla base dell’esperienza
personale, a quello sanitario), di confrontare buone pratiche e protocolli operativi. Tutto ciò
nella consapevolezza, sempre da ribadire, che gli uffici giudiziari non sono un’azienda di
produzione di beni o servizi, in quanto è loro compito produrre giustizia (e questa non può
misurarsi essenzialmente a peso), ma altresì nella convinzione che il prodotto giustizia
non è indifferente alla conoscenza del sistema che lo deve produrre o che concorre a
produrlo.
1. L’inaugurazione 2017 è stata in questi giorni attraversata dal confronto, rilanciato
dai media, tra l’Associazione nazionale magistrati e il Governo con riferimento soprattutto
ad alcuni dei contenuti del decreto-legge di fine estate e in particolare alla scelta di
trattenere in servizio un limitato numero di magistrati di cassazione, senza estendere la
medesima possibilità ad altre categorie di magistrati. Non entro naturalmente nel merito,
limitandomi a due considerazioni, per dir così metodologiche, che ho anche avuto modo di
avanzare nella rubrica settimanale ospitata da un quotidiano a diffusione nazionale. La
prima considerazione riguarda la scelta, che l’Associazione ha fatto, di avere come
interlocutore pressoché unico il Governo della Repubblica: certo, nel nostro tempo il
potere esecutivo riveste, anche in campo legislativo, una posizione eminente. E tuttavia la
nostra Costituzione sembra avere scelto piuttosto la strada della “distanza” tra esecutivo e
magistratura, come si ricava, tra l’altro, dall’esistenza, dai poteri e dalla composizione del
Csm. La seconda considerazione attiene alla natura dell’Anm: un’associazione che
raccoglie i nove decimi dei magistrati ordinari è certamente qualche cosa di diverso da un
sindacato di categoria, ha una funzione e un ruolo che inevitabilmente la avvicinano alle
istituzioni e la fanno percepire come tale dall’opinione pubblica, almeno dalla sua parte più
attenta e sana. Ecco perché tutti noi ci aspettiamo molto dall’Anm: in particolare, che essa
continui con forza a chiedere procedure migliori per una giustizia più rapida (mi riconosco
nella sottolineatura che, sul punto, ha fatto la relazione del presidente vicario) e maggiori
risorse umane e logistiche per gli uffici giudiziari, e che, sul fronte dello status anche
pensionistico, reclami regole certe e stabili, che non costituiscano né un ingiustificato
privilegio di corpo, né un ingeneroso e altrettanto ingiustificato allineamento automatico su
altri pubblici dipendenti. Proprio l’esigenza di regole certe e stabili sul percorso
professionale dei magistrati e in particolare sull’età del collocamento a riposo, non
disponibili a seconda delle temperie politica e del susseguirsi dei governi e delle
maggioranze parlamentari, mi sembra costituire il nucleo della discussione, che forse non
è sempre emerso con nettezza, in quanto ad esso si è sovrapposto un altro e diverso
problema, quello della differenziazione tra la magistratura e gli altri settori dell’impiego
pubblico.
Poiché mi pare che tale questione sia sottesa a molte altre discussioni e sia uno dei
punti che maggiormente attira l’attenzione dell’opinione pubblica, vorrei dedicare ad essa
la parte centrale del mio intervento.
2. La prendo un po’ alla lontana, nella convinzione profonda che ripartire dai classici
è sempre utile, non fosse altro che per acquisire la consapevolezza della storicità dei
problemi e per renderci conto che questioni, che ci possono apparire nuove, in realtà lo
sono assai meno.
Durante la discussione al Senato sul disegno di legge Guarentigie e disciplina della
magistratura, presentato dal Ministro della giustizia Vittorio Emanuele Orlando, si sviluppò
un interessante dialogo, una sorta di concurring opinion, tra il Ministro stesso e il senatore
prof. Giorgio Arcoleo, cioè tra due eminenti costituzionalisti dell’Italia liberale. All’idea di
Orlando secondo cui “nell’odierna evoluzione della scienza e della vita sociale debba
l’ordine giudiziario smettere l’antica veste di potere autonomo e indipendente, per
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assumere quella più modesta di pubblico servizio, come ogni altro ramo di
amministrazione”, Arcoleo contrappone una visione esattamente antitetica: “Vorrei al
giudiziario sostituire la formula di potere giurisdizionale, per indicare quella suprema
autorità che decide dei più umili rapporti tra il mio e il tuo ed assorge, come in Inghilterra, a
contrapporre il common law agli Statuti parlamentari, o a dichiarare, con la Corte suprema
in America, incostituzionali anco le leggi”, e subito sotto chiarisce, a proposito della
composizione mista, di magistrati e senatori, della Suprema Corte disciplinare prevista dal
disegno di legge Orlando, che essa va attribuita al “presupposto che, nel giudizio sulle
colpe dei propri colleghi, il magistrato resti perplesso fra la responsabilità dell’individuo e il
decoro di tutta una classe, così che l’intervento di elementi estranei significa non sfiducia,
ma concorso dell’altrui giudizio che tolga il pericolo di soverchia indulgenza o severità, per
motivi facili nelle gerarchie chiuse e onnipotenti, meno per volontà di persone, che per
forza stessa di cose. Né regge del tutto il raffronto con gli altri corpi costituiti, nei quali
l’esclusiva potestà interna disciplinare, con organi propri, si connette alla gerarchia, mentre
l’inamovibilità forma usbergo e difesa al magistrato contro l’abuso dei superiori”.
Arcoleo morì prematuramente qualche anno dopo questo intervento, Orlando fece
tempo a partecipare agli inizi della vita repubblicana, come costituente e come
parlamentare nella prima legislatura, ma è indubbio che il nostro ordinamento si sia mosso
e costruito più a partire dalle idee del primo, in particolare dalla preveggente e feconda
idea che un afflusso esterno negli organi chiamati a bilanciare guarentigie e disciplina,
lungi dall’ostacolare l’indipendenza del magistrato, ne costituisca un presidio. E ciò non
perché si debba sospettare o presupporre una cattiva volontà, ma, appunto, “per forza
stessa di cose”. Così pure, resta illuminante ancora oggi quel nesso, bene espresso nel
titolo stesso di quel disegno di legge, tra guarentigia e disciplina. Una disciplina che,
senza ricalcare pedissequamente lo statuto di altre professioni (per le quali non valgono, o
non valgono in egual misura, le preoccupazioni di garanzia), non sia irragionevolmente
derogatoria.
A questa linea di pensiero non è difficile ricollegare alcuni nodi dell’attuale dibattito.
Un primo esempio lo troviamo nella discussione sull’interpretazione e
sull’applicazione dell’art. 2, comma 2, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511,
in materia di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale (testo che,
nella stesura originaria, riprendeva proprio il d.d.l. Orlando): il nuovo Regolamento interno
del Csm prevede, all’art. 42, l’emanazione di apposita circolare che articoli in fasi separate
la relativa procedura, “improntandone lo svolgimento al criterio di efficienza e al rispetto
del giusto procedimento”, formula nelle quali non è difficile intravedere la traduzione in
linguaggio contemporaneo della coppia guarentigie-disciplina.
Un secondo esempio lo troviamo in materia di criteri cui ispirare le valutazioni di
professionalità introdotte nella riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006-2007, con
riferimento in particolare al prerequisito dell’indipendenza, dell’imparzialità e dell’equilibrio
e alla necessità di ampliamento delle relative fonti di conoscenza, anche in considerazione
della circostanza che tali valutazioni coinvolgono incisivamente comportamenti
extrafunzionali e che la carenza di tali prerequisiti è considerata con molta attenzione e
preoccupazione dall’opinione pubblica.
Un terzo esempio attiene alla materia dell’organizzazione: se è indubbio che
l’organizzazione degli uffici giudiziari presenta peculiarità rispetto alla generalità dei
pubblici uffici, è altrettanto vero che il principio costituzionale di imparzialità e di buon
andamento si applica anche ad essi. Anzi, per essi la riserva di legge si presenta, secondo
una convincente ricostruzione, come assoluta per quanto attiene alle competenze del
potere esecutivo, relativa per quanto concerne lo spazio affidato all’autolimitazione della
propria discrezionalità da parte del Consiglio superiore: ancora una volta, come aveva
intuito Arcoleo, l’afflusso esterno non riduce l’indipendenza, ma ne è la condizione di
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possibilità nella misura in cui elimina o riduce fortemente il rischio, appunto, di “gerarchie
chiuse e onnipotenti”.
3. Autorità, signore e signori.
Se ho valutato inopportuno infliggervi l’elenco, necessariamente lungo, di ciò che il
Csm ha fatto nel corso del 2016 e in questo inizio d’anno, è non soltanto perché la
maggior parte dei presenti conosce tutto ciò molto bene, ma anche perché sono convinto
che la radice della possibilità, per il Consiglio superiore della magistratura, di svolgere al
meglio i cospicui e impegnativi compiti che la Costituzione italiana gli attribuisce stia qui,
nel vivo del rapporto con gli uffici giudiziari e con gli istituti del governo autonomo
decentrato.
Da tempo, all’interno del Consiglio superiore, si sostiene la necessità di una ancora
più forte alleanza tra i soggetti del governo autonomo: le dinamiche interne del Csm, che a
volte possono legittimamente apparire come autoreferenziali, non sempre consentono di
percepire esattamente la profondità di questa convinzione.
Essa non verte soltanto sulla necessità, scontata, di una sintonia tra il soggetto che
svolge funzioni di regolazione organizzativa e i soggetti regolati, al fine di permettere che
le istruzioni, le linee-guida e i suggerimenti siano correttamente intesi dai secondi e da
eteronomi si trasformino in autonomi, ma si estende all’intera dinamica delle relazioni con
gli organi e gli uffici decentrati, a cominciare dagli strumenti principali di cui storicamente il
Csm si avvale, cioè le circolari e le direttive.
Con il nuovo Regolamento interno (ma “interno” è il nomen iuris, non larga parte del
suo contenuto normativo) si è provveduto anche a una risistemazione concettuale della
natura e del ruolo di questi atti e del loro rapporto con il Regolamento medesimo, fonte
dell’ordinamento generale e, come tale, attributiva di competenze (art. 25, comma 1),
“confessando” in qualche misura l’inadeguatezza della situazione esistente, se è vero che
il secondo comma del medesimo art. 25 dispone che “ogni atto approvato dal Consiglio
risponde ai requisiti di omogeneità, semplicità e chiarezza della sua formulazione; si ispira
ai criteri di semplificazione e riordino in testi unici di tutta la disciplina relativa alle materie
di competenza del Consiglio”. Al fine di migliorare il funzionamento della catena regolatoria
è indispensabile che ogni nuova circolare divenga, previamente alla sua entrata in vigore
o all’operatività delle sue disposizioni, oggetto di un approfondimento tra Consiglio
superiore e Consigli giudiziari (secondo un approccio che, ad esempio, sarà seguito nel
mese di febbraio per quanto attiene alla circolare sulle tabelle di organizzazione degli uffici
giudicanti, approvata dal Plenum lo scorso mercoledì).
È però nell’esercizio del proprio ruolo di promotore di una migliore cultura
dell’organizzazione degli uffici giudiziari che il Consiglio avverte l’indispensabilità di un più
forte legame con i Consigli giudiziari e, attraverso di essi, con l’intera comunità forense.
Questa consiliatura ha avviato e portato a compimento molte iniziative: dall’elaborazione
del manuale di buone pratiche organizzative, al lavoro svolto sui programmi di gestione, al
fine di perseguire validamente il prioritario obiettivo di riduzione dei carichi arretrati nel
settore civile; dalla risoluzione contenente le linee-guida sulle intercettazioni telefoniche
alla già menzionata nuova circolare sulle tabelle di organizzazione, per non parlare
dell’approfondimento, ormai prossimo alla dirittura d’arrivo, svolto in tema di standard di
rendimento dei quali le future valutazioni di professionalità sotto il parametro della
laboriosità dovranno tener conto. Ma tutte queste cose (e altre ancora, come l’attenzione
all’evoluzione della giustizia minorile e al sistema di protezione umanitaria dei migranti
nelle ricadute che ha sul funzionamento degli uffici giudiziari) non sarebbero state possibili
senza la disponibilità, a monte, di un patrimonio di dati e di elaborazioni in sede periferica
e non saranno concretamente efficaci senza la loro convinta condivisione, a valle, da parte
del sistema degli uffici giudiziari e della loro autoorganizzazione.
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Il dialogo tra gli organi del governo autonomo non è privo di criticità, come è
evidenziato anche dall’ampiezza delle proposte di riforma che la c.d. commissione Vietti
ha suggerito in tema di estensione delle fonti di conoscenza ai fini delle valutazioni di
professionalità, insieme a suggerimenti volti a semplificarne il relativo procedimento, così
da eliminare o almeno ridurre ripetizioni e formalismi burocratici, con conseguenze che,
indirettamente, potranno riverberarsi anche sui procedimenti di conferimenti di funzioni
direttive e semidirettive.
Essenziale sarà, in ogni caso, la capacità del Consiglio superiore di disegnare
scenari e di elaborare decisioni sempre più attenti alla peculiarità e alle caratteristiche dei
singoli uffici giudiziari e del territorio su cui essi insistono: in proposito, considero un dato
caratterizzante di questa consiliatura (e lo dico non per un tentativo di captare la vostra
benevolenza) l'essere riusciti a mettere a fuoco le caratteristiche degli uffici giudiziari sardi
e le peculiarità che la condizione insulare comporta, ed avere provveduto alla copertura
prioritaria delle loro vacanze di organico, oltre che a proporre la rimodulazione al rialzo le
nuove piante organiche (e sul punto desidero sottolineare la proficua interlocuzione, anche
su questo punto, con il Ministero della giustizia).
Questa attenzione del Consiglio superiore alla concretezza dei territori giudiziari
andrà rivolta anche alla magistratura onoraria, uno dei banchi di prova dell’anno 2017: di
essa sappiamo ancora troppo poco (il lavoro svolto sugli standard di rendimento ha
permesso, ad esempio, di verificare l’impossibilità di disaggregare in misura certa, dal
complessivo outcome del settore civile di primo grado, la quota parte specificamente
riferibile alla magistratura onoraria rispetto a quella imputabile ai magistrati ordinari),
mentre si va facendo più acuto il disallineamento tra la prospettiva disegnata dalla legge
delega in materia, i vincoli e le contraintes posti dall’Unione europea e la variegata
situazione di fatto riscontrabile nei diversi uffici giudiziari.
Buon anno giudiziario, dunque – riprendo per l’ultima volta il lessico di Giorgio
Arcoleo – al potere giurisdizionale. Un potere che va inteso, al tempo stesso, come
autorità e come servizio.
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